Aberrazioni sinistre, quella di paragonare l'antisemitismo e il razzismo all'avversione per il nazismo maomettano chiamato demenzialmente islamofobia come se questa giusta avversione verso una ideologia e una pratica politico religiosa estremamente razzista e criminale fosse un crimine, una forma di discriminazione razzista e disumana; nonché quella di considerare come giusta critica allo stato di Israele, e non invece un forma di antisemitismo, tutti quei pregiudizi verso la politica nazional sionista e di legittima difesa di Israele e dei suoi ebrei nei confronti delle aggressioni terroriste e omicide dei nazi maomettani impropriamente detti palestinesi che mirano a distruggere Israele e a cacciare o sterminare gli ebrei.Nasce la definizione di sinistra di “antisemitismo”Così si potrà tranquillante continuare a criticare lo Stato d’Israele e gli ebrei vivi, mentre si piangono quelli morti. Una manna dal cielo per il Tribunale internazionale dell’Aia, presentata da uno dei firmatari. (Kolòt)
Simon Levis Sullam
31 marzo 2021
https://www.kolot.it/2021/03/31/nasce-l ... semitismo/Il 25 marzo 2021 è stata resa nota a livello internazionale la Jerusalem Declaration on Antisemitism (Jda), un documento sottoscritto da circa duecento studiosi e studiose in tutto il mondo che si occupano o si interessano di storia dell’antisemitismo, dell’Olocausto, degli ebrei e delle vicende mediorientali, soprattutto in rapporto a Israele e Palestina. Tra i firmatari compaiono alcuni dei più noti storici, scienziati sociali e intellettuali del nostro tempo, come Michael Walzer (Princeton), Aleida Assman (Costanza), Carlo Ginzburg (Ucla/Scuola Normale), Avishai Margalit (Gerusalemme), Ute Frevert (Zurigo), Sebastian Konrad (Berlino), Dirk Moses (Chapel Hill, Nc), Natalie Zemon Davis (Toronto), David Feldman (Londra) e A.B. Yehoshua (Gerusalemme).
La Jda è il frutto di un’approfondita riflessione e discussione culturale e scientifica, condotta da un gruppo di lavoro che ha preso avvio oltre un anno fa presso il Van Leer Institute di Gerusalemme (da qui il nome della dichiarazione) ed è gradualmente cresciuto, circa l’attuale diffusione dell’antisemitismo nel mondo, particolarmente in alcuni contesti – ad esempio dell’Est Europa, ma anche francesi o statunitensi – dove l’antisemitismo negli ultimi anni è risultato in crescita fino al livello della violenza fisica, anche mortale. Il gruppo di lavoro ha analizzato e discusso i rapporti storici e contemporanei tra antisemitismo e razzismo, le relazioni tra questi ultimi e altre forme di discriminazione e intolleranza etnica, religiosa, xenofobica, sessuale ecc. Inoltre, la riflessione, nata a Gerusalemme ed estesasi poi ad accademici e intellettuali – ebrei e non ebrei – negli Stati Uniti e in Europa si è incentrata sul problema dell’uso pubblico e politico dell’accusa di antisemitismo.
Questa riflessione ha portato all’elaborazione e alla finale stesura di un documento, la Jda appunto (leggibile a questo link, assieme all’elenco dei sottoscrittori), che propone una definizione dell’antisemitismo in rapporto con il razzismo e con altre forme di discriminazione, offrendo una serie di riflessioni e suggerimenti circa l’analisi storica e contemporanea di questi fenomeni; ma anche rispetto al – e alla necessaria distinzione dal – uso crescente dell’accusa di antisemitismo, spesso formulata per screditarli o tacitarli, nei confronti dei critici dell’odierna politica di Israele in particolare verso i palestinesi (politica israeliana su cui per altro gli stessi sottoscrittori della Jda hanno spesso opinioni diverse tra loro, più o meno critiche dei governi israeliani, come pure più in generale non sono necessariamente in accordo sul conflitto israelo-palestinese e sulle sue auspicabili soluzioni: due popoli due Stati, uno Stato binazionale ecc.).
I promotori e sottoscrittori della Jda sono giunti alla conclusione di trovarsi, rispetto al tema dell’antisemitismo e all’uso politico dell’accusa di antisemitismo, su posizioni piuttosto diverse e talora contrapposte a quelle espresse in un altro documento ufficiale, diffuso a livello internazionale negli ultimi anni, che ugualmente propone – ma, appunto, con differente prospettiva e approcci – una «definizione operativa» dell’antisemitismo. Si tratta dell’Ihra Definition of Antisemitism (per la versione italiana qui), formulata nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra): un network politico e diplomatico fondato nel 1998, che riunisce 34 Paesi tra cui Israele, Germania, Francia, Polonia e Italia, che si turnano alla presidenza del medesimo con propri rappresentanti diplomatici (nel 2018 l’Ihra è stata presieduta da un ambasciatore italiano).
Sebbene i lavori dell’Ihra abbiano avuto l’approvazione – e la partecipazione attiva – di ragguardevoli personalità accademiche e del mondo della cultura internazionali, come ad esempio, in un convegno internazionale a Stoccolma nel gennaio 2000, lo storico della Shoah Yehuda Bauer (già presidente di Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme), o il premio Nobel per la pace, lo scrittore sopravvissuto ad Auschwitz Elie Wiesel, l’Ihra Definition of Antisemitism presenta chiaramente, fin da una sua prima lettura, diversi aspetti problematici. Non tanto sul piano storico – a tutti sta infatti a cuore la memoria della Shoah, la lotta al negazionismo, oltre alla necessità di contrastare l’antisemitismo – ma rispetto agli esempi concreti che la dichiarazione reca dell’antisemitismo nelle sue forme contemporanee. La maggior parte dei casi di antisemitismo citati nel documento Ihra – sette su undici – non sono infatti esempi di offese antiebraiche né l’evidente espressione storica e attuale di pregiudizi religiosi o etnici nei confronti degli ebrei; ma sono in sostanza delle critiche alla politica dello Stato di Israele: critiche a Israele che di fatto – attraverso l’Ihra Definition of Antisemitism e gli esempi a essa collegati – sono indicate come posizioni o idee da condannare e contrastare in quanto «antisemite» in ambito sia politico sia legislativo e talora, conseguentemente, giudiziario.
Questa definizione Ihra dell’antisemitismo – contrastata dagli studiosi riunitisi inizialmente a Gerusalemme ed espressisi ora nella Jda – non è quindi un mero documento o definizione di lavoro, un’analisi accademica o l’ennesimo memorandum diplomatico, ma è di fatto divenuta uno strumento politico utilizzato dalla diplomazia israeliana, da determinati gruppi di pressione ebraici particolarmente conservatori, e dalla destra filosionista (e antiaraba o anti-islamica) in difesa dello Stato ebraico. Essa ha inoltre ottenuto il consenso – anche grazie a pressioni, forme di moral suasion, o effettive convergenze politiche, culturali e ideologiche – di notevoli segmenti della diplomazia internazionale, di governi e Parlamenti. Fino a che l’Ihra Definition of Antisemitism è stata indicata da una risoluzione del Parlamento europeo del 2017 (che si può leggere qui) come da adottare ufficialmente da parte di tutti gli Stati membri: proponendo così, se non imponendo a tutti di riconoscere – e possibilmente stabilire per legge – un’equiparazione o addirittura un’equivalenza tra antisemitismo e critiche politiche allo Stato di Israele.
Come hanno scritto alcuni degli autorevoli promotori della Jerusalem Declaration on Antisemitism – Aleida Assman, studiosa internazionalmente riconosciuta di problemi della memoria all’Università di Costanza; Alon Confino, noto storico dell’Olocausto, della storia tedesca e di questioni di metodo storico all’University of Massachuetts, Amherst; e David Feldman anch’egli storico e direttore dell’Institute for the Study of Antisemitism all’Università di Londra – l’Ihra Definition of Antisemitism è stata ed è «fonte di confusione» culturale e politica per i suoi usi e i suoi effetti distorcenti, che hanno «conseguenze paralizzanti sulla libertà di parola e di ricerca» e per di più «distraggono l’attenzione dai gravi pericoli dell’antisemitismo di destra».
Altri colleghi coinvolti nella elaborazione e stesura della Jda – come Elissa Bemporad, studiosa di storia dell’antisemitismo russo e sovietico al Queens College e al Cuny Graduate Center di New York; lo storico di Harvard Derek Penslar, autorità mondiale sulla storia degli ebrei moderni e del sionismo; e lo stesso Alon Confino – in un articolo apparso online nella rivista «Forward» in coincidenza con la pubblicazione della Jda il 25 marzo 2021, hanno sottolineato inoltre che «sebbene non possa essere sottovalutato il pericolo dell’antisemitismo di sinistra, è chiaro che il maggior pericolo per gli ebrei proviene oggi dai gruppi della destra estrema e populisti».
Questi stessi studiosi e studiose – assieme agli oltre duecento sottoscrittori della Jda – ritengono, soprattutto, che «la lotta contro l’antisemitismo è inseparabile da un contrasto complessivo di tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere». E hanno ricondotto e fondato pertanto la Jda, fin dal preambolo della stessa, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1969, alla Dichiarazione del forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto del 2000, e alla Risoluzione delle Nazioni unite sulla memoria dell’Olocausto del 2005.
La Jda – in contrasto con l’uso politico e diplomatico attualmente prevalente dell’Ihra Definition of Antisemitism – scrivono ancora Bemporad, Confino e Penslar, intende quindi «distinguere dibattito politico» (che ritiene legittimo e comunque inevitabilmente «duro e controverso», come quello sulle vicende mediorientali) «dal discorso e dall’azione antisemiti». Discorso e azione che ovviamente devono essere contrastati e denunciati in modo inequivocabile, purché essi tuttavia appartengano effettivamente alla tradizione ideologica e retorica antiebraica o dimostrino concretamente l’intenzione di ricollegarsi ad essa riproponendola.
A differenza dell’Ihra Definition, la Jda non intende rappresentare un documento codificato, con valore legale o possibili utilizzi giudiziali o semi-giudiziali. Ma vuole essere uno strumento che contribuisca al «pensiero critico» e alla «discussione approfondita»: certo non quel «testo sacro» – dice ancora l’articolo apparso in «Forward» – che per alcuni anche in ambito governativo e diplomatico è divenuta l’Ihra Definition, mentre quest’ultima (ormai adottata da alcuni governi e Parlamenti), potrebbe – e anzi dovrebbe – essere più utilmente considerata un «documento vivente che necessita di evoluzione e miglioramenti».
Gli stessi autori concludono infine – rappresentando le intenzioni dei sottoscrittori della Jda a nome dei quali scrivono – che tutti, ebrei e non ebrei, al di là delle diverse opinioni politiche, dovrebbero urgentemente unirsi attorno a valori e obiettivi comuni e condivisi come: «la lotta all’antisemitismo, il contrasto di ogni forma di odio, la difesa della libertà di parola, la protezione dei diritti umani di tutti senza eccezioni, la creazione di spazi inclusivi e sicuri di discussione e anche dissenso su Palestina e Israele». Secondo i suoi autori e sottoscrittori, la Jerusalem Declaration on Antisemitism intende rispondere a queste urgenti necessità etiche e politiche ed è pertanto un documento necessario per i nostri tempi, in cui la lotta all’antisemitismo dev’essere unita a quella al razzismo, all’islamofobia, e a ogni altra forma di discriminazione e intolleranza.
La Dichiarazione di Gerusalemme: Documento ideologicoNiram Ferretti
1 Aprile 2021
http://www.linformale.eu/la-dichiarazio ... deologico/In risposta alla dichiarazione IHRA, recentemente è stato pubblicato un documento, la Jerusalem Declaration on Antisemitism, sottoscritto da duecento studiosi internazionali che si occupano di antisemitismo, della Shoah e delle vicende mediorientali. Perché la necessità di questo documento? Viene spiegato nello stesso preambolo.
“La definizione IHRA include 11 “esempi” di antisemitismo, 7 dei quali incentrati sullo Stato di Israele. Anche se questo pone un’enfasi indebita su un campo, c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti del discorso e dell’azione politica legittima riguardante il sionismo, Israele e la Palestina. Il nostro obiettivo è duplice: (1) rafforzare la lotta contro l’antisemitismo chiarendo cos’è e come si manifesta, (2) proteggere uno spazio per un dibattito aperto sull’annosa questione del futuro di Israele / Palestina. Non condividiamo tutti le stesse opinioni politiche e non stiamo cercando di promuovere un’agenda politica di parte. Determinare che una visione o un’azione controversa non sia antisemita non implica né che la sosteniamo né che non lo facciamo”
Dunque il problema è Israele. La JDA recepisce quelli che l’IHRA considera forme di antisemitismo mascherate da critiche rivolte a Israele. Ovvero:
Applicare i simboli, le immagini e gli stereotipi negativi dell’antisemitismo classico (vedi linee guida 2 e 3) allo Stato di Israele.
Ritenere gli ebrei collettivamente responsabili della condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché sono ebrei, come agenti di Israele.
Richiedere alle persone, in quanto ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (ad esempio, in una riunione politica).
Supporre che gli ebrei non israeliani, semplicemente perché sono ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che ai loro paesi.
Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come ebrei, in conformità con il principio di uguaglianza.
Fin qui non ci sarebbero problemi. I problemi sorgono successivamente, quando i redattori del documento offrono le proprie glosse come esempi legittimi di critica a Israele. Vediamoli singolarmente.
Sostenere la richiesta palestinese di giustizia e la piena concessione dei loro diritti politici, nazionali, civili e umani, come incapsulato nel diritto internazionale.
La frase è generica e fumosa. Cosa significa “sostenere la richiesta palestinese di giustizia”?
Secondo l’OLP la giustizia per i palestinesi è rappresentata dalla scomparsa di Israele come Stato ebraico, idea condivisa da Hamas. Secondo l’Autorità Palestinese, la giustizia per i palestinesi consisterebbe in uno Stato palestinese che comprendesse l’intera Cisgiordania e il ritorno in Israele di circa sei milioni di cosiddetti profughi, moltiplicatesi per discendenza nei decenni, sotto l’egida dell’UNRWA. Va sottolineato che le mappe della Palestina pubblicate nei libri di testo studiati nelle scuole che dipendono dall’Autorità Palestinese, mostrano una regione in cui Israele è assente.
Cosa significa, altresì “piena concessione dei loro diritti, politici, nazionali, civili e umani”? Se ci si riferisce ai cittadini arabi che vivono in Israele, questa serie di diritti e loro già concessa. L’unica discriminate è che agli arabi-israeliani non è richiesto di servire nell’esercito, con l’eccezione dei Drusi. Se ci si riferisce agli arabi dimoranti in Cisgiordania, il loro statuto, per quanto riguarda l’Area A, B, e C, è regolato dagli Accordi di Oslo del 1993-1995, i quali prevedono tutele separate. La maggioranza dei cittadini arabi dimoranti in Cisgiordania sono sotto il controllo diretto dell’Autorità Palestinese. Il diritto internazionale non ha nulla da specificare in merito.
Criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o sostenere una varietà di accordi costituzionali per ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita sostenere accordi che garantiscano la piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, sia in due stati, uno stato binazionale, uno stato democratico unitario, uno stato federale, o in qualsiasi forma.
Il sionismo nasce nell’alveo dei movimenti di emancipazione della fine dell’Ottocento, allo scopo di offrire a un popolo una terra dove dimorare. Perchè il sionismo dovrebbe essere più criticabile di qualsiasi forma di identità geografica di un popolo? E’ evidente che qui non si vuole colpire il sionismo in quanto tale, ma la stessa idea di Stato nazione, e di identità nazionale, vista, nell’ottica dell’universalismo progressista, come una realtà superata dalla storia. Si tratta di una posizione prettamente ideologica e politica.
Dello stesso conio astratto e magniloquente sono formule come “piena eguaglianza”, “stato democratico unitario”, “stato federale”. Come concliare queste forme vuote con le istanze suprematiste islamiche contenute nello Statuto di Hamas, o con la costante indisponibilità dell’Autorità Palestinese, e prima di essa dell’OLP a qualsiasi forma di compromesso con Israele?
Ma è altrove che casca l’asino sulla natura eminentemente ideologica di questo documento, che tenta goffamente di mascherare la sua equidistanza. Vediamo dove. Non sarebbe antisemita, La critica basata sui fatti nei confronti di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i suoi principi fondanti. Include anche le sue politiche e pratiche, nazionali e internazionali, come la condotta di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione o qualsiasi altro modo in cui, come Stato, influenza gli eventi nel mondo. Non è antisemita sottolineare la discriminazione razziale sistematica. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e Palestina. Quindi, anche se controverso, non è antisemita, di per sé, confrontare Israele con altri casi storici, incluso il colonialismo dei coloni o l’apartheid.
No non è antisemita criticare uno Stato per la “discriminazione razziale sistematica”, e non lo è nemmeno paragonarlo al colonialismo e a Stati dove si è praticato l’apartheid. Significa semplicemente sposare una ben precisa linea pregiudizialmente avversa, basata sulla propaganda e sulla menzogna, in base a cui Israele sarebbe accostabile al Sud Africa di de Klerk, o sarebbe l’ultimo avamposto del colonialismo europeo. E’ la ben nota linea filo-araba della sinistra nella sua declinazione massimalista.
Ma la vera gemma di questo documento che si propone come integrativo A quello dell’IHRA ritenuto troppo filo-israeliano, è la seguente:
Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni sono forme comuni e non violente di protesta politica contro gli Stati. Nel caso israeliano non sono, di per sé, antisemiti.
Il BDS ha la sua matrice nella Risoluzione 3379 del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo e che si propaga poi negli anni Ottanta e Novanta nella guerra diplomatica contro Israele allo scopo di criminalizzarlo e di isolarlo. Le istanze esplicite del BDS sono, porre termine alla colonizzazione di tutte le terre arabe, smantellare il cosiddetto “muro”, ovvero la barriera di protezione fatta costruire da Israele a salvaguardia della propria sicurezza durante la Seconda Intifada, e permettere il ritorno dei cossidetti profughi, ovvero i circa sei milioni di profughi artfatti creati dall’UNRWA, che, se effettivamente affluissero in Israele, metterebbero fine, demograficamente, alla sua identità di Stato ebraico.
Appare quindi del tutto falso e risibile quanto scritto nel preambolo della JDA,“Non condividiamo tutti le stesse opinioni politiche e non stiamo cercando di promuovere un’agenda politica di parte”. E’ vero esattamente il contrario. Si tratta chiaramente di un documento con un netto orientamento ideologico e una ben precisa agenda politica, il quale recepisce in toto la narrativa mainstream avversa a Israele, ravvisando in esso uno Stato nel quale si praticherebbe la discriminazione razziale e si violerebbero i diritti fondamentali dei cittadini arabi, e che, in quanto tale rende legittime le azioni di boicottaggio come quella intrapresa dal BDS.
La Corte Penale Internazionale contro Israele, Corte antisemita internazi comunista e filo nazi maomettana.viewtopic.php?f=197&t=2946 Ebrei, clandestini, zingari odierni e altro, accostamenti e paragoni impossibilihttp://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 205&t=2780Definizione antisemitismo IHRA: diffidate dalle imitazioniUgo Volli
2 Aprile 2021
https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 7242926609Che l’antisemitismo sia una brutta cosa, che essere antisemiti sia molto poco elegante, diciamo come mettersi le dita nel naso, in teoria sono d’accordo tutti. Non da sempre, naturalmente. I nazisti ottant’anni erano fieri del loro antisemitismo, ma anche molti cattolici lo erano allora, e ancor di più prima, ma lo sono stati anche dopo: ci sono imponenti documentazioni su questo, basta leggere “I papi contro gli ebrei” di David Kertzner per trovarne in abbondanza. E pure fra i socialisti, fino almeno alla prima guerra mondiale, gli antisemiti dichiarati erano maggioranza, tanto che August Babel, il fondatore della social- democrazia tedesca, nel 1893, in occasione di un congresso del partito, poteva definire l’antisemitismo “il socialismo degli imbecilli” (che è anche il titolo di un libro su questo problema, pubblicato nel 2010 da Michele Battini per Boringhieri). Dopo la Shoah però – non immediatamente ma più o meno a partire dalla grande presa di coscienza provocata da Ben Gurion col processo Eichmann del 1961 – e furiosamente contrastata da personaggi di sinistra come Hannah Arendt, si diffuse la consapevolezza dell’inaccettabilità dell’antisemitismo. Anche la Chiesa Cattolica, che aveva avuto la faccia tosta di difendere dopo la fine del fascismo la “parte buona” delle leggi razziste, aderì prudentemente ma progressivamente a questo cambiamento, a partire dalla dichiarazione “Nostra aetate” del 1965.
L’antisemitismo insomma è diventato improponibile ufficialmente, nessuna persona rispettabile avrebbe l’ardire di proclamarsi apertamente antisemita; ma purtroppo la spinta da cui nasce non è affatto cessata per questa circostanza, come non c’era molto tempo prima dell’invenzione del concetto di antisemitismo (ad opera del giornalista tedesco Wilhelm Marr nel 1881): è un “odio antico” che purtroppo non si spegne da decine di secoli ma assume forme diverse nel tempo. È stato odio politico presso scrittori romani come Tacito e anche prima negli episodi raccontati dalla Bibbia in Egitto e in Persia; poi assunse vesti religiose con gli scrittori cristiani e col Corano; restò tale fino a poco tempo fa e in molti paesi è ancora motivato con pretesti religiosi o mitici. Divenne poi economico e sociale con l’identificazione in Marx e in molti altri a destra e a sinistra degli ebrei col capitale e l’usura, che invece derivava dalle proibizioni lavorative imposte dalla chiesa; infine fu razziale, a partire dalla deformazione del darwinismo che si diffuse dalla fine dell’Ottocento.
Oggi la variante dominante è di nuovo politica e se la prende con gli ebrei in quanto “occupanti” della Palestina e colpevoli pertanto almeno quanto i nazisti di genocidio e ogni altra efferatezza. C’è dunque la possibilità, anzi l’uso frequente di argomentare l’odio per gli ebrei dicendo “io non sono antisemita ma…”. Io non sono antisemita ma sono contro “il dominio mondiale degli ebrei”, sono contro “il capitale ebraico che affama i popoli”, contro “gli assassini di Dio”, contro “il complotto antimusulmano”, soprattutto contro “il furto della terra palestinese, l’oppressione degli arabi, i crimini di guerra, il commercio degli organi dei bambini palestinesi”, in definitiva contro “quel cancro del Medio Oriente e della pace mondiale che è lo Stato di Israele”, contro “il nazionalismo ebraico”. Eccetera, eccetera.
In questi termini si sono espressi in tanti: giornalisti, leader politici e religiosi, fanatici terroristi ma anche apparentemente innocui magistrati, preti e imam, economisti e poeti, romanzieri e musicisti – alcuni di loro anche ebrei, secondo la vecchia terribile abitudine degli oppressi di riprendere la propaganda dei loro carnefici sperando di cavarsela. Non si tratta di “semplici opinioni” ma di impliciti incoraggiamenti alla discriminazione che spesso si sviluppano in violenze, boicottaggi, azioni terroristiche o almeno nel loro appoggio e finanziamento. Più che l’antisemitismo tradizionale, la dichiarazione pura e semplice, ingenua e diretta che gli ebrei sono esseri inferiori, dannosi e addirittura demoniaci, che vanno eliminati, oggi è pericoloso questo antisemitismo del “non sono antisemita, ma…”, l’antisemitismo che ama molto gli ebrei morti, le vittime, ma detesta quelli vivi che non si lasciano opprimere.
Come combatterlo? Si tratta innanzitutto di una guerra concettuale, di un conflitto fatto con le parole e le immagini. E’ stato necessario dunque proporre delle definizioni, per permettere di distinguere e di capire quando una dichiarazione contro un ebreo, un’istituzione ebraica, gli ebrei come popolo, la cultura ebraica e soprattutto lo Stato di Israele, che oggi è il principale bersaglio, sia una semplice critica – giusta o sbagliata non importa, ma legittima in quanto semplice critica come si può fare a chiunque- e quando invece sia un’espressione di antisemitismo.
Il primo a impegnarsi in questo compito è stato Nathan Sharanski, dissidente russo emigrato in Israele dopo molte persecuzioni e qui divenuto ministro e poi responsabile dell’Agenzia Ebraica. La proposta di Sharanski è semplice e facile da ricordare: c’è antisemitismo quando una critica è caratterizzata da una delle tre parole seguenti (chiamate le 3 D, perché iniziano tutte con questa lettera): Demonizzazione, Delegittimazione, Doppio Standard. Non occorre spendere molto spazio sulla primaparola, Demonizzazione. E’ una pratica diffusissima nel Medioevo cristiano, fra i musulmani ancora oggi, nel nazismo. La seconda parola, Delegittimazione, indica l’atteggiamento diffuso di negare i normali diritti a individui, istituzioni e allo stato ebraico, privandoli di ogni legittimità: lo stato di Israele è illegale perché colonialista, gli ebrei non sono i veri discendenti dei patriarchi, che del resto naturalmente erano musulmani prima di Maometto, perché si tratta di immigrati Kuzari, turchi o almeno europei. I villaggi ebraici in Israele non sono residenze normale, ma colonie, il governo israeliano è fascista: cose così. La terza D è la più interessante, proprio perché meno banale: quando a Israele o agli ebrei si applicano dei criteri di giudizio che non si usano nei confronti degli altri (per esempio si dice che c’è apartheid perché Israele è lo stato della nazione ebraica, ma la stessa critica non viene fatta a Germania, Russia, Cina, che sono stati delle loro nazioni; o che la barriera di sicurezza di Israele è un “muro della vergogna”, a differenza da quelli eretti dalla Turchia a Cipro, dal Marocco nel Sahara orientale, Dal Vaticano intorno al suo territorio), allora si ricade nell’antisemitismo.
Si tratta di criteri molto sintetici. Nel 2016 la International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), un’organizzazione internazionale composta da 36 stati ha approvato a Stoccolma una definizione che è stata approvata da molti stati, parlamenti, città, università. La definizione di base è molto semplice:
“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.
Ma quel che conta sono le spiegazioni ed esemplificazioni che fanno parte della dichiarazione.
Per esempio secondo la dichiarazione vanno considerati esempio di antisemitismo:
“le manifestazioni [che hanno] come obiettivo lo Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica […] incitare, sostenere o giustificare l’uccisione di ebrei o danni contro gli ebrei […]fare insinuazioni mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate degli ebrei come individui o del loro potere come collettività […] accusare gli ebrei come popolo responsabile di reali o immaginari crimini commessi da un singolo ebreo o un gruppo di ebrei, […] accusare gli ebrei come popolo o Israele come stato di essersi inventati l’Olocausto o di esagerarne i contenuti […] negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo […] applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico […] fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti. […]”
Il testo completo della dichiarazione si trova qui. Vi sono anche altre proposte del genere, ben sintetizzate qui.
La dichiarazione di Stoccolma ha avuto molto successo, è stata largamente adottata, perché chiarisce bene le strategie dell’antisemitismo contemporaneo; ma è evidente che non può andar bene agli antisemiti dell’ ”io non sono antisemita, ma…” in particolare alla loro componente più importante oggi, che sono gli “islamo-gauchistes”, come gli chiamano in Francia o ai “woke” [cioè gli “svegli”], come si autodefiniscono negli Usa, che vogliono continuare a predicare la distruzione di Israele e l’interdizione agli ebrei di uno stato nazionale, senza neanche rispondere del loro antisemitismo. Nessuna meraviglia dunque che sia uscita in pompa magna un’altra dichiarazione, questa volta intitolata a Gerusalemme, tanto per confondere le acque. Se siete interessati a leggerla, la trovate qui. La parte generale della dichiarazione (“Antisemitism is discrimination, prejudice, hostility or violence against Jews as Jews (or Jewish institutions as Jewish)”) non è molto diversa da quella di Stoccolma anche se notevolmente più restrittiva e anche se nello sviluppo successivo si vede che l’antisemitismo è considerato una sottospecie del razzismo – il che è storicamente falso, se si pensa per esempio all’atteggiamento generale della Chiesa contro gli ebrei, che solo in certi casi come in Spagna nel 1400 ha assunto forme ereditarie, cioè razziste.
Ma tutto sommato sull’antisemitismo classico non c’è problema di definizione: non è difficile capire che cosa voglia dire negare la Shoah, dire che gli ebrei sono tutti ricchi o che i Rothschild dominino il mondo. E’ chiaro che è la premessa per dire che gli ebrei andrebbero limitati, imprigionati, magari in definitiva eliminati. Il problema vero è oggi l’applicazione dell’antisemitismo a Israele, che è l’ebreo fra le nazioni. E’ su questo che si applicano soprattutto i “io non sono antisemita ma…” Nella “Dichiarazione di Gerusalemme” c’è un’appendice che riguarda proprio Israele, con la curiosa costruzione di un decalogo di cinque mosse comunicative proibite e cinque permesse. Si riconosce come antisemita e dunque si interdice (1) l’applicazione a Israele dei simboli classici dell’antisemitismo come la svastica (e ci mancava), (2) ritenere gli ebrei tutti responsabili delle azioni di Israele o (3) chiedere loro, in quanto ebrei, di dissociarsi da esso, (4) sostenere che in quanto ebrei sono più leali a Israele che al loro stato – che sono tutti attacchi fatti in nome della guerra a Israele agli ebrei della diaspora. E infine, unico tema che riguarda quella buona metà del popolo ebraico che vive in Israele, (5) è antisemita negare agli ebrei di Israele il diritto di vivere e fiorire come ebrei, ma beninteso solo “in nome del principio di eguaglianza”.
Invece vi sono delle cose molto interessanti che la Dichiarazione rifiuta di considerare antisemitismo, anche se possono essere “controverse”: (1) “sostenere la domanda dei palestinesi di godere pienamente dei loro diritti politici, civili e nazionali” (ma la dichiarazione ignora beninteso che questa “domanda” si è espressa col terrorismo e che i “diritti politici” richiesti sono la distruzione dello stato di Israele). Il terrorismo nella dichiarazione non è considerato fra i sintomi dell’antisemitismo, anche quando fra tutti i passeggeri di un aereo o di una nave dirottata o fra tutti gli atleti che partecipano a un’Olimpiade si scelgono solo gli ebrei come esempi da ammazzare. Si sostiene invece (2) che è legittimo e non antisemita l’antisionismo e in particolare non lo è “sostenere qualunque varietà di sistemazioni costituzionali per ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo”, “in ogni forma”, dunque inclusa la distruzione dello Stato di Israele. E’ solo una conseguenza di ciò il fatto che (3) non sia antisemita qualunque critica dello stato di Israele. “Quindi, anche se controverso, non è antisemita, di per sé, confrontare Israele con altri casi storici, incluso il colonialismo dei coloni o l’apartheid.” O, aggiungiamo noi, col nazismo. In fondo si tratta di paragoni storici, che male c’è? Questa “critica” può poi diventare tranquillamente discriminazione economica perché (4) il BDS non è antisemita. Infine (5 – cito letterlmente) “Il discorso politico non deve essere misurato, proporzionato, moderato o ragionevole per essere protetto […] Le critiche che alcuni potrebbero considerare eccessive o controverse, o che riflettono un ‘doppio standard’, non sono, di per sé, antisemite. In generale, la linea tra discorso antisemita e non antisemita è diversa dalla linea tra discorso irragionevole e ragionevole.” Qualunque cosa, anche “eccessiva”, “irragionevole”, “controversa”, espressione di “doppio standard” va bene. Purché sia rivolta contro Israele. Anche se dico che bisogna fare una bella guerra per mandare il Piccolo Satana fuori dalla carta geografica.
E’ difficile non concordare con Ben Cohen, che in un articolo intitolato “Ancora un tentativo di sdoganare l’antisionismo”, ha scritto: “Il vero scopo della “Dichiarazione di Gerusalemme” è ritagliarsi uno spazio per l’eliminazione dello Stato ebraico senza essere accusati di antisemitismo.” In sostanza, la dichiarazione di Gerusalemme è la teorizzazione dell’ “io non sono antisemita, ma…”