Post-Modernismo: il marxismo 2.0Di Alessio Cotroneo
il 26 novembre 2018
https://www.individualistaferoce.it/201 ... 7ow-rm8F44Il Comunismo in senso stretto non esiste più, in pochi lo difendono apertamente e i partiti che si rifanno ad esso sono ridotti a misere percentuali. Eppure, l’egemonia culturale comunista non può essere scomparsa di colpo: che fine ha fatto?
C’è ancora ed è più forte che mai, perché è in incognito. Fa finta di non essere marxismo, ma lo è all’estremo: è il post-modernismo, il marxismo culturale, da cui discendono il buonismo, l’ultra-progressismo, i movimenti per i diritti delle minoranze e via dicendo.
Ciò che ha trasformato i presupposti marxisti in post-modernismo, a partire dagli anni ’70, è il fatto che il proletariato non vuole più ribellarsi e sovvertire il sistema perché, anzitutto, i proletari-lavoratori stanno aumentando il proprio benessere [grazie al libero mercato] e ciò ha completamente smontato la base rivoluzionaria del Comunismo, siccome per continuare a ribellarsi i proletari avrebbero dovuto continuare ad essere poveri e malmessi; secondariamente, il marxismo in Russia, a Cuba, in Venezuela e ogni altro posto in cui è stato provato ha generato solamente catastrofi e genocidi e non è desiderabile nemmeno dai vecchi sostenitori del Comunismo italiano, tranne per quei quattro gatti che inneggiano ancora a Stalin mentre parlano di plusvalore e valore-lavoro.
Purtroppo per noi, hanno avuto un’intuizione malefica, che possiamo immaginare abbiano articolato più o meno così: “dobbiamo trovare un nuovo modo di giocare la partita ‘oppressori contro oppressi‘ riformulando capitalisti contro proletari… Eureka! Possiamo introdurre le politiche dell’identità per gruppi: non sei più oppresso perché fai parte della classe dei lavoratori, tu ora sei appresso perché sei una donna, o perché appartieni a un’etnia differente da quella della maggioranza, o perché le tue preferenze sessuali sono in qualche maniera fuori dalla norma. Insomma, sei oppresso perché fai parte di una minoranza“.
E non ci stancheremo mai di dirlo: la più piccola minoranza sulla Terra è l’Individuo, le leggi devono essere uguali per tutti gli individui al fine di togliere privilegi a chi li ha senza doverli concedere a chi ieri era discriminato, altrimenti si creerebbe un nuovo ciclo di discriminati e discriminanti.
Nuovamente purtroppo per noi, hanno trovato un campo fertile, perché è innegabile che ci siano razzisti, omofobi, maschilisti o discriminazioni di ogni genere, dunque hanno individuato dei nuovi oppressori da combattere, generalizzando al massimo le loro caratteristiche. Il cattivo ora è quello che non viene discriminato: basta che sia bianco, eterosessuale, uomo, capitalista.
In questo modo, distruggono il valore delle proteste per i veri diritti, avviliscono chi desidera avere pari opportunità, chi lotta per una società giusta, libera e di equità, chi desidera un mondo in cui sia le donne sia gli uomini siano liberi di scegliere e di fare. E non finisce qui: come ben possiamo vedere in Italia, questi sentimenti del post-modernismo generano il nemico che loro stessi lottano, poiché pur di opporsi al post-modernismo le persone finiscono per diventare il mostro identificato come razzista, sessista, maschilista, misogino, omofobo.
Definiscono fascismo ogni cosa, ma finiscono a deturpare il significato della parola fascismo affibbiandola a chiunque non abbia le loro idee. Esistono pure gli estremisti, che dicono cose come “è giusto che [inserire qui una minoranza qualsiasi] abbiano più diritti degli altri perché sono stati discriminati ed ora hanno il diritto di pareggiare i conti discriminando gli oppressori“.
Insomma, hanno iniziato a traslare il carattere totalitario del marxismo verso gli ambiti culturali e sociali, tanto da corroborare le proprie idee con l’intolleranza. I post-modernisti non credono che esista la competenza e debba essere remunerata né credono che esistano strutture valoriali in base alla cultura che si possiede, ad esempio quella Occidentale, non credono nemmeno che gli individui abbiano un background biologico da cui dipendono alcuni tratti della loro personalità, chiamano tutto ciò costruzione sociale.
Eppure, il mercato può funzionare solo se viene premiata la competenze, poiché in tal modo il venditore può fornire ciò che il compratore desidera ed è proprio il compratore a decidere chi premiare; la cultura Occidentale, per quanto abbia ancora molti difetti e non sia libera dai pregiudizi, è quella che concede le maggiori libertà agli individui; quelli che vogliono fare costruttivismo sociale, inventare paradigmi nuovi a seconda di come gira, a seconda di chi sembra più oppresso, sono proprio loro, i nuovi nemici della libertà, della tolleranza e della pace sociale: i post-modernisti, ossia i comunisti 2.0.
“L’idealizzazione terzomondista del migrante ci costerà cara”. Parla Thornton2018/12/10
http://www.controversoquotidiano.it/201 ... 10TyqasYqYBruce Thornton non usa mezzi termini. Dice pane al pane, sapendo molto bene che la parresia, il discorso che onora la verità, detesta le parole compiacenti. Professore di Studi classici e scienze umane alla California State University e ricercatore presso la Hoover Institution, Thornton è oggi una delle voci più vibranti nel panorama accademico e intellettuale americano. In vari libri e saggi ha contribuito a demistificare miti e feticci del pensiero progressista e ha permesso di comprendere meglio l’origine della crisi che colpisce la società occidentale.
Niram Ferretti lo ha intervistato in esclusiva per ControversoQuotidiano.it.
Professor Thornton, nel 1984, il filosofo francese Pascal Bruckner ha scritto Le sanglot de l’homme blanc, un saggio in cui mostrava come l’Occidente, dagli anni 60 in poi, è stato inghiottito da una apoteosi di autocolpevolezza. Il pensiero sottostante a tutto ciò è che la civiltà occidentale non sia altro che una storia piena di furia e rumore, mentre il Terzo mondo sarebbe la vittima innocente della sua rapacità e della sua malvagità. Quali sono le ragioni, secondo lei, di questo paesaggio culturale?
Ci sono tre fasi dietro a ciò che possiamo chiamare terzomondismo. In primo luogo, il crescente contatto – attraverso il colonialismo – con il mondo sottosviluppato ha esposto gli europei a popoli esotici idealizzati come superiori rispetto ai loro modelli di vita più sviluppati e repressi. Successivamente, il marxismo, essendo stato respinto dal proletariato europeo, si è rivolto ai movimenti rivoluzionari anticoloniali del Terzo mondo per trovare un’avanguardia rivoluzionaria sostitutiva. La rivoluzione sarebbe stata guidata dai popoli del Terzo Mondo piuttosto che dai lavoratori. Ciò ha trasformato il Terzo Mondo in un utile club per attaccare i paesi liberali, democratici e capitalisti. Infine, il Romanticismo e il culto del sentimentalismo in Occidente, aiutati dai mezzi di comunicazione globalizzati, hanno rinvenuto nel Terzo Mondo un oggetto per la “compassione” e il senso di colpa, che i mass media hanno convertito in una merce di sofferenza ad uso e consumo degli occidentali, attraverso la quale essi potevano godere vicariamente di tali sentimenti senza alcuno sforzo per migliorarne le condizioni. Il risultato è quello di un sentimentalismo e un senso di colpa a buon mercato, strumentali all’ideologia marxista, che hanno come scopo quello di minare la cultura occidentale.
“Oppressore-oppresso”, questa sembra essere la principale dicotomia interna alla maggior parte del discorso politico e culturale, sia qui in Europa che negli Stati Uniti. Le università europee e americane, in larga misura, hanno sposato il marxismo culturale. La battaglia è persa?
Abbiamo istituzionalizzato lo slogan di Lenin “Chi deve comandare?”: chi è l’oppressore, chi è la vittima? Questa dinamica è alla base del politicamente corretto, del multiculturalismo e della politica identitaria che lavorano per sfruttare il potere politico dello status di vittima di un gruppo storicamente oppresso. La battaglia è persa, per ora. Questi presupposti e atteggiamenti hanno plasmato tre generazioni e sono diventati automatismi mentali che si situano al di là di ogni esame critico. Lo vediamo, per esempio, nella nomenclatura del Partito Repubblicano, che ha alienato da sé gli elettori che hanno reso possibile l’elezione di Donald Trump a causa della cattiva abitudine dei Repubblicani di fare proprie le opinioni progressiste su razza, sesso, omosessualità, eccetera.
Recentemente, il filosofo francese Alain Finkielkraut ha affermato che “l’antirazzismo è il comunismo del XXI secolo”. E’ d’accordo?
Assolutamente. Il marxismo è stato da sempre un melodramma in cui il bene assoluto è contrapposto al male assoluto. La politica dell’identità, che si basa sulle lagnanze conseguenti ai crimini storici, ha dovuto ingigantire il razzismo nel crimine per eccellenza, malgrado il fatto che il cambiamento storico abbia ridotto al lumicino l’infrastruttura legale della segregazione e la violenza brutale e la meschina umiliazione con cui la maggior parte dei neri viveva in America prima degli anni Sessanta. L’antirazzismo favorisce il risentimento e le lagnanze che forniscono energia per l’azione e l’influenza politica che hanno lo scopo di sottrarre potere al governo. Dunque deve essere melodrammatico: nessuna complessità o sfumatura, solo il male puro che continua a brutalizzare i nobili, i giusti oppressi, gli antirazzisti. Infine, come fanno i marxisti, la nobiltà e la rettitudine degli antirazzisti giustificano “ogni mezzo necessario”, compresa la censura, gli assalti ai diritti come la libertà di parola e la violenza.
Sia in Europa che negli Stati Uniti, l’immigrato, in particolare in Europa l’immigrato musulmano, è diventato l’icona dell’umanità oppressa. In nome della compassione e del multiculturalismo bisognerebbe accoglierne gioiosamente quanti più possiamo. Come giudica questo paesaggio mentale?
Ingannevole e suicida. Lo sarebbe in ogni caso, perché una nazione non può sopravvivere se non ha una solidarietà interna basata su principi condivisi, e la convinzione che il proprio stile di vita sia il migliore e sia meritevole di essere difeso. Ma quando i migranti sono musulmani, il pericolo è molto maggiore. Dalla sua nascita l’Islam è stato una fede suprematista e intollerante. Non accetta le nozioni occidentali di convivenza con gli ‘infedeli’, che devono convertirsi, morire, o se cristiani ed ebrei, vivere come soggetti di seconda classe senza uguaglianza sotto la legge, con diritti enumerati, eccetera. Negli ultimi decenni abbiamo visto la colonizzazione dell’Europa dall’interno attraverso la migrazione e l’auto-segregazione. Accoppiata con bassi tassi di natalità e con il declino della fede, questa idealizzazione del migrante se non sarà controllata diventerà fatale.
L’Europa ha avuto un atteggiamento molto ambivalente nei confronti degli Stati Uniti durante i secoli. Ha oscillato costantemente tra amore e odio. In “La nazione più odiata. L’antiamericanismo degli europei”, Andrei S. Markovits ha scritto: “L’anti-americanismo è parte integrante del discorso e della visione del mondo della sinistra americana”. In Europa, l’antiamericanismo accomuna l’estrema sinistra e l’estrema destra. Quali sono, secondo lei, le ragioni principali di questo odio?
In primo luogo, in generale, le élite europee hanno avuto una avversione per l’America perché essa ha assimilato la gente che l’Europa rigettava – contadini come mio nonno che venne negli Stati Uniti dall’Italia meridionale nel 1908 – e ha saputo creare la più grande potenza della storia. In quanto tale, gli Stati Uniti sono il ripudio vivente degli ordini sociali e politici che ancora caratterizzano i leader degli Stati europei, come il dominio tecnocratico delle élite, la deferenza al potere centralizzato e all’autorità, le gerarchie stratificate basate sulla nascita, l’istruzione, eccetera. In secondo luogo, come ha sottolineato Raymond Aron, le élite europee di sinistra e socialiste odiano gli Stati Uniti perché sono stati in grado di ottenere una ricchezza ampiamente distribuita e uno sviluppo economico senza precedenti, senza seguire il libretto marxista o indulgere nelle orge di violenza e oppressione che caratterizzano i regimi marxisti. Come l’Islam, il marxismo è una fede fanatica, che non ammette rivali alla verità rivelata del suo fondatore. Il successo dell’America è un monito quotidiano di quanto il Moloch marxista sia stato fondato sull’errore.
Nella bozza finale della Costituzione europea del 2003, non si fa menzione del ruolo svolto dal cristianesimo nell’identità dell’Europa. Giovanni Paolo II si appellò invano per farlo menzionare, ma al suo posto venne scelto un riferimento più generico alla “eredità culturale, religiosa e umanistica dell’Europa”. Che logica vede alla base di questa decisione?
L’Unione europea, come tutte le istituzioni globali multinazionali, è una creazione del trionfo del secolarismo e delle pretese tecnocratiche dell’Occidente nel loro secondo secolo. Un regime fondato sulla pretesa di una padronanza tecnologica non solo sopra la natura, ma sulla mente e il cuore umani, deve necessariamente rifiutare la fede religiosa come autorità e fonte di saggezza. Per un potere tecnocratico centralizzato e concentrato, ammettere una sapienza e una autorità rivali rappresenta un invito al proprio indebolimento. Quindi l’UE non può riconoscere il fatto delle fondamenta giudeo-cristiane dell’Europa, che sono i giganti su cui i nani europei stanno in piedi per consentire loro di vedere più lontano. Questa decisione di eliminare la fede dal proprio documento di governo è molto seria, poiché indica la misura del rigetto di Dio da parte delle élite europee e il tentativo di prendere il suo posto – un traguardo che vediamo fallire anche mentre stiamo parlando. Abbinato alle politiche di immigrazione senza scrupoli che hanno permesso ai musulmani culturalmente alieni di stabilirsi in Europa, al secolarismo radicale, al fallimento nel creare le famiglie, è il solvente che sta distruggendo l’Europa.
Sia qui in Europa che negli Stati Uniti, l’immigrazione pone una questione rilevante. Ci sono ovviamente delle differenze, ma allo stesso tempo rappresenta un’enorme sfida per il futuro. Il motto degli Stati Uniti è in pluribus unum, l’Europa non ne ha nessuno. Come vede il futuro dell’Europa in questi riguardi?
Vedo fratture sociali crescenti e violenze, soprattutto perché la crisi fiscale del debito pubblico e delle passività non finanziate peggiora sempre di più. Stiamo assistendo a una anticipazione in Francia, dove il movimento dei “giubbotti gialli” ha riunito gruppi di tutto lo spettro politico e sta scivolando nella violenza anarchica. L’immigrazione incontrollata ei suoi costi non possono che peggiorare questi conflitti, causando più violenza e un contraccolpo politico illiberale da parte di estremisti posti ai margini della società. Infine, con le élite europee che hanno distrutto il collante della propria civiltà cristiana e classica e hanno demonizzato l’idea di nazione che un tempo era il luogo in cui si univano i popoli sulla base di una identità coerente, quale può essere un principio unificante? Cosa può creare la solidarietà necessaria per difendere il proprio stile di vita? Nessuno darà la vita per la bandiera della UE.
L’Europa sembra aver perso la direzione delle sue storie unificanti, della propria tradizione religiosa e umanistica. Esistono solo come tracce, ricordi, come una collezione di oggetti curiosi all’interno di un museo. E’ d’accordo?
Sì, l’Europa è diventata un vasto museo, il suo patrimonio culturale si è ridotto a merci redditizie per l’industria del turismo, immagazzinando reliquie inestimabili che gli europei non hanno idea di come creare. Ma gli Stati Uniti stanno facendo la stessa cosa. Questo problema è occidentale, non solo europeo. Gli Stati Uniti hanno ancora vitalità economica e creatività, ma l’uomo non può vivere di solo pane. Abbiamo bisogno di una cultura vitale e creativa che crei arte, letteratura, idee che ci insegnino per cosa dovremmo vivere. Senza fede, tuttavia, l’arte, la letteratura, le idee degenerano in semplici merci che consumiamo e dimentichiamo quando arriva la prossima moda.
“America First” è stato lo slogan della campagna elettorale del presidente Donald Trump. Che cosa significa per l’Europa?
Che gli Stati Uniti, o almeno alcuni dei suoi cittadini, non accettano il rifiuto del nazionalismo e la cessione della sovranità alle élite tecnocratiche transnazionali, poiché la sovranità nazionale è la condizione sine qua non della libertà politica. Non ci sono “cittadini del mondo”, solo cittadini di nazioni sovrane. Per le élite europee questo significa un duro scendere a patti con il loro fallimento nella creazione di un ordine politico che trascende le nazioni europee e le sottopone a regole dall’alto in basso. Ma anche in questo Paese, i membri delle nostre élite, compresi i cosiddetti conservatori, hanno appoggiato il globalismo e stanno combattendo contro gli sforzi di Trump. Credo che le prospettive per l’Europa e per gli Stati Uniti siano meste.
L'ideologia del politicamente corretto e i dogmi del neoprogressismo: intervista a Eugenio Capozzi Martino Loiacono
6 Dic 2018
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... aCdtnKd9NoEugenio Capozzi è ordinario di storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. È autore di diversi volumi: “Il sogno di una Costituzione” (2008), “Partitocrazia” (2009), “Storia dell’Italia moderata” (2016). Lo scorso 29 novembre è uscito il suo ultimo saggio, “Politicamente corretto, storia di un’ideologia”. Un volume prezioso che, grazie ad una rigorosa ricostruzione storica, permette di comprendere le origini, l’avvento e la pervasività del politicamente corretto.
MARTINO LOIACONO: Professore, lei ha definito il politicamente corretto come l’espressione di un’ideologia: di cosa si tratta?
EUGENIO CAPOZZI: Il politicamente corretto è l’espressione retorico-precettistica del neoprogressismo, cioè l’ultima delle ideologie, che possiamo anche chiamare, come lo ha definito Mathieu Bock-Coté, “utopia diversitaria”, “culto dell’altro”. È un’ideologia simile a quelle ottocentesche e novecentesche. Essa si afferma con il tramonto di fascismo e nazismo e con la crisi del modello comunista sovietico, su cui si innestano i valori e le idee portate dai baby-boomers. Il neoprogressismo non si fonda su premesse politiche ed economiche ma su un obiettivo culturale: cambiare la cultura delle società occidentali, perché strutturalmente imperniata sulla discriminazione, sulla disuguaglianza e sull’imperialismo. Il suo obiettivo è sradicare questa malapianta che albergherebbe nella nostra cultura. Il tutto per tornare ad una condizione di naturale armonia, per riguadagnare l’Eden. Tale armonia non si basa però su un principio forte di definizione razionale della natura umana, ma su un totale relativismo. Tutte le idee, tutte le culture, tutti gli stili di vita sono equivalenti. È una ribellione relativistica contro la storia occidentale, vissuta come violenza e stupro ai danni delle diversità.
ML: Quali sono i dogmi di quello che lei ha definito catechismo civile?
EC: Il neoprogressismo presenta in sintesi quattro dogmi. Il primo è il relativismo culturale, per cui tutte le culture, tutti i costumi e tutte le religioni hanno uguale valore e devono essere considerati sullo stesso piano. Esso si afferma con la deriva relativistica dell’antropologia culturale e con gli studi legati alla decolonizzazione, e si evolve successivamente in multiculturalismo, cioè l’idea per cui culture diverse devono convivere negli stessi spazi e si devono integrare. Questo significa che non esiste una centralità storica della cultura occidentale nella definizione e nella dignità della persona umana. Il secondo è l’equivalenza tra desideri e diritti. Questa tendenza si afferma tra gli anni Sessanta e Settanta. In questa prospettiva ogni desiderio è lecito e anzi addirittura sacro, e ogni tipo di repressione è sbagliata (vietato vietare). È un’interpretazione edonistica e radicale di Freud e anche di Marcuse. Il soggetto umano viene ridotto alla pura pulsione e alla sua funzione desiderante. Queste tendenze si traducono in un’esplosione di conflittualità, perché non ci sono limiti ai desideri, alla loro contraddittorietà e alla loro continua mutevolezza. Il terzo è che l’uomo non è necessario: l’umanità non ha funzione gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente. È un elemento tra i tanti dell’equilibrio ambientale ma non è il fine principale. Il quarto è il legame strutturale che viene istituito tra identità e autodeterminazione. I diritti non si fondano su una concezione dell’essere umano universalmente condivisa, ma sull’appartenenza a gruppi e a condizioni di vita che in quanto tali devono essere tutelati. Queste condizioni non sono considerate qualcosa di naturale, ma sono frutto di una scelta soggettiva. Quest’ultimo dogma si sintetizza con l’espressione “voglio dunque sono”.
ML: Come funziona la logica del politicamente corretto?
EC: L’ideologia politicalcorrettista parte dal rifiuto del conflitto e dalla centralità della retorica. Per cambiare le persone bisogna cambiare le loro menti e per farlo occorre modificare le parole, coniarne di nuove e utilizzare termini non offensivi. Proprio sul concetto di offesa si basa la censura. Ogni posizione che si discosta dal relativismo è ritenuta violenza. Ogni affermazione di gerarchia di valori, ogni tentativo di fondare un discorso di tipo universalistico vengono considerati offensivi nei confronti del culto del diversitarismo. Chi propone idee contrarie al neoprogressismo viene così emarginato di modo che non possa parlare. Proprio da qui nasce l’intolleranza particolarmente percepibile nei cultori del politicamente corretto. Insomma, il tentativo di passare dal soggettivismo all’oggettivismo viene bollato come offesa. L’unica dottrina universale deve essere il relativismo radicale. Questo, tuttavia, impedisce al neoprogressismo di produrre un canone razionale universalmente condivisibile, e da qui il conflitto passa sul piano emotivo. Se si sollevano questioni sull’immigrazione incontrollata, ad esempio, il discorso politicamente corretto non risponde con argomenti razionali o pragmatici, ma definendo direttamente i suoi oppositori cattivi o razzisti.
ML: In che modo il politicamente corretto è riuscito ad ottenere l’egemonia mediatica?
EC: Per capirlo è necessario guardare alla sua radice economica. Il politicamente corretto esprime gli interessi di classe della borghesia della conoscenza, quella borghesia che si afferma con i baby-boomers. Non è più una borghesia legata all’industria fordista o alla proprietà fondiaria. Basti pensare all’industria hi-tech e a personaggi come Steve Jobs o Bill Gates e a Zuckerberg, che potrebbe essere considerato un nipote dei baby-boomers e della “controcultura”. Questa borghesia si inserisce nei ruoli dirigenti delle organizzazioni internazionali e nel sistema globalizzato dei media e dei social media. Da qui deriva il monopolio sul mondo della cultura, della comunicazione e sull’università. A tale borghesia, ovviamente, appartengono anche in massima parte le classi politiche occidentali, in particolare nell’ultimo trentennio.
ML: Il senso di colpa è una costante del politically correct: di cosa sarebbe colpevole l’Occidente?
EC: Il neoprogressismo è un’ideologia che non mette sotto accusa una classe sociale o il capitalismo o altri nemici socioeconomici come le ideologie tradizionali, ma la storia e la cultura occidentale in quanto tali. Da qui derivano due conseguenze: essere maschi occidentali bianchi è di per sé una colpa, da cui bisogna riscattarsi mostrandosi buoni scolari della dottrina politicalcorrettista. Ma non ci si riscatta mai del tutto. La seconda è che l’Altro è sempre su un piano superiore ed è eticamente preferibile. Si tratta di allofilia: le culture extraeuropee, le religioni non cristiane, l’islam, e la galassia LGBTQ sono eticamente meglio. Tutto ciò che appartiene al canone occidentale è male, in questo senso si può parlare anche di autofobia.
ML: Da queste considerazioni arriviamo al culto della figura del migrante…
EC: Il culto del migrante, brandito come feticcio, è la conseguenza logica del multiculturalismo. L’ideologia diversitaria implica che l’ideale politico sommo sia quello di un mondo in cui le identità siano confuse, in un’umanità neutra. Dalla convivenza tra i popoli si dovrebbe passare, secondo questa ideologia, ad una mescolanza totale, in un mondo in cui le specificità culturali sono irrilevanti. Tale utopia ha condotto a risultati opposti. Più si mettono insieme culture diverse, più si punta all’interculturalità, più emergono conflitti di civiltà. Le comunità che vivono nello stesso spazio si chiudono al loro interno. Ovviamente il politicamente corretto ha addebitato queste tensioni alla volontà assimilatrice del mondo occidentale. In realtà esse sono frutto invece proprio del relativismo, perché senza un’etica che attrae le altre la convivenza diventa uno scontro insuperabile. Il problema è particolarmente evidente con gli immigrati africani e con quelli di religione islamica, la cui volontà di assimilazione è assente o molto ridotta. Da qui derivano i problemi di ordine pubblico che ben conosciamo.
ML: Considerata la forza del politicamente corretto, come è spiegabile la sua messa in discussione?
EC: Il politicamente corretto inizia la sua crisi quando la globalizzazione fa sentire i suoi effetti negativi. Quando, cioè, per via delle delocalizzazioni e della digitalizzazione dell’economia si assiste alla proletarizzazione dei ceti medi e alla crisi della classe operaia. Tuttavia la sua retorica è ancora forte, anche se ha trovato degli antagonisti che cominciano ad opporsi con energia alle sue istanze. In ogni caso, anche se queste forze dovessero prevalere, l’Occidente ne uscirà indebolito. Indebolito nella sua identità, per la crisi demografica e per il suo peso ridotto nello scacchiere politico internazionale.
ML: Alla luce di tutto ciò come si sono ridefiniti i sistemi politici?
EC: I sistemi politici, a partire dalla crisi economica del 2007-2008, registrano la crescita di movimenti culturali e politici che si schierano contro la dittatura del politicamente corretto. È la ribellione del populismo, del sovranismo e anche dell’antipolitica, che ha radici profonde ma che ora esplode contro il blocco sociale, politico e culturale post-baby boomers. Da qui si ridefinisce il conflitto politico: dall’asse destra/sinistra, individualismo/collettivismo si passa alla frattura tra globalismo e antiglobalismo, tra élite e popolo e tra classi dirigenti transnazionali e nazionali.