Fascismo e AfricaL’impero e l’economia«Africa Italiana», febbraio-marzo 1942.
https://storicamente.org/gagliardi_colo ... a_fascismo Nelle dichiarazioni pubbliche, nei documenti ufficiali e nelle direttive emanate dal governo fascista dopo la proclamazione dell’impero, il 9 maggio 1936, non si rintraccia l’esistenza di alcun piano generale per la «valorizzazione» (termine anodino con cui si intendeva lo sfruttamento dei possedimenti) dei possedimenti africani. Anche la propaganda, a parte l’indicazione di alcuni specifici obiettivi, insistette su formule generiche, come quella dell’«impero del lavoro» o della colonia come spazio ideale per la formazione dell’«uomo nuovo» fascista, frugale, guerriero e consapevole della propria superiorità razziale [Mondaini 1937; Pes 2007][1]. Non si trattava solo di scelte retoriche. Al momento dell’avvio delle operazioni militari contro l’Etiopia non c’era alcun programma preciso su cosa l’economia della nuova colonia sarebbe dovuta diventare dopo la conquista, né una precisa quantificazione preventiva della sostenibilità dei costi e dei vantaggi attesi [Labanca 2002b, 279]. Ancora all’indomani della proclamazione dell’impero, Mussolini faceva affidamento sul volontarismo e sullo «spirito fascista» più che su una ponderata programmazione:
Il territorio dell’Etiopia – dichiarò nel luglio 1936 – è oggi così vasto e le sue risorse così poco note che sarebbe impossibile fare un calcolo realistico degli anni necessari perché renda. L’impresa certamente richiederà parecchi decenni. Tuttavia, noi marceremo, come sempre, rapidamente e, dopo pochi anni, i risultati della volontà e del lavoro italiano diventeranno visibili. In questo compito saremo animati dallo spirito e dal metodo fascista che hanno creato un ordine nuovo [Mussolini 1936b, 25].
Sarebbe tuttavia sbagliato confondere impreparazione, scarsa conoscenza e mancata pianificazione con un disinteresse per lo sfruttamento economico dei territori coloniali. Il regime fascista si mostrò infatti disponibile a mettere in campo interventi statali e investimenti pubblici nell’oltremare decisamente più elevati di quelli realizzati dai governi del passato.
Il presente contributo intende offrire una panoramica delle modalità di funzionamento e dei risultati conseguiti dalle politiche di valorizzazione del colonialismo fascista in relazione ai diversi obiettivi da questo perseguiti; obiettivi che sostanzialmente corrispondevano con quelli delle tradizionali politiche imperialiste. Ci si concentrerà sull’esperienza coloniale dell’Africa orientale italiana (Aoi) – che riuniva due vecchie colonie italiane in Africa, Somalia ed Eritrea, e la più recente conquista, l’Etiopia – e si prenderà in esame il funzionamento dell’economia italiana, lasciando quindi sullo sfondo i riflessi sulle attività economiche e sull’organizzazione sociale delle colonie.
Il colonialismo demografico
L’obiettivo indicato con maggiore enfasi fu la colonizzazione demografica, nella quale il regime vedeva una soluzione per il problema della disoccupazione, soprattutto agricola, e dell’assorbimento della crescita naturale della popolazione. Si trattava di un’aspirazione non nuova, che da Crispi in poi aveva occupato un posto rilevante nei circoli coloniali italiani: un’aspirazione, però, rimasta fino a quel momento sulla carta. Alla metà degli anni Trenta, in Somalia ed Eritrea, sotto il dominio italiano da oltre un quarantennio, gli insediamenti di coloni risultavano ancora estremamente modesti, nonostante i tentativi realizzati soprattutto in territorio eritreo [Negash 1987: 33-37]. La stessa Libia, oggetto di un ambizioso progetto di colonizzazione, non aveva visto realizzarsi le condizioni per divenire un punto di arrivo di grandi masse di italiani. Il colonialismo demografico annunciato dal fascismo intendeva quindi porsi in forte discontinuità con la reale situazione dei possedimenti acquisiti dai governi liberali.
Fu proprio Mussolini a insistere, al momento dell’inizio dell’aggressione all’Etiopia, sulla volontà di creare una nuova Italia oltremare, composta di centinaia di migliaia di coloni che avrebbero trovato lavoro e benessere senza sottrarre alla patria forze giovani e vitali. L’obiettivo della conquista, disse, era garantire «la possibilità di espandersi per un popolo prolifico, il quale, avendo coltivato il coltivabile sulla propria terra spesso ingrata, non si rassegna a morire di fame» [Mussolini 1935a, 138]. La guerra, dichiarò poi in un’intervista al «Paris soir», aveva l’obiettivo di garantire al popolo italiano «il riconoscimento del suo preciso diritto: quello di vivere»: «Al mio primo segnale i nostri soldati dell’Africa Orientale scambieranno di buon grado il fucile con la zappa. Essi non chiedono che di lavorare per poter sostenere le loro famiglie, alle quali inviano già, con un meraviglioso spirito di risparmio, le loro modeste economie» [Mussolini 1935b, 162]. E ancora, nell’agosto 1936, alcuni mesi dopo la proclamazione dell’impero: «hanno diritto all’impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più stretto della parola» [Mussolini 1936c, 30].
L’obiettivo del colonialismo demografico era dirottare verso i possedimenti oltremare la più alta quota possibile di flussi migratori precedentemente diretti verso l’estero, per mettere fine, una volta per tutte, alla lunga storia degli italiani popolo di emigranti [Labanca 2002a, 194]. Con la conquista dell’Etiopia, secondo i teorici del colonialismo, si poteva realizzare il progetto, fallito in Libia, di un colonialismo marcatamente «popolare», e dare vita a un impero del lavoro» [Fossa 1938].
La colonizzazione demografica si legava strettamente, nei progetti del fascismo, alla valorizzazione agraria. In concreto, il progetto della «colonia di popolamento» ricalcava, nelle linee generali, quello di colonizzazione interna messo in atto con le grandi bonifiche degli anni Trenta. Esso prevedeva l’acquisizione da parte del governo dei terreni, il loro inserimento nel demanio pubblico e la successiva assegnazione agli apparati – come il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione, l’Opera nazionale combattenti, l’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale e gli enti regionali di colonizzazione – cui era assegnato il compito della colonizzazione. Lo Stato avrebbe dovuto sostenere l’operazione fornendo incentivi, credito speciale, premi e sussidi per favorire la bonifica e la colonizzazione da parte delle famiglie assegnatarie dei terreni [Ipsen 1997, 164].
La realizzazione di questo programma iniziò presto. Già nell’ottobre 1935, al momento dello scoppio delle ostilità, migliaia di lavoratori – sotto il controllo del Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna – si trasferirono in Etiopia al seguito delle truppe, per iniziare la costruzione delle opere pubbliche con cui predisporre la colonizzazione [Gallo 2015: 142-145]. All’indomani della proclamazione dell’impero le autorità coloniali impressero una forte accelerazione, rifuggendo da approcci più graduali e calibrati sugli effettivi contesti locali[2]. L’afflusso di lavoratori italiani nei possedimenti da allora crebbe costantemente, anno dopo anno, a ritmi, però, sempre ben lontani da quelli previsti e sperati. Da subito infatti la colonizzazione demografica incontrò diversi ostacoli.
Innanzitutto, i progetti del fascismo si dovettero scontrare con la dura realtà della mancata pacificazione dell’Etiopia: in ampie porzioni del territorio rimase attiva una vasta e combattiva resistenza, che costrinse il governo italiano a proseguire le ostilità ben dopo la proclamazione dell’impero, con un minor spiegamento di forze ma con un ulteriore imbarbarimento dei combattimenti[3]. Ampie zone dei territori dell’Aoi sfuggivano quindi al pieno controllo delle autorità coloniali, e risultavano quindi di fatto indisponibili per i progetti di valorizzazione economica: gli italiani furono a lungo padroni soltanto dei centri abitati e delle linee di comunicazione, mentre nella campagna imperversavano, nonostante i continui rastrellamenti, i gruppi della resistenza etiope [Del Boca 1982, 126]. Il persistere della guerriglia e le dure azioni di contrasto e repressione praticate dalle forze armate italiane comportavano inoltre una militarizzazione dell’intera vita coloniale, che contribuiva a rendere più ardue le condizioni di vita degli italiani. Nel timore che l’arrivo di masse troppo ampie di coloni potessero rafforzare la ribellione, provocando l’adesione alla resistenza anticoloniale degli etiopi penalizzati dall’arrivo degli italiani, il governo italiano, su esplicita volontà di Mussolini, dal 1938 decise di rallentare il processo di colonizzazione [Podestà 2004, 292].
Lo stesso territorio etiopico, d’altra parte, presentava condizioni che certo non favorivano i progetti del regime: si trattava di una superficie molto vasta, che i geografi del tempo misuravano in circa 900.000 km quadrati (tre volte la superficie dell’Italia), sprovvisto di una rete adeguata di vie di comunicazione e con molte zone difficilmente raggiungibili [Labanca 2002b, 279]. La realizzazione della colonizzazione contadina fu frenata anche dai ritardi e dalle inefficienze con cui l’amministrazione coloniale procedette alla scelta delle aree adatte in cui intervenire e alle procedure di indemaniamento per portare le terre sotto il possesso degli enti incaricati dei progetti di colonizzazione. A determinare questi ritardi contribuirono anche le incertezze delle autorità italiane, e il dubbio, diffuso nelle élite politiche e amministrative del colonialismo fascista, che l’impiego di manodopera proveniente dalla madrepatria, remunerata molto di più di quella locale, avrebbe reso i prodotti più cari e quindi meno competitivi per l’esportazione [Brancatisano 1994; Larebo 1994].
I risultati conseguiti – pur considerando il poco tempo che il governo italiano ebbe a disposizione – furono alla fine estremamente modesti. Nel 1940 secondo i dati diffusi dal regime erano presenti in Aoi circa 300.000 italiani [Labanca 2002a, 199]. Si tratta di una stima non verificabile (il servizio statistico del ministero dell’Africa italiana indicava, solo per i quindici centri principali, un dato equivalente alla metà) [Ipsen 1997, 174], che indica un flusso di popolazione comunque non irrilevante ma ben lontano dagli impegni iniziali, che vagheggiavano un oltremare «popolato da milioni di italiani» [Astuto 1940, 430]. Erano numeri anche molto distanti da quelli che potevano vantare altri sistemi coloniali, in particolare quello francese: basti pensare che la sola Algeria alla metà degli anni Venti contava più di 830.000 bianchi. Inoltre, tra le migliaia di italiani trasferitisi in Aoi nella seconda metà degli anni Trenta, solo una minima percentuale era composta da lavoratori agricoli impiegati nei progetti di colonizzazione. Per la gran parte, infatti, si trattava di lavoratori impegnati nel settore edilizio e nella costruzione di infrastrutture, recatisi in Africa anche solo temporaneamente [Gallo 2015: 151, 201-202; Rosoni, Chelati Dirar 2012], cui si aggiungevano commercianti, professionisti, imprenditori, generalmente residenti nelle maggiori città, per non contare poi le tradizionali figure degli amministratori coloniali, funzionari e tecnici specializzati alle dipendenze dello Stato (agronomi, veterinari, ingegneri, tecnici minerari, tra gli altri). A costoro si sommavano infine i militari, presenti in numero massiccio in conseguenza delle modalità fortemente militarizzate adottate nei rapporti con le popolazioni locali e che trovava ulteriori giustificazioni nella difficoltà a raggiungere un pieno controllo del territorio.
La percentuale di coloni in senso stretto risultava alla fine particolarmente esigua: poche centinaia di famiglie arrivarono in Africa orientale nell’arco di quattro anni, con un picco nel 1938 cui seguì una nuova riduzione (cfr. tab. 1). Insomma, se l’afflusso nelle colonie italiane in Africa fu, nel complesso, deludente, i risultati della colonizzazione demografica e agricola appaiono addirittura irrisori. Le autorità italiane alla fine ne presero atto e tardivamente iniziarono a rivedere i programmi, prima rallentando e poi rimandandone l’attuazione integrale. Indicativo in questo senso è, tra gli altri, un documento del 1940 del vice governatore generale Enrico Cerulli, indirizzato al ministro dell’Africa italiana Attilio Teruzzi, nel quale si proponeva una gestione più «flessibile» dei territori, destinandone solo una parte alla colonizzazione demografica[4].
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Quando il Duce in Africa sguainò la Spada dell'IslamGiancarlo Mazzuca Gianmarco Walch - Dom, 12/03/2017
Giancarlo Mazzuca
con Gianmarco Walch
https://it.wikipedia.org/wiki/Africa_Orientale_ItalianaNel marzo 1937 andò in onda l'apoteosi di Mussolini: il coronamento del suo sogno africano, musulmano e islamico. Tutto si consumò in pochi giorni con la missione del duce in Libia, organizzata minuto per minuto da Italo Balbo, il mitico trasvolatore nominato il 1º gennaio 1934 governatore a Tripoli, che allora si rivelò vincente sul piano politico e propagandistico.
Una vera e propria passerella che Benito concluse, in sella a un cavallo, sguainando la famosa Spada dell'Islam, simbolo dell'autoincoronazione come «protettore dei fedeli di Allah».
Sbarcato il 12 marzo a Tobruk dall'incrociatore Pola, il capo del fascismo percorse la Via Balbia, la litoranea dedicata a Italo Balbo e da lui voluta, che congiungeva Tripolitania e Cirenaica, fino ad allora sprovviste di proprie reti stradali. (...)
All'inizio della missione il capo del fascismo si mosse con prudenza. A un gruppo di giornalisti egiziani dichiarò: «Dite, dite ai vostri lettori che il Governo e il popolo italiano desiderano vivere con il popolo egiziano nei termini della più cordiale simpatia e amicizia». D'altronde, il viaggio in Libia aveva soprattutto lo scopo di consolidare il consenso attorno al regime, dopo la crisi, a cavallo del decennio, dovuta soprattutto alla riduzione dei salari. Raccontavano le cronache dettagliate dei cronisti al seguito, embedded si direbbe oggi, che il duce aveva visitato città, villaggi e concessioni, passato in rivista formazioni militari, regionali e indigene. Aveva sostato nelle Case del Fascio, nelle scuole. Si era interessato della vita dei coloni e delle aspirazioni dei locali. Al villaggio Luigi Razza, nelle vicinanze di Cirene, l'avevano accolto emigrati dall'Abruzzo e dalla Calabria, ottanta famiglie, seicentoventisette persone. Proseguendo lungo la litoranea, Mussolini aveva inaugurato l'Arco dei Fileni. Notte in tenda, gli ascari a fargli da guardia d'onore. All'alba, alle 5.30, rito dell'alzabandiera, poi in auto all'aerodromo «Arae Philaenorum», la gloriosa e furba reminiscenza dei due fratelli cartaginesi, i Fileni, che si erano scontrati, loro lealmente, in una gara di corsa contro avversari di Cirene: parola di Sallustio. A quel punto, Mussolini salì su un trimotore, rotta Sirte. Quindi Tauorga, Misurata, Tripoli. Vi arrivò poco dopo il tramonto. Alle mura, scese dall'auto e fece un ingresso scenografico a cavallo, primo di 2600 cavalieri. Trionfo. Ovazioni. Bagno di folla.
Il giorno dopo il duce aveva inaugurato la Fiera di Tripoli pronunciando il primo dei due discorsi politici di peso nel corso della missione. (...) «Nel 1926 io venni qui per dare quello che fu chiamato, e come tale rimase nelle cronache, uno scossone alla Colonia. I risultati sono visibili agli occhi di chiunque. Corona, questa opera di trasformazione, la Litoranea libica, impresa gigantesca, che soltanto ingegneri italiani e operai italiani potevano portare a compimento in termine di tempo rapidissimo». Agli altri, ai musulmani, riservò poche parole. E una sintetica assicurazione: «Le popolazioni musulmane sanno che, col tricolore italiano, avranno pace e benessere e che le loro usanze e, soprattutto, le loro religiose credenze saranno scrupolosamente rispettate».
Benito si doveva già barcamenare nelle sabbie mobili della guerra civile spagnola ed era costretto a replicare agli allarmismi «nevropatici» diffusi dalla stampa internazionale: «Questo viaggio è imperialista? Sì, nel senso che a questa parola hanno dato, danno e daranno i popoli virili. Ma non ha disegni reconditi e mire aggressive contro chicchessia. Ci armiamo sul mare, nel cielo e sulla terra, perché questo è il nostro imperioso dovere di fronte agli armamenti altrui». (...)
Il 18 marzo, Benito aveva assistito a un'azione tattica, ammirato una «fantasia» indigena, inaugurato scuole. Finalmente era arrivato all'oasi di Bùgara, dove lo attendevano duemila cavalieri arabi. Quando apparve sulla duna più alta, i tamburi cominciarono a rullare freneticamente al triplice grido di guerra «Uled!». Ed ecco, Mussolini, in sella a uno splendido cavallo, ricevere la Spada dell'Islam finemente decorata con fregi in oro massiccio. A consegnargliela Yusuf Cherbisc, un capo berbero grande sostenitore dell'alleanza con gli italiani, che si rivolse al duce con queste parole: «Vibrano accanto ai nostri animi in questo momento quelli dei musulmani di tutte le sponde del Mediterraneo che, pieni di ammirazione e di speranza, vedono in te il grande uomo di Stato, che guida con mano ferma il nostro destino».
Benito sguainò la spada puntandola verso il sole. E lanciò a sua volta il grido di guerra.
Con tutto il seguito, rientrò poi a Tripoli: in piazza Castello l'attendeva una folla immensa. Sempre a cavallo, la spada assicurata alla sella, Mussolini era salito su una piattaforma di terra pressata. «Saluto al duce!» ordinò Balbo, che aveva fatto proprio un recente ordine di servizio: il capo del fascismo viene prima del re. «Uled!» urlarono ancora, tre volte, i cavalieri arabi, ritti sulle staffe. Un imperioso cenno di silenzio. A quel punto, fece risuonare le parole tanto attese, anche dalle cancellerie europee: «Musulmani di Tripoli e della Libia! Giovani Arabi del Littorio! Il mio Augusto e Potente Sovrano, Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia, mi ha mandato, dopo undici anni, ancora una volta su questa terra dove sventola il tricolore per conoscere le vostre necessità e venire incontro ai vostri legittimi desideri». E la spada? «Voi mi avete offerto il più gradito dei doni: questa spada, simbolo della forza e della giustizia, spada che porterò e conserverò a Roma fra i ricordi più cari della mia vita. (...) L'Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell'Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all'Islam e ai Musulmani del mondo intero». Quindi, non solo Tripoli e Addis Abeba, ma anche Egitto, Palestina, Siria: dovunque i muezzin diffondevano la parola di Maometto. Chiusura con un ultimo punto esclamativo: «Voi sapete che io sono un uomo parco nelle promesse, ma quando prometto mantengo!». Con la spada brandita, il duce aveva lanciato il suo grande messaggio. (...)
A coronamento dell'operazione, l'anno successivo, nella stessa piazza Castello di Tripoli verrà eretto un monumento a Mussolini. L'iscrizione sul basamento di travertino era tutta un programma: «A Benito Mussolini/ pacificatore/ redentore della terra di Libia/ le popolazioni memori e fiere/ dove fiammeggiò la spada dell'Islam/ consacrano nel segno del Littorio/ una fedeltà che sfida il destino». Il dado era, ormai, tratto. (...)
Dalla sfida con il destino anche la Spada dell'Islam, non solo il fascismo, uscì sconfitta. La sua sorte la rivelò Rachele Mussolini: «Era conservata in una teca di vetro alla Rocca delle Caminate. Fu rubata nel 1943, quando la Rocca venne devastata dagli antifascisti». (...) Probabilmente neppure lei sapeva che il simbolico manufatto non era stato forgiato da abili artigiani berberi, come voleva la leggenda, ma era d'importazione toscana: prodotta dalla ditta Picchiani e Barlacchi made in Florence. E forse non sapeva neppure che la fotografia di Benito a cavallo che sguaina la spada era un falso. Be', non totalmente. Solo era stato cancellato il palafreniere che, per sicurezza, reggeva le redini al quadrupede. Vizio classico dei regimi, manipolare le foto... E non solo.