Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxani

Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxani

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 12:24 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 12:25 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 12:25 pm

Le bonifiche nella storia d’Italia unita di Ivo Mattozzi*
(Ma ƚe bonefeghe ƚe xe scuminsià xa entel eneoƚetego co ƚe paƚifate)



http://www.treccani.it/scuola/tesine/ce ... tozzi.html


I processi delle trasformazioni territoriali nei centocinquant’anni dell’unità d’Italia: ecco un campo tematico che potrebbe essere assunto ricorrentemente nell’insegnamento della storia del nostro paese.
Sono processi che chiamano in causa i diboscamenti, i territori impaludati e bonificati, le migrazioni interne e gli abbandoni di territori, le urbanizzazioni nuove e le modificazioni delle campagne, delle montagne e delle coste, la diffusione delle infrastrutture, la gestione del patrimonio culturale.
Essi incidono tuttora nei processi che stanno preparando il futuro.
La loro conoscenza può rendere consapevoli dell’importanza dell’unificazione statale, poiché la fine delle barriere particolaristiche e l’uniformità legislativa sono le condizioni che hanno reso possibile il loro verificarsi. Il loro studio può far emergere la conoscenza della vulnerabilità dei territori che hanno subito le trasformazioni e dei conseguenti problemi di tutela ambientale con i quali dobbiamo misurarci nell’esercizio della cittadinanza democratica.
Tra le tante trasformazioni quelle conseguenti alle bonifiche sono particolarmente interessanti e agevoli da abbordare didatticamente sia in geografia – per proporre unità di lavoro di geografia storica – sia in storia grazie all’approccio geostorico.

Le bonifiche dei territori piani della penisola

Il territorio italiano è composto per il 55% circa di colline, per il 25% per cento di pianure (circa 75.000 kmq) e infine dalle montagne che, insieme con le valli, occupano il 20% del suolo.
La Pianura padana rappresenta il 71% di tutte le aree pianeggianti d'Italia (49.000 kmq circa).

Poi vi sono piane che ritmano le coste tirreniche, joniche e adriatiche.
Se si esclude la Valle d’Aosta, quasi tutte le regioni le hanno. Vengono subito in mente in Toscana la piana della Versilia e di Massacciuccoli, la Maremma, in Lazio l’Agro pontino, in Campania il Vallo di Diano, in Calabria le piane di Gioia Tauro, di Rosarno, di Sibari, in Sicilia la piana di Mondello (Palermo), in Sardegna il Campidano, in Basilicata la piana di Metaponto, in Puglia la costa del Salento occidentale, in Abruzzo il bacino del Saline, nelle Marche i bacini del Musone, Potenza, Chienti, in Romagna e in Emilia i territori pianeggianti delle province di Ravenna, Bologna e Ferrara, in Veneto la bassa Veronese vicentina e padovana, il Polesine, il basso Piave, In Friuli le terre basse lungo il Tagliamento.
Tutte le piane all’inizio della storia unitaria erano paludose, malsane, prive di infrastrutture, deserte di popolazione. ???
Circa un milione di ettari erano sottratti all’agricoltura. Ora, invece, le terre piane sono coltivate, popolate, percorribili grazie a reti stradali efficienti, mete di turisti.
Sono, dunque, l’esito di trasformazioni territoriali di grande interesse.

Le bonifiche
I processi che le hanno modificate così profondamente sono le bonifiche. Esse sono state realizzate durante il secolo e mezzo di storia d’Italia sotto tutti i regimi politici grazie all’attività di organismi legislativi, di amministrazioni locali, di privati. E hanno richiesto la formazione di nuovi enti come i consorzi di bonifica sia per governare le opere di trasformazione sia per provvedere alla loro manutenzione. Nel luglio 2009 si contavano almeno 119 consorzi associati all'Anbi (Associazione nazionale bonifiche, irrigazioni e miglioramenti fondiari) che gestiscono 200 mila km di canali, si estendono su quasi 18 milioni di ettari e impiegano 7.860 dipendenti e 308 dirigenti. Gestiscono oltre 528 milioni l'anno da contributi obbligatori di soggetti che hanno proprietà sui comprensori di bonifica. Il 40% della superficie agricola utilizzata (SAU) è territorio di bonifica.
Alla creazione di nuovi assetti territoriali e di paesaggi inediti si è associata la costituzione di beni culturali che hanno reso utile l’apertura di nuovi musei. Perciò lo studio delle bonifiche va a vantaggio della conoscenza della storia e della geografia dell’Italia unita, dell’educazione al patrimonio, dell’educazione alla cittadinanza.

...
per esempio, tra il 1861 e il 1921 le terre sottoposte a bonifica assommavano a 1.008.182 ettari nell'Italia del Nord contro i 633.906 ettari del Mezzogiorno; inoltre nel Nord il 60% delle bonifiche furono realizzate fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento; nel Centro-Sud il 65% fu realizzato solo nel secondo dopoguerra e in particolare nel ventennio 1948-1968 (P. Bevilacqua, M. Rossi Doria, Le bonifiche in Italia, Laterza, Bari,1984, p. 67). ...

* Insegna Storia e storiografia dell'età moderna presso l'Università di Bologna e Storia e studi sociali presso la Libera Università di Bolzano; il tema privilegiato nelle sue ricerche e nei suoi lavori è l'apprendimento della storia e i problemi dell'insegnamento. Presiede l'associazione di insegnanti e ricercatori "Clio '92".

Pubblicato il 24/2/2011

Ƚe paƚueghe pontine
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 2:01 pm

Teremare el caxo de Montaƚe ente ƚa piana padana

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http://www.parcomontale.it
https://www.facebook.com/parcomontale


Axia siberiana ƚa tera traversà da l’Irtish

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http://it.wikipedia.org/wiki/Irty%C5%A1
L'Irtyš (rus. Иртыш ; kaz. Ертіс, Ertis ; tat. Иртеш, İrteş ; cin. 额尔齐斯河, Erqisi ) è un fiume dell'Asia Centrale, il maggior affluente dell'Ob'.
Il suo nome significa "fiume bianco"; ha lunghezza maggiore del fiume Ob' stesso, se misurata dalla sorgente al punto di confluenza. Il principale affluente dell'Irtyš è il fiume Tobol. L'Irtyš, unitamente all'Ob', forma uno dei maggiori bacini idrografici in Asia e nel mondo, che comprende gran parte della Siberia occidentale e dei monti Altaj.

Vasjugan'e
http://it.wikipedia.org/wiki/Vasjugan%27e
Il Vasjugan'e (in russo Васюганье o Васюганские болота, Vasjuganskie bolota, paludi del Vasjugan) è una vasta regione della Russia siberiana occidentale, estesa nel territorio delle oblast' di Tomsk, Omsk e Novosibirsk.
Completamente pianeggiante, è interessata da estesissime zone paludose che occupano pressoché tutto il suo territorio; si estendono in questa regione i bacini idrografici di alcuni importanti fiumi della zona (Vasjugan, Dem'janka, Bol'šoj Jugan, Parabel', Om' e altri), tributari dell'Ob' e dell'Irtyš.

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http://upload.wikimedia.org/wikipedia/c ... _Swamp.jpg
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 2:06 pm

Sono andato a dire addio alla valle del Mezzano [...]. Chi l’avrebbe detto quand’eravamo in tinella, sperduti nella tua immensità, che te ne saresti andata prima di noi? Tu che eri sulla faccia della terra da millenni, da quando ti chiamavi Padusa ed il Po, disarginato e sfrenato come un cavallo brado, si riversava in te mescolando le sue alle acque degli altri fiumi, sicché non si capiva dove fosse il mare.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Padusa.jpg


http://storicamente.org/menzani_bonific ... ese_renana

1. La bonifica in prospettiva culturale
Il tema della bonifica ha sollecitato una produzione storiografica particolarmente ricca. Dall’età antica a quella contemporanea, la necessità dell’uomo di modificare il territorio per adattarlo alle proprie esigenze ha rappresentato un veicolo di cambiamenti istituzionali, economici e tecnici. E così, molto spesso, la bonifica è diventata un fattore di modernizzazione e sviluppo, e come tale ha richiamato l’attenzione di studiosi di diversa formazione. La storiografia ha affrontato l’argomento da varie angolazioni, perché la storia della lotta dell’uomo contro le acque è storia istituzionale, dell’agricoltura, del pensiero politico, del diritto, dell’impresa, della cultura igienico-sanitaria, solo per individuare alcuni dei principali ambiti interpretativi2.

A lungo gli storici si sono soffermati sugli aspetti istituzionali della bonifica, ossia sui processi politici di elaborazione degli interventi sul territorio, innescati da mutamenti di assetto, contese territoriali, o relazioni fra gruppi d’interesse, con varie alchimie nel rapporto fra pubblico e privato. Parallelamente, sono stati approfonditi gli aspetti di carattere tecnico, sia perché la bonifica è proceduta anche sull’onda di importanti innovazioni, che hanno via via consentito una migliore gestione delle acque, sia perché i saperi legati agli aspetti di controllo idrogeologico del territorio raramente sono rimasti confinati in questo ambito, e hanno conseguentemente influito – positivamente – sul progresso di attività protoindustriali e industriali. E ancora, sono stati analizzati gli esiti dell’attività di prosciugamento e irreggimentazione delle acque, in termini di progresso agricolo, di antropizzazione, o di crescita delle aree urbane3.

Più di recente, invece, è emerso un nuovo filone d’interesse, che mette in relazione la bonifica con la cultura economica e materiale. In questo senso, si vuole risalire alle motivazioni intrinseche che hanno originato determinati interventi ambientali, per comprendere – attraverso lo studio dei progetti – che tipo di visione e considerazione del territorio si è avuta nelle epoche passate. È abbastanza scontato che l’idea di palude che si poteva avere nel medioevo è radicalmente differente da quella ottocentesca, quando la cultura di uno sfruttamento intensivo e razionale del suolo aveva già ampiamente impregnato il senso comune. Ma quest’ultimo paradigma è a sua volta differente dalle elaborazioni culturali degli anni settanta e ottanta del Novecento, che in un certo senso – sull’onda dell’ecologismo e delle sensibilità ambientali – hanno riattualizzato le idee di una certa naturalità e genuinità dell’acquitrino, inteso come oasi faunistica da preservare contro l’avanzata di una civiltà in buona parte responsabile sulla distruzione dell’ambiente4.

Ad epoche storiche differenti – e ad aree geografiche differenti – corrisponde una diversa cultura della bonifica, dell’ambiente, del territorio e del suo sfruttamento economico. E in questa direzione molte piste di ricerca sono ancora da percorrere, e anzi il dibattito in merito appare assolutamente vivace e degno d’interesse. Una delle fonti privilegiate per questo genere di indagini è, come si è già anticipato, l’analisi dei progetti di bonifica relativi ad un determinato territorio, perché attraverso di essi si può capire moltissimo in fatto di cultura economica e dell’ambiente. Innanzi tutto, il «problema idraulico» che sollecita il progetto ci ragguaglia sulla principale motivazione della bonifica, che può essere di carattere difensivo, ossia per evitare periodici allagamenti, o igienico-sanitario, perché la palude alimenta le febbri malariche, o ancora esclusivamente economico, per ricavare terra coltivabile in un’area altrimenti non sfruttata. Oltre a questi aspetti, ogni progetto ci dice anche che tipo di razionalità sottendeva alla cultura dell’ambiente, perché in certi casi si voleva solo separare stabilmente la terra dalle acque, in altri, invece, si cercava di prosciugare completamente l’acquitrino. Mentre il primo caso è tipico dell’età medievale e moderna, quando la palude era considerata un elemento naturale del paesaggio, e pure una risorsa economica, il secondo rivela una razionalità tipica degli ultimi secoli, di dominio dell’uomo sulla natura, attraverso interventi profondi e radicali volti ad eliminare tutto ciò che è poco produttivo e a promuovere uno sviluppo di carattere capitalistico5.

In questo contributo, si vuole proporre un confronto fra due progetti, destinati a risolvere il medesimo problema idraulico, ossia i continui e gravi allagamenti e impaludamenti che interessavano una vasta area di pianura compresa tra Bologna, Ferrara e Ravenna. Qui, nel corso dell’età moderna, il Reno, il Po di Primaro e altri fiumi spagliavano le proprie acque in maniera disordinata e sposso incontrollata, tanto che per vari secoli il territorio fu caratterizzato dalle cosiddette «valli», ossia degli acquitrini particolarmente vasti e dai confini mutevoli, che rendevano problematico e disagevole l’insediamento dell’uomo, le coltivazioni agricole e le attività produttive in genere.

Il primo progetto che si vuole considerare è quello di Gian Battista Aleotti, datato 1601 nella sua versione definitiva6. Il secondo, invece, è quello di Giovanni Antonio Lecchi, successivo di oltre un secolo e mezzo, dato che risale al 17677. Nel corso del Seicento e della prima metà del Settecento, le condizioni del territorio emiliano-romagnolo qui considerato mutarono in maniera non troppo significativa, e allo stesso tempo il grado di sviluppo tecnologico non cambiò radicalmente, per cui possiamo dire con una certa approssimazione che gli strumenti tecnici a disposizione di Aleotti e di Lecchi erano i medesimi. Certamente la scienza galileiana aveva fatto i suoi progressi, così come lo Stato della Chiesa, fiorente e ben organizzato agli inizi del Seicento, sarebbe stato in significativo declino un secolo e mezzo più tardi, ma si tratta di questioni che non inificiano il nostro confronto. Più che altro, come vedremo, i due progetti sono strutturalmente differenti, perché ubbidiscono ad orizzonti culturali diversi, che implicano esigenze di trasformazione territoriale altrettanto discordanti.

Va anche ricordato che i progetti idraulici qui considerati, così come tutti gli altri delle medesime fasi storiche, non erano elaborazioni scientificamente astratte, ma tenevano conto di interessi concreti, che li sottendevano e determinavano. Infatti, data la contrapposizione politica fra bolognesi, ferraresi e romagnoli, la bonifica diventava un vero e proprio terreno di scontro, per cui nei singoli progetti si ritrovano tentativi di favorire questa o quell’altra parte o di cercare una mediazione. Tuttavia, se l’insieme degli interessi in campo poteva indubbiamente incidere su certe scelte tecniche, pare difficile credere che potesse condizionare la cultura dell’ambiente propria di chi redigeva materialmente il piano di intervento. Quindi, nel presente contributo, si lascerà sullo sfondo l’analisi dei condizionamenti «politici» nei confronti di Lecchi e Aleotti, perché non funzionali al tipo di analisi che qui si vuole fare.

In sintesi, si vuole affrontare un caso locale in generale abbastanza studiato – la bonifica nella pianura emiliano-romagnola centro-orientale – da un’ottica essenzialmente nuova, in linea con le tendenze storiografiche più recenti e con una metodologia aggiornata ma allo stesso tempo solida. Il contributo euristico che emerge da questo studio, poi, non ha esclusivamente una valenza locale, perché si inscrive in un dibattito di più vasta portata, relativo alla transazione da una cultura economica di antico regime ad una di carattere protocapitalistico, che conteneva già molti di quegli ingredienti che avrebbero trovato adeguato sviluppo tra Ottocento e Novecento.


2. L’assetto del territorio

Prima di calarci nell’analisi dei progetti di Aleotti e Lecchi è necessario ripercorrere per sommi capi l’assetto del territorio qui considerato dalla fine del Cinquecento alla seconda metà del Settecento. Si tratta di un periodo nel quale varie trasformazioni intervennero a modificare l’ordine idraulico della pianura bolognese, ferrarese e ravennate, ma nessuno di questi cambiamenti ebbe un carattere risolutivo e radicale, per cui – come anticipato – i problemi che si presentavano a cavallo tra il XVI e il XVII secolo e quelli della metà del XVIII secolo erano molto simili, e soprattutto avevano origine dalle medesime cause8. In questo paragrafo, quindi, si forniscono le informazioni generali e fondamentali sulle caratteristiche idrogeologiche di questo territorio, mentre i singoli dettagli – magari mutati fra l’inizio del Seicento e la metà del Settecento – si ritroveranno consustanzialmente all’analisi dei progetti.

La zona compresa tra Bologna, Ferrara e Ravenna è parte della più vasta pianura padana, nata per effetto delle alluvioni millenarie provocate dai fiumi alpini e appenninici nelle loro cangianti traiettorie. Nell’alta pianura emiliano-romagnola, la lieve inclinazione altimetrica fu sufficiente perché i torrenti si escavassero autonomamente il proprio alveo conoidale, senza che occorressero troppi interventi umani per regolare il deflusso. Invece, nella pianura media, e ancor più nella cosiddetta «bassa», dove l’inclinazione è molto ridotta, i fiumi tendevano a interrire i letti con i propri detriti di origine montana e collinare, e si elevavano sul piano della campagna, con conseguenti spagliamenti d’acqua9. Dall’antichità, lungo i secoli medievali, fino alla prima età moderna, l’azione dell’uomo si esercitò innanzi tutto attraverso opere di arginatura che contenessero le portate dei torrenti. In caso di rotte, però, era spesso impossibile ripristinare la situazione precedente, e il fiume si escavava un nuovo alveo, che a sua volta poteva venire arginato. Questa instabilità è storicamente cronica nell’area a ridosso del Po di Primaro (o Po d’Argenta), ramo meridionale del Po che fungeva da collettore principale dei fiumi appenninici, e che era letteralmente circondato da aree paludose e acquitrini collegate da riazzi torrentizi, che oltre a «valli» prendevano a volte il nome anche di «lame»10.

L’interrimento dei fiumi principali, come il Reno o i vari rami del Po, non significava solamente un rischio di esondazioni, ma anche un danno per i commerci fluviali, all’epoca frequentissimi, dato che la navigabilità dei corsi d’acqua era fortemente compromessa. Per questo, nel corso di tutta l’età moderna, un ingente volume di risorse fu impiegato nel riescavo degli alvei dei principali fiumi navigabili11.

Infine, dato che l’azione dell’uomo poteva modificare in maniera significativa il paesaggio, anche solo con un’arginatura, un taglio o una disalveazione, le dispute idrauliche fra le comunità locali limitrofe furono accesissime, e fonte di tensioni, conflitti, particolarismi. Questa situazione fece sì che nel corso del Seicento e della prima metà del Settecento venissero eseguiti un buon numero di piccoli interventi, spesso di natura locale, ma che non si trovasse mai una concordanza fra bolognesi, ferraresi e romagnoli per un progetto di ampia portata. I principali ingegneri idraulici dell’epoca, ingaggiati ora dall’una ora dall’altra parte, elaborarono piani che beneficiavano una zona piuttosto che un’altra, con il risultato che nessun progetto trovò mai una unanimità di consensi12. Questo immobilismo, in sintesi, è la principale ragione della similitudine idraulica dell’Emilia-Romagna al tempo di Aleotti e a quello di Lecchi.
...


Padova, Pava, Padoa, Padua, Paduxa, Patavnos/Patavium

viewtopic.php?f=151&t=425
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 1tNG8/edit


Pava çità d’acoa
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... padova.jpg


Cfr. co Padule
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Padule.jpg


Po, Padus, Bodinkus/cos,*Bodencos, Eridano
viewtopic.php?f=45&t=424
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... t3ZFk/edit
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 6:45 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 9:25 pm

Vàƚi grande veronexi

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... xatelo.jpg


Vàƚi veronexi
http://it.wikipedia.org/wiki/Valli_Grandi_Veronesi
Le Valli Grandi Veronesi, talvolta chiamate Valli Grandi Veronesi e Ostigliesi, sono una regione geografica situata tra l'Adige a nord-est e il Po a sud; il confine sud-orientale, indefinito, le separa dal Polesine e il confine nord-occidentale, indefinito anch'esso, le separa dal medio veronese. Contrariamente al nome ("valle" ha infatti anche questo significato), non si tratta d'una zona paludosa, ma sono chiamate ancora valli a testimonianza della recente bonifica; inoltre non si tratta d'una zona veronese, ma comprendono anche parte della provincia di Mantova e della provincia di Rovigo.
Anticamente erano conosciute come paludes Tartari fluminis ossia paludi del fiume Tartaro, dal nome del corso d'acqua che storicamente ne ha caratterizzato l'estensione. Furono progressivamente bonificate, anche se non completamente, e il territorio conobbe un periodo florido, in particolare durante l'Alto Impero Romano (???) durante il quale furono attive due ville; la frequentazione del territorio è riscontrata fino al 500 circa


http://www.valligrandiveronesi.it/index ... 6&Itemid=2

C'era una volta, all'incirca un milione di anni fa, un grande golfo marino racchiuso tra le Alpi e gli Appennini che, con il passare dei millenni, si riempì di sfasciume morenico e detriti grazie all'azione combinata dei fiumi, dei torrenti e dei ghiacciai. A causa di questa opera di riempimento provocata dalla natura, il mare cominciò a ritirarsi lasciando posto a quella che noi oggi conosciamo e chiamiamo Pianura Padana. ???

Anche la pianura veronese si è formata e modellata come quella Padana seguendo l'andamento dei corsi d'acqua che la attraversano e la si può delimitare tra il fiume Tione e il fiume Guà considerando che si divide in tre zone ben distinte: l'Alto Agro Veronese del tutto ghiaioso, l'Agro Veronese in gran parte sabbioso e le Grandi Valli Veronesi e Ostigliesi che occupano una estesa depressione sabbiosa e paludosa.

L'Alto Agro Veronese comprende il conoide del fiume Adige e la piana ghiaiosa rimasta dopo la formazione delle colline moreniche nel corso delle varie glaciazioni. Esso è costituito da materiale di origine atesina, da detriti morenici e da un sottile stato di terreno fertile.

Lungo il confine tra l'Alto Agro e l'Agro Veronese, si trova la linea delle risorgive che si estende dal fiume Mincio fino all'Adige. In questi luoghi le acque affiorano dando vita a fossi e fiumi che attraversano da Nord verso Sud-Est la fertile e produttiva terra di pianura, divenuta così perché la presenza dell'acqua, la laboriosità e l'intelligenza umana si sono, per molti secoli, coalizzate.

Una storia a parte la meritano le Grandi Valli denominate così nel primo progetto di bonifica redatto nel 1852 dall'Imperiale Regio Governo Austriaco e che da allora conservano questo nome.
Queste terre sono sempre state ricche di acqua che però, con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, andarono sempre più ad impaludarsi. Quando Venezia le conquistò, non bonificò i terreni acquitrinosi perché li considerava luoghi difficili e pericolosi da attraversare, sia per gli amici che per i nemici.

La bonifica terminò nel 1928 e finalmente tali terre, infrigidite dal perdurare dell'acqua divennero, una volta dissodate, fertili. La costruzione di argini, gli scassi di terreno e le arature portarono in superficie la preistoria e la storia della pianura veronese abitata fin dal Neolitico da popolazioni della cultura palafitticola e, in alcune zone, di quella terramaricola.

Fu abitata dai Veneti, dai Celti e, tra il fiume Tartaro e il fiume Mincio, dagli Etruschi.

Venne occupata e suddivisa in centurie dai Romani (???), subì le trasmigrazioni germaniche e l'onta barbarica degli Unni; fu territorio scaligero, conteso ad Ovest dai mantovani e a Sud-Est dai padovani.
Per un breve periodo fu territorio visconteo per poi divenire veneziano.
Subì le scorribande e le devastazioni di vari eserciti e, nel 1866, venne annesso all'Italia. Testimonianze preistoriche e protostoriche si trovano nei musei di Gazzo Veronese, di Isola della Scala, di Legnago, di Cologna Veneta ed in altri musei: Concamarise, Bovolone, Buttapietra e Arcole dove è esposta la parte storica a quella etno-grafica che rende ancora viva la cultura contadina tramandata per secoli e che si è scontrata più volte con la cosiddetta Storia.
La pianura veronese risulta, in alcune zone, fortemente antropizzata ma l'uomo è riuscito a conservare e a rivitalizzare alcuni luoghi umidi presenti lungo i corsi d'acqua, intorno alle pozze risorgive e alle ultime paludi rimaste, come la palude del Busatello, la palude del Brusà e l'estesa zona risorgiva del fiume Bussè.
Il fatto stesso di riprendere la conoscenza del territorio, ha sviluppato una ricerca verso la propria storia, le proprie tradizioni e la propria cultura cercando di far conoscere, al di fuori del proprio ambiente, le peculiarità che offre la variegata pianura veronese e che presenta, stranamente, fantastici orizzonti verticali.
L'ambiente ha contribuito tantissimo nel forgiare la cultura di genti operose che nella povertà dei mezzi è riuscita ad ingegnarsi per superare le difficoltà quotidiane. La realtà contadina sviluppatasi nel periodo romano, viene, con tutt'altre regole, ripresa nel periodo longobardo, e sviluppata nel periodo storico denominato monachesimo. Da allora si può vedere la lenta ma costante trasformazione di questo mondo, che a volte a noi sfugge e banalmente lo consideriamo ormai passato. A livello temporale è vero, ma la tradizione e la cultura contadina in tale lembo di Pianura Padana, attraversato dal fiume Adige, sono ancora presenti e lo possiamo constatare attraverso alcuni elementi come l'architettura, la tecnologia, la fede religiosa, la famiglia e, anche se da poco riportate in auge, le abitudini alimentari.
Alcune di esse sono radicate nella quotidianità, mentre altre sono state riprese perché il gusto è memoria. Perciò avere ancora l'orto, poter allevare animali da cortile o recuperare la tradizione del maiale sono operazioni culturali che si esprimono molto bene prendendo in prestito le parole di Gino Brunelli "La cucina come assieme di consuetudini e di regole custodite dalle tradizioni, è uno dei mezzi di illustrazione più efficace per chi voglia disegnare il volto di una società, ed è molto di più di un fatto di costume".
Il progresso tecnologico ha sradicato, purtroppo, certe tradizioni, ma in cucina la cultura rurale ha resistito. E' una cucina povera, semplice e genuina, che trae i suoi ingredienti dalla campagna, dall'orto e dall'aia.
(testo di Augusto Garau)




VALLI GRANDI VERONESI - Enciclopedia Italiana (1937) di Arrigo Lorenzi
http://www.treccani.it/enciclopedia/val ... i-veronesi

VALLI GRANDI VERONESI (A. T., 24-25-26). - Nella Pianura Padana, a monte del Polesine, dove il corso pensile dell'Adige volge a SE. e poi decisamente a E., prendendo così una direzione parallela a quello del Po, s'interpone tra i due fiumi un'area di terreni depressi sui quali le molte acque che affluiscono, prima delle recenti opere di prosciugamento ristagnavano in vaste paludi.
Secondo il significato che in alcuni dialetti della Pianura Padana ha la parola valle, queste paludi formanti un'unità idrografica erano chiamate Valli Grandi Veronesi e Ostigliesi, le prime sulla sinistra, le seconde sulla destra del Tartaro, il fiume che le attraversava.

Tacito nelle Storie (III, 9) le denomina appunto Paludes Tartari fluminis.

Evidentemente, fra Mincio e Adige, a valle dei ripiani alluvionali dell'Olocene antico, vi è una bassura dovuta a minore colmamento, chiusa fra le strisce di terreni più elevati che accompagnano i corsi del Po e dell'Adige. Le correnti alpine infatti abbandonavano gran parte delle alluvioni sui loro lati elevando il terreno più che nello spazio intermedio, dove il limpido Tartaro, generato dalle sorgenti che affiorano tra S. Giovanni Lupatoto, Fracazzole, Fovegliano (la fontana Poli a 44 m. s. m.) e Circomano (31 m. s. m.) riceve scarso tributo di torbide dai torrenti (Tione e altri) che traggono origine dalle colline moreniche benacensi: perciò deve avere avuto principalmente funzione di epuratore. Il terreno scende notevolmente inclinato da N. a S., leggiero è invece il declivio da ponente a levante: di conseguenza, i corsi d'acqua che dovettero disporsi secondo la maggiore pendenza, tanto più si avvicinano alla prima di queste direzioni quanto maggiore è la differenza rispetto alla seconda.
Oltre alle acque sorgive, si raccolgono nel bacino idrografico del Tartaro le precipitazioni atmosferiche cadenti direttamente su una superficie di circa 850 kmq. e le effiltrazioni laterali del Mincio, del Po e particolarmente dell'Adige che fiancheggia la bassura per circa 50 km., e ancora le acque estranee al bacino medesimo, immesse artificialmente con derivazioni dall'Adige e dal Mincio.
L'estensione che le paludi avevano negli ultimi secoli e di cui si dà qui la rappresentazione cartografica per il periodo immediatamente anteriore alla bonifica, era alquanto maggiore di quella che avevano nell'epoca preistorica e in quella romana, come prova il fatto che in alcune parti del fondo prosciugato si dissotterrarono oggetti neolitici, ruderi di edifici romani (epova veneto-romana), pavimenti a musaico, capitelli e fusti di colonne, oggetti di uso funerario e domestico. Alla profondità di metri 1,50-2, presso il bastione di S. Michele fra Tregnon e Boldier e alla Torretta Veneta, si estrassero pure grossi tralci di vite.
Le paludi nell'epoca romana occupavano soltanto la parte più depressa della regione: a ridosso dell'argine nuovo, secondo le livellazioni fatte dopo il prosciugamento, questa parte depressa giaceva a soli m. 7,52 sopra il comune marino, quota inferiore a quella delle campagne più a valle (Trecenta è a 11 m. sul mare).

Parecchie cause devono avere contribuito alla progressiva estensione delle paludi.
Anzitutto il lento spostamento positivo (alsamento) del livello marino dall'epoca romana in qua, per il quale i fiumi dovettero innalzare i loro profili longitudinali; poi il prolungamento degli alvei per il protrarsi delle foci a mare specialmente dopo il 1300, dal quale prolungamento doveva pure conseguire un innalzarsi dei profili medesimi.
Le difficoltà di smaltimento delle Valli Veronesi dovettero aumentare.
Furono accresciute dalle rotte dell'Adige e da opere umane.


Lagouna veneta (pristoria e storia)
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Causa importante dell'estendersi delle paludi dovette anche essere la diversione fatta dall'Adige nel 589 alla Cucca (ora Veronella) presso Cologna Veneta. Infatti il corso inferiore del fiume avvicinatosi maggiormente al Po, restringendo a valle l'area di raccolta delle acque, le fece estendere a monte.

Il nuovo alveo atesino in breve tempo si fece pensile sulla pianura, sino a non poter più ricevere affluenti. Queste condnioni si aggravarono più tardi, quando, circa alla metà del sec. XV (se non alquanto prima) si aprì per una rotta la ramificazione del Castagnaro che dalla destra dell'Adige mise nel Tartaro, portando a questo le "acque bianche" del fiume alpino, donde il nome di Canal Bianco che a valle di Canda tuttora mantiene il corso inferiore del Tartaro.

Il letto del Castagnaro dovette progressivamente innalzarsi per la copia di materie che la corrente solo in parte riesciva a portare in mare; da ciò anche un crescente elevamento del pelo delle piene. Tale progressivo interrirsi del Canal Bianco traeva con sé quello del Tartaro a monte del Castagnaro, rendendo cosi ancora più difficile lo scolo di quelle campagne mantovane, veronesi e polesane che avevano nel Tartaro il solo e necessario scaricatore. Anziché defluire, le acque di piena rigurgitavano per il Tartaro inondando e allagando.

Si aggiunga che al restringersi dell'area più depressa ove si raccoglievano le acque, contribuirono l'argine destro del Tartaro costruito dal Ferraresi nel sec. XVII allo scopo di prosciugare terreni fra Tartaro e Po, l'argine sulla sinistra del fiume elevato inferiormente a Zelo e l'arginamento anulare fatto per difendere la presa di Giacciano. Essendosi così ridotta l'area della palude, le molte acque che tuttavia vi confluivano dovettero estendersi verso monte. Si noti poi che dall'accennata inclinazione del suolo da N. a S., conseguivano una notevole velocità del corso superiore del Tartaro e degli affluenti e un rapido scendere delle piene nel corso inferiore; durante le magre i corsi superiori erano assai poveri d'acqua. A siffatti inconvenienti, prima della bonifica, s'era creduto di riparare con imbrigliamenti e sostegni, producendo così dislivelli artificiali, la cui energia meccanica valse a muovere molini e pile da riso, ma d'altra parte queste opere ritardavano e impedivano il libero scarico delle acque. Nei mesi più piovosi gli alvei erano insufficienti a smaltire tanta copia, sì che vi era prevalenza degli afflussi sugli efflussi, dalla quale doveva derivare un immenso allagamento. Non è qui il luogo di rifare la lunga storia del Castagnaro, assai bene esposta da Pietro Paleocapa, che con la sua autorità riuscì a ottenere quella stabile e perpetua chiusura del dannoso diversivo che già Scipione Maffei aveva auspicata con solide ragioni. Dimostrava anche il Paleocapa quali immediati vantaggi avrebbe avuto il bacino idrografico del Tartaro, ma causa l'elevatezza dell'alveo non avrebbe potuto fruirne la parte più depressa delle Valli, palude antichissima e relativamente profonda. La chiusura stessa, effettuata nel 1838, era la condizione necessaria perché fosse possibile il prosciugamento. Il concetto fondamentale del Paleocapa era di dividere le acque dei terreni alti dalle basse, destinando a recipiente il Tartaro per le prime e scavando un canale apposito per le seconde. Questo canale, tracciato sulla linea di massima depressione della Valle, fu detto Fossa Maestra ed è lungo 47 km. Ma libero smaltimento nel Tartaro non potevano avere le acque dei terreni più elevati, perché la loro altezza non era sufficiente all'uopo; perciò si dovettero immettere nella Fossa Maestra. Questa fu una delle principali ragioni del fatto che la bonifica completa non riuscì e dopo nuovi studî si riconobbe la necessità di scavare un altro grande canale emuntore. Parecchie macchine idrovore tengono asciutti i terreni di più difficile scolo (ora sono in numero di 35).

Come tutte le regioni paludose, per loro natura poco praticabili e di regola disabitate, durante lunghi secoli anche le Valli Veronesi furono un territorio subecumenico, dove si avventuravano i cacciatori i pescatori e i raccoglitori di prodotti vegetali spontanei. Esplorate, benché incompiutamente, dai botanici nel sec. XIX, rivelarono una importante flora palustre.

Un nuovo periodo della storia dell'occupazione delle valli da parte dell'uomo s'iniziò con l'introduzione del riso nel Veronese, avvenuta nella seconda metà del secolo XV (v. riso, XXIX, p. 425).

Il periodo della bonifica e della coltivazione incominciò con i lavori di prosciugamento nel 1857. Dopo l'escavazione della Fossa Maestra, i proprietarî delle paludi prosciugate diedero mano al dissodamento del fondo messo allo scoperto. Su un potente deposito di argilla, attraversato da grosse radici di canne, si succedevano gli strati organogeni, cioè formati da generazioni estinte della fauna e della flora palustre. Per la decomposizione avvenuta a contatto con l'atmosfera, si formò fertile humus, ma nel medesimo tempo, anche per l'uso del debbio, ne diminuì assai il volume. Dopo trent'anni, nella parte più bassa si riscontrarono depressioni del fondo da m. 0,96 a m. 1,38. Mentre la coltura del riso, che in passato si faceva su notevole estensione, ha oggi poca importanza, la massima parte dei terreni è data al mais, al frumento, alla barbabietola da zucchero, al tabacco e al ricino. Predomina la grande proprietà e perciò le case coloniche sono tuttora scarse. Dall'epoca dei moti agrarî s'è incominciato a dividere i terreni per affittarne piccoli lotti, ma i coltivatori, essendo privi di capitali, si accontentano di eseguire pochi ed affrettati lavori e non abitano sul posto. Tuttavia se la primavera non è troppo piovosa, il prodotto che ne ricavano compensa le poche fatiche e le poche spese.

Bibl.: A. Averone, Sull'antica idrografia veneta, Mantova 1911; G. Bellini, Intorno al rasciugamento delle Valli Veronesi e Ostigliesi. Sunto storico, Lendinara 1872; F. Bocchi, Saggio storico del Canal Bianco di Polesine, Adria 1870; F. M. Canestrari, Bonificamento delle paludi dette Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi, Verona 1867; Hotze, Über die Entwässerung der grossen veronesischen Sümpfe. Eine militärisch-topographische Skizze, in Österreichische militärisch Zeitschrift, 1871; Inchiesta agraria; E. Lombardini, Studi idrologici e storici sopra il grande estuario Adriatico, in Memorie dell'Istituto Lombardo, XI, 1869; A. Lorenzi, Studi sui tipi antropogeografici della pianura padana, in Rivista Geografica Italiana, 1914; J. Martelli, Cenni sulle bonificazioni delle provincie venete e di quella di Mantova, in Memorie Illustrative del regno, XI; F. Masè, Ricerche botaniche sulle Valli Ostigliesi nel 1866-67, in Atti della Società italiana di scienze naturali, XI, fasc. 3, 1868; Ministero di agricoltura industria e commercio, Carta idrografica d'Italia; Cenni sulle bonificazioni delle province venete e in quella di Mantova, con tre carte annesse, Roma 1892; E. Nicolis, Sugli antichi corsi del fiume Adige, in Bollettino della Società Geologica Italiana, XVII, 1898, fasc. I; E. Paglia, Saggio di studi naturali sul territorio mantovano, Mantova 1879; P. Paleocapa, Memorie di idraulica pratica, Venezia 1859; C. Pollini, Flora Veronensis, Verona 1822-1824; A. Zanella, Esposizione compendiata dei lavori di bonificazione delle Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi eseguiti a tutto giugno 1865, Verona 1865; id., Del bonificamento delle Paludi che erano le Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi, Verona 1881; id., Le Valli Grandi Veronesi prima della bonifica. Ricordi storici, in Archivio Storico Veronese, XXIII, ottobre 1884, fasc. LXVII, Verona 1884, pp. 30-53; R. Zoppellari, Studio sul regime di Tartaro e di Canal Bianco prima e dopo i lavori di bonifica, sulle condizioni di scolo delle basse valli a tutto il 1896, Legnano 1897.

http://www.prolocobassoveronese.it/inde ... pagina=428
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 9:28 pm

Ƚe vàƚi, bàsure, buxe o ciòxe (o cioda/cloda/clodia/cladia), sake, ƚi laghi, ƚe conke, ƚe cave/cavini/cavane de ƚa bàsa pavana:

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Cenni storici sul Consorzio di Bonifica Adige Euganeo
http://www.adigeuganeo.it/menu-istituzi ... 06c10.html

Il Consorzio di bonifica Adige Euganeo fu costituito con deliberazione della Giunta regionale del Veneto il 19 maggio 2009, in seguito all’approvazione della Legge regionale 8 maggio 2009, n. 12, “Nuove norme per la bonifica e la tutela del territorio”.
... Tale territorio in tempi remoti presentava una sistemazione idrogeologica profondamente diversa da quella odierna: era sede di numerose aree paludose, acquitrini, corsi d’acqua privi di arginature e il cui letto, in alcuni casi, fu deviato forzatamente dalla mano dell’uomo.
La storia della trasformazione idrografica, ambientale e paesaggistica, e di uso del suolo, avvenuta in quest’area è molto complessa. L’azione dei privati si intrecciò, nel corso dei secoli, con quella dello Stato. Troppo spesso, tuttavia, le scelte tecniche compiute e i tempi di esecuzione delle opere furono determinati dai capitali di volta in volta disponibili, con conseguenze spesso gravi per l’equilibrio idrogeologico dell’area.


Dal Basso medioevo al Cinquecento

Fin dai secoli XII-XIII si trovano notizie di interventi compiuti nell’area in questione al fine di sottrarre alle acque terreni da adibire a coltura.
I primi ad agire in modo sistematico ed efficace in questo senso furono i monaci benedettini.
Nel territorio padovano il vero protagonista delle opere di bonifica in età medievale fu il Monastero di Santa Giustina il quale, nei secoli XI e XII, ricevette molte donazioni da parte dei vescovi patavini e lasciti di grandi famiglie feudali. Si formarono così notevoli estensioni agricole, che furono costantemente valorizzate da accorte opere di bonifica volte a prosciugare i terreni ubicati sopra il livello del mare. Nel XVI secolo il possedimento dei monaci aveva raggiunto l’estensione di diecimila campi padovani (circa 3.860 ettari). I Benedettini di Santa Giustina, da quanto viene tramandato, furono i primi a compiere opere idrauliche nel comprensorio del Consorzio Liona-Frassenella in provincia di Vicenza, costruendo, in particolare, le arginature degli scoli Liona, Siron, Seonega, Gorzon ed Arnalda. Il modello agrario dei monaci di Santa Giustina venne imitato dall’altra grande abbazia padovana, S. Maria di Praglia, aggregatasi alla medesima congregazione benedettina nel 1448, così come dai canonici regolari di Candiana e dai frati di Bagnoli.
Fra tutti i consorzi elementari che diedero origine all’attuale Consorzio Adige Euganeo meritano di essere ricordate le origini molto antiche del Consorzio Ottoville che risalgono all'unione, nel 1100 circa, di quattro “ville” padovane (Bastia, Carbonara, Zovon, Boccon) e di quattro “ville” vicentine (Barbarano, Albettone, Lovertino, Lovolo) a scopo di difesa idraulica. Il Consorzio Bacchiglione-Fossa Paltana sembra risalire al XIII secolo2. Di origini molto antiche, infine, è anche il Consorzio di Valdentro, costituito nel 1405 da un decreto estense e riconfermato dalla Repubblica Veneziana nel 15033.
Verso la metà del Cinquecento il riordino idraulico realizzato dai monaci suscitò nei proprietari di terreni vallivi a monte della Fossa Paltana il desiderio di ampliare le aree bonificate cosicché si venne a costituire un sistema consortile, il primo del genere, la cui presidenza venne assunta dall'Abate di Santa Giustina e che prese il nome di Consorzio della Fossa Paltana. Anche le prime opere di bonifica in quello che poi divenne il Consorzio di bonifica Liona Frassenella sarebbero state compiute sotto l'egida dei monaci Benedettini.

Ancora agli albori del XVI secolo i corsi d’acqua scorrevano liberi nell’entroterra veneziano. La terraferma veneta appariva come una vera e propria “pianura liquida”, con grandi estensioni di terreno impaludato, spesso definite ‘laghi’, come quello di Vighizzolo, Anguillara, Vescovana o Cuori, per fornire soltanto alcuni esempi. Nei primissimi anni del Cinquecento la Serenissima dovette prendere atto che non era possibile ignorare l’intima connessione del regime lagunare con quello idrografico della regione retrostante.

Su deliberazione del Consiglio dei Dieci nel 1501 furono dunque eletti tre Savii alle acque che avevano fra i loro compiti quello di revisionare i titoli di legittimo godimento privato nell’ambito lagunare, ordinare la distruzione di tutte le opere arbitrariamente eseguite e imporre pesanti sanzioni a coloro che compromettevano l’integrità della laguna. Si trattava del primo nucleo del vero e proprio Magistrato, il cui assestamento si protrasse per tutta la prima metà del secolo e oltre. Nel 1505 venne istituito il Collegio alle acque, essendo maturata l’esigenza di affiancare all’organo esecutivo un organo consultivo6. Nel 1545, in seguito ad un anno di clima inclemente e di raccolto scarso, si decretò l’elezione di “tre Provveditori sopra i loci inculti del dominio e sopra l’adacquazione dei terreni” con il compito di sottoporre al Senato le proposte di bonifica ritenute necessarie e, in caso di approvazione, di sorvegliare l’esecuzione dei lavori.
Nell'ottobre del 1556 il Senato Veneto impartì precise disposizioni al Magistrato ai Beni Inculti per rendere produttivi i vari terreni desolati del Padovano, del Vicentino, del Veronese, del distretto di Asolo, del Polesine e dell'Istria. Il Magistrato, a sua volta, decretò l'esecuzione dei lavori di scolo delle Valli del Gorzon, di quelle di Monselice, Baone ed Arquà, delle Valli da Lozzo al Frassine e di quelle della Brancaglia.
Tra il dicembre 1555 e il gennaio 1556 vennero riconosciuti i consorzi di Vescovana, Vighizzolo, Val di Biasio, Ponara, Bagnacavalla, Pincara, Villa Lonigo, Schiavon, Pozzo, Pogliana e Cologna. Fra il 1556 e il 1558 il Senato Veneto decretò la costituzione di numerosi nuovi consorzi: Gorzon Medio, Gorzon Inferiore, Lozzo, Cavariega, Brancaglia Inferiore, Gorzon Superiore-Frattesina, Retratto-Monselice. Valcinta, Valgrande, Cuoro, Retratto Monselice e Vampadore, Palù Catajo (1556). Al Lago di Vighizzolo appartenevano i terreni più depressi dei Consorzi Cavariega, Gorzon Superiore - Frattesina e la parte meridionale del Consorzio Brancaglia Inferiore; al Lago dei Cuori e alla maggior parte di quello della Grignola le maggiori depressioni del Comprensorio del Consorzio Gorzon Inferiore; alla rimanente parte di quello della Grignola e al Lago di Vescovana i terreni più bassi del Consorzio Gorzon Medio. Anche il Consorzio di bonifica Ronego (Cologna Veneta), risale al periodo aureo della Repubblica Veneta essendo stato istituito con Decreto del Senato Veneto in seguito alla Terminazione del Magistrato dei Beni Inculti 30 giugno 1563.
La prima opera del Magistrato sopra i Beni inculti fu la redenzione del comprensorio del Consorzio Retratto-Monselice, costituito con la Terminazione 6 agosto 1557, esteso circa 10.000 campi vallivi situati nei comuni di Galzignano, Valsanzibio, Arquà e Baone, tra il canale detto di Monselice (da Este a Battaglia) e i Colli Euganei. L’anno successivo, nel 1558, i Consorzi Gorzon, Lozzo e Brancaglia iniziarono la bonifica naturale dei terreni di loro competenza, che corrispondevano più o meno a quello che sarebbe poi divenuto il comprensorio del Consorzio di Bonifica Euganeo-Berico.
Per la bonifica del Consorzio Gorzon, sicuramente la più importante bonifica attuata dalla Serenissima, uno dei Provveditori si insediò a Este, da dove poteva controllare ogni aspetto dei lavori, impartire direttive tecniche, stipulare contratti d’appalto per i diversi lotti e per la fornitura dei materiali e sovrintendere al reclutamento della manodopera. L'origine delle prime attività bonificatrici nel territorio di quello che diventerà il Consorzio Monforesto risale al XVI secolo quando, ad opera della Repubblica Veneta, vennero eseguiti dei prosciugamenti per colmata nella zona est del comprensorio, nel Consorzio Foresto Generale che si trovava quasi totalmente allo stato vallivo. In essa affluivano disordinatamente le acque dei territori superiori del Consorzio Fossa Monselesana.
Le spese a cui dovettero far fronte i proprietari erano elevate, ma l’incremento del valore dei terreni risanati superava però di molto l’onere della tassazione imposta dalla Serenissima, senza calcolare le esenzioni fiscali di cui godevano per un lungo periodo di tempo i proprietari dei terreni bonificati.


Sei-Settecento

Nel secondo decennio del Seicento le bonifiche vennero interrotte per riprendere solamente nel Settecento inoltrato.
La crisi economica, aggravata dal crollo demografico del 1629-31, dovuto agli effetti dell’epidemia di peste, non stimolava ad investire nel recupero di terre paludose. Inoltre, la poca disponibilità di manodopera avrebbe reso dispendiosa anche l’opera più semplice. Si dovette attendere la seconda metà del XVII secolo per assistere ad una ripresa economica, dovuta essenzialmente alle richieste di rifornimenti alimentari imposti dalla guerra di Candia (1645-69) e all’incremento demografico.
Sembra che lavori di bonifica di un certo rilievo iniziarono nel comune di Cavarzere già nel 1650 e nel retratto del Gorzon nel 1663. Alcune opere, invece, furono abbandonate. Nel comprensorio del Consorzio della Fossa Paltana, al posto dei monaci di Santa Giustina nessun'altra autorità fu in grado di provvedere alla conservazione del delicato sistema idraulico frutto di tre secoli di lavoro, e nessuno vigilò durante le piene; era inevitabile perciò che il fiume rompesse gli argini per ben tre volte agli inizi del Settecento e che buona parte dei terreni ridiventassero dominio della palude.

Nei primi anni del Settecento, grazie all’attività del Magistrato alle Acque continuarono le bonifiche idrauliche, come quelle nelle Valli Veronesi, nelle paludi del Montagnese, nel Polesine, nel Trevigiano e nel Friuli. Tuttavia, era stato totalmente trascurato l’ambiente montano, permettendo diboscamenti, mirati alla sostituzione del riso alle colture tradizionali ed erano state estese su vasta scala le colture palustri, che avevano provocato l’impaludamento di vaste zone interne.
Tra il 1650 e il 1750 si contarono, solamente lungo il corso dell’Adige, ben 50 sfondamenti degli argini.
La situazione appariva simile lungo il Brenta, il Piave, il Sile, il Bacchiglione, l’Agno-Guà-Frassine e il Fratta-Gorzone.

Negli ultimi anni della Repubblica Veneta il Consorzio Gorzon inferiore, il Gorzon medio e superiore, il retratto Brancaglia, il Consorzio Fratta e quello delle Sette Prese del Brenta si trovavano in pessime condizioni. Nonostante il Governo cercasse di arginare il problema ogni intervento risultò vano di fronte al perdurante dissesto idro-geologico. Le tecniche di drenaggio utilizzate si rivelarono insufficienti e mancavano i capitali per importare nuovi macchinari.
Alla fine del Settecento esistevano 240 consorzi di bonifica, 63 dei quali nel Veneziano, 56 nel Padovano, 41 nel Veronese, 38 nel Polesine di Rovigo, 31 nel Vicentino e 11 nel Friuli.
L'epilogo del secolo portò rivolgimenti di grande portata storica e profondi mutamenti. Il lungo periodo di pace assicurato dalle armi e dalla saggezza della Repubblica stava per finire sotto l'incalzare vittorioso dell'armata napoleonica. A Padova le truppe confiscarono patrimoni privati e beni degli ordini religiosi.


Ottocento

Durante il Regno Italico e il successivo Regno Lombardo Veneto l’onere della bonifica ricadeva interamente sui proprietari. Alcuni privati tentarono di bonificare le loro proprietà isolandole con soluzioni poco efficaci dalle paludi circostanti e provvedendo alla costruzione di piccoli impianti di sollevamento delle acque, ma gli esiti furono, in genere, disastrosi. Nel 1806 alcuni proprietari del consorzio Foresto, Agostino Marin e suo figlio Antonio, iniziarono una modesta bonifica meccanica utilizzando un rudimentale apparecchio, azionato manualmente, costituito da pale comuni di granone che ruotavano su un asse orizzontale. Il risultato non fu molto incoraggiante, ma il principio scientifico era corretto. Da questi tentativi nacque l’idea di servirsi di una ruota a pale piane. La prima ruota di questo tipo fu costruita dal falegname Sante Baseggio e venne usata nella valle Toffetti (Cona - Venezia). Baseggio adattò successivamente la ruota alla forza del cavallo, utilizzando tre animali per ottenere un lavoro continuo. Nel 1814 Antonio Tassi a Cantarana adottò un sistema simile. A partire dal 1813, a causa di grandi piogge nella tenuta ‘La Contea’, poi ‘Emo’, nel comune di Battaglia (Padova), l’agricoltore Meneghini utilizzò per molti anni una ruota a pale in legno, con sostegno a due luci e doppie porte, azionata dal tiro di un cavallo.
Più tardi, nel 1826, Girolamo Giro tentò, senza riuscirvi, l’asciugamento della valle Civrana (Venezia) mediante una vite di Archimede.
Il vapore apparve nelle campagne venete già all’inizio degli anni Trenta del XIX secolo, quando l’architetto Giuseppe Jappelli convinse il barone Gaetano Testa ad investire del capitale per bonificare il Canale dei Cuori utilizzando la sua ultima invenzione, una speciale pompa aspirante e premente: lo ‘Smergone’. Il barone Testa acquistò i diritti sull’uso della macchina e, nel 1835, stipulò con il Presidente del Consorzio Foresto una contratto di vent’anni per prosciugare con idrovore a vapore il Canale dei Cuori. Il consorzio Foresto, dunque, fu il primo a tentare seriamente l’asciugamento meccanico su vasta scala. Purtroppo, nessuno pensò di arginare il comprensorio, impedendo alle acque dei terreni alti di riversarsi nelle terre basse. Anche dopo essersi reso conto dell’errore commesso Testa persistette nell’impresa frenando così il diffondersi del sistema di bonifica per essiccamento. Fra i proprietari prevalse lo scetticismo, anche perché molti attribuirono il fallimento al sistema adottato anziché agli errori commessi nel dargli esecuzione13.

Verso la metà del XIX secolo le macchine a vapore si diffondono nelle campagne della Terraferma contribuendo in modo determinante a modificarne la struttura.
Nel 1847, sotto l’incalzare delle necessità economiche, gli esperimenti di prosciugamento ripresero in piccole estensioni di terreno e con semplici macchine mosse da forza animale. Il rifiorire dei prosciugamenti meccanici fu dovuto all’applicazione delle trombe, o pompe aspiranti e prementi, già utilizzate in Olanda con discreto successo. Si trattava ancora di idrovore primitive, non molto resistenti e di limitata continuità di esercizio. Le trombe furono usate per la prima volta nel 1847 dai fratelli Benvenuti per asciugare 500 ettari nel possedimento di Cantarana nel comune di Cona, in provincia di Venezia. Veniva abbandonata la forza animale per quella del vapore, un passaggio che segnò una vera e propria rivoluzione per l’agricoltura veneta. I risultati furono deludenti sia per l’insufficienza del sistema idroforo che per difetto dell’ordinamento idraulico. Ma l’esempio dei fratelli Benvenuti venne imitato da molti altri proprietari che operarono in quello stesso bacino e, nei 10 anni successivi, anche a sud dell’Adige.
Il primo vero successo fu ottenuto da Antonio Zara di Padova, il quale, nel 1849, costruì a Cona un impianto con tromba della potenza di 10 cavalli per il prosciugamento di 300 ettari di terreno. La buona riuscita di quest’opera costituì una svolta decisiva nella storia dei consorzi di bonifica. L’anno seguente Ernesto Meticke di Trieste acquistò una tromba di 10 cavalli e nel 1852 ne ordinò una seconda della potenza di 4 cavalli, funzionante col nuovo sistema delle turbine Appold, per prosciugare 660 ettari nella sua tenuta di Monsole (Cona - Venezia).
L’applicazione delle trombe non risultò in genere molto vantaggiosa per l’asciugamento dei terreni, per evidenti limiti tecnici. Si fece quindi un passo avanti iniziando ad utilizzare le ruote idrovore già da tempo impiegate in Olanda nella maggior parte degli impianti, e i ‘turbini’ nei rimanenti.
Alla fine del 1853, nella parte bassa delle province di Venezia, di Padova e nel Polesine erano attivi 564 cavalli-motore per la bonifica di 24.510 ettari di terreno. Secondo il prospetto di Girolamo De Bosio nel 1855 nella provincia di Vicenza vi erano 20 consorzi (3 scolo, 1 scolo e difesa, 7 difesa, 9 irrigazione), nella provincia di Venezia vi erano 29 consorzi (22 scolo, 5 misti scolo e difesa, 2 misti scolo e irrigazione); nella Provincia di Padova i consorzi erano invece 27 (13 scolo, 14 misti scolo e difesa)15. In particolare, nel comprensorio dell’attuale Consorzio Adige Euganeo si trovavano i seguenti consorzi:

Questo è il quadro che si presentava alla vigilia dell’unificazione.
L’annessione del Veneto al nuovo Regno nel 1866 portò nelle aule parlamentari i rappresentanti della possidenza terriera locale, particolarmente motivati ad indirizzare le scelte normative verso soluzioni che contemplassero pienamente la peculiarità geomorfologica del territorio padano.
Come abbiamo ricordato, l'inizio di una vera e propria attività bonificatrice nel territorio dei Consorzi Foresto Generale e Fossa Monselesana si registra a partire dai primi anni del XIX secolo quando alcuni proprietari, nella zona del Foresto Generale, tentarono per la prima volta in Europa il sollevamento meccanico delle acque. Si passò dai mezzi di sollevamento azionati a mano a quelli azionati dalla forza animale e infine alle macchine a vapore. La meccanica offriva ormai potenti macchine idrovore azionate sia a vapore che con motori elettrici o ad olio pesante. Restavano però ai dirigenti del consorzio altri due problemi da risolvere: uno di tipo tecnico-idraulico riguardante la sistemazione del Canale dei Cuori; l'altro di tipo sociale, e cioè le conseguenze legate al prosciugamento delle valli, che offrivano agli abitanti dei luoghi oppressi dalla miseria e sfibrati dalla malaria l’unica fonte di reddito attraverso la raccolta della canna, la pesca e la caccia. Si prevedeva di sistemare il Canale dei Cuori e i collettori della Fossa Monselesana e di costruire un grande impianto idrovoro a Ca' Bianca di Chioggia per scaricare nella Laguna le acque del canale dei Cuori con lo scopo di mantenerne basso il livello. Fu adottata cioè la soluzione, non frequente nel campo delle bonifiche, del doppio sollevamento meccanico, una prima volta dai terreni al canale dei Cuori ed una seconda dal Canale dei Cuori alla Laguna di Chioggia. I lavori all’idrovora furono ultimati solo nel 1928.
I problemi idraulici del territorio che si trovava nelle province di Padova e Verona e che era delimitato per 3/4 della sua estensione dai fiumi Guà-Frassine e Fratta non erano stati certamente risolti e ancora nel 1830 le acque della zona sud del Comprensorio (Valli) confluivano liberamente nel fiume Fratta allora disarginato. Nel 1830 iniziò la costruzione dell'argine sinistro del Fratta e contemporaneamente fu arginato un tronco dello scolo Vampadore: i terreni delle Valli (ha 3.323), facenti a quel tempo parte del Consorzio Gorzon Superiore, divennero così bonificabili. Fin dal 1600 i terreni della zona nord del comprensorio erano costituiti in Consorzio denominato Brancaglia Superiore dell’estensione di ha 2.510. La vasta zona di terreni che si estendeva a sud di questo Consorzio fino alle Valli, di circa ha 4.725, non era inclusa in un comprensorio di bonifica. I Comuni di Merlara, Casale di Scodosia, Megliadino S. Vitale e 78 fra i maggiori possidenti, avanzarono al Ministero dei Lavori Pubblici la richiesta di separare la zona Valli dal Consorzio Gorzon Superiore. Il Ministero, accogliendo la domanda decretò la costituzione autonoma in "Consorzio di scolo e di difesa del bacino Vampadore" . Con Decreto Prefettizio nel 1870 fu costituito il "Consorzio di Bonifica Vampadore". Nel 1879 gli venne aggregata la zona Valli del Consorzio Gorzon Superiore e successivamente, nel 1923, il Consorzio Brancaglia Superiore.
Il più importante impianto idrovoro a carattere consorziale fu quello costruito nel 1880 al Taglio di Anguillara (oggi soppresso) per la bonifica del Consorzio Gorzon Inferiore, della potenza di CV 120, costituito da una motrice a vapore che azionava una turbina. Seguì fra il 1893 e 1897 quello del Consorzio Gorzon Medio, pure al Taglio di Anguillara, della potenza complessiva di CV 600, con tre motrici a vapore azionanti una turbina.
Le vicende del Consorzio Retratto-Monselice non sono semplici da ricostruire. Parte dei vantaggi conseguiti con le opere compiute dalla Serenissima andarono persi nel corso degli anni per il mancato mantenimento delle opere. Poichè in tempo di piena le acque di Sottobattaglia assumevano un livello incompatibile con lo scolo del Consorzio Retratto, in tali periodi lo scarico doveva essere chiuso e le acque del Consorzio invasarsi nei collettori fino a sommergere i terreni. Alla fine dell’Ottocento il problema venne affrontato nuovamente e sulla base del progetto dell'ing. Aita furono stipulati accordi col limitrofo Consorzio Bacchiglione-Fossa Paltana per raccogliere le acque del Retratto in un collettore attraversante tale Consorzio, il Canale Altipiano, opportunamente sistemato ed integrato mediante un canale scavato dal Consorzio Retratto ed una botte a sifone sottopassante il canale Bagnarolo. Anche questo deflusso subiva però delle limitazioni (sospensione o parzializzazione dello scarico quando la piena nel Canale Altipiano raggiungeva una quota fissata in una targa murata sul ponte del Maseralino). Per integrare l'azione di scolo del Canale Altipiano venne quindi costruito, dopo la prima guerra mondiale, l'impianto idrovoro dell'Acquanera.
In seguito alla promulgazione della Legge Baccarini nel 1882 alcune opere vennero classificate in Ia categoria, venne cioè riconosciuto loro l’elevato interesse sociale e igienico e, di conseguenza, la partecipazione economica dello Stato alla loro esecuzione. La prima area a comparire nel 1885 negli elenchi di opere di Ia categoria, compresi nell’attuale comprensorio del Consorzio Adige Euganeo, fu quella dei “Terreni paludosi o difettosi di scolo nel circondario idraulico di Este”, che interessava i comuni di Vighizzolo, Villa Estense, Vescovana, Stanghella, Boara Pisani, Anguillara e Codevigo (Padova) 16. Due anni dopo, nel febbraio 1887, altre 4 territori furono riconosciuti come bisognosi di interventi di Ia categoria17:
1. Terreni paludosi del consorzio Retratto Monselice (Galzignano, Monselice, Battaglia, Baone, Arquà Petrarca ed Este – Padova)
2. Terreni paludosi difettosi di scolo compresi nel consorzio di Cavariega (Carceri, Ponso, Piacenza d’Adige, Santa Margherita d’Adige, Megliadino S .Vitale - Padova)
3. Terreni paludosi compresi nel consorzio Gorzon Medio (Sant’Urbano, Barbona, Pozzonovo - Padova)
4. Terreni paludosi del consorzio Bacchiglione e Fossa Paltana (Agna, Arre, Bovolenta, Correzzola, Candiana con Pontecasale, Codevigo, Pontelungo, Terrassa, Chioggia e Cona – Padova e Venezia)
Nonostante la notevole evoluzione che il concetto di bonifica aveva registrato in sede legislativa, mancavano le potenzialità economiche per poter realizzare le opere.

Novecento
All’inizio del 1900 rimanevano ancora da eseguire nel comprensorio dell’attuale Consorzio Adige Euganeo le seguenti bonifiche di prima categoria18:

I primi anni del Novecento videro la nascita di numerosi nuovi consorzi nell’area compresa fra l’Adige e il Bacchiglione. Il Consorzio Valcalaona, con sede a Este, venne costituito in data 28/10/1900. Il Consorzio Anconetta, nel comune di Vighizzolo d’Este, venne costituito il 6/9/1902 fra 9 proprietari e si estendeva su una superficie di circa 110 ha. Il Consorzio Cuoro fu costituito nel settembre 1902 e venne successivamente aggregato al Lozzo. Il Consorzio Mora Livelli fu costituito, invece, nel 1913. Altri consorzi vennero fusi perché i loro comprensori necessitavano di opere comuni e coordinate. E’ il caso del raggruppamento, avvenuto nel giugno del 1908, dei Consorzi Foresto Generale e Fossa Monselesana, dal quale nacque il 'Consorzio Speciale per la bonifica dei Consorzi Fossa Monselesana e Foresto Generale'. In seguito vennero soppressi tutti i consorzi minori e il Consorzio Speciale assunse la denominazione di Consorzio di Bonifica Monforesto. Per l'entità delle opere e la vastità del suo comprensorio il Consorzio di Bonifica Fossa Monselesana - Foresto Generale era il più importante del Veneto ed uno dei principali d'Italia. Il principale canale del consorzio era il Canale dei Cuori il quale, oltre a raccogliere tutte le acque del Consorzio Fossa Monselesana, riceveva lungo il percorso quelle dei vari bacini costituenti il Foresto Generale, sollevate con numerosi impianti idrovori. Il Canale dei Cuori scaricava nel fiume Brenta-Bacchiglione a Punta Gorzone e, per la Botte delle Trezze, in Laguna, a Ca' Bianca, a mezzo di porte mobili.
Con l’inizio del nuovo secolo, alcuni consorzi di origine antica, cercarono di attuare lavori da tempo necessari. Il Consorzio Retratto-Monselice aveva sempre perseguito l'idea di realizzare una bonifica naturale, e a questo fine incaricò l'ing. Pedrazzoli nel giugno del 1900 di predisporre un progetto per la sistemazione dei canali interni. I lavori iniziarono nel 1906 e continuarono fino al 1912. Solo con la messa in funzione di uno sfioratore meccanico, costruito nel 1921-1922 fu però davvero possibile prosciugare i terreni: una macchina idrovora da 300 HP sollevava le acque e le versava nel canale Bagnarolo e poi nel canale Sottobattaglia. Oltre alle colture, furono create strade, case coloniche e allevamenti zootecnici.
Nel 1912 fu eseguita la bonifica meccanica del Consorzio S. Felice il quale, separatosi dal Consorzio Frattesina, ne aveva costituito il bacino più depresso. Nel 1919 fu iniziata, da parte dello Stato, la nuova inalveazione dello scolo Lozzo nel tratto a valle di Prà di Este, portandone il percorso in sinistra del S. Caterina. Negli stessi anni, gli impianti dei Consorzi Gorzon Inferiore e Gorzon Medio si dimostrarono insufficienti e fu necessario provvedere all'installazione di nuove macchine. All'aggravarsi della situazione concorreva il crescente appesantimento del regime del Guà - Frassine e del S. Caterina, gli stati di piena dei quali si facevano sempre più minacciosi e prolungati. La necessità di provvedimenti radicali venne accolta dai Consorzi Riuniti di Este, i quali, costituito nel 1919 un proprio Ufficio Tecnico, prepararono rapidamente gli elaborati tecnici necessari. Cominciò così un periodo di particolare attività nell’esecuzione delle opere, il cui sviluppo andò intensificandosi nel successivo ventennio. Nel 1921 fu iniziata la bonifica meccanica delle "Valli Sagrede", che formano un sotto bacino del Consorzio Lozzo.
I lavori, che come abbiamo erano stati iniziati nel medioevo dai monaci benedettini, vennero ripresi alla fine degli anni Venti, quando il Consorziò Lozzo, unitamente ai Consorzi Liona Frassenella, Ottoville e Ronego, diede vita, con un cospicuo contributo dello Stato, alla bonifica di Ia categoria Berico-Euganea che si poneva come primo obiettivo la sistemazione del grande collettore Lozzo versante naturalmente nel Gorzone a Carmignano di S. Urbano. Nel 1929 venne iniziato lo scavo dello scolo Lozzo per il prosciugamento di una superficie di 25.100 ettari. I lavori eseguiti dal Consorzio Lozzo nel comune interesse del comprensorio della bonifica Berico-Euganea, furono sospesi nel 1940 a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Nel 1921 erano iniziate le opere per la bonifica meccanica del comprensorio del Consorzio Mora Livelli. Nel 1924 fu costituito il Consorzio San Felice. Mentre si eseguivano queste opere, erano in corso quelle per la bonifica dei comprensori dei Consorzi Cavariega e Brancaglia Inferiore, da parte dello Stato. Nel 1922 partivano i lavori per la sistemazione generale degli scoli del Consorzio Gorzon Medio. Fra il 1928 e il 1929, iniziava la bonifica meccanica della parte più depressa del comprensorio del Gorzon Inferiore e quella a scolo naturale del territorio Berico Euganeo. Anche il comprensorio del Consorzio Paludi Cattajo e Savellon di Bagnarolo comprendente i territori dei due ex Consorzi di scolo e difesa, denominati Palù Catajo e Savellon di Bagnarolo, il primo di origine antica (1556), il secondo costituito con Decreto 25 Dicembre 1808 del Corpo Reale delle acque e strade di Padova, vide l’inizio di importanti opere negli anni Trenta del Novecento. La bonifica razionale del comprensorio ebbe inizio nel 1926 con l'esecuzione dei lavori del bacino Vallata Catajo.
Nel periodo 1925-1929 l'attività bonificatrice era stata particolarmente intensa, molti nuovi consorzi erano nati ed altri si erano ampliati. Dopo il 1929, tuttavia, gli effetti della crisi economica mondiali si ripercossero anche in Italia. Molti consorzi si trovarono in gravi ristrettezze economiche. La legge Mussolini del 1928, che prevedeva notevoli finanziamenti ai consorzi di bonifica, dovette presto subire qualche rallentamento. La legislazione, tuttavia, non si fermava. Con la nuova legge del 1933 venne assegnata una grande importanza ai consorzi, che furono chiamati non solo all'esecuzione, per concessione, delle opere pubbliche, prima fase della bonifica integrale, ma che acquistavano un ruolo essenziale anche nella fase della trasformazione agraria. I consorzi diventavano lo strumento fondamentale per quella sintesi di attività pubblica e privata dalla quale dipendeva l'integralità della bonifica. Fino al 1934 si assistette ad una proliferazione di consorzi, che fallirono però proprio dove la loro funzione risultava fondamentale, e cioè nel far succedere l’intervento privato a quello pubblico. La richiesta avanzata da Arrigo Serpieri di nuovi fondi statali per finanziare l'attività di bonifica integrale venne respinta in considerazione delle spese sostenute per la guerra in Etiopia che si stava allora preparando, obbligando quindi a sospendere i lavori nella maggior parte dei comprensori.
Comunque, troppo forti erano gli interessi legati alla bonifica perchè lo Stato non riprendesse i finanziamenti. Ma quando ciò avvenne, alla fine del 1937 e nei primi mesi del 1938, la politica seguita fu quella di concentrare i mezzi soprattutto nei comprensori che velocemente avrebbero risposto alle opere in modo redditizio. Tale tentativo di rilancio e rifinanziamento dell'impresa, avvenuto in pieno clima autarchico, venne frustrato dall'ingresso del Paese in guerra.
Dal “Rilevamento generale delle bonifiche” eseguito nel 1949 per conto del Ministero dell’agricoltura e aggiornato al 1952 risultano presenti nel territorio veneto 115 enti consorziali (di cui 18 privati).
Di questi 17 erano ubicati nel comprensorio dell’attuale Consorzio Adige Euganeo: Lozzo, Gorzon Superiore e Frattesina, S. Felice, Brancaglia Inferiore, Cavariega, Gorzon Inferiore, Mora Livelli, Gorzon Medio, Retratto Monselice, Vampadore, Cuoro, Palù Cattaio e Savellon, Bacchiglione Fossa Paltana, Monforesto, Ottoville, Ronego, Liona Frassenella.
Negli anni Cinquanta i governi che si succedettero alla guida del Paese rivolsero alla bonifica integrale una discreta attenzione. Ne è prova lo “schema di sviluppo del decennio 1955-1964” (Piano Vanoni) che attribuì a bonifica, trasformazione fondiaria e miglioramento montano il 45% dei fondi stanziati per l'agricoltura.
Al fine di gestire nel modo più opportuno nuovi interventi di bonifica furono necessarie altre fusioni, fra le quali la più rilevante fu la costituzione del Consorzio Euganeo-Berico con D.P.R. 22-7-1971, per effetto dell’accorpamento dei seguenti 10 consorzi di bonifica: Gorzon Medio, Gorzon Inferiore, Lozzo, Cavariega, Brancaglia Inferiore, Gorzon Superiore-Frattesina, San Felice, Mora Livelli, Retratto Monselice, Cuoro. (Con delibera della Giunta Regionale Veneta 7-3-1978 il bacino Retratto-Monselice è stato aggregato al Consorzio fra Adige e Bacchiglione, poi Adige-Bacchiglione).
A seguito della Legge Regionale 13 gennaio 1976, n. 3, furono istituiti il Consorzio di bonifica Adige Bacchiglione e il Consorzio di bonifica Euganeo. Il primo, come abbiamo visto, accolse all’interno del suo nuovo comprensorio interamente i consorzi "Euganeo-Berico" e "Vampadore" e in parte quelli di "Liona-Frassenella", "Ottoville" e "Ronego". Il secondo ereditò gli ex Consorzi elementari "Monforesto", "Bacchiglione Fossa Paltana", "Retratto di Monselice" e "Paludi Catajo e Savellon di Bagnarolo", oltre ad un territorio collinare della parte sud-orientale dei Colli Euganei.
Alla fine degli anni Ottanta venne promulgata la legge quadro sulla difesa del suolo (L. 18/5/89, n° 183) che ha configurato i consorzi di bonifica come una delle istituzioni principali per la realizzazione del risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico e la tutela degli interessi ambientali ad esso legati. Successivamente, la legge quadro sulle risorse idriche (L. 5/1/94 n° 36) ha confermato il ruolo fondamentale dei consorzi nella gestione delle acque.
Nel maggio del 2009, dall’accorpamento degli originari comprensori dei Consorzi di bonifica Adige Bacchiglione e Euganeo, è nato il Consorzio di bonifica Adige Euganeo. Oltre alle azioni previste dalla Legge regionale 8 maggio 2009, n. 12, l’azione del nuovo Consorzio deve essere diretta anche “alla correzione degli effetti negativi sull’ambiente e sulla risorsa idrica dei processi economici, salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un patrimonio ambientale integro”, come prevede il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coando ke i fiumi e i torenti no ƚi gheva ƚi arxeni/arxa

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 9:42 pm

Ƚe vàƚi, bàsure, buxe o ciòxe (o cioda/cloda/clodia/cladia), sake, ƚi laghi, ƚe conke, ƚe cave/cavini/cavane de ‘l vixentin:

Pusterla - lago e porta (a Viçensa)
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