Da Sixara:
Chioggiotti on raconto de B.Marin, L’isola d’oro, Edizioni della laguna, Gorizia,1999http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... bragos.jpgSalendo la costa istriana da Orsera, una settimana prima di Natale, col trabaccolo carico di vino, dovemmo far porto nella rada di Umago, perché in golfo c’era fortuna di bora e non si poteva arrischiare la traversata.
A Umago trovammo la flottiglia di pesca gradese, che era in quelle acque per la stagione delle sogliole.
Il tempo era chiaro e faceva freddo acuto.
Sottoprora si teneva acceso il fuoco tutto il giorno, e s’era untuosi e neri di fumo.
Per poter dormire di notte, si bevevano, la sera, delle grandi ciotole di vino caldo. Di giorno ci si annoiava a morte in osteria, dove mio padre giocava a trionfo e a scarabocchio con gli altri padroni di barca.
Dopo il pranzo, che si faceva presto, si andava in frotte, padroni e marinai, a fare una passeggiata fino alla punta di Salvore, al faro, per dare un’occhiata al golfo e vedere se la bora mollava.
Ma il golfo era tutta una fumata bianca e già lì ci si reggeva male in piedi, sotto le raffiche rabbiose.
Disperati , gli uomini scuotevano la testa. Ogni tanto un padrone diceva : Questa volta non si fa Natale a Grado! ; Chi volete che si tenga al largo con questo ordine?. E tornavano a guardare lungamente il mare.
I fanalisti ci facevano coraggio dicendo : Vedrete, gente, la bora cadrà domani, deve mollare; dura già da troppo tempo. Ma la bora non mollava. Tre giorni mancavano a Natale, il vento fischiava più che mai e il golfo era bianco.
Si cominciò a pregare, si fece dire una messa per i morti, ed era già l’antivigilia. Pregammo tutti fervorosamente le anime sante, di intercederci un po’ di bonaccia, perché attraverso non si poteva andare, e a casa ci attendevano e Natale non lo si poteva fare battendo i denti a bordo, con il freddo e con la mexa , le provviste di bordo quasi esaurite.
Mangiato, prima delle undici, un boccone, tornammo sulla punta di Salvore, sugli scogli sopravvento del faro. Il golfo era tutta una foschia. La bora infuriava come sempre e il mare correva a cavalloni verso ponente. Sui cavalloni razzava il brivido, poi la sferzata strappava il merletto, lo polverizzava, e sul mare turbinava tutta una fumata maligna.
I padroni infagottati nei grandi cappotti pelosi di Salonicco, gli uomini nei giacchettoni, le mani in tasca, curvi, con la schiena al vento, tutti silenziosi, fissavano quell'inferno. Uno disse per tutti : Solo Dio può andare traverso!
Silenzio. Ad un tratto una voce urlò : Là, da ponente!. Guardammo tutti. Con sforzo, nella foschia giallastra contro il sole, scorgemmo un qualchecosa di nero, sperduto. Non poteva essere che una barca. I vecchi padroni sussultarono, gli occhi spalancati erano inchiodati su quel guscio nero lontano, sballottato nella rabbia del vento e del mare, che pur veniva avanti, che pur sopravventava.
Disse mio padre, anche lui stordito : Creature, preghiamo che Dio li salvi. E sotto la violenza e il fischio pauroso della bora, sulla scogliera nuda, c'inginocchiammo e pregammo.
Era l'antivigilia. Noi cenammo all'osteria, perché a bordo non si resisteva. Poi a bordo ci cucciammo tutti sottoprora, con il fuoco acceso, e il vino caldo con la cannella e lo zucchero ci fece addormentare.
S'era attraccati alla testa del molo; affiancati a tre, a quattro, i bragozzi dei nostri paesani. Appena addormentati , un gran colpo contro il bordo libero ci risvegliò di soprassalto. Un marinaio aveva già aperta la boccaporta e s'arrampicava in coperta.
La bora sibilava e gemeva fra le sartìe; tra questi sibili lamentosi s'udì più volte un grido sfinito : Aiuto!
Saltammo tutti in coperta. Nel buio c'era venuta addosso una barca. Si accesero i fanali : era un bragosso chioggiotto. Uno strato di ghiaccio copriva la coperta; ghiaccioli ed efflorescenze vitree coprivano pennoni e cordami scintillavano gelidi, sotto la scia giallastra dei fanali quadri, che i nostri facevano dondolare a bordo.
Le vele di fortuna, lacere, sbattevano contro lo stellato freddo, e stioccavano rabbrividendo. Nessuno a bordo, pareva. Ma, da poppa, venne un rantolio fioco.
Nella luce gialla e calma apparve nel vano nero di poppa un ammasso di cenci e di ghiaccio. Un uomo: il padrone. Non poteva muoversi : era rimasto appoggiato alla barra del timone infilata sotto il braccio, e fatto l'ultimo sforzo era svenuto. Ai suoi piedi, accucciato a pagliolo, un altro mucchio di cenci, gelato e indurito. Non si muoveva, non respirava. Questo è morto, sentì dire un marinaio.
Coraggio, ragazzi, bisogna far presto, salvarli; portateli a bordo del trabaccolo e riscaldiamoli disse mio padre.
Sottosopra si attizzò il fuoco, si mise a scaldare il vino nella caldaia di rame della polenta, perché facesse presto, si calarono i due corpi esanimi con precauzione dal boccaporto e finalmente, dopo averli liberati dai cenci ghiacciati e averli ben strofinati e trattati con energiche manate, rinvennero.
Fu primo l'uomo ch'era a timone. Appena aperti gli occhi si guardò d'attorno stralunato, poi spaventato urlò : Il mio ragazzo, sottoprora!
Qualcuno saltò a bordo del bragozzo e il ragazzo venne portato in coperta a braccia, perché era duro. Pareva che non dovesse più rinvenire. Ma rinvenne e suo padre trovò ancora modo di canzonarlo.
Notte di spavento.
Prima di congedare i nostri ospiti, mio padre chiese al padrone : Ma benedetti da Dio, come si fa a mettersi in mare e venir traverso con un simile ordigno?
Padrone bello - rispose il chioggiotto - avevamo venti quintali di pesce da portare in pescheria a Trieste per la vigilia; se perdevo l'occasione ero rovinato; e allora pensai che era meglio morire e salpai in nome di Dio, con l'equipaggio ridotto al minimo. Buona notte!
Quando all'indomani salimmo in coperta, il chioggiotto non c'era più. Era salpato per Pirano, con tutta la fortuna, per inoltrare il pesce a Trieste col vapore.
Rimanemmo allibiti.
Fioi de cani! Disse un marinaio.