Torniamo tutti a vivere nelle foreste e magari anche al cannibalismo come gli indios dell'Amazzonia?
No grazie!Ma il circa milione di indios dell'Amazzonia brasiliana che vivono nella foresta alla loro maniera/cultura "primitiva" hanno forse più diritti degli altri brasiliani non indios o meticci e "modernizzati", circa 22 milioni di persone che vivono nelle aree disboscate dell'Amazzonia sfruttando anche la foresta come conviene a loro, alla loro civiltà moderna?
No di certo!
Non si può fermare l'umanità, il suo sviluppo, la sua evoluzione, al sua storia e la modernizazzione per garantire a delle minoranze minimali il loro presunto diritto a vivere alla loro maniera di civiltà tribale, antica, tradizionale, culturale, primitiva, selvaggia e profondamente in contrasto con la modernità civile, con la civilizzazione che è meno violenta, meno brutale e crudele.
Il Brasile con una superficie di 8,5 milioni kmq e una popolazione di 212,6 milioni (2020 dato Banca Mondiale)
la foresta amazzonica con una superficie 6.700.000 kmq (distribuita nei vari paesi del Sudamerica) e una popolazione di circa 1 milione di abitanti nativi indios; la parte brasiliana della foresta amazzonica corrisponde al 59% del territorio brasiliano circa 5.000.000 di kmq e una popolazione di circa 23 milioni di abitanti di cui meno di 1 milione sono indios nativi nel loro stato naturale/primitivo/selvaggio non nodernamente civilizzato.
L'attuale area dell'Amazzonia legale brasiliana corrisponde alla totalità degli stati di Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima e Tocantins e parte degli stati di Mato Grosso, Maranhão e Goiás, che costituiscono un'area equivalente a circa il 59% del territorio brasiliano. In questa regione, pari a 9 volte il territorio francese, vivono circa 23 milioni di persone, ovvero il 12,32% del totale degli abitanti del Brasile.
http://secretariat.synod.va/content/sin ... asile.htmlL'Amazzonia legale ospita il 55,9% della popolazione indigena del Brasile e una recente ricerca dell'Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE) ha quantificato in 305 i gruppi etnici indigeni e diversi popoli che vivono isolati e senza contatto con la società civilizzata.
Tribù amazzoniche Survival International
28 novembre 2019
https://www.survival.it/su/amazzonia Tribù amazzoniche
L’Amazzonia è la più grande foresta pluviale del mondo. Ma è anche la dimora ancestrale di 1 milione di Indiani.
Sono divisi in circa 400 tribù, ognuna con la sua lingua, la sua cultura, il suo territorio.
Molte sono in contatto con il mondo esterno da più di 500 anni. Altre invece, le tribù “incontattate”, non hanno mai avuto rapporti con le società che li circondano.
Come vivono?
La maggior parte dei popoli amazzonici vive in comunità stanziali lungo i fiumi. Normalmente coltivano piccoli orti intorno ai villaggi garantendosi una grande varietà di frutta e verdura tra cui manioca, fagioli, grano e banane.
[Gli Yanomami vivono nello Stato di Roraima, in Brasile, e lungo il confine con il Venezuela]
The Yanomami live in Roraima state, Brazil, and across the border in Venezuela
Inoltre cacciano e pescano, spesso utilizzando veleni vegetali per stordire i pesci. Oggi alcune tribù cacciano con i fucili, molte altre, invece, utilizzano archi e frecce, lance o cerbottane con dardi intinti nel curaro.
Solo poche tribù sono nomadi o semi-nomadi. Queste tribù, che spesso includono gruppi isolati, tendono a vivere nel folto della foresta, lontano dai fiumi. In alcuni casi coltivano qualche vegetale ma si sostengono principalmente con la caccia e la raccolta.
Oggi, praticamente tutti gli Indiani amazzonici hanno accesso all’assistenza sanitaria ed educativa “occidentale”. Quando i progetti sono controllati e gestiti dagli Indiani stessi, sono efficaci.
Qual è il problema?
Quasi tutti i problemi degli Indiani amazzonici derivano dalla terra e dalle sue risorse, di cui molti “stranieri” vogliono impadronirsi a ogni costo. In passato, oggetti del desiderio erano l’oro, la gomma (chiamata anche “oro bianco”) e il legno – tutti molto abbondanti in Amazzonia. Oggi, le minacce più gravi sono legate al boom del petrolio (“l’oro nero”), alle prospezioni di gas nell’Amazzonia orientale, al taglio illegale della foresta e alla rapida espansione dell’allevamento e delle imprese agricole.
Terra = Vita
Quando le loro terre vengono rispettate, generalmente, le tribù prosperano. Tuttavia, mentre in Brasile gli Indiani non hanno alcun diritto alla proprietà collettiva delle loro terre, in altri paesi, come in Perù e in Colombia, questi diritti sono riconosciuti da decenni ma vengono regolarmente calpestati da aziende e governi conniventi.
Oggi, cinque secoli dopo l’arrivo dei primi europei in Amazzonia, moltissimi Indiani continuano a morire per mano degli invasori e interi popoli devono affrontare ogni giorno la minaccia dell’annientamento.
Intervieni!
Partecipa ad alcune delle più urgenti campagne di Survival:
Difendi la terra delle tribù isolate del Perù dai disboscatori e dalle compagnie petrolifere.
Scrivi una lettera al Ministro della Giustizia del Brasile per chiedergli di proteggere gli Awá, la tribù più minacciata del mondo.
Aiuta gli Enawene Nawe a proteggere la loro foresta dagli allevatori e dai coltivatori di soia.
Scrivi una lettera al governo colombiano sollecitandolo a intervenire per permettere ai Nukak di far ritorno alla propria terra.
Dal sito di Survival
* Akuntsu
* Awá
* Indiani del Brasile
* Nukak
* Indiani di Raposa-Serra do Sol
* Indiani incontattati del Perù
* Yanomami
* Enawene Nawe
L'AMAZZONIA E IL CANNIBALISMO nuovAtlantide.org
Toni Gaeta
28 Agosto 2019
https://www.nuovatlantide.org/lamazzoni ... nibalismo/Marina Montesano su Il Manifesto del 25.08.2018 scrive qualcosa che ha ispirato le riflessioni che seguono. Nel brano sotto riportato sono importanti i riferimenti di Americo Vespucci circa gli “indigeni tupi” della costa settentrionale del Brasile e la testimonianza di Hans Staden, circa gli abitanti della foresta amazzonica, per i motivi che comprenderete leggendo tutto l’articolo.
«Coloro che sono stati fatti prigionieri durante la battaglia, non li tengono in vita. Sono destinati a essere uccisi e a servire da cibo, perché si mangiano tra loro, i vincitori mangiano i vinti, e la carne umana è tra loro un alimento comune. È un fatto assolutamente certo, perché si è visto un padre mangiare i suoi figli e le sue donne, e ho conosciuto un uomo col quale ho parlato e che diceva avere mangiato più di 300 corpi umani. Ho anche passato 27 giorni in un villaggio dove ho visto nelle case la carne umana salata, sospesa alle travi di legno, proprio come si fa da noi con il lardo o con la carne di maiale».
Marina Montesano riporta affermazioni ricondotte ad A. Vespucci, prese dall’operetta conosciuta come Mundus Novus, che introduceva in Europa le prime nozioni circa le magnifiche scoperte del nuovo continente misterioso. In esse Amerigo Vespucci parla delle pratiche di cannibalismo incontrate fra gli indigeni “tupi” della costa settentrionale del Brasile. Poi commenta: “Sebbene rimanga difficile dire in quale idioma Vespucci possa aver conversato con l’insaziabile cannibale, di tali pratiche aveva già parlato Cristoforo Colombo e altrettanto faranno viaggiatori posteriori, con dati e narrazioni molto precisi, al punto che difficilmente si può prendere le loro affermazioni soltanto come stereotipi della ‘barbarie’ dei locali.”
La testimonianza più nota, tuttavia, é quella del tedesco Hans Staden, al servizio dei portoghesi, che sarebbe stato rapito nel 1552 nelle foreste amazzoniche e tenuto prigioniero in attesa di essere mangiato, riuscendo però a fuggire e a scrivere le proprie memorie per un pubblico “avido di dettagli, al contempo esotici e macabri”. Staden scrisse copiosamente dell’apprezzamento dei “tupi” per la carne umana. Nel suo racconto la ritualità dell’atto e dei preparativi connessi è evidente. Il carnefice, pur non consumando la carne della vittima, dopo lo squartamento ne distribuiva un pezzo per ogni casa. Le danze e i canti per tutta la notte, inoltre, sono i complementari elementi rituali.
Quando il tedesco rifiuta di assaggiare la carne umana, che il capo avrebbe voluto offrirgli, dicendo che nemmeno gli animali mangiano quelli della propria specie, questi gli risponde: «Io sono un giaguaro e questa carne è buona».
In questi giorni di distruzione globale della foresta amazzonica, viene spontaneo chiedersi. Che fine stiano facendo i pochi giaguari sopravvissuti e che fine faranno i pochi uomini e donne indigeni rimasti ?
Lungi dall’essere soltanto una battuta, la frase del capotribù è di sicuro interesse antropologico, giacché rinvia a un’appartenenza totemica ciò che per un europeo costituisce l’appartenenza a una specie.
Tuttavia, come già scritto in precedenti articoli, pubblicati anch’essi su Nuovatlantide, il significato dell’identificazione totemica con animali e piante) equivale all’identificazione dell’intero clan o dell’intera tribù (che raggruppa più clan familiari) con l’essere vivente, che condivide tutti gli aspetti e la caratteristiche dello stesso contesto ecologico, contribuendo a qualificare i singoli ambienti di vita.
Rimanendo in tema di ‘totem’, nonostante le buone ragioni fornite dalla psicanalisi e dall’antropologia, per gli europei del passato e del presente il cannibalismo resta un ‘tabù’ quasi assoluto. Marina Montesano, riportando un sentire comune, scrive ancora che come “simbolo della barbarie il cannibalismo è il segno dell’alterità assoluta”.
Tuttavia, possiamo essere sicuri che la nostra specie Homo Sapiens, soprattutto nel suo prototipo occidentale, tanto esaltato dai vari Trump, Putin, Jhonson, Bolsonaro, Orban, Salvini, Erdogan (sebbene più asiatico) e dai rispettivi imitatori, ammiratori e seguaci, sia totalmente “immune” dal cannibalismo ? Si può pensare, ad esempio, che Bolsonaro stia desiderando di vedere “arrostiti” tutti gli animali dell’Amazzonia: soprattutto le popolazioni indigene, di cui ha dichiarato che «puzzano e ostacolano l’espandersi dell’agricoltura industriale» ? Si può pensare che quest’ultimi siano trattatati alla strega di ‘nemici’, i cui corpi possono essere dati in pasto agli amici imprenditori dediti all’agro-business ? (2)
Tornando a Marina Montesano, ella scrive che il francescano Giovanni di Pian del Carpine, viaggiando in Asia verso la metà del Duecento, parla del cannibalismo funerario dei tibetani. Poi cita Marco Polo, che circa l’isola di Sumatra (Indonesia) scrive di «genti bestiali, che catturano volentieri gli uomini per cibarsene»; ne descrive anche la patrofagia, ossia il costume di mangiare gli anziani (dopo averli soffocati) in un banchetto di allegra compagnia, mangiando dell’essere umano tutto, compreso il midollo racchiuso nelle ossa, cosicché non resti proprio nulla della sua sostanza».
Tuttavia, penso che ancora oggi nella nostra cultura occidentale, sebbene in modalità sublimata, forme di cannibalismo sono ancora oggetto di forte attenzione emotiva. Sappiamo che, soprattutto in amore, spesso il partner maschile dichiara all’amata di volerla «mangiare tutta»..
Inoltre, la nostra cultura europea é stata ispirata sia da Dante Alighieri sia dal Boccaccio, che in forme diverse nelle loro scritture sublimano letterariamente forme di cannibalismo, per far capire che l’essere umano (soprattutto se di sesso maschile) manifesta un forte desiderio di possesso nei confronti della donna.
Questi casi introducono una nozione importante: il cannibalismo più in generale ha la funzione di assimilare qualcosa dell’altro, che si tratti di un nemico, amico o parente o donna amata.. La loro forza, la loro anima animale e, quindi naturale (ovvero appartenente alla comune biosfera), magari un semplice desiderio di rivalsa, sono resi propri da colui che sia ritualmente sia virtualmente mangia (o offre in pasto porzioni del proprio corpo). (1)
NOTE:
– Tali nozioni possono introdurre un tema peculiare della letteratura e della favolistica, quello del cuore mangiato, che ha una straordinaria diffusione geografica (Nord della Francia, area occitana, Germania) e cronologica.
Nel caso di Bolsonaro si potrebbe parlare anche di caso psicanalitico !
tonigaeta
Studioso in Scienze Politiche, Psicanalitiche e Antropologiche - Master in Counseling Professionale - Autore del romanzo storico "Oleg di Novgorod", venduto anche a Mosca.
Una cultura di morte (prima parte) Ricognizioni
L’articolo di Kathy Clubb1 è stato pubblicato su The Freedoms Project2 il 25/06/19 con il titolo “The real ‘face of the Amazon’: a culture of death”. Lo pubblichiamo nella traduzione di Marco Manfredini.
Kathy Clubb
26 luglio 2019
https://www.ricognizioni.it/il-vero-vol ... ima-parte/Infanticidio e suicidio fanno parte tradizionalmente della cultura in molte zone della regione amazzonica. Per quale motivo quindi l’Instrumentum Laboris (IL) del Sinodo di ottobre invita la Chiesa Cattolica ad assumere un “volto amazzonico”?
Il Sinodo si focalizzerà su un gruppo di paesi che circondano il bacino amazzonico dell’America Latina: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana Francese, Perù, Venezuela e Suriname. Nell’annunciare il Sinodo, Papa Francesco ha chiamato la chiesa a “trovare nuove vie per evangelizzare quella parte di popolo di Dio, specialmente indigena, spesso dimenticata e senza la prospettiva di un futuro di pace”. Quello che il Papa e i suoi collaboratori dimenticano di menzionare è che, oltre alle sofferenze causate dallo sfruttamento da parte di grandi aziende, sono le comunità stesse causa di questa mancanza di pace. Mentre particolare attenzione è data all’”ecocidio”, non si fa menzione di infanticidio, suicidio o parricidio, i quali fanno parte del tessuto vitale in Amazzonia.
Il Sinodo in arrivo a ottobre è stato causa di preoccupazione già dal suo documento preparatorio pubblicato nel 2018, con i suoi richiami a una “conversione ecologica” e all’ordinazione femminile. Da allora, la suggestione che le ostie potessero essere fatte di yuca anziché di farina di grano (rendendo quindi invalido il sacramento), ha fortunatamente perso credito. Ora che il documento di lavoro (IL) è stato reso noto, molti motivi di preoccupazione rimangono: il focus sull’ecologia integrale e l’eco-teologia, la promozione della teologia indiana (propaggine dell’eretica teologia della liberazione), e il tema ricorrente che la Chiesa avrebbe molto da apprendere dalla spiritualità pagana.
Sono stati scritti molti buoni articoli che evidenziano le minacce del Sinodo verso il celibato ecclesiastico, l’esclusiva ordinazione al sacerdozio di uomini, l’integrità dottrinale, perciò questo articolo si concentrerà sulle pratiche tribali contrarie alla vita in uso nella regione Pan-amazzonica. Secondo i documenti finora conosciuti il moderno colonialismo occidentale è accusato per l’aumento degli aborti, delle violenze famigliari e per l’uso delle droghe nell’area. Non si fa riferimento alla tradizionale accettazione di queste pratiche anti-vita nella cultura amazzonica.
INFANTICIDIO IN AMAZZONIA
È difficile stabilire il numero preciso di infanticidi commessi nella regione, visto che molti casi non vengono riportati, e molti sforzi per indagare vengono ostacolati dalla teoria politica per cui qualsiasi intervento esterno è visto come “imperialista”, “colonialista” e “patriarcale”. I relativisti culturali sostengono che le popolazioni indigene debbano essere protette dall’essere perseguite dalla legge per l’attuazione di pratiche quali infanticidio ed eutanasia, e disapprovano qualsiasi tentativo di scoprire quanti bambini e adulti vengono in questo modo uccisi. Costoro affermano che la raccolta di dati “rappresenta in ogni caso un tentativo di incriminare ed esprimere un pregiudizio contro i popoli indigeni”, ed è una nuova forma di colonialismo.
Secondo un articolo del 2018, circa venti gruppi tribali brasiliani su un totale di trecento praticano l’infanticidio, e si stima che circa un centinaio di bambini venga ucciso ogni anno.
Uno studio sull’infanticidio tra la tribù brasiliana degli Zuruahá getta luce sulla filosofia alla base della pratica. Osserva che l’infanticidio è stato tollerato storicamente per diverse ragioni: come mezzo per liberare le comunità tribali, che vivevano in condizioni molto dure, del peso di prendersi cura dei membri più deboli o per assicurarsi che le madri fossero in grado di accudire adeguatamente i figli già avuti. Così gemelli, disabili o malati venivano uccisi (e vengono ancora uccisi) dopo la nascita. E se una madre muore durante il parto, anche il neonato spesso viene soppresso.
Anche la superstizione gioca tutt’oggi un ruolo in queste culture dell’America Latina contemporanea. I nati albini vengono considerati malvagi e vengono uccisi una volta scopertane la condizione. Nello studio si fa l’esempio di una famiglia della tribù Kuikúru che ha ucciso tre bambini affetti da albinismo. A un figlio avuto in precedenza, anch’egli affetto dalla malattia, era stato permesso di vivere solo perché i genitori pensavano che avrebbe cambiato colore crescendo.
Anche le norme sociali conducono all’infanticidio: i bambini nati da madri non sposate vengono solitamente uccisi, e viene comunemente accettata l’uccisione di un figlio del sesso non voluto (solitamente femmine, vista la preferenza per i maschi). Un’altra tribù consente l’infanticidio dopo quattro fratelli dello stesso sesso, indipendentemente da quale sia.
Questo testo sulla tribù Yanomámi spiega come giustificano l’infanticidio: “Le donne Yanomámi hanno piena autonomia nel decidere se i propri figli dovevano vivere o no. La madre si ritira nella foresta per dare alla luce il figlio, ma se non lo accoglie tra le braccia dopo la nascita è come se non sia mai venuto al mondo. Quindi si può dedurre che in quella cultura c’è una ‘nascita post-parto’, in altre parole un atto di ‘nascita culturale’: quando la madre non riconosce il neonato, non lo tocca e lo abbandona nella foresta. In questo modo il bambino è come se per la comunità non fosse nato”.
Un altro esempio mostra come queste pratiche si svolgono nella vita reale. L’episodio seguente ha luogo all’interno della tribù Surawaha, dove la famiglia Suzuki esercitava la missione cristiana negli anni ’90. I Surawaha non avevano avuto contatti con il mondo esterno fino agli anni ’70. “Ad un certo punto, durante la permanenza dei Suzuki tra i Surawaha, la tribù decise che due bambini, i quali sembravano avere problemi di crescita, dovessero morire. I genitori, piuttosto di uccidere i due figli, si suicidarono. La tribù allora seppellì vivi i due bambini, secondo la consuetudine (dice Suzuki). Una dei due, una ragazza di nome Hakani, riuscì a sopravvivere al calvario, ma la comunità decise di lasciarla morire di fame. Suo fratello maggiore la tenne in vita per qualche anno, fornendole i suoi avanzi di cibo di contrabbando, arrivando infine a portarla ai piedi dei Suzuki”.
I Suzuki adottarono la ragazza, una mossa che sollevò la questione della tolleranza all’infanticidio del Brasile a livello internazionale. Tolleranza che è alimentata dal supporto di celebrità hollywoodiane, alcune delle quali hanno adottato la causa culturale delle pratiche di morte quasi allo stesso modo in cui hanno adottato la causa dell’aborto legale. Questi relativisti culturali possono contare su accademici, eticisti ed antropologi a supporto delle loro convinzioni. Ad esempio, un antropologo dell’università di Brasilia descrive la giustificazione dell’infanticidio da parte dei nativi in questo modo: “Un bambino indigeno, appena nato, non è una persona. Lui o lei subirà un lungo processo di personalizzazione fino ad acquisire un nome, e con questo lo status di persona. Perciò, i casi molto rari in cui i neonati non vengono inseriti nella vita sociale della comunità non possono essere considerati come morti, in quanto non lo sono. Infanticidi, poi, non saranno mai”.
IL SUICIDIO È “IL PIÙ ALTO TRA TUTTI VALORI”
Lo studio sull’infanticidio tra gli Zuruahá menziona anche il suicidio come questione correlata, siccome molti genitori i cui figli sono condannati a morte dalla comunità preferiscono commettere suicidio piuttosto che vedere uccisi i propri figli. Per l’occidentale medio, che non mette in questione la protezione della propria progenie, questa pratica appare estremamente aberrante e irresponsabile. Ma diventa più facile da capire quando viene spiegata la devozione tribale al suicidio:
“Il suicidio tra gli Zuruahá presenta caratteristiche storiche e religiose, oltre che crisi e tensioni sociali. Viene visto come una forma di esistenza umana, al punto che solo attraverso la morte è possibile raggiungere la vera esistenza. Gli indiani dicono che l’esistenza acquista senso solo se ha come scopo il suicidio. Le loro linee guida per comprendere la vita indicano che il suicidio è il più alto di tutti i valori.
La filosofia Zuruahá dice che ci sono solo due strade per condurre al fine l’esistenza umana: la prima tramite il suicidio per avvelenamento, chiamato kunaha, che conduce al paradiso chi ha ingerito il veleno […]. I loro riti, canti e preghiere si riferiscono a questo e conducono a questa vera esistenza. La seconda strada porta alla morte per vecchiaia, ma questa è considerata oggi ardua…
Data questa interpretazione della vita umana, attendere di diventare vecchi non è sinonimo di saggezza. Per tale ragione, in questa cultura, i vecchi non godono dello status di uomini saggi e venerabili, come comunemente avviene tra altre comunità indigene. Qua vengono chiamati hosa, una parola che significa “inutili”, “esauriti”. Inoltre, molti di essi hanno alle spalle tentativi di suicidio non riusciti. Al fine di evitare un futuro di dolore e disprezzo in vecchiaia, i bambini iniziano molto presto a vivere considerando la possibilità di suicidarsi. Nei loro giochi, ragazzi e ragazze fingono di morire e si immaginano come sarà il loro funerale. Tutti sanno come usare il timbó, una specie di liana che contiene un veleno mortale, e ne considerano l’utilizzo come un atto di coraggio. Per questa ragione “i genitori vivono nella convinzione che un giorno i loro figli berranno veleno”.
Statistiche raccolte sulle tribù tra il 2003 e il 2005 mostrano che circa un sesto della popolazione ha commesso suicidio in quel periodo (vi sono anche due casi di infanticidio). Questa visione pagana della vecchiaia e della morte, unita all’assenza di una comprensione della vita umana come valore intrinseco, contraddice i numerosi riferimenti nell’IL riguardo alla “saggezza ancestrale”.
CANNIBALISMO
Una delle usanze più sconvolgenti trovate in Amazzonia è il cannibalismo rituale. Ciò è ben documentato, essendo praticato dalle tribù Yanomami e Wari’. Secondo il sito di TFP6: “Un’usanza primitiva di questo gruppo etnico è il cannibalismo rituale. In un rito funerario sacro e collettivo, cremano il corpo del parente morto e ne mangiano le ceneri delle ossa, mescolandole con la pasta pijiguao, fatta con il frutto di una specie di palma. Credono che l’energia vitale del defunto risieda nelle ossa e venga con questo rituale reintegrato nel gruppo di famiglia. Allo stesso modo, uno Yanomami che uccide un avversario in territorio nemico pratica questa forma di cannibalismo per purificare sé stesso”.
In modo simile, le tribù Wari’ del Brasile mangiavano la carne dei propri vecchi morti e dei propri nemici, fino alla fine del ventesimo secolo. L’endocannibalismo (il cibarsi degli appartenenti alla propria tribù) era visto come un rito funerario, a riprova che il deceduto fosse veramente passato dalla terra. Per gli Wari’ non si trattava di cannibalismo, visto che i membri morti della tribù erano trascesi nell’”altro”. Per contrasto, l’esocannibalismo veniva affrontato con entusiasmo anziché rispetto, come segno di dominazione su una tribù più debole.
È interessante notare come Paul Erlich, autore del libro The Population Bomb e uno dei più grandi sostenitori del controllo della popolazione, ha annunciato nel 2014 che la sovrappopolazione e la scarsità di risorse finiranno per spingere gli esseri umani affamati al cannibalismo. Erlich è stato ospite alla Pontificia Accademia delle Scienze del Vaticano in una conferenza del 2017 sull’estinzione biologica, con grande disappunto dei fedeli cattolici di tutto il mondo.
L’USO DI DROGHE FA PARTE DELLE RELIGIONI TRIBALI
In tutto l’IL i mali sociali come la violenza sulle donne e il traffico di droga sono costantemente attribuiti all’industria estrattiva e ai mega progetti. Ma è falso affermare che i progetti moderni sono l’unica causa di tali mali. La violenza contro le donne fa parte della cultura tribale di molte di queste comunità, e l’utilizzo di droghe nei rituali di guarigione spirituale è pratica comune. Di fatto, una nuova industria è sorta attorno alla cultura delle droghe allucinogene, l’ayahuasca7, tanto che stranieri si affollano per provare l’esperienza di alterazione mentale che queste producono. Si sono verificati molti tragici casi in cui turisti, sotto l’influenza dell’ayahuasca, hanno assassinato amici e colleghi8.
Nonostante l’uso diffuso di questi allucinogeni nelle “cure di assistenza sanitario-spiritica”, l’IL suggerisce che:“I rituali e le cerimonie indigene sono essenziali per la salute integrale perché integrano i diversi cicli della vita umana e della natura. Creano armonia ed equilibrio tra gli esseri umani e il cosmo. Proteggono la vita dai mali che possono essere causati sia dagli esseri umani che da altri esseri viventi. Aiutano a curare le malattie che danneggiano l’ambiente, la vita umana e altri esseri viventi” (IL, 87).
Qua c’è un po’ della tradizionale medicina amazzonica ayahuasca, dal sito del “Tempio della Via della Luce”:
L’uso dell’ayahuasca è largamente diffuso e rappresenta la base della pratica di medicina tradizionale per almeno 75 diverse tribù attraverso l’alta e bassa Amazzonia.
Tradizionalmente, l’uso di ayahuasca nelle pratiche di guarigione in Amazzonia è limitata ai guaritori, che la usano come strumento diagnostico per una varietà di compiti che riflettono una serie di valori culturali e psicologici molto diversi da quelli che conosciamo in occidente.
L’ayahuasca non viene presa direttamente dai pazienti, che assistono semplicemente alla cerimonia per ricevere la diagnosi e le successive cure. Identificando la causa della malattia (sfortuna e stregoneria, per esempio), e risolvendo il danno energetico causato dalla gelosia e dall’invidia, i guaritori indigeni riconoscono il potere distruttivo delle emozioni umane negative e il loro impatto non solo sull’individuo ma sulla salute dell’intera comunità.
L’ayahuasca è usata dai guaritori anche per altri scopi: aiutare a prendere decisioni importanti, chiedere consiglio agli spiriti, risolvere conflitti personali, tra famiglie e comunità, esercitare le proprie capacità divinatorie, chiarire misteri, furti e sparizioni, scoprire se abbiamo nemici e sapere se un coniuge è infedele.
L’ayahuasca viene anche usata per prescrivere trattamenti ai pazienti, guidando il guaritore nella somministrazione di ikaros[canti rituali di guarigione, ndt] e rimedi vegetali. Ma non è l’unico “spirito vegetale” coinvolto. L’Ayahuasca lavora tramite il guaritore in combinazione con una pletora di altri dottori dello “spirito vegetale” per fornire un trattamento. Essa è solo uno dei nodi all’interno di un sistema molto più ampio di assistenza sanitaria “spiritizzata” in Amazzonia. La guarigione tradizionale amazzonica offre soluzioni a malattie e disturbi che tipicamente non possono essere trattati con la medicina convenzionale.9
Quindi, lungi dall’essere una semplice questione di integrare la tradizionale medicina erboristica nell’assistenza sanitaria contemporanea, diventa ovvio che è impossibile separare gran parte della medicina popolare dell’Amazzonia dai propri rituali pagani e dall’utilizzo della divinazione e della stregoneria. Accoppiata all’uso di allucinogeni, questa diventa una proposta pericolosa, che presenta rischi per la salute fisica e spirituale dei pazienti.
Ma invece di lanciare un avvertimento sui pericoli che si corrono dilettandosi in pratiche occulte, l’IL raccomanda di emulare queste famiglie tribali, dove “[…] si impara a vivere in armonia: tra i popoli, tra le generazioni, con la natura, in dialogo con gli spiriti” (IL, 75).
E nel caso ci sia qualche dubbio sulla natura del potere di cui si servono questi sciamani pagani, il seguente esempio servirà da promemoria. Un missionario olandese ha raccontato la storia di un sacerdote mandato nella regione Amazzonica a predicare il Vangelo. Fu affrontato in diverse occasioni da uno stregone locale, il quale: “Aveva il potere di spostarsi in un modo incomprensibile, lasciando che il buon padre scendesse dal fiume da solo per incontrarlo di nuovo molto più a valle, insultandolo copiosamente nel suo dialetto nativo. Il missionario non aveva alcun dubbio sull’esistenza del demonio e sapeva da quale tipo di malignità stava cercando di convertire gli indiani”.10
1Kathleen Clubb è una donna australiana attiva nel mondo pro-life da sei anni. Coordinatrice in Melbourne di Family Life International, fondatrice dei siti Light up the Darkness e di The Freedom Project, con cui porta avanti le sue battaglie. É stata coinvolta in un contenzioso costituzionale per aver violato la legge del 2015 della Victoria che vieta di protestare in un raggio di 150 metri dalle cliniche abortive, condannata e sanzionata. Ha istruito in home-schooling i suoi ultimi sei figli (su tredici!) e considera la sua famiglia la sua attività pro-life più importante.
2
https://www.thefreedomsproject.com/item ... e-of-death3
https://foreignpolicy.com/2018/04/09/th ... fanticide/4
https://www.disciplenations.org/infanticide/5
http://www.scielo.br/scielo.php?script= ... 00005000026https://www.tfp.org/a-mission-that-baptized-no-one-in-fifty-three-years-the-flawed-evangelization-model-of-the-pan-amazonian-synod/
7 Da wikipedia: “L’ayahuasca (aya-wasca, letteralmente “liana degli spiriti” o “liana dei morti” in lingua quechua), spesso detta anche, a seconda dei paesi di provenienza: Yage, Hoasca, Daime, Caapi; è un infuso psichedelico a base di diverse piante amazzoniche in grado di indurre un effetto visionario oltre che purgante”.
8
https://www.abc.net.au/news/2018-04-23/ ... er/96881189
https://templeofthewayoflight.org/shama ... shamanism/10https://panamazonsynodwatch.com/anticolonialism-and-pagan-spiritualities-in-the-preparatory-document-for-the-amazon-synod/
Altri indios cannibali della terraPapua Nuova Guinea | La tribù dei Korowai, gli ultimi cannibali del pianeta
Linkiesta.it
Antonio Murzio
ottobre 2015
https://www.linkiesta.it/2015/10/la-tri ... l-pianeta/Il primo contatto documentato con il mondo esterno è avvenuto con un un gruppo di scienziati nel marzo 1974. Fino ad allora, gli appartenenti alla tribù Korowai, 2500 abitanti delle foreste pluviali nell’area occidentale della Papua Nuova Guinea, ignoravano l’esistenza di altri popoli sulla terra. L’ambiente in cui i Korowai hanno vissuto per millenni è un’area di 600 Kmq, caratterizzata da pianure acquitrinose e dalla minacciosa presenza di due fiumi di cui frequenti e disastrose sono le inondazioni. Popolo di cacciatori-raccoglitori organizzato in clan, proprio per la possibilità di scontri tra clan rivali, hanno sviluppato un particolare tipo di abitazione, che si colloca ad altezze variabili dal suolo, che può arrivare fino ai 45 metri. Le case sull’albero sono costruite a gruppi di due o tre in una radura, resistenti a sufficienza per accogliere famiglie numerose, anche di 10 e più componenti, con animali ed effetti personali.
Difendersi dagli attacchi da clan rivali voleva dire proteggersi dal cadere in schiavitù o addirittura essere vittima di cannibalismo, pratica di cui sono rimasti l’unico popolo tra il quale l’antropofagia sarebbe ancora diffusa. Nel maggio 2006 una troupe televisiva australiana, guidata da Paul Raffaele, ha documentato la vita quotidiana del popolo Korowai, proprio dopo che il giornalista era stato avvicinato da un appartenente alla tribù che aveva raccontato che la sua nipotina di sei anni era stata accusata di stregoneria ed era in pericolo di essere cannibalizzata.
I Korowai sono tra i pochissimi popoli su cui si è addensato per anni il sospetto di cannibalismo, anche se gli antropologi ormai pensano che sia una pratica ormai inesistente, Raffaele è stato il primo uomo occidentale ad attraversare il confine con il territorio inesplorato dei clan Korowai. Mentre le comunità a valle sono stati esposte alla cultura occidentale, infatti, quelle più a monte ancora vivono in gruppi isolati e continuano a praticare le loro abitudini millenarie. Nemmeno la polizia indonesiana si era mai avventurata in quelle zone.
Il primo contatto documentato con il mondo esterno è avvenuto con un un gruppo di scienziati nel marzo 1974. Fino ad allora, gli appartenenti alla tribù Korowai, 2500 abitanti delle foreste pluviali nell’area occidentale della Papua Nuova Guinea, ignoravano l’esistenza di altri popoli sulla terra
Paul Raffaele trascorse diverse notti dormendo a pochi centimetri di distanza da alcuni degli ultimi cannibali sulla terra. Racconta il giornalista: «Sono riuscito a superare la loro diffidenza iniziale grazie alla mia guida Kornelius, originario di Sumatra. Lui si era recato a visitare i Korowai dieci anni prima, interessato a conoscerli. Lo avevano sottoposto a una prova per decidere se dovevano permettergli di rimanere o meno. Una notte gli hanno dato un pacco di carne e gli hanno detto che era carne umana. Se l’avesse mangiata, avrebbe potuto restare con loro. Se non l’avesse fatto, allora sarebbe dovuto andar via. La mangiò e così è stato accettato».
Paul Raffaele è stato il primo uomo bianco, però, a spingersi così oltre: «Il nostro piano era quello di visitare il clan Letin, che non aveva mai visto un estraneo prima. Anche Kornelius non era andato così lontano per paura di essere ucciso. Siamo caduti in un’imboscata. Eravamo in viaggio sul fiume Ndeiram in piroga, una canoa ricavata da un tronco d’albero, quando ci siamo imbattuti in una folla di uomini nudi che brandivano archi e frecce». Il racconto prosegue: «Non ci aspettavano e allora hanno deciso di attaccarci. Stava calando il buio, urlavano contro di noi. Per fortuna Kornelius parlava Korowai. Hanno detto che avevamo contaminato il dio del fiume. Ce la siamo cavati con una specie di sanzione».
E il cannibalismo? «Per i Korowai – spiega Paul – se qualcuno cade da una casa sull’albero o viene ucciso in battaglia, allora la causa della loro morte è evidente. Ma non capiscono microbi e germi (dei quali le foreste pluviali sono piene), così quando qualcuno muore per loro misteriosamente (in realtà di malattia), credono che sia a causa di un khakhua, un uomo strega che viene dal mondo degli inferi. Il khakhua possiede il corpo di un uomo (non può mai essere quello di una donna) e comincia a mangiare magicamente il loro interno. Secondo la loro logica, devono mangiare il khakhua come lui ha mangiato la persona che è morta. È il loro “sistema giudiziario”, basato sulla vendetta.
“Ti piacerebbe vedere il cranio dell’ultimo uomo che abbiamo ucciso? Noi lo conoscevamo bene, era un buon amico”. Ho detto di sì e ci hanno portato fuori. L’hanno consegnato a me, non volevo toccarlo, ma non ho avuto molta scelta. Avevano tagliato la parte superiore del cranio per arrivare al cervello, la loro parte preferita
Il giornalista australiano descrive poi il suo arrivo: «Era notte quando siamo arrivati nel villaggio. Eravamo in una capanna che si affaccia sul fiume, seduta da un piccolo falò. Due uomini si avvicinano attraverso l’oscurità. Hanno detto: “Ti piacerebbe vedere il cranio dell’ultimo uomo che abbiamo ucciso? Noi lo conoscevamo bene, era un buon amico”. Ho detto di sì e ci hanno portato fuori. L’hanno consegnato a me, non volevo toccarlo, ma non ho avuto molta scelta. Avevano tagliato la parte superiore del cranio per arrivare al cervello, la loro parte preferita».
«Trattano la carne umana come noi occidentali facciamo con la carne di maiale. Avevano tagliato le gambe separatamente, poi le avevano avvolte in foglie di banano. Poi la testa, che spetta alla persona che ha trovato il khakhua. Poi hanno tagliato il braccio destro e le costole a destra come un unico pezzo e la sinistra come un altro. Mangiano tutto, tranne i capelli, le unghie, e il pene. I bambini sotto i 13 non sono autorizzati a mangiare, perché credono che, mangiando il khakhua per loro è molto pericoloso, ci sono spiriti maligni e i bambini sono troppo vulnerabili».
Quindi tra i Korowai il cannibalismo è praticato ancora oggi? «Non posso rispondere perché non sono stato di nuovo in questi ultimi anni anni. Ho parlato con Kornelius, la mia guida. Dice di sì, che nelle regioni più interne è ancora pratica comune. I clan più a monte stanno ancora praticando khakhua», conclude il giornalista-antropologo australiano.