Oggi 11 settembre sono 20anni che a New York il mondo intero ha potuto vedere/assistere all'orrore della manifestazione del male nazi maomettano, dell'Islam, del Corano, di Allah e di Moametto in tutta la loro demenziale malvagità idolatra.
Questo è il vero Islam di Maometto e del Corano, non ne esistono altri, l'Islam buono è solo l'Islam che dorme, che non appare, che non agisce, che è in attesa di manifestarsi per quello che è in tutta la sua malignità.L’11 settembre è nato in questa fotoBrillanti studenti protetti dalla paura europea di fare domande. Dalle loro storie ci si chiede: quanti fanatici islamici coltiva il nostro ventre molle multiculturale?
Giulio Meotti
11 settembre 2021
https://meotti.substack.com/p/l11-sette ... uesta-fotoMohamed Atta (il quinto da sinistra) all’Università Tecnica di Amburgo
L'11 settembre 2001 ci vollero 24 ore prima che le autorità tedesche fossero informate che la cellula islamista che aveva ucciso tremila persone a New York aveva origine sull'Elba; più precisamente nel quartiere operaio di Harburg, ad Amburgo, dove vivono molti studenti che studiano all'Università Tecnica. Peter Frisch, l'ex capo dell'Ufficio tedesco per la protezione della Costituzione (il servizio segreto interno tedesco), dirà: “Non avevamo né le persone per fare sorveglianza né sapevamo che avremmo dovuto". Amburgo - e la Germania nel suo insieme - erano un ambiente privo di rischi per i terroristi islamici. I funzionari tedeschi, memori del passato nazista, diranno che erano riluttanti a prendere di mira le moschee e rischiare accuse di razzismo e islamofobia.
Amburgo era nota per il suo fascino banale come il quartiere a luci rosse di Reeperbahn e come il luogo in cui i Beatles ebbero il loro primo successo internazionale. Ha goduto a lungo della reputazione di essere una città portuale tollerante, super multiculturale, aperta e ricca, quasi scandinava, nel placido nord della Germania, con una forte tradizione socialdemocratica.
Il professore di Atta ad Amburgo, Dittmar Machule, al tavolo di lavoro dove si sedeva con il terrorista dell’11 settembre
Tre dei quattro piloti dell’11 settembre - Mohammed Atta, Marwan al-Shehhi e Ziad Jarrah – vivevano lì. Lì hanno preparato, maturato e ordito l’attentato. In vecchie case d'anteguerra in mattoni rossi. A Wilhelmsburg, un quartiere industriale, consunto.
Mohammed Atta aveva affittato un appartamento di tre locali al terzo piano. L'abitazione, secondo i vicini, era frequentata da un gruppo numeroso di arabi “molto riservati”. Joerg Lewin, che assunse Atta come disegnatore nel suo studio di urbanistica, dirà che svolgeva il suo lavoro con “straordinaria umiltà” all’università. Il padre voleva che il figlio potesse eguagliare i successi delle figlie. Tutte e due le sorelle di Atta avevano conseguito lauree prestigiose: Azza era diventata professoressa di botanica e Mona cardiologa nell’ospedale più importante del Cairo.
Atta nella moschea Al Quds di Amburgo (il secondo da destra in ginocchio)
Quando Atta, a 24 anni, arrivò ad Amburgo nell'estate del 1992 la prima cosa che fece fu chiedere dove fosse la moschea più vicina. La sua famiglia era religiosa senza farne grande mostra in pubblico. Arrivato in Germania, Atta cominciò ad andarci tutti i giorni. A quel tempo viveva nella casa degli insegnanti che aveva conosciuto al Cairo. Per uno che usciva dalla stanza quando la televisione trasmetteva spettacoli di danza del ventre, Amburgo fu un vero choc. Con una ragazza discutevano di religione. Parlavano del Vecchio testamento e lei cercava di convincerlo che le radici dell'Islam e del Cristianesimo erano simili. Mohamed ascoltava, ma rispondeva che solo quello che è scritto nel Corano è la verità, la sola verità.
Ziad Jarrah, che l’11 settembre si schianterà con il volo United 93 in Pennsylvania, era un libanese che studiava vicino ad Atta in un'altra scuola di Amburgo, la Scuola di Scienze Applicate. Due degli amici più stretti di Jarrah alla scuola, Melih Demir e Michael Gotzmann, diranno che “era molto europeo e aperto al mondo”, anche se non lo avevano mai visto toccare alcol in due anni e che non andava mai alle feste con loro.
Il 54 di Marienstrasse ad Amburgo, dove visse per tre anni Mohamed Atta
Per fortuna di Atta, il preside della facoltà, Dittmar Machule, era uno specialista del Medio Oriente. Machule dice che trovò in Atta “uno che condivideva la sua passione per le vecchie città del Medio Oriente”. Descriverà Atta come “un ragazzo gentile, sensibile… dai profondi occhi neri. Occhi che parlavano. Parlavano di intelligenza, conoscenza, vivacità”. Pregava cinque volte al giorno, digiunava nei giorni di festa e frequentava la moschea non appena possibile. Quando non poteva andare in moschea, pregava in un angolo dell'aula durante le lezioni. Talvolta portava la barba. Quasi sempre indossava lo stesso tipo di abbigliamento: pantaloni casual di cotone e un golf.
Nei primi quattro anni Atta aveva lavorato in una ditta di urbanistica, la Plankontor, dove guardagnava 850 euro al mese. Era un “impiegato perfetto”, dice Joerg Lewin, uno dei soci della società; ma non aveva mai legato con gli altri colleghi. Rimaneva al tavolo da disegno oppure si inginocchiava e pregava. “Criticava le società occidentali”, ricorda un collega.
Atta ottenne un viaggio studio di tre mesi al Cairo, sponsorizzato dal Ministero tedesco della cooperazione e dello sviluppo economico. La Germania gli aveva dato un indirizzo email (
el-amir@tu-harburg.de) e una stanza dove pregare. Si chiamava Islam AG (Arbeitsgemeinschaft, gruppo di lavoro) e, oltre a un tappeto per pregare, era dotata anche di un computer. Nel dicembre 1994, il professor Hauth e Atta si recarono ad Aleppo in Siria. Trascorsero tre settimane insieme, soggiornando all'hotel Al Bustan nella parte occidentale della città. Lo scopo della loro visita era perseguire l'idea di scrivere assieme una tesi su Aleppo.
Nel 2006 è emerso il video di due giovani barbuti che ridono e scherzano davanti alla telecamera. Appaiono rilassati, intelligenti. Guardano un pezzo di carta. C’è scritto “al wasiyyah”. Significa "la volontà". È il testamento scritto a mano di Ziad Jarrah, il compagno di Atta.
Mohamed Atta e Ziad Jarrah
Al Quds è una moschea prevalentemente araba. Situata in via Steindamm, ad Amburgo, la moschea è incuneata tra una palestra di body-building e un caffè turco. La strada era nota per i suoi sexy shop e per lo smercio di droga. I Servizi segreti tedeschi la considerano la più radicale di Amburgo: al Cairo probabilmente se ne trovano almeno altre mille così. In un posto del genere, quando è arrivata la notizia dell'attacco dell'11 settembre, sono echeggiate grida di entusiasmo, mentre il giorno in cui i talebani sono stati cacciati da Kabul ci sono state grida di rabbia. La moschea dopo l’11 settembre avrebbe soltanto cambiato nome: Taiba. Ed è stata chiusa dieci anni fa, dopo l’ennesimo complotto terroristico ordito al suo interno.
Poco dopo il suo ritorno dalla Mecca, Atta chiese a due amici di fare da testimoni al suo testamento. Il testamento, datato 6 marzo 1996, sarebbe riaffiorato cinque anni dopo, nella valigia abbandonata da Atta dopo essersi imbarcato sul volo American Airlines per Boston e dirottato a New York. E’ un miscuglio di testi islamici e rigide disposizioni per il suo funerale e su chi è autorizzato a parteciparvi. Atta dichiara inoltre di aver dedicato vita e morte ad Allah e proibisce a qualsiasi donna di visitare la sua tomba.
Le ultime ore di Mohamed Atta
“Per quanto ne sappiamo, Mohammed Atta non era un terrorista quando venne ad Amburgo” scriverà sul Guardian il suo preside, Dittmar Machule. “È diventato un fanatico mentre era qui tra noi. Ho paura che possa accadere di nuovo”. E così ad Amburgo, nella più liberale delle città occidentali, giovani uomini islamici si stavano trasformando in assassini di massa, ancora un segreto per i loro ben intenzionati amici tedeschi, insegnanti e datori di lavoro. Leggendo le storie incredibili, ci si domanda: quanti altri ce ne sono come loro nel nostro ventre molle multiculturale?
Il 29 novembre 1999, Atta si è imbarcato sul volo della Turkish Airlines da Amburgo a Istanbul, e da lì verso Karachi, in Pakistan. E l’ingresso in Afghanistan. Ha lasciato Karachi il 24 febbraio 2000 con il volo per Istanbul, dove ha cambiato con un altro per Amburgo. Cinque mesi dopo è entrato negli Stati Uniti per iniziare l'addestramento al volo.
Il citofono di Salah Abdeslam a Molenbeek, imputato per le stragi di Parigi
Sul frontespizio della sua tesi, finalmente pronta, Mohamed Atta scrisse: “La mia preghiera, il mio sacrificio, la mia vita e la mia morte appartengono ad Allah, il Signore dei mondi”.
In questi giorni si è aperto il processo per le stragi del 3 novembre 2015 a Parigi (130 morti) e in aula le prime parole di Salah Abdeslam, il terrorista principale imputato che si era nascosto protetto a Bruxelles, sono state: “Non c'è altro dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo messaggero”.
E noi non sappiamo cosa rispondere.
Alberto PentoIo so cosa rispondere:
Se si accetta di buon grado o supinamente o per dhimmitudine e paura o per demenzialità politicamente corretta o per demenziale solidarietà religiosa che Allah sia Dio e che Moametto sia profeta di Dio allora è finita.
Allah non è Dio ma un idolo mostruoso, l'orrendo idolo dell'orrore e del terrore dell'idolatra Moametto che non fu affatto un profeta di Dio ma un demezioale profeta del suo mostruoso idolo del male, un profeta idolatra predone, bugiardo e assassino.
Il Corano non è certo la parola di Dio ma quella di questo mostruoso idolo e la Sharia non è certo la legge di Dio ma quella di Moametto e del suo orrendo idolo Allah.
L’undici settembre, vent’anni dopoNiram Ferretti
11 Settembre 2021
http://www.linformale.eu/lundici-settem ... anni-dopo/Vent’anni dopo, l’11 settembre si commemora con il ritiro americano dall’Afghanistan, là, dove, nel 2001, l’operazione contro il terrore voluta da George W. Bush, aveva avuto inizio.
A che scopo continuavano a restare le truppe americane, seppure in numero ridotto, in un luogo dove ormai, secondo la vulgata corrente e pressante non avevano più nulla da fare?
Pur nella loro diversità di approccio e intenti, tre presidenti, Obama, Trump e Biden, sono stati convergenti su questo punto, i soldati impiegati, boots on the ground, in operazioni militari lontane e costose, vanno fatti rientrare, il tempo della loro permanenza oltre oceano è scaduto.
Il clamoroso attacco jihadista contro le Twin Towers, ormai una data storica, di cui l’Afghanistan fu il centro operativo dove Osama Bin Laden lanciò, nel 1998, la sua fatwa contro gli Stati Uniti è ormai musealizzato, i soldati americani tornano a casa, i talebani si riappropriano del paese, e, a coronamento, un membro di al Qaida, Sirajuddin Haqqani dell’omonimo clan, sul quale pende una taglia di dieci milioni di dollari da parte dell’FBI, è il Ministro degli interni del nuovo governo talebano.
Joe Biden voleva che i soldati americani rientrassero prima dell’11 settembre, simbolicamente per chiudere il cerchio e dichiarare improvvidamente mission accomplished, ma che cerchio si chiude se al Qaida, tramite un suo membro diventa parte di un governo che i professionisti del wishful thinking vorrebbero “moderato”? Che cerchio avrebbe potuto chiudersi quando, il suo predecessore, Donald Trump apparecchiava a Doha, dai quatarioti sponsor di Hamas e della Fratellanza Musulmana, un accordo con i talebani come se fossero vecchi gentlemen inglesi, per un passaggio di potere morbido? Non certo quello improntato sul simbolismo americano, ma semmai un cerchio islamico.
Come non vedere infatti, oggi, data di una ricorrenza infausta, il gaudio jihadista per gli americani invasori e occupanti, per gli infedeli, tornati a casa nella convinzione della Casa Bianca che gli Stati Uniti saranno più al sicuro rinserrati nel perimetro della loro fortezza?
Potranno davvero gli Stati Uniti, con il solo ausilio dei droni e della tecnologia militare più avanzata impedire che l’Afghanistan ritorni ad essere un centro operativo del jihadismo? E’ più che lecito dubitarne fortemente.
La sconfitta americana, anche se non conseguita sul terreno, è, agli occhi dell’Islam più agguerrito, quello per il quale, in ossequio a un proverbio afgano, “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, la prova che la storia gioca a suo vantaggio, si tratta solo di aspettare, e l’Afghanistan, dove, secondo i rapporti militari americani, sarebbero operative ben venti organizzazioni jihadiste, è un buon posto dove aspettare, dove fare crescere folta la gramigna.
L’11 settembre, vent’anni dopo, ci consegna questo scenario.
Alberto PentoLa prossima volta che l'Occidente andrà da quelle parti dovrà fare tabula rasa senza alcuna remora e rimorso.
All'insegna della buona regola che chi non rispetta non merita rispetto, alcun rispetto.
11 settembre 2001: vent'anni dopo, il terrore è ancora quiAutore Emanuel Pietrobon
11 settembre 2021
https://it.insideover.com/politica/11-s ... a-qui.htmlUn giorno come oggi, ma del 2001, diciannove jihadisti appartenenti all’allora semisconosciuta e sottovalutata Al-Qāʿida portarono a compimento l’attentato terroristico più sanguinoso della storia dell’umanità e l’attacco sul suolo americano più granguignolesco dai tempi di Pearl Harbour.
A partire da quell’infausto 11 settembre, così vicino eppure così lontano, le relazioni internazionali e la storia dell’Uomo sono cambiate per sempre. Perché quei quasi 3mila morti e 25mila feriti avrebbero dato il via al “secolo delle emergenze“, fungendo da pretesto per l’inaugurazione della Guerra al Terrore da parte dell’amministrazione Bush Jr e per la manifestazione progressiva dei suoi perniciosi effetti collaterali, in primis la sorveglianza di massa, le primavere arabe, le crisi dei rifugiati e lo sconvolgimento dell’Eurafrasia.
Oggi, nel ventennale degli attentati dell’11 settembre e dell’alba della guerra infinita per antonomasia – infinita perché non si può finire una guerra contro un nemico incorporeo, appartenente all’etere delle Idee (e il Jihād globale è anzitutto un’idea) –, è il momento giusto per tentare di rispondere alla domanda delle domande: la Guerra al Terrore, che sembra aver fatto il suo tempo, ha raggiunto lo scopo per cui fu concepita? Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan – lì dove tutto ebbe inizio – ed un insieme di eventi sembrano suggerire di no, ma altri ancora delineano uno scenario più complesso e sfuggevole alle letture superficiali e monodirezionali.
Jihad globale, un’idea a prova di proiettile
L’11 settembre è stato uno spartiacque, o meglio lo spartiacque. Perché quel giorno, che oggi gli americani commemorano con più costernazione che in passato, tutto è cambiato. Per sempre. Quel giorno è finita la transizione post-guerra fredda. Quel giorno ha avuto inizio, molto lentamente, l’entrata del mondo nell’epoca multipolare. E quel giorno sono crollati bruscamente due miti: quello di un momento unipolare eternizzabile in un nuovo secolo americano e quello della nazione invincibile.
Otto trilioni di dollari, attività antiterroristiche in 85 Paesi e quasi un milione di morti in giro per il mondo non sono bastati, non sono stati sufficienti: il terrore, vent’anni dopo l’11 settembre, è ancora qui. E gode di ottima salute, perché è più visibile, tangibile, fertile e letale che mai. È vero: Osama bin Laden è morto ed Al-Qāʿida è l’ombra di ciò che fu, ma altri sceicchi del terrore e nuovi aspiranti califfati hanno fatto il loro ingresso nel frattempo, mostrando e dimostrando alle varie coalizioni dei volenterosi come le idee siano a prova di proiettile.
Non (soltanto) coi cannoni, ma anche (e soprattutto) coi libri avrebbero dovuto combattere gli Stati Uniti e l’Europa la loro Guerra al Terrore. Perché il Jihād globale è anzitutto un’idea, nonché una reazione avversa ed un effetto collaterale dell’imposizione coercitiva della fine della storia al resto del mondo da parte dell’Occidente. Perché il Jihād globale è tutto meno che un progetto folle, insensato e privo di contenuto, essendo la materializzazione degli accattivanti parti mentali di geni incompresi e bistrattati – e fallacemente letti in modo occidentalo-centrico – come Sayyid Qutb e Abdullah Azzam. E perché le idee possono essere sconfitte soltanto da idee più potenti, ma mai dalla semplice forza bruta.
I numeri della guerra al terrore
Vent’anni e quasi un milione di morti dopo – ai quali si dovrebbero addizionare le vittime del terrorismo islamista (più di 160mila in tutto il mondo) e delle guerre civili etno-religiose che insanguinano l’Eurafrasia, dal Mozambico alla Birmania, passando per la Nigeria –, la guerra al terrore lanciata dai teologi del neoconservatorismo al servizio di George Bush Jr è stata terminata dai pragmatici idealisti di Joe Biden.
I posteri giudicheranno in maniera ambivalente l’operato delle amministrazioni a stelle e strisce che si sono succedute dal 2000 ad oggi, ovverosia come un fallimento ed un successo al medesimo tempo. Un fallimento in termini di immagine, ma un successo in termini strategici. E per capire le ragioni di questa vittoria a metà – si badi bene che la sostanza conta più della forma – non si può che dare uno sguardo ai numeri e ai fatti, che, in quanto imparziali ed eloquentemente esplicativi, possono descrivere la realtà meglio delle parole:
La guerra in Afghanistan è stata la più lunga della storia degli Stati Uniti – superiore alla somma dei due conflitti mondiali e dell’intervento in Vietnam –, la seconda più costosa di sempre – due trilioni di dollari, contro i poco più di quattro e mezzo della seconda guerra mondiale.
La guerra in Afghanistan si è rivelata la più antieconomica e fallimentare in assoluto per gli Stati Uniti – una spesa media di 300 milioni di dollari al giorno, ogni giorno per vent’anni – considerando che l’esborso non è servito né ad annientare i talebani né ad innescare un processo di democratizzazione solido, endogeno ed autoalimentante.
Gli attentati terroristici di stampo islamista in Europa e negli Stati Uniti sono triplicati dal primo decennio del Duemila alla scorsa decade; a livello mondiale, invece, nello stesso periodo di riferimento, sono sestuplicati.
La guerra al terrore ha prodotto 38 milioni di sfollati e rifugiati – cioè l’equivalente della popolazione della Polonia.
La guerra al terrore ha giocato un ruolo-chiave nell’aiutare l’internazionale del terrorismo islamista ad espandersi e a reclutare shahīd, cioè aspiranti martiri pronti a uccidere e ad essere uccisi per la causa del Jihād. Dal 2001 ad oggi, invero, sono cresciute sia le organizzazioni terroristiche – se ne contano quasi cento al momento – sia i loro eserciti – i soldati arruolati nelle sigle dell’estremismo sunnita sono quadruplicati.
Non è tutto come sembra
I numeri danno torto agli Stati Uniti, ma alcuni fatti ed eventi no. Sembrano suggerire, al contrario, che la guerra al terrore non sia stata una sconfitta totale; non per gli Stati Uniti, perlomeno, cioè per coloro che l’hanno lanciata e che, oggi, vent’anni dopo, la stanno gradualmente abbandonando e riponendo nel cassetto dei ricordi.
Perché quei fatti ed eventi, che spiegano ciò che ai numeri non riesce, parlano di un’immagine volutamente sacrificata – gli Stati Uniti dovranno obbligatoriamente ripensare (o archiviare?) l’idea dell’esportazione della democrazia dopo aver ceduto l’Afghanistan ai talebani – per un fine superiore: la salvezza dell’Impero.
Oggi come ieri, invero, la domanda retorica dell’Ultimo geopolitico – Zbigniew Brzezinski – è sempre valida: “cos’è più importante per la storia del mondo: i talebani o il collasso dell’impero sovietico?”. Una domanda che, attualizzata, andrebbe riformulata in questo modo: “cos’è più importante per la storia del mondo: i talebani o la lotta alla transizione multipolare?”. Una domanda alla quale analisi a caldo, letture superficiali e giudizi viziati da sentimenti, emozioni e ideologia non possono rispondere. Una domanda alla quale, però, rispondono i seguenti fatti:
L’Iraq fatica ad incamminarsi verso la democrazia e la pace sociale, ma i veri obiettivi sono stati raggiunti: amputare le ali a tempo indefinito ad una potenza regionale storicamente invisa sia ad Israele sia alle petromonarchie wahhabite, abbattere un regime antiamericano (Saddam Hussein) e creare le fondamenta per un’anarchia produttiva duratura.
La Siria è sopravvissuta alla guerra per procura portata avanti attraverso lo Stato Islamico, ma l’ordine assadiano è stato ferito gravemente ed incapacitato a minacciare concretamente gli interessi israeliani e statunitensi nella regione.
Le primavere arabe hanno riscritto la geografia del potere nell’Africa settentrionale a favore degli Stati Uniti, con l’Egitto posto sotto il controllo ermetico del generale Abdel Fattah al-Sisi e la fu potente Libia ingabbiata in uno scenario simil-iraqeno nel dopo-Gheddafi – rivale numero uno della Casa Bianca nella regione e tra i principali nel mondo, perché storico patrocinatore del terrorismo islamista.
L’ideologia del Jihād globale e l’antioccidentalismo dilagano ovunque nel mondo, oggi più che vent’anni or sono, ma il costo di ciò sta venendo pagato più dall’Europa che dagli Stati Uniti, la cui posizione isolata li protegge dalle crisi dei rifugiati provocate dalla guerra al terrore – contrariamente al Vecchio Continente, che li subisce in quanto prossimo ad Africa e Asia – e la cui composizione etno-religiosa è una garanzia contro il proliferare di radicalizzazione e società parallele – il jihadismo ha ucciso 119 americani dal dopo-11/9 al 2016, mentre la sola Francia è stata teatro di 130 morti il 13 novembre 2015.
L’Afghanistan è stato ceduto ai talebani, la ritirata strategica concepita male ed attuata peggio, ma il vero scopo è stato ottenuto: passare la patata bollente all’asse Mosca-Pechino. Patata bollente perché non soltanto gli Stati Uniti affidano lo scettro di uno stato-chiave per gli equilibri dell’Eurasia ad una forza imprevedibile quali sono i talebani, ma lo lasciano in condizioni simili al 2001: instabilità, pericolosità e indomabilità. Condizioni che, sperano gli strateghi al servizio dell’amministrazione Biden, possano trasformare l’Afghanistan in un pantano ingestibile e tremendamente antieconomico per Cina, Russia e Iran (e tutti gli altri rivali).
Vent’anni, otto trilioni di dollari e quasi un milione di morti dopo, la guerra al terrore sembra essere più un ricordo che una realtà. Ricordo di un passato tanto vicino quanto lontano, visibile ma sbiadito allo stesso tempo. Ricordo di morte, certamente, perché inestricabilmente legato agli attentati dell’11 settembre, ma anche di speranza – la speranza di un futuro più sicuro e migliore.
Vent’anni, otto trilioni di dollari e quasi un milione di morti dopo, il terrore è ancora qui. La verità è che non se n’è mai andato, neanche per un momento. Ma il vero obiettivo, del resto, non era mai stato il suo annientamento: era l’utilizzo del terrore come pretesto per eliminare dei rivali di lunga data e trasporre in realtà la strategia brzezinskiana dello sfruttamento degli archi di crisi.
Il popolo americano, oggi, commemora con uno sconforto senza precedenti questo anniversario, macchiato indelebilmente dal ritiro dall’Afghanistan, ma un giorno capirà le ragioni estremamente pragmatiche di Biden: il ricordo dell’11/9 e la guerra al terrore hanno esaurito la loro funzione storica, corrispondente alla messa in sicurezza della regione Medio Oriente e Nord Africa, ed era giunto il momento di prenderne atto, di guardare oltre, di pensare al presente.
In questo presente, che appartiene a Biden come al resto dell’élite, non c’è (più) spazio per le guerre infinite al terrore senza volto degli shahid, c’è spazio soltanto per avversari corporei e territoriali – dunque battibili –, e realmente pericolosi per lo status quo – ed il terrorismo non lo è. Avversari come la Cina, la superpotenza in divenire che, alla ricerca di rivalsa per il secolo delle umiliazioni, vorrebbe riscrivere ex novo l’architettura internazionale decisa dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra e traghettare il mondo verso l’era multipolare.
Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedereFiamma Nirenstein
11 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/mondo/is ... 1631399797Mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei che alle 7,59 dell'11 settembre 2001 avrebbero dato fuoco al mondo, Israele era già in un bagno di sangue terrorista che l'Occidente riduceva a mere questioni territoriali. A Gilo le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Nei due giorni precedenti, due poliziotti e una decina di civili si erano uniti alle circa 1500 vittime: più o meno la metà di quelle delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida, ma il fenomeno rimase incompreso. Oggi, dopo il penoso ritiro americano dall'Afghanistan, è evidente che questo rifiuto occidentale a capire sopravvive come un pericoloso fantasma, che potrebbe risultare mortale per il mondo intero.
Tanti furono gli episodi ignorati in Medio Oriente, Europa e Usa che avevano segnalato la preparazione di un attentato storico; altrettanto, seguitano ad essere equivocate anche le conseguenze dell'attacco alle Torri, come la presa del potere dei Talebani. Si disse anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali erano parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi, come lo si è detto di Hamas. Israele aveva subito attentati a migliaia ed era già da tempo una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena la sicurezza del mondo intero. Nel '95 Bibi Netanyahu in un libro metteva in guardia gli Usa: se non vi accorgete di quello che sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato. Una profezia? No, solo una visione chiara della natura ideologica, e non territoriale o sociale, del terrore.
La storia di Israele fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appettito della jihad proponendo scambi territoriali e miglioramenti sociali e che la democrazia, la libertà, siano l'obiettivo di ogni uomo. Al contrario, le culture fondamentaliste islamiche disprezzano ogni libertà. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo di farla osservare. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere alle profferte di pace è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La sharia, per affermarsi, ha necessità di combattere il nemico: l'Occidente delle Torri, Israle che occupa la Ummah, la comunità islamica. Non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat, che aveva osato accettare Israele e stringerci una pace, fa parte di quella dinamica. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, dal carcere stilò la fatwa di assassinio e vent' anni più tardi la stilò per l'attacco delle Twin Towers. Per questo Bin Laden, succedendogli, accumula su di sé la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace e quella degli afghani invasi dai sovietici. È la jihad «contro i sionisti e i crociati», l'attacco per riprendersi territori o per allargare la forza della sharia.
Dopo quell'attacco, i palestinesi festeggiarono con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, in piena Intifada condannò disinvoltamente il terrorismo, continuando però a sostenerlo. Oggi Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan, e i palestinesi, hanno festeggiato «il nuovo standard per la resistenza contro Israele». La loro guerra non ha niente a che fare con circostanze politiche, ma è figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale e irrinunciabile. I palestinesi hanno potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas e l'Autonomia Palestinese fanno parte dell'esercito jihadista. Per il quale solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche: «I Talebani - ha detto Musa Abu Marzuk della direzione di Hamas - hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. È una lezione per tutti i popoli oppressi» che va «assorbita» da Israele: «L'occupazione di terra palestinese non durerà e finirà».
Quando Netanayhu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva presente la carta geografica del Medio Oriente e del terrorismo che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah sia da vari gruppi sunniti. La scia di sangue è lunga, dagli attacchi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani (241 morti) a quello ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. La scelta strategica era quella che proibisce all'infedele le terre islamiche. Prima e dopo, fino agli attacchi di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America, gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido dell'11 settembre. Il mondo cambiò, la «lunga guerra» al terrore formò una coalizione, i Talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria. Ma l'Isis, gli attentati nel mondo, i Talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati.
La trama jihadista è paziente. Per smontarla va decrittata: un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, sostenuto da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott' acqua e non impallidisce il loro sogno.
11 SETTEMBRE 2001, VENTI ANNI DOPO: AL QAEDA PUBBLICA VIDEO DI AL ZAWAHIRIProgetto Dreyfus
11 settembre 2021
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8174765883 Nel giorno del ventesimo anniversario dell'attentato dell'11 settembre 2001 è stato pubblicato dal As Sahab Media un video di 60 minuti del leader di al Qaeda Ayman al-Zawahiri. Lo rende noto su Twitter Rita Katz, direttore di Site Intelligence Group.
Il video si intitola 'Gerusalemme non sarà mai giudaizzata'. Ci sono riferimenti a fatti avvenuti dopo lo scorso dicembre, quando sono circolate voci sulla morte del medico egiziano, ma nessun riferimento alla vittoria dei Talebani in Afghanistan poco meno di un mese fa.
"L'attuale situazione richiede che noi esauriamo le forze del nemico fino a quando si lamenterà a causa dei problemi economici e militari", ha detto nel video al Zawahiri affermando che una delle "principali operazioni in questo senso è Tel Saman" riferendosi all'attacco, condotto il primo gennaio scorso, contro una base militare russa nel nord est della Siria.
"Questa operazione è un esempio pratico di come rompere l'assedio militare del nemico" ha continuato il leader di al Qaeda che nel video ha fatto riferimento al ritiro americano dall'Afghanistan ma non alla vittoria dei talebani.
Inoltre critica gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e diversi Paesi arabi che descrive come "traditori".
Nel video al Zawahiri loda, tra l'altro, l'autore dell'attentato alla base militare americana di Pensacola, lo studente saudita Mohammed Saeed Alshamrani che uccise nel 2019 tre persone prima di essere ucciso dalla polizia.
Non fu uno scontro di civiltà (2) Marcello Veneziani
MV, La Verità (11 settembre 2021)
http://www.marcelloveneziani.com/artico ... civilta-2/No, non fu uno scontro di civiltà quello che esplose l’11 settembre di vent’anni fa. Non si scontrarono la civiltà islamica e la civiltà cristiana. Fu piuttosto l’attacco barbarico dei fanatici islamisti a un occidente nichilista, ormai separato dalla sua civiltà e dai suoi principi. Scontro d’inciviltà, ritorno di barbarie.
I fanatici che attaccarono il cuore dell’Occidente ‒ non della Cristianità, altrimenti avrebbero colpito altri obbiettivi simbolici ‒ non venivano dall’Islam tradizionale ma si erano formati e istruiti in Occidente e aderivano a una versione ideologica di islamismo. Bin Laden e la sua famiglia ne erano il prototipo. Islamisti di ritorno, come si dice analfabeti di ritorno.
I fanatici radicalizzano l’Islam, lo usano come arma, come droga e come bandiera, applicando alla lettera alcune “sure” feroci del Corano. Il nichilismo occidentale, invece, è la degenerazione della libertà e la deriva della modernità, la libertà come rifiuto del destino, della natura, dei limiti e del sacro e la vita elevata a scopo di se stessa.
È sbagliato, anzi indegno, evocare lo scontro di civiltà per indicare la vendetta dei fanatici accecati dall’odio e dall’ideologia contro il predominio planetario degli Stati Uniti e dei loro alleati o “servi”. Prima di quel feroce attacco c’era stata la guerra del Golfo, e altre invasioni, ingerenze, incursioni, sanzioni che avevano acceso gli animi del fanatismo islamico e avevano risvegliato la Jihad: ma non fu Guerra santa, fu piuttosto rappresaglia e rivendicazione delirante di dominio contro la dominazione americana. La controprova è che nessuna guerra tra i popoli o stati islamici e popoli o stati occidentali poi scoppiò; ma restarono terrorismo e tensione, conflitti locali e insurrezioni, occupazioni e attentati, rappresaglie e bombardamenti. E lo scontro aperto l’11 settembre non unì l’Islam in un solo corpo, ma lo lasciò diviso tra sunniti e sciiti, tra iraniani e sauditi, e una miriade di fazioni ostili tra loro. Non ha mai preso corpo nemmeno un asse tra i paesi leader di area, la Turchia, l’Iran e l’Egitto.
Né i paesi islamici si unirono nell’isolare e condannare i terroristi.
Semmai l’11 settembre generò più compattezza difensiva nell’Occidente, perché l’orrore del terrorismo, la paura e l’insicurezza diffusi in Europa come negli Usa li spinsero a sentirsi accomunati come potenziale bersaglio dell’odio islamista.
C’è un’immagine bellissima che rende bene il senso del conflitto o meglio dell’abissale differenza tra il fanatismo degli uni e il nichilismo degli altri. È l’immagine di due donne a confronto: una ha il velo che copre tutto il suo viso e lascia aperti solo gli occhi, secondo la tradizione islamica; l’altra ha il volto completamente scoperto, salvo gli occhi, che sono coperti da un lembo che ha la stessa dimensione dell’unica parte scoperta dell’altra donna velata. Due immagini speculari che dicono tutta la differenza tra il fanatismo che costringe i corpi a coprirsi e il nichilismo che induce alla cecità, al non vedere. La differenza, abissale, tra i due mondi sta nei due verbi adoperati: l’uno costringe, con la forza, la punizione, la morte; l’altro induce con la persuasione, la seduzione, la distrazione. I fanatici costringono, i nichilisti inducono.
È sbagliata solo la didascalia usata per indicare i due mondi: Oriente e Occidente. Ci sono altri Orienti, da quello russo, a quello cinese, a quello indiano, che non si riducono al fanatismo islamico. E c’è una storia dell’Occidente che differisce dal suo presente americano e globale. È sbagliato ridurre l’Oriente all’Islam ed è sbagliato ridurre all’Occidente quel che indica piuttosto la globalizzazione e la modernità nel suo stadio più avanzato.
Il nemico dei fanatici che colpirono l’11 settembre non era la civiltà cristiana, ma l’imperialismo occidentale e globale, la sua società profana e secolarizzata, che certo deriva dalla cristianità ma che ha infine sposato la tecnica, la finanza, il materialismo e l’edonismo, e per questo era considerato luogo di perdizione, regno di Satana. Avrebbero colpito una cattedrale, un luogo santo alla cristianità, se avessero voluto simbolicamente sfidare la civiltà cristiana; colpirono invece la potenza bellica e finanziaria statunitense, e i suoi templi profani – i grattacieli, le due torri, il Pentagono.
Anche l’Occidente non reagì agli attacchi richiamandosi alla Cristianità, alle Crociate, alla propria tradizione e civiltà; ma si armò per difendere la vita, la libertà, il progresso, il presente. Gli atei devoti del tempo e i teo-cons, inclusa Oriana Fallaci, non furono ascoltati, restarono testimoni e cantori di una guerra santa che poi non avvenne.
Il terrorismo riprese forza dieci anni dopo, con l’Isis, le minacce all’Occidente ripresero, restò l’odio contro gli americani e i loro alleati in Iraq, in Afghanistan e altrove, e per il loro legame con Israele. Ma non si tramutò in uno scontro di civiltà. L’Occidente, dal canto suo, rispose in modo schizofrenico tra ingerenze umanitarie, bombe pacifiste e accoglienza dei migranti islamici, non solo profughi, con pericolose infiltrazioni, subalternità alle altrui religioni. Fino a decidere, tardivamente e in modo disastroso, di ritirarsi dai paesi islamici e non impegnarsi più ad essere gendarmi del mondo ed esportatori forzati di libertà, diritti e democrazia.
Vent’anni dopo il mondo non è cambiato, almeno sul crinale tra Islam e Occidente. L’era che si aprì l’11 settembre non si è chiusa. Un conto in sospeso che tutti hanno pagato ma che nessuno ha saldato. Una ferita aperta, a volte sanguinante.
Alberto PentoMarcello Veneziani e l'Islam buono, scrive un mucchio di scemenze antioccidentali, antiamericane e filonazimaomettane. Peggio non si potrebbe.
Non esiste l'Islam buono, l'Islam è cattivo fin dalle sue fondamenta maomettane:
Ecco in verità chi era Maometto e cos'era la sua pace!
Maometto fu assai peggio di Hitler e di Stalin e di Toto Riina!
Maometto fu un ignorante, presuntuoso, invasato, esaltato, idolatra che si inventò il suo dio Allah tratto dagli idoli della Mecca, un dio-idolo dell'orrore, del terrore e di morte,
uno che abusò della credulità popolare e che poi si impose con la minaccia, l'intimidazione, il ricatto, la violenza (che non fu affatto per legittima difesa come raccontano i suoi seguaci per giustificarsi ma fu predatoria, aggressiva, sopraffatrice, assassina);
fu un bugiardo, un ladro, un razziatore rapinatore, sequestratore e ricattatore, schiavista, assassino e sterminatore;
fu un razzista al massimo grado che discriminò chiunque non si sottomettesse a lui e al suo idolo e che depredò, cacciò e sterminò ebrei, cristiani, zoroastriani e ogni diversamente religioso, areligioso e pensante che gli si contrapponesse e non si sottomettesse;
invase, depredò, ridusse in schiavitù e fece strage nei paesi altrui imponendo con la minaccia la sua politica e la sua criminale ideologia-teologia religiosa imperialista e totalitaria;
indusse al suicidio, all'omicidio e allo sterminio e fece dire al suo idolo, dettandolo ai suoi seguaci, ciò che poi
fu scritto nel Corano e che da 1400 anni induce e istiga alla violenza, alla discriminazione, alla falsità, alla minaccia, alla depredazione, al disprezzo degli altri non maomettani, alla riduzione in schiavitù e alla dhimmitudine, all'omicidio, al suicidio-omicidio, all'assassinio e allo sterminio di ogni diversamente religioso, areligioso e pensante della terra che non si sottometta ai suoi seguaci e al loro orrendo idolo Allah.
Affermare che esiste un Islam buono è come santificare l'Islam o nazismo maomettano.
A chi esalta e santifica l'invasato criminale Maometto!
Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano è santificare il male, un mettersi dalla parte di ciò che di più maligno esista sulla faccia della terra.
Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano dichiarandoli elevatori di spiritualità e portatori di umanità, di amore, di pace, di fratellanza, di giustizia, di cultura e di civiltà significa ingannare e illudere l'umanità intera specialmente quella che soffre a causa dell'Islam e che vorrebbe potersi difendere e liberare da tutto ciò;
Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano è farsi demenzialmente, irresponsabilmente e vilmente complici del male, e costituisce di per sé un grave crimine contro l'umanità.
Giovanni BernardiniHo ammirazione per Veneziani, ma ho il vago spspetto che non abbia letto o capito il libro di Huntigton... se lo avesse fatto saprebbe che il politologo americano include nel concetto di "scontro delle civiltà" il terrorismo le guerre civili, la insicurezza diffusa... poi, un testo come "lo scontro delle civiltà" non è ovviamente esente da critiche, ma val la pena di misurarsi con quanto dice realmente...
Alberto PentoGiovanni Bernardini Io non ho grande ammirazione per Marcello Veneziani, non mi piace il suo nostalgismo per il passato social nazional fascista, il suo antisemitismo antisraeliano, il suo antiamericanismo, il suo filo palestinismo e il suo filo nazi maomettismo.
Per me è una grave carenza culturale il considerare l'areligiosità di parte dell'occidente come assenza di spiritualità e nichilismo privo di valori spirituali/universali che sono naturalmente parte della vita, dell'essere al mondo, dell'esistere di tutti i viventi e della materia stessa.