Cerimogna veneta a Venesia – Procesion
http://picasaweb.google.it/pilpotis/CerimognaVenetaAVenesia
A pajna 11 e ente la noda biblografeghe n 10 so le pajne 33-34 a se cata de le enformasion so cofà entel mondo anglosasone li vedea la Repiovega Veneta e le so Istitusion:
La Politica Sociale Della Repubblica Di Venezia de Brian Pullan
https://picasaweb.google.com/pilpotis/LaPoliticaSocialeDellaRepubblicaDiVeneziaDeBrianPullan
… Gli ordinamenti veneziani, costituirono un modello per le province unite di De Witt e per il Parlamento Inglese … Harrington, nel suo “Oceana”, parlò di Venezia come di una Repubblica Immortale e intatta per sempre dalla corruzione.
Molti anni dopo coloro che stesero le Costituzioni della Carolina e della Pensylvania guardavano ancora con interesse alla Pepubblica veneziana.
Nota n 10 : Cfr. Z.S. Fink, “Venice and English political thought in de seventeenth century”, in «Modern Philology» XXXVIII (1940-41); Fink, The Clasical republicans … ; J.R. Hale, England and the Italian Renaissance, London 1963, pp. 31-34.
Repubblica delle Sette Province Unite
va’ al sito: it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_delle_Sette_Province_Unite
La Repubblica delle Sette Province Unite (in olandese Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden) fu una Repubblica che sorse fra il 1581 ed il 1795 nei territori che oggi costituiscono i Paesi Bassi. Essa è nota anche come Repubblica delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi (Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden) o semplicemente come Province Unite.
Repubblica delle Sette Province Unite
http://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_delle_Sette_Province_Unite
La Repubblica delle Sette Province Unite (in olandese Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden) fu una Repubblica che sorse fra il 1581 ed il 1795 nei territori che oggi costituiscono i Paesi Bassi. Essa è nota anche come Repubblica delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi (Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden) o semplicemente come Province Unite.
Johan de Witt
http://it.wikipedia.org/wiki/Johan_de_Witt
Johan de Witt, (Dordrecht, 24 settembre 1625 – L’Aia, 20 agosto 1672) è stato un politico olandese. Figura chiave nella politica della Repubblica delle Province Unite, nel periodo che va sotto il nome di Secolo d’oro olandese. Con lo zio Cornelis de Graeff De Witt ha dominato l’olandese governative Apparat.
James Harrington
http://it.wikipedia.org/wiki/James_Harrington
James Harrington (Upton, Northamptonshire, 7 gennaio 1611 – Londra, 11 settembre 1677) è stato un filosofo e scrittore britannico, autore dell’opera di filosofia politica intitolata La Repubblica di Oceana (1656).
Harrington è stato tra i protagonisti del repubblicanesimo inglese del XVII secolo, fautore di un regime a costituzione mista basato su una divisione egualitaria tra i cittadini della proprietà di terra.
La Repubblica di Oceana
http://commons.wikimedia.org/wiki/James_Harrington
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Commonwealth_of_Oceana
http://onlinebooks.library.upenn.edu/webbin/book/search?amode=start&author=Harrington%2c%20James
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Diario1797 pdf
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnRLQEo4bnNmT1h3bHlUQWkwVlBOSUExZXVSZw/edit
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Scipione Maffei e el so projeto de Reforma de la Repiovega Veneta
(Projeto ke no lè mai stà descuso en Major Consejo e tegnesto senpre sconto)
http://it.wikipedia.org/wiki/Scipione_Maffei
Alla conclusione del viaggio europeo, scrisse, nel 1737, il Consiglio politico, rivolto al governo veneziano, in cui denunciò la debolezza veneziana nei confronti degli stati europei. Nel Consiglio politico, Maffei metteva in discussione tutto il delicato e complesso sistema di equilibri del governo di Venezia (fondato sul dominio di un ristretto numero di famiglie patrizie veneziane e sull’esclusione di uomini dalla Terraferma), svelandone la decadenza e proponendo una soluzione ardita. Avvertiva la crisi anche fisiologica della classe dirigente veneziana, ed offriva una prima critica a quella che sarebbe stata la soluzione poi scelta dal Senato, cioè la cooptazione di un certo numero di famiglie patrizie della Terraferma nei ruoli della città. Questa soluzione rimandava semplicemente il problema. Venezia aveva in realtà creato un sistema opposto a quello dell’antica Repubblica romana, grande esempio seguito da Maffei, estraniando da sé e dalle responsabilità la maggior parte dei suoi sudditi.
La fragilità di Venezia, la sua impossibilità di fare una politica estera convincente, la sua chiusura in una neutralità che nascondeva l’impotenza, erano il frutto di questo sistema, che aveva escluso i patriziati delle città della Terraferma. Mancava l’amor di patria, unica possibilità per resistere alle crescenti pressioni degli stati europei. La soluzione di Maffei era dunque il coinvolgimento di tutti i cittadini, con un trasferimento del potere dal popolo al Senato e il coinvolgimento delle popolazioni conquistate, “sul modello di Roma Repubblicana” (Mi diria cofà coelo xvisaro!).
A fianco al modello romano Maffei poneva esempi come il modello inglese e olandese, un sistema non assoluto, in cui le rappresentanze conservavano alcuni poteri fondamentali.
Rivoluzione inglese e monarchia costituzionale
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Da Alberto Montagner
http://guiotto-padova.blogautore.repubblica.it/2011/05/12/12-maggio-zorno-tremendo
Il 12 maggio 1797 cessava di esistere la Serenissima Veneta Repubblica, coinvolta suo malgrado nella tempesta delle guerre napoleoniche che sconvolsero l’Europa, nonostante avesse proclamato di fronte al mondo la sua neutralità.
Ancor oggi, a distanza di 214 anni, gli studiosi della materia discutono e si scontrano sul vero motivo che portò a collassare su se stesse le millenarie istituzioni che per secoli avevano retto lo Stato veneto.
Eminenti storici parlano di crisi di classe dirigente, di crisi economica, di mancanza di riforme, di dorato isolazionismo rispetto al mondo contemporaneo, dell’assenza di coinvolgimento di tutte le classi popolari nel governo e tanto altro ancora.
Tutte queste circostanze hanno senz’altro concorso a scatenare l’evento conclusivo della storia di una civiltà, ma nessuna – in fondo – è stata determinante, nonostante l’enfasi con la quale vengono sottolineate dai divulgatori, quasi a voler dire: “è stato giusto così.”
Uscendo dai luoghi comuni e analizzando più da vicino gli ultimi anni della Repubblica scopriamo una realtà ben diversa. Già da anni si discutevano in Maggior Consiglio possibili riforme istituzionali che tenessero conto delle classi sociali emergenti, riservando loro un ruolo nel governo. Parliamo della nuova borghesia mercantile e imprenditoriale, dei professionisti (avvocati, medici, docenti ecc.). Certo, non mancavano le resistenze dei conservatori gelosi di antichi privilegi come i Barnabotti, nobili decaduti che percepivano un vitalizio dallo stato, ma il percorso era stato comunque avviato.
Le finanze dello stato avevano registrato, dopo la metà del ‘700, un graduale e progressivo risanamento, sino a dimezzare il debito pubblico. Questo grazie anche alla ripresa dei traffici con il vicino Oriente, tanto che una nave su due che attraversavano i Dardanelli batteva bandiera veneta.
I rapporti con tutti gli stati europei e anche con le nuove realtà d’oltreoceano, come gli Stati Uniti d’America, beneficiavano della proverbiale diplomazia veneziana, che oltre ad arbitrare le dispute internazionali era anche una fonte inesauribile di notizie, tramite dispacci da tutta Europa.
Anche nell’agricoltura e nell’industria si accoglievano senza indugio le novità del secolo per dare impulso all’economia dello Stato da Tera, contribuendo allo sviluppo delle città che a tutt’oggi possiamo ammirare nella loro inestimabile bellezza.
Inoltre le insorgenze contro gli invasori francesi, vere e proprie rivolte di popolo in difesa del proprio Stato, provano che proprio le classi più deboli si sentivano equamente tutelate dalle istituzioni, contrariamente a quanto qualcuno ha voluto farci credere.
Dal punto di vista giuridico, nell’ultima votazione che sancì l’abdicazione del Maggior Consiglio, mancò il numero legale: in ogni caso non si votò la caduta della Repubblica, ma un semplice cambio di governo: si chiamavano “i migliori figli della patria” alla gestione della cosa pubblica.
Infine molti si riempiono la bocca con la parola “decadenza”, che taluni fanno risalire ai tempi della scoperta del Nuovo Mondo, con la conseguente deviazione dei traffici mercantili dall’oriente alle rotte oceaniche. Certo la Venezia di fine ‘700 non era più quella gloriosa di due secoli prima, ma basta questo per portare alla cancellazione di uno stato dalle carte geografiche?
Oppure sarebbe più corretto parlare di ridimensionamento del peso politico e commerciale della Serenissima, così come avvenuto in epoche successive per l’Impero Austro Ungarico, per quello Britannico, quello Turco e tanti altri, ridotti ora a singole nazioni, ma pur sempre vivi e vegeti?
Lascio a chi legge il compito di cercare le risposte, con l’auspicio che queste poche osservazioni abbiano stimolato in lui la curiosità di saperne di più su un’episodio fondamentale della nostra storia, avvolto – come molti altri – da una spessa coltre di disinformazione e luoghi comuni.
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DA CONFESSIONI DI UN ITALIANO DI IPPOLITO NIEVO
Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l’uno uguale all’altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell’umanità resteranno come i segni d’uno de’ suoi principali rivolgimenti.
Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d’un sol popolo.
La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà che dopo aver lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, `cieco sublime inesorabile.
Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea.
Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all’esperimento: fu essa chiamata il capo dell’umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, destreggiatrice, che sovente distrusse l’opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno.
A Venezia come in ogni altro stato d’Europa cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozii civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s’accorgevano del legame dei doveri.
Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall’altro.
Ma a Venezia meno che altrove gli animi eran disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d’averci trovato non uno stato ma una famiglia.
Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e d’esperienza che inducono l’obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d’altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora giunge il momento che i figliuoli cresciuti di forza di ragione e d’età hanno diritto d’uscir di tutela: quella famiglia nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà.
Venezia era una famiglia cosifatta.
L’aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell’ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sé al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro.
Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal cielo, accarezzate dal mare, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull’acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita.
Così nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnevali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare.
Al 18 Febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di Marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa.
Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre.
Viva e muoia a suo grado purché non turbi l’allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto: cotali erano í sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza. Con l’uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di Marzo Lodovico Manin : si affrettarono forse, perché le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima.
L’ultimo doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.
Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine non avea mancato chi prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii.
Fors’anco i rimedii proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori.
Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d’una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l’infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore.
Non molti anni prima 1’Avogadore di Comune’ Angelo Querini avea sofferto due volte la prigionia d’ordine del Consiglio di Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accapparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio.
La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l’indipendenza di una autorità semitribunizia, e tanto il valore e l’affetto consentitole; nessuno s’accorse o tutti finsero non s’accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo.
Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza.
Nel 1779 a tanto era scaduta l’amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva.
Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu così stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessarii cambiamenti.
Si nota in quelle discussioni, che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell’ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s’era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine.
Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l’eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un’autorità demandata.
I partigiani dell’oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugii per tirar la cosa in lungo.
La Signoria fingeva di piegarsi all’obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l’esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque corettori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito.
Il Renier parlò a lungo delle monarchie d’Europa fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità.
«Io stesso,» aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano «io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. Se v’ha stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo “.»
Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l’inerzia, e il silenzio. Gli era un dire; se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso.
Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un’ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessarii negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perché i posteri compiangessero l’impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri.
Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani.
Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morir esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà.
Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso.
E questo sopportare senza risentirsi lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell’esiglio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l’esecuzione dei proprii decreti.
Cotale era l’ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano.
In verità, piuttostoché vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge, sarebbe stata opera più civile, prudente insieme e generosa, l’arrischiar di morire in qualunque altra maniera.
Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi.
Il dì medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati Generali, il 14 luglio 1788 “, l’ambasciatore Antonio Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi più opportuni da governarla.
Ma gli Eccellentissimi Savii gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza.
Bensì gli Inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l’imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio.
Il conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d’Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti.
Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l’Adda e l’Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile.
Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro.
Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti i governanti avevano in cuore l’indifferenza della disperazione.
In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d’impiccio, partendo da Venezia.
E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti.
Capitoło XVIII°
…
“Carlino amatissimo!
“Ho volontà di scrivervi a lungo, perché molte sono le cose che vorrei dirvi e tante le dolorose impressioni che m’ebbi tornando, che mi pare non dovrei mai finire dal raccontarvele.
…
“Se vedeste questi paesi, Carlino!… Non li conoscereste piú!… Dove sono andate le sagre, le riunioni, le feste che allegravano di tanto in tanto la nostra giovinezza?… come sono scomparse tante famiglie che erano il decoro del territorio, e serbavano incorrotte le antiche tradizioni dell’ospitalità, della pazienza cristiana, e della religione?… Per qual incanto s’è assopita ad un tratto quella vita di chiassi, di gare fra villaggio e villaggio, di contese e di risse per le occhiate d’una bella, per l’elezione d’un parroco, o per la preminenza d’un diritto? – In quattro anni sembra che ne sian passati cinquanta. Non ci fu carestia, e si lagnano ogni dove della miseria; non ci furono leve di soldati né pestilenze come in Piemonte ed in Francia; e le campagne sono spopolate e le case deserte dei migliori lavoratori. Chi emigrò in Germania, chi nella Cisalpina; chi accorse per far fortuna a Venezia e chi sta zitto per paura nei poderi piú nascosti e lontani. La differenza d’opinioni ha disfatto le famiglie; i dolori, i patimenti, le soperchierie della guerra hanno ucciso i vecchi e invecchiato gli adulti. Non si celebrano piú matrimoni, e di rado assai il campanello suona pel battesimo. Se si ode la campana si può giurare ch’è per un’agonia o per un morto. La vigoria ch’era rimasta nei nostri compaesani e che s’esercitava o bene o male in piccoli negozi di casa o di comune, ora s’è sfiancata del tutto. Rimasti senza armi senza danari senza fiducia non pensano piú che ciascuno a se stesso e pei bisogni dell’oggi; tutti lavorano dal canto loro ad assicurarsi un covacciolo contro le insidie del prossimo e le prepotenze dei superiori. L’incertezza delle sorti pubbliche e delle leggi fa sí che si schivino dal contrattare, e che si speculi sulla buona fede altrui piuttosto che affidarvisi.
“Come sapete, furono tolte le antiche giurisdizioni gentilizie; e Venchieredo e Fratta non sono piú altro che villaggi, soggetti anch’essi, come Teglio e Bagnara, alla Pretura di Portogruaro. Cosí si chiama un nuovo magistrato stabilito ad amministrar la giustizia; ma per quanto sia utile e corrispondente ai tempi una tal innovazione, i contadini non ci credono. Io sono troppo ignorante per avvisarne le cause; ma essi forse non si aspettano nulla di bene da coloro che colla guerra hanno fatto finora tanto male. Quello che è certo si è che coloro che in questo frattempo si sono ingrassati furono i tristi; i dabbene rimasero soverchiati, e impoveriti per non aver coraggio di fare il loro pro’ delle sciagure pubbliche. I cattivi conoscono i buoni; sanno di potersene fidare e li pelano a man salva. Nei contratti con cui sottoscrivono alla propria rovina essi non si provvedono né appigli a future liti né scappatoie; danno nella rete ingenuamente, e sono infilzati senza misericordia. Alcuni fattori delle grandi famiglie, gli usurai, gli accaparratori di grano, i fornitori dei comuni per le requisizioni soldatesche, ecco la genia che sorse nell’abbattimento di tutti. Costoro, villani o servitori pur ieri, hanno piú boria dei loro padroni d’una volta, e dal freno dell’educazione o dei costumi cavallereschi non sono neppur costretti a dare alla propria tristizia l’apparenza dell’onestà. Hanno perduto ogni scienza del bene e del male; vogliono essere rispettati, ubbiditi, serviti perché sono ricchi. Carlino! La rivoluzione per ora ci fa piú male che bene.
Ho gran paura che avremo di qui a qualche anno superbamente insediata un’aristocrazia del denaro, che farà desiderare quella della nascita. Ma ho detto per ora, e non mi ritratto; giacché se gli uomini hanno riconosciuto la vanità di diritto appoggiati unicamente ai meriti dei bisnonni e dei trisarcavoli, piú presto conosceranno la mostruosità d’una potenza che non si appoggia ad alcun merito né presente né passato, ma solamente al diritto del danaro che è tutt’uno con quello della forza. Che chi ha danaro se lo tenga e lo spenda e ne usi; va bene; ma che con esso si comperi quell’autorità che è dovuta solamente al sapere e alla virtù, questa non la potrò mai digerire.
È un difettaccio barbaro ed immorale del quale deve purgarsi ad ogni costo l’umana natura.
“Oh se vedessi ora il castello di Fratta!… Le muraglie sono ancora ritte; la torre s’innalza ancora tra il fogliame dei pioppi e dei salici che circondano le fosse; ma nel resto qual desolazione! Non piú gente che va e viene e cani che abbaiano e cavalli che nitriscono, e il vecchio Germano che lustra gli schioppi sul ponte, o il signor Cancelliere che esce col Conte, o i villani che si schierano facendo di cappello alle Contessine! Tutto è solitudine, silenzio, rovina. Il ponte levatoio è caduto fradicio; e hanno empiuto la fossa con carri di rottami e di calcinacci tolti via dalla casa dell’ortolano che è cascata. L’erba cresce pei cortili, le finestre non solo sono prive d’imposte, ma gli stipiti e i davanzali si sgretolano al gocciolar continuo della pioggia. Si dice che alcuni creditori, o ladri, o che so io, abbiano venduto perfino le travature del granaio; io non ne so nulla; veggo solamente che manca un gran pezzo di tetto e che ci piove e nevica entro, con quanto danno degli appartamenti ve lo potete immaginare!
…
Insomma, ve lo diceva fin dapprincipio, ch’io son partito da un paese e torno in un cimitero; ma ancora non sapete tutto.
“Quanto alla maniera di camparla questi signori vivono sulle onoranze e quasi sulle elemosine di quei quattro coloni che son loro rimasti; perché l’entrata viva cola tutta a Venezia.
Fattori castaldi ed agenti se la sono fatta, dopo essersi ben rimpannucciati a spese dei gonzi. Fulgenzio già aveva comperato la casa Frumier a Portogruaro, e la trinciava avaramente da signore quand’io sono partito; ora suo figlio Domenico è notaio ed ha avuto un posto a Venezia, l’altro ha detto ieri la prima messa e starà in Curia per cancelliere. È un bel pretino questo don Girolamo, e tutto sommato mi piace piú di suo fratello e di suo padre, benché sia furbo come la volpe anche lui.
Capitoło XIX°
……………………………………
Arrivato a Venezia trovai le cose mutate d’assai.
Le straordinarie giubilazioni per l’aggregazione al Regno Italico aveano dato luogo mano a mano ad un criterio piú riposato del bene che ne proveniva al paese. Francia pesava addosso come qualunque altra dominazione; forse le forme erano meno assolute ma la sostanza rimaneva la stessa. Leggi volontà movimento, tutto veniva da Parigi come oggidí i cappellini e le mantiglie delle signore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il popolo; le tasse le imposizioni mungevano la ricchezza; l’attività materiale non compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le menti. Gli antichi nobili governanti, o avviliti nell’inerzia, o rincantucciati nei posti piú meschini dell’amministrazione pubblica; i cittadini, ceto nuovo e ancora scomposto, inetti per mancanza d’educazione al trattamento degli affari. Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali riducevano Venezia una cittaduzza di provincia. La miseria l’umiliazione trapelavano dappertutto, per quanto il Viceré s’ingegnasse di coprir tutto collo sfarzo glorioso del manto imperiale.
…
Capitoło XXI°
Si sanno le cagioni per cui è caduta Venezia: e quelle cagioni stesse fecero sí, che neppur potesse rialzarsi all’attività della vita materiale. Il destino vi ebbe la maggior colpa, perocché il torpore medesimo del governo e l’infiacchimento del popolo derivarono dalla chiusura di quelle vie, per le quali si esercitava con massimo buon frutto l’attività sí dell’uno che dell’altro. Che colpa ci ebbero i Veneziani se Colombo e Magellano crearono nuovi commerci a profitto d’altre nazioni, e se Vasco di Gama aperse nuovi scali alle merci dell’Oriente? I Veneziani durarono audaci e meravigliosi mercanti finché fu loro possibile vendere le merci dei paesi lontani con benefizi maggiori degli altri concorrenti; serbarono abitudini e forze guerresche finché quel vasto e ardito commercio abbisognò d’una poderosa tutela. Cessato l’incentivo dell’utile, cessò il naturale richiamo alle antiche e gloriose tradizioni; cessarono le spedizioni ormai troppo costose e poco proficue al Mar Nero ed alla Siria, dove si scambiavano le manifatture europee colle merci della Moscovia, dell’India e della China portate dalle carovane; cessò lo spirito militare che in essi come negli Inglesi altro non era che un difensore della prosperità commerciale.
Cosí fu tolta a Venezia ogni ragione d’esistenza ed ogni azione nella civiltà. Continuò a vivere per consuetudine, per accidente, come diceva il doge Renier; tuttavia tre secoli di decadenza lenta onorata e quasi felice diedero un’altra e solenne prova dell’antica potenza di Venezia e delle virtù immedesimate nel suo governo e nel suo popolo da tanto tempo di glorioso esercizio. Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e costantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de’ suoi commerci avrebbe trovato nell’allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora piú da commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi di alimentare la propria ricchezza. Furono accorti politici e soldati non per assodare e dilatare oltre il Po ed il Mincio l’influenza del governo, e prepararsi un futuro italiano, sibbene per difendere le loro proprietà, come lo erano stati dapprima in Crimea e nell’Asia Minore per proteggere gli empori mercantili. Da ciò, siccome per abitudine di rispetto, o per necessità di equilibrio, o per merito delle prudenti transazioni, gli altri governi li lasciarono godere in pace quei possedimenti commerciali, cessò poco a poco ogni necessità di tutela armata, e contenti di cancellare una partita sulla pagina del dare, i Veneziani affidarono unicamente al proprio accorgimento e alla discrezione altrui la sicurezza del dominio.
Forse se al tramutarsi di mercatanti in proprietari e di marittimi in continentali, un’arida fazione o un capo fortunato dell’aristocrazia avesse cercato anche di cambiare l’indole del governo di utilitaria in politica, la fortuna di Venezia avrebbe corso qualche maggior rischio, ma racquistato insieme un argomento ed un titolo di futura grandezza, ove le fosse venuto fatto di sormontare vittoriosamente quella nuova esperienza. Si sarebbe rimediato con un nuovo congegnarsi delle forze nazionali al vecchio difetto di scarsa partecipazione al movimento italiano. Mancò a ciò l’opportunità, o la forza, o la mente. Venezia, come ebbi campo a dire in addietro, rimase una città del Medio Evo colle apparenze d’uno Stato moderno. Ma le apparenze non durano a lungo; e poiché non aveva voluto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città. Cosí nell’economia politica come nella fisiologia medica. Bisogna deprimere e ridurre un corpo invaso da umori corrotti a quella parsimonia naturale, onde poi risorga ordinatamente alla piena salute.
Venezia in quei primi rivolgimenti che le tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucché mai le vie insuete del mare, rimase a dir poco in fil di morte. Quando poi tornò la pace, e il mare le fu sbloccato dinanzi, le forze erano sí misere da non poter competere con quelle degli altri porti che s’erano anzi ringagliardite durante la sua indolenza. “Rive opposte, animi contrari” dice un proverbio inglese. Trieste entrava in lizza arditamente, spalleggiata dal commercio viennese e cogli aiuti del governo che o disperava o non si curava di richiamare l’attività veneta al campo primitivo de’ suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a morire d’inedia per non tender la mano.
Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi come protettrice d’Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi e denaro per mandare quattro stambecchi a caricar fichi a Corfù, l’era un gran boccone amaro da ingoiare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il passato, o maturando un futuro. “Prima che la statistica aprisse i suoi registri” disse un ottimo pubblicista “ciascun paese credeva d’essere quello che avrebbe voluto essere.” I Veneziani anche nel millesettecento ottanta si reputavano i naturali rintuzzatori della prepotenza mussulmana, perché l’ammiraglio Emo con una dozzina di galee avea tentato gloriosamente qualche rappresaglia contro Tunisi. Era omai l’unica scusa di loro esistenza e si incaponivano a crederla vera. Quando poi la terribile riprova statistica d’una guerra generale mise in mostra i duecento vascelli d’Inghilterra e i quattordici eserciti di Francia; e la fine strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica di Venezia, e che l’Europa non abbisognava omai di alcun freno contro i Turchi, e che se ancora ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere ma quello che era veramente.
Se questo primo esame di coscienza generò un frattempo di avvilimento fu indizio di senno civile e di salutare vergogna. Non insultiamo a coloro che morti solo da ieri già cominciarono a rivivere, mentre si onorano gli altri che con grandissimo scalpore non son giunti a vivere che per la calcolata tolleranza di tutti. Intanto io tornava a Venezia che quel torpore d’inerzia e di vergogna era al suo colmo. Non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienze, non gloria, né attività di sorta alcuna: pareva morte, e certo era sospensione di vita.
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Venesia la gà vesto on mucio de bone coalità ma la gà vesto anca coalke magagna ke no ghemo da ver temansia sia da vedar ke da mostrar.
Da Umberto Sartori
Discorsi sulla Storia Veneta di Domenico Tiepolo
http://venicexplorer.net/tradizione/venezia-malvagia.php?hlangs=it
Da Edoardo Rubini
NOTE A DIFESA DELLA REPUBBLICA E DEL PATRIZIATO VENETO
In risposta a frequenti accuse mosse contro Venezia
Per comprendere l’importanza delle testimonianze storiche sulla Repubblica di Venezia contenute nelle Opere di Francesco Guicciardini è opportuno innanzittutto rettificare l’immagine dell’Autore.
La figura e il pensiero del Guicciardini sono stati infatti gravemente travisati e confusi dalla critica ottocentesca, De Sanctis in testa.
Abbiamo visto nei “Discorsi sulla Storia Veneta” di Domenico Tiepolo la montatura internazionale della calunnia su Venezia costituire il suo asse attorno ai sette Volumi della “Histoire de la Republique de Venise” (scritta dai saccheggiatori di quella Republique), per poi spandersi a infettare l’ìmmaginario mondiale, attraverso una vasta gamma di mezzi divulgativi, fino ancora ai nostri giorni.
Con Venezia furono (e sono) oggetto di questa forma indegna di censura, praticata attraverso la falsificazione, la denigrazione e la calunnia su larga scala, anche i pensatori e gli storici repubblicani come appunto Guicciardini.
Lui soprattutto, perché principale e autorevolissimo testimone della perfetta legittimità della Repubblica di Venezia a vedere restaurata la propria identità nazionale e territoriale e con maggior diritto di qualsiasi altro Stato europeo.
Lui soprattutto perché lucido e documentato castigatore dei cattivi costumi dei monarchi e della monarchia in genere.
È quindi necessario, prima di vedere cosa Guicciardini racconta su Venezia e sulla Repubblica, restituire al Fiorentino la statura morale, intellettuale ed espressiva che il De Sanctis gli volle sminuire e confondere.
Leggi le rettificazioni alla figura di Francesco Guicciardini
in questo articolo illustrato
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Chiedo dunque a coloro che avessero già letto delle pagine e che vogliano aiutare il processo di liberazione della Repubblica di Venezia, almeno dalle calunnie storiche, a tornare su quelle pagine e cliccare sugli appositi bottoni.
Cordialità
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El fisco ente ła Serenisima
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