La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

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Messaggioda Berto » mar gen 14, 2014 1:03 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » mar gen 14, 2014 4:31 pm

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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » mar gen 14, 2014 4:31 pm

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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » gio feb 13, 2014 10:30 pm

Łe fonti del dirito
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YtbWs/edit
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El fantomatego mito del dirito roman
viewtopic.php?f=93&t=304
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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » ven ott 10, 2014 9:38 pm

https://www.facebook.com/groups/giovann ... p_activity

Eugenio Pischedda

Caro Franco, credo di capirti bene. Ho lo stesso tipo di reazione allo stesso tipo di stimolo negativo. Anche se non so individuarne bene come te il percorso motivazionale; ma a livello emotivo comprendo bene la tua reazione.

Ho provato, tanto per fare un esperimento, per altro molto velleitario, a mettermi nei panni dei detrattori di Semerano; i vari linguisti-indoeuropeisti-comparativisti-contrastivisti-qualunquisti-confusi che lo stesso Semerano aveva ben definito citando G.B. Shaw: "...a furia di assottigliare sempre di più il loro campo di ricerche finiscono per sapere tutto... su nulla".

E' chiaro quello che si è sempre detto; cioè che non possono, in parole povere, come le loro, buttare al vento anni di pseudocarriera.
Ma il mio tentativo voleva andare un po' più a fondo. Un conto è la discussione; un altro è la violenza dialettica. Credo che tutto stia nell'impatto che ha avuto e che ha la lettura dei testi di Semerano. Un impatto dagli effetti totalizzanti.

Nelle mie letture di carattere archeologico e storico mi sono spesso imbattuto nel concetto di indoeuropeo, senza mai intravvedere uno spiraglio di autentica conoscenza.

Va da sé che i testi di storia, anche relativa a periodi protostorici (vedi Le Origini di Roma Antica di Massimo Pallottino), gli autori non sono tenuti a dilungarsi su questo argomento (o forse invece dovrebbero e potrebbero; ho il dubbio); ma neanche i testi di linguistica che ho avuto fra le mani mi lasciavano con lo stesso senso di insoddisfazione, per giunta condita da una sensazione di velleitarietà e dilettantismo, ad onta della ridondanza tecnicistica espressa.

Poi scopro Semerano.

Non solo riempiva tutte le lacune storiche e linguistiche fino ad allora incontrate, ma stabiliva un sistema totalitario di comprensione. Ogni cosa andava al suo posto etrovava la sua corretta dimensione e collocazione. Ti voglio fare un esempio, che ritengo uno dei più significativi.

Una sera ero seduto di fronte ad un tavolino di cristallo, con un bicchiere di buon vermentino davanti, a discorrere - da discente - con un teologo. Lui non conosceva Semerano, ma è un intellettuale di alto livello, e conoscitore di pratiche spirituali a dir poco straordinarie.
Gli chiesi "cos'è" il diavolo, che cosa è inteso con questo concetto paradigmatico e ipostatico del "male". Lui poggia il bicchiere e mette gli indici delle mani sui bordi paralleli del cristallo e li fa scorerre: "Questo è il diavolo". "Cioè?????" Il diavolo è un confine netto, una separazione: NOI siamo americani. VOI siete iraqeni... NOI simo cristiani. VOI mussulmani..." Tra me pensavo: NOI siamo indoeuropei. VOI siete semiti...". Poi mi da' la traduzione del termine dal greco: Dia-Balein; "separa e scaglia lontano".
Insomma "Shetu", l'akkadico "disseminare", che è da intendersi non nel senso della fecondazione (della terra), ma in quello di disperdere; Seth, dunque, che fa a pezzi Osiride e ne disperde le parti. E Shaitan, o l'aramaico Sheddin, che intende proprio il diavolo nello stesso senso. Insomma; la spiegazione teologica del "male", datami da un teologo, che fa parte, credo, di una conoscenza elaborata dalla chiesa nei secoli, coincideva perfettamente con quanto avevo appena scoperto dalle letture - allora recentissime - di Semerano (2005).
So che non è una gran scoperta; ma lo era allora e per me!
Il punto è che le scoperte linguistiche di Semerano non si fermano al solo fatto linguistico, ma includono, in un sistema organico, un intero cosmo di sapere. E l'impatto di questa scoperta non può che essere devastante per chi, formatosi su dogmi pericolanti come quello dell'indoeuropeismo, ne comprende a fondo la portata. Le loro reazioni sono doverosamente inconsulte. Non potrebbero essere diverse. Hanno subìto un colpo potenzialmente letale alle loro certezze di cartone, che o reagiscono in quel modo o soccombono.
Cercano di aprire porte chiuse ai loro sistemi, ci provano in tutti i modi, ad aprirle, ma restano chiuse. Semerano, con grande classe, usa la chiave apposita, che ha trovato perchè ha cercato dove loro hanno accuratamente evitato di cercare. La favola del tale che perde l'anello nella parte buia di una strada e lo cerca in quella illuminata; perché?

Perché lì c'è luce. Ma non c'è l'anello. Semerano ha la pila in tasca e cerca e trova l'anello dove è caduto.... Ma i suoi nemici dichiarati continuano ad impedirgli di entrare nel tempio.... Scribi e Farisei che "invitati non entraste, e non lasciaste entrare". "Guide cieche... maestri del nulla........." Gli resta solo la rabbia.......
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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » mer nov 12, 2014 10:47 pm

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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » gio nov 13, 2014 8:05 am

Falbe teorie: romansa, endouropea, fonetega

viewforum.php?f=97

-La falba teoria endouropea
-Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar romanso
-La falba teoria fonetega: evolousion dal latin
-Falbe e bone creteghe a M. Alinei e a la TCP
-La bona teoria de la seitansa
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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » lun dic 01, 2014 1:04 pm

???

Le radici antiche degli Indoeuropei

http://www.ereticamente.net/2014/11/le- ... ropei.html

Nel precedente articolo “Il Secondo Peniglaciale, Nordatlantide e l’inizio dell’Età dell’Ascia” avevamo visto come la recrudescenza wurmiana di circa 20.000 anni fa innescò una serie di ondate migratorie a largo raggio che interessarono l’Eurasia, l’America ed anche l’Africa; ci eravamo inoltre ripromessi di fare qualche analisi sulle relazioni tra questi movimenti e la famiglia etnolinguistica indoeuropea che, come ben sappiamo, comprende la grande maggioranza delle lingue del nostro continente tranne poche eccezioni (Basco, Estone, Finlandese, Lappone, alcune parlate uraliche in Russia, Ungherese, Maltese, Turco, lingue nord-caucasiche) ed in Asia si stende tra il Kurdistan ed il Bangladesh.

La formazione della Razza Eroica ??? nel Terzo Grande Anno del Manvantara comportò anche il differenziarsi, a partire dal comune tronco “nostratico” (superfamiglia a mio avviso originatasi già verso la fine del Satya Yuga), di vari gruppi linguistici che sarebbero stati composti, in diversa misura, dall’elemento antropologico più specificatamente “bianco”. Senza andare a riprendere le elaborazioni accademiche di scuola soprattutto tedesca del XIX secolo e guardando al più ristretto campo degli autori “tradizionalisti”, è stato sicuramente Julius Evola che ha accolto l’idea di un accostamento tra l’elemento eroico e la civiltà Aria, insistendo spesso sul collegamento tra la nostra famiglia etnolinguistica e le popolazioni nordiche; la strada successivamente è stata seguita, con un’impostazione decisamente più archeologica, anche da Adriano Romualdi, le cui valutazioni rappresentano, nel suo importante studio, un utile spunto per alcune considerazioni che verranno svolte in merito al quadro cronologico della genesi indoeuropea. La correlazione tra la Razza Bianco-Eroica e gli Indoeuropei presenta sicuramente una sua validità di fondo anche se, come detto, non bisogna commettere l’errore di ritenere che questa sia stata portatrice esclusivamente di lingue Arie, né che abbia rappresentato (come da articolo “Giganti, Eroi, Razza Bianca”) un tipo assolutamente omogeneo in tutta la sua estensione, viste le due componenti – quella “pesante-cromagnoide” e quella “leggera-combecapelloide” – alle quali presumibilmente dovette la sua genesi e che in vari gradi possono aver inciso a seconda delle aree geografiche. Da queste prime considerazioni si può quindi rimarcare il fatto che il concetto di “Razza Bianco-Eroica” sia senz’altro di portata ben più vasta di quello di “Indoeuropeo”, come appare evidente se ricordiamo il biondismo che ad esempio interessa anche le popolazioni uraliche, caucasiche o berbere.

Già precedentemente si era rilevato come Renè Guenon, in verità, fu molto scettico nei confronti di tutte le ricerche volte a mettere in luce l’unità indoeuropea, ritenendola una mera astrazione ottocentesca degli accademici tedeschi; bisogna dire che tale idea in parte è stata condivisa anche da qualche ricercatore o, quanto meno, se ne è messo in discussione il concetto della unita filogenetica di origine, ipotizzando invece altri processi formativi. Nikolaj Trubeckoj, ad esempio, negò l’esistenza di una vera e propria comunità indoeuropea con una proto-lingua specifica ed un relativo “popolo originario” alle spalle, di fatto riducendola, come propose Vittore Pisani, ad un sistema di “isoglosse” generatesi per incontro e convergenza di idiomi diversi, evidentemente preesistenti. Una dinamica definibile quindi come “sprachbund”, che per Trubeckoj avrebbe spiegato alcune eterogeneità linguistiche e si sarebbe omogeneizzata non prima di 7.000 anni fa, risultando infine intermedia, come anche ritenuto da Uhlenbeck, tra le lingue ugrofinniche e quelle caucasiche. Vittore Pisani fu ancora più specifico nell’ipotizzare l’incontro tra nomadi della steppa e sacerdoti caucasici, e definì come “paleoeuropeo” il complesso delle lingue che andavano dal Basco al Caucasico ed a suo parere sarebbero state tutte assorbite nell’unità indoeuropea finale.

???
Questa particolare ipotesi glottogenetica tuttavia si discosta dall’opinione dalla larga maggioranza dei linguisti, che reputa la famiglia indoeuropea costituire un’unità ben definita, anche storicamente, da una comunanza di origine e dalla condivisione di un iniziale linguaggio “protoindoeuropeo”. Una “Ursprache” successivamente disarticolatasi in diverse sotto-unità (lingue italiche, celtiche, germaniche, slave, illiriche, indoarie, ecc..), dalla quale deriverebbero le odierne similitudini rilevabili non solo a livello lessicale, ma anche a quello morfologico più profondo delle strutture grammaticali: una “parentela” che emerge decisamente quando, scegliendo due lingue indoeuropee qualsiasi, queste risultano geneticamente molto più vicine l’una all’altra di quanto non lo siano nei confronti di una qualsiasi altra lingua di diversa famiglia. ???

Presupponendo quindi come dato sufficientemente sicuro un gruppo originario di parlanti un protoindoeuropeo ancora indiviso, bisogna dire che invece a minori certezze sembra essere giunto il dibattito sulla localizzazione della patria comune – della “Urheimat” – dove i nostri Avi più diretti avrebbero vissuto prima di frammentarsi nei vari sottogruppi. E’ una discussione che si protrae fin dal XIX secolo e del quale non è il caso di fare qui la storia completa, ma che può essere interessante riassumere nei più importanti contributi emersi in tempi recenti, diciamo dalla seconda metà del XX secolo; tra le varie ipotesi formulate, quelle attorno alle quali si è forse sviluppato il maggior scambio nel mondo accademico sono state la “teoria kurganica”, perfezionata dalla lituana Marija Gimbutas (che propone una localizzazione nella Russia meridionale da parte di popolazioni nomadi circa dal V millennio a.c., quindi in età calcolitica) e la “teoria anatolica” elaborata dal britannico Colin Renfrew (che individua il nucleo originario nell’attuale Turchia, a partire dal VII millennio a.c., quindi in età neolitica e sulla base di una popolazione agricola). Ma a parte Gimbutas e Renfrew, alcune delle altre sedi che sono state proposte si sono concentrate soprattutto su un’area centro-est-europea, ed a questo proposito già a suo tempo Karl Penka aveva avanzato l’idea di una “culla” non più orientale della linea che corre da Koenigsberg / Kaliningrad alla Crimea: basandosi sull’assenza del faggio oltre a tale riferimento e ritenendone la parola attestata con buona omogeneità nelle lingue indoeuropee, si era dedotta l’esistenza di un unico termine per designarlo nella fase ancora comune, ovviamente in un ambito geografico dove questo poteva avere un senso. Argomentazione (come anche quella, analoga, relativa alla parola indicante il salmone) tuttavia contestata da Marcello Durante sulla base del fatto che i termini che in alcune lingue indoeuropee si associano a questi due elementi, in altre, pur presentando una radice simile, rivestono significati piuttosto diversi, concludendo quindi che l’ipotesi di partenza non è scevra da una certa arbitrarietà.

Se quindi ci limitiamo alle teorie avanzate a partire dal 1960 fino ai nostri giorni, Giacomo Devoto propose una localizzazione della “Urheimat” tra Germania e Polonia, mentre Pere Bosch-Gimpera ne avanzò una che avrebbe compreso le culture neolitiche danubiane (i territori della “ceramica lineare”) e verso est sarebbe stata un po’ più ampia di quella di Devoto, arrivando fino all’Ucraina occidentale. A sua volta Georgy Georgiev propose una zona più estesa di quella di Bosch-Gimpera, arrivando ad oriente fino ai limiti dell’area indicata da Marija Gimbutas, area che invece viene del tutto inglobata nell’ipotesi di Alexander Hausler e Lothar Kilian, la quale supera la stima di Georgiev anche verso nord, comprendendo la Danimarca e la Svezia meridionale. Diversamente dai ricercatori sopra, Valentin Danilenko propose una zona simile a quella kurganica ma più estesa sia verso ovest (giungendo a nord della Crimea) che verso est (sponda orientale del Mar Caspio), mentre altri studiosi postularono invece territori di superficie più limitata, come la culla est-baltica di Wolfgang P. Schmid, quella balcanico-danubiana di Igor Diakonov, o in Boris Gornung una piuttosto simile a quest’ultima, ma più ristretta alla sponda occidentale del Mar Nero (non ho elementi per capire quanto questa teoria possa cronologicamente accordarsi con la recente ipotesi di Ryan-Pitman legata alla presunta inondazione pontica di 9-10.000 anni fa). Infine Thomas V. Gamkrelidze e Vjaceslav V. Ivanov suggerirono un settore più vicino a quello di Colin Renfrew, in Anatolia orientale e nella zona sud-caucasica, in base a contatti che ritennero di aver individuato con il semitico, il cartvelico ed altre famiglie linguistiche.

Tra le ipotesi più recenti ed anche originali, non tanto per la zona di origine proposta quanto per la datazione estremamente antica, bisogna citare la “teoria della continuità” formulata principalmente dal linguista Mario Alinei negli anni novanta. Si tratta di una visuale che postula l’indoeuropeizzazione del nostro continente addirittura in concomitanza con il suo popolamento iniziale da parte dei primi Homo Sapiens, analogamente a quanto, ad esempio, è avvenuto in Australia dove le lingue aborigene parlate ancora oggi hanno un’antichità stimata di 40-45.000 anni in quanto riconducibili alla prima colonizzazione umana. Anche Alinei considera, oltre alla sua, la teoria di Renfrew e quella di Marija Gimbutas le principali formulazioni oggi sul tavolo in merito alla proto-patria indoeuropea, pur ritenendo quest’ultima, la “kurganica”, in una situazione di grave crisi, ormai “clinicamente morta” anche a parere di alcuni archeologi.

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In effetti, è stato rilevato che sembrerebbero piuttosto scarse le tracce genetiche attribuibili a popolazioni provenienti dalle steppe della Russia meridionale per aver influenzato in modo così decisivo il quadro linguistico europeo; in ogni caso, Cavalli Sforza propende per associare alle espansioni dei kurgan una componente genetica di grandezza intermedia, la terza (che presenta un picco di frequenze a nord del Mar Nero ed un gradiente approssimativamente concentrico), quindi non proprio trascurabile ma nemmeno tra le più importanti del continente. Secondo Cavalli Sforza un possibile compromesso potrebbe essere costituito dall’idea che la cultura kurganica non abbia rappresentato la sede indoeuropea iniziale, ma piuttosto un’area di sosta e di irradiamento secondario, mentre per la zona di espansione primaria ritiene più convincente la teoria anatolica di Renfrew. Alinei invece le contesta entrambe: sul fondo preneolitico europeo – e cioè in larga parte già indoeuropeo ma composto anche da altre popolazioni, come baschi e caucasici – a suo avviso dalla zona kurganica giunsero piuttosto lingue di ceppo “turcico” (cioè connesse alla famiglia altaica centroasiatica), che però in gran parte sarebbero state assorbite dagli autoctoni senza aver particolarmente inciso sul quadro generale. Un fenomeno che avrebbe riguardato qualche millennio prima anche agli agricoltori anatolici, al massimo lasciando loro la possibilità di manifestare pochi marginali influssi non-indoeuropei, mentre invece secondo Renfrew sarebbe proprio all’espansione agricola che andrebbe collegata la diffusione della nostra famiglia linguistica. Più precisamente, l’archeologo britannico postula in medio oriente la presenza da almeno 27.000 anni di gruppi parlanti il “Nostratico” comune (collocandolo quindi, secondo la visuale qui adottata, a latitudini decisamente troppo basse e conferendogli una profondità temporale che non arriva al Satya Yuga) ed avrebbero poi sviluppato le prime tecniche agricole in tre “lobi” geografici collegati ma distinti, differenziando parallelamente anche i linguaggi: quello in Anatolia per le lingue indoeuropee, nel Levante (Palestina, Libano, Siria e Giordania occidentali) per le lingue camitosemitiche o “afroasiatiche”, e sui Monti Zagros (tra Iraq e Iran) per le lingue elamodravidiche.

Ma, come detto, i ricercatori che si rifanno alla “teoria della continuità” si pongono su basi cronologiche nettamente più profonde: ad esempio Xaverio Ballester, suggerisce tra 35.000 e 40.000 anni fa l’insediamento dei “Protoacquitani” nella zona tra il fiume Garonna ed i Pirenei come primo popolamento già indoeuropeo, e Francesco Benozzo propone la retrodatazione di 25.000 anni per una presenza già etnicamente celtica nelle sedi attuali. Lo stesso Alinei ipotizza la prima manifestazione del gruppo italico, ormai differenziato dagli altri Indoeuropei, nella cultura Epigravettiana (ovvero, le facies culturali successive al Gravettiano propriamente detto, come ad esempio il Solutreano ed il Maddaleniano), quindi collocabile circa nel XV millennio a.C. Come concetto generale, Alinei in definitiva sostiene che la “teoria della continuità” sarebbe avallata dai dati genetici europei (indica in particolare le variazioni relative al cromosoma Y), che evidenzierebbero una netta predominanza di elementi di origine paleolitica rispetto a quelli più recenti: una sostanziale continuità di popolazione, scarsamente interrotta da afflussi allogeni, che in effetti sembrerebbe trovare degli elementi a sostegno. A questo proposito, significativamente, Cavalli Sforza conferma come sia stato soprattutto il Paleolitico il periodo al quale è possibile far risalire la maggior parte delle odierne caratteristiche delle popolazioni europee, dal momento che in gruppi di scarsa entità numerica deve essere risultato molto forte l’effetto conosciuto come “deriva genetica”. Bisogna dire che fino a non molti anni fa, al contrario, si tendeva a ritenere ben più consistente l’apporto dei primi agricoltori attraverso quel processo, denominato “rivoluzione neolitica”, che mutò radicalmente la forma di sussistenza umana, con il passaggio da un’economia basata sulla caccia-raccolta a quella incentrata sulla produzione diretta di cibo; era stato formulato il modello ad “onda di avanzamento” che, pur non presupponendo macroscopici eventi migratori su larga scala, poneva comunque l’accento sulla lenta diffusione demica dei primi contadini ad una velocità radiale bassa, ma costante, rispetto al primario nucleo anatolico, espansione sostenuta dall’incremento della densità demografica che la nuova attività consentiva a parità di superficie di territorio utilizzato. Successivamente, però, è emerso che le migrazioni legate alla diffusione agricola del Neolitico devono aver influenzato il quadro genetico europeo in misura molto meno significativa di quanto fino ad allora ritenuto. Vari ricercatori hanno provato a quantificare le proporzioni dell’eredità paleo-mesolitica nell’attuale patrimonio genetico europeo, e ne sono emerse delle stime il cui campo di variazione ondeggia, a seconda degli analisti, da un valore minimo attorno al 66% fino ad un massimo che arriva a sfiorare il 90%. Con tutte le dovute cautele che in precedenza avevo già espresso in merito alle interpretazioni storiche dei dati genetici, sembrerebbe comunque che tali risultanze appaiano accettabilmente coerenti sia sul versante della variabilità di linea maschile (cromosoma Y) che su quella femminile (DNA mitocondriale); evidenze che quindi si accordano molto meglio con il modello formulato da Marek Zvelebil, il quale minimizza l’apporto diretto di nuovi gruppi umani immigrati e predilige la prevalenza di un passaggio soprattutto culturale delle nuove tecniche agricole a popolazioni rimaste in larga parte stanziali ed invariate. Tuttavia – e ciò a riprova di quanto la genetica delle popolazioni non sembri ancora in grado di fornire delle risposte univoche in punto alla “storicizzazione” delle sue evidenze – altri dati legati all’analisi del DNA biparentale suggerirebbero un’ascendenza neolitica non così trascurabile, ma comunque attestata soprattutto nell’Europa mediterranea, mentre in quella settentrionale, soprattutto ad ovest, rimarrebbe nettamente prevalente la componente paleo-mesolica. Comunque, su scala generale, non soltanto a livello genetico emerge un apporto demico quanto meno minoritario da parte degli agricoltori di provenienza anatolica, bensì ciò sembrerebbe confermato anche sul piano fenotipico dagli studi di Harding attorno alle misure craniometriche dei reperti neolitici, i quali non fornirebbero molti riscontri a sostegno delle migrazioni medio-orientali.

La permanenza paleo-mesolitica delle genti europee sembra quindi una dato in corso di continue conferme, anche se personalmente non ne seguo del tutto l’interpretazione proposta da Alinei; ciò, sia perché egli accetta, in ultima analisi, l’ipotesi della provenienza africana di Homo Sapiens (rif. precedente articolo “Madre Africa ?”), sia perché nega l’esistenza di un substrato preindoeuropeo che, anche se più sotto ne approfondiremo la scarsa influenza linguistica, in ogni caso ebbe nei “sino-dene-caucasici” una popolazione effettivamente anteriore (che, in termini mitico-tradizionali, ritengo fu collegata ad Eva e viene ricordata come quella Razza Rossa anticamente abitante la “Terra del Toro”, cioè l’Europa). Tuttavia la “teoria della continuità”, superando l’orizzonte calcolitico della Gimbutas e quello neolitico di Renfrew, ha avuto l’indubbio merito di riproporre sotto una diversa luce il tema delle origini indoeuropee e – mi sia concesso – anche quello di fornire spunti di grande interesse per rinforzare il senso identitario di radicamento alle nostre origini indoeuropee, nella consapevolezza che sono comunque molto più antiche e profonde di quanto comunemente ritenuto.

A ben vedere, la possibilità di un tale ampliamento temporale era peraltro stata sondata anche in precedenza. Lo stesso Alinei ricorda ricercatori quali Durante e Georgiev, che avevano spinto le loro ipotesi fino al Paleolitico Superiore; dal canto loro, Devoto, Haudry e Renfrew, segnalarono le formulazioni di Kuhn che aveva intravisto le radici ultime del protoindoeuropeo teoricamente fino nell’Aurignaziano (30.000 a.c.). Devoto, pur mantenendosi su una cronologia bassa, aveva considerato un limite massimo accettabile attestato ai 20.000 anni fa o anche un po’ superiore, oltretutto ricordando la tesi del Sera secondo il quauale gli Indoeuropei avrebbero potuto essere accostati al Solutreano: una cultura che – elemento importante e che riprenderemo più sotto – se non come patria di origine vera e propria, quanto meno ne avrebbe attratto le prime avanguardie, quindi arrivando anche qui a date prossime a 20.000 anni fa (addirittura fino al 25.000-27.000 secondo Obermaier). In un quadro più recente, ma comunque sempre pre-neolitico, Adriano Romuali ricordò le ipotesi di Franz Specht, che ritenne i primi Indoeuropei della Germania settentrionale corrispondenti soprattutto a popolazioni di età mesolitica già molto sedentarizzate.

Collegamenti di livello temporale elevato anche sul piano antropologico vennero da Kossinna proposti tra gli Indoeuropei ed i Cro-Magnon (pur avendone già visto in precedenza la “plurivalenza” tipologica, cioè più o meno depigmentata), mentre a tale proposito anche Mario Giannitrapani ne ipotizza una corrispondenza che si sarebbe potuta verificare o durante la fase dello “stadio isotopico 3” (antecedente ai 24.000 anni fa), o più tardi, circa 15.000 anni fa e che culminò con l’oscillazione climatica di Allerod (10-8.000 a.c.). Anche in altri autori, tra i quali sempre Kuhn, la cultura protoindoeuropea unitaria viene preferenzialmente collocata in un momento più tardo-pleistocenico ed in relazione soprattutto al Maddaleniano, peraltro evidenziando una continuità così lineare ed ininterrotta tra questo e le più recenti età dei metalli da porre in serio dubbio, secondo Antonio Bonifacio, la visuale di Marija Gimbutas, nella quale si ritengono eccessivamente enfatizzati i culti matriarcali ritenuti preindoeuropei dell’Europa neolitica (nell’articolo “Dopo la Caduta…..” si erano visti alcuni elementi legati proprio all’Età della Madre, che però corrisponde a tempi, il Treta Yuga, nettamente più antichi di quelli neolitici). Una certa continuità culturale tra i periodi più recenti, protostorici, e quelli paleolitici a mio avviso può essere stata determinata non tanto da una matrice fin dall’inizio “gilanica” delle culture indoeuropee, cioè più bilanciata e “paritaria” tra i due sessi, quanto piuttosto a quel processo di fusione finale alla quale si era già accennato in precedenza (nell’articolo “Giganti, Eroi, Razza Bianca”); un processo che forse iniziò già poco dopo l’abbandono della “Urheimat”, la discesa verso sud-ovest ed una prima fase di conflitto narrata nelle vicende del sesto Avatara Parashu-Rama, giungendo infine alla definitiva unione tra i “Giganti rossi” più occidentali, ancora residualmente legati alla Madre, e gli “Eroi bianchi” più nordici, nuovi portabandiera della paterna “Luce del Nord”.

In definitiva, pare quindi verosimile collocare le origini ultime degli Indoeuropei perlomeno nel tardo Paleolitico e, come è stato notato, attribuire agli sconvolgimenti climatici connessi all’ultimo massimo glaciale un ruolo determinante nell’inizio della loro dispersione: quindi retrocedendone sensibilmente la datazione rispetto alle teorie proposte in ambito accademico (come appunto quelle di Gimbutas e di Renfrew) che, pur a livelli diversi, si sono prevalentemente situate in un orizzonte post-paleolitico. Ma questa è un’osservazione che si può fare anche per alcune ipotesi non prettamente “accademiche” e che peraltro si sono segnalate per l’inconsueto quadro geografico proposto, cioè quello nordico: le interessanti teorie di Felice Vinci sulle vicende omeriche, o quelle di Bal Gangadhar Tilak sulla cultura vedica, si sono infatti soffermate su aspetti forse più tardi e specifici rispetto al più ampio ed antico problema della fase protoindoeuropea comune, adottando anch’esse un contesto cronologico meno profondo di quello paleolitico. In effetti, a parziale conferma della tesi di Tilak, i russi G.M. Bongard-Levin e E.A. Grantovsky, hanno sostenuto l’idea di un soggiorno prolungato, in zone ad elevata latitudine, di un gruppo indoeuropeo dal quale sarebbero poi derivati gli Sciti ed i Shaka dell’India, ma datando questo evento a circa 5.000 anni fa, quindi ancora in tempi relativamente recenti.

Traendo comunque spunto da questi studi e focalizzandoci sul tema di una “Urheimat” protoindoeuropea nel Nord – anche se a mio parere da collegare ad un più alto livello cronologico – l’orizzonte boreale della nostra famiglia etnolinguistica sembrerebbe confermato da diversi altri elementi.

E’ stato ad esempio notato, pur non dimenticando le riserve espresse da Marcello Durante in merito all’interpretazione delle radici lessicali, come i termini legati al freddo, alla neve, all’inverno sembrano aver presentato tra gli Indoeuropei delle forme con buone attestazioni comuni; comunque già Devoto non escludeva a priori un carattere “prevalentemente settentrionale” del mondo indoeuropeo, ricordando anche Uhlenbeck che teorizzava addirittura connessioni indoeuropee-eschimesi senza però approfondire se per parentela filogenetica o per solo contatto (cosa che sarebbe in ogni caso notevole, vista l’area geografica necessariamente implicata). Sempre in relazione alle lingue eschimesi altri autori evidenziarono similitudini con l’ancora più ristretto gruppo delle lingue indoarie per confermare l’origine boreale della tradizione vedica. In tempi più recenti, nell’ambito della linguistica di scuola macro-comparatista, anche Merritt Ruhlen valutò il gruppo indoeuropeo maggiormente vicino ad altre due famiglie poste a latitudini molto elevate, cioè quella eschimo-aleutina e quella ciukcio-camciadali rispetto, ad esempio, a quelle afroasiatica e dravidica; a mio parere, vista la distanza geografica tra tutte è nettamente più probabile che la somiglianza sia veramente di origine filogenetica piuttosto che per convergenze da contatto, ed in questa direzione va segnalato che nel 1986 N.D. Andreev fece discendere l’indoeuropeo da un antico “protoboreale”, fonte comune delle lingue dell’Eurasia settentrionale. Ancora Ruhlen ritenne che l’ipotesi della macrofamiglia “euroasiatica” formulata da Joseph Greenberg – comprendente, oltre all’indoeuropeo, anche le lingue uraliche, altaiche, coreane/giapponesi/ainu, ciukcio-camciadali ed eschimo-aleutine – fosse più solida di quella “nostratica”, che include pure l’afroasiatico, il dravidico e probabilmente anche il sumerico ed il cartvelico (il nostraticista Starostin ora sembrerebbe concordare con Greenberg); ma forse non sarebbe nemmeno da escludere la possibilità di non considerare per forza alternativi i due insiemi, bensì di integrarli in un disegno con una compagine eurasiatica più stretta all’interno di un insieme nostratico più largo, non privo di relazioni con la super-famiglia “amerinda”. Anche gli Ainu sono un ulteriore gruppo linguistico discretamente boreale per il quale Francisco Villar menziona le ipotesi di una certa vicinanza a quello indoeuropeo, avanzate da altri linguisti ed a suo avviso non prive di fondamento: pure in questo caso, la distanza geografica dovrebbe più probabilmente rimandare ad una comune origine filogenetica, mentre la profondità temporale (gli Ainu potrebbero essere arrivati nell’arcipelago giapponese da non meno di 12-14.000 anni, periodo Jomon) necessariamente collocherebbe il momento comune in tempi paleolitici.

Ma la famiglia linguistica che, tra tutte, sembra essere nettamente più vicina alla nostra è quella ugro-finnica (ipotesi sostenuta ad esempio da Koppen) o, concetto un po’ più largo, quella uralica, che con l’indoeuropeo presenta parallelismi molto maggiori rispetto, ad esempio, al camitosemitico e all’altaico. Il luogo di formazione dell’uralico è sicuramente da ricercarsi nel settentrione russo-siberiano e quindi, visti i molti vocaboli che per Tomaschek sono stati presi come “prestiti”, ciò dovrebbe implicare per l’Indoeuropeo un’area di formazione ad esso molto vicino. Diversi di questi termini sembrano presenti soprattutto nel sottogruppo indo-iranico che peraltro, come è stato significativamente rilevato, non necessariamente deve essersi formato in una sede posta più a sud di quella protouralica; oltretutto, questa mole di influenze uraliche rende molto problematico pensare ad una sede indoeuropea primaria in Anatolia, mentre invece è ben più probabile che tali contatti si siano verificati dove i Proto-Uralici sono sempre stati stanziati. Ma la questione probabilmente si estende ben al di là della ricezione di vocaboli da una coeva famiglia vicina (cioè un “adstrato” laterale) e di conseguenza, in alternativa alla tesi di Uhlenbeck che ipotizzava una formazione indoeuropea per convergenza con altri gruppi, si può invece sempre tornare al concetto di un’origine comune di tutte queste a partire da un tronco precedente. Quindi una più antica fase condivisa che se, come segnala Alinei, ormai pare certo e generalmente accettato l’insediamento dei Proto-Uralici nelle sedi storiche già da 11.000 anni, è chiaro che debba essere cercata in tempi paleolitici ancora antecedenti; di conseguenza, anche in considerazione delle summenzionate date di ingresso in Giappone degli Ainu, per tale momento si può forse arrivare ad un periodo non troppo lontano da quei 20.000 anni ipotizzati per i ritrovamenti, già citati in precedenza, effettuati nel 1997 da Valerij Diomin nella penisola di Kola, che la stampa russa ha definito culla di tutti i popoli indoeuropei.

Tuttavia, per le origini indoeuropee, pur collocandoci in un quadro di datazioni “alte”, paleolitiche, credo anche si debba fare attenzione a non cadere in un errore di prospettiva nel quale è facile incorrere quando si analizza la letteratura e le varie interpretazioni di impostazione “boreale”: può infatti capitare l’equivoco di sovrapporre del tutto il tema delle origini nordiche della nostra famiglia etnolinguistica con quelle, ben più antiche, dell’Uomo in generale. E’ quindi opportuno ricordare che agli esordi del Manvantata, nel Primo Grande Anno (circa 65.000-52.000 anni fa) la condizione letteralmente polare era propria ad una fase incorporea e “più che umana” relativa alla supercasta Hamsa (rif. articolo “Il Polo, l’incorporeità, l’Androgine”), della quale è stato giustamente rilevato come nessuna popolazione attuale possa considerarsi discendente “più diretta” di altre. Nel Secondo Grande Anno (circa 52.000-39.000 anni fa), la polarizzazione Maschio-Femmina (di cui il precedente articolo “La bipolarizzazione sessuale….”) comportò la corporeizzazione dell’Uomo ed anche l’avvio delle sue migrazioni, con la formazione, per fissioni successive, dei primi tronconi dai quali più tardi sarebbero discese le famiglie linguistiche: quindi a caduta – inizialmente attraverso il Nostratico, poi con la sua più ridotta sezione eurasiatica e, successivamente, nel suo ramo occidentale condiviso con gli Uralici – arrivando infine a quella indoeuropea. Ma il Secondo Grande Anno viveva una condizione segnata ancora dalla mitica “Eterna Primavera” e dall’assenza delle stagioni, collegata alla perpendicolarità dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica, mentre invece, in merito alla primaria sede indoeuropea, dall’Avesta iranica ci provengono elementi che suggeriscono una situazione ben diversa. La Airyanem-Vaejo (“culla degli ariani”, la “Urheimat” ancora comune) conosceva infatti, prima della sua fine, sette mesi di estate e cinque di inverno, dove i progenitori degli Arii “consideravano come un giorno quello che è invece un anno”: in pratica una lunga notte di sei mesi ed un lungo giorno di durata analoga, denotando quindi un asse terrestre già inclinato dopo la “Caduta dell’Uomo”. Una sovrapposizione concettuale tra due fasi distanti che secondo Giuseppe Acerbi avrebbe portato all’erronea identificazione dell’anzidetta Airyanem-Vaejo con il “Vara” (“recinto, zona circoscritta”) che invece corrisponderebbe al molto antecedente “Pairi-daeza” (in pratica il “Paradiso”), nel mito indù equivalente al ben più antico Ilavrita; l’Airyanem-Vaejo costituirebbe invece una prima stazione di transito (ma sempre posta ad elevata latitudine) da una zona ancora più iperborea, tappa che a sua volta verrà seguita da molte altre, prima tra tutte la Mo-Uru sulla quale torneremo. Si può inoltre rilevare come anche nella tradizione norrena vi siano probabilmente tracce di una sovrapposizione analoga: Asgard infatti significa “Recinto degli Aesir”, e questi spesso vengono localizzati ad Est quale segno della loro primordialità, mentre nel precedente articolo “Il ramo boreale….” abbiamo visto come in quella direzione (o meglio, a nord-est) risiedesse la Varahi / Beringia, sede iniziale dei molto antecedenti “adamico-nostratici” dell’Età Paradisiaca. Un’identificazione forse dovuta proprio a quel passaggio dell’antica Tradizione che, sotto il segno di una rivivificazione della “Luce del Nord”, ad un certo punto venne presa in carico dalla Razza Eroica come eredità derivante, per usare i termini del mito celtico, dalla più arcaica stirpe di Nemed.

Dunque la culla unitaria protoindoeuropea si colloca in una fase ormai chiaramente post-edenica, come si evince anche dalle segnalazioni di Evola sul freddo clima artico sopraggiunto ad un dato momento ed, in tali deteriorate condizioni, sul timore di una notte senza fine: da qui il valore ed il particolare significato spirituale che i nostri Avi attribuivano al Solstizio d’Inverno, come cruciale punto di inversione dell’indebolimento della forza solare e la ripresa di un rinnovato vigore nell’eterna lotta contro l’Oscurità ed il Caos. Evola rileva anche che le “razze ariane” sarebbero già derivate ed, in una certa misura, miste in confronto a ceppi più antichi e puri, “iperborei”; infatti negli scritti precedenti si erano visti gli articolati percorsi di “fissione/fusione” passati, in sintesi, attraverso la triplice ibridazione tra il doppio ramo boreale – “adamico-iperboreo” ed “evaico-occidentale” – e quello australe – “lilithiano-pigmoide” – con conseguente genesi dei Cro-Magnon, poi in parte depigmentatisi e a loro volta rimescolati, in vari gradi e modalità, con spezzoni residui del doppio ramo boreale di partenza per arrivare così agli Eroi, che infine si sarebbero definitivamente ri-uniti ai Giganti in tempi tardo-pleistocenici. Tutti questi passaggi implicarono una serie di migrazioni a largo raggio che, in relazione al Secondo Pleniglaciale, sono state analizzate nell’articolo precedente e la cui attinenza con la nostra famiglia linguistica potrebbe risiedere nel fatto che fu proprio l’uscita dalla “Urheimat” ad averli incentivati a valle: spinti dalla recrudescenza wurmiana, è cioè probabile che gli Indoeuropei abbiano generato un “effetto domino” sulle altre popolazioni stanziate più a sud, analogamente a quanto, ad esempio, avvenne nella tarda antichità con la pressione esercitata dagli Unni sulle tribù germaniche e sarmatiche. In effetti, la summenzionata teoria del Sera che indicò nel Solutreano un fenomeno culturale “attrattivo”, fondamentalmente occidentale e che ebbe come principale focolaio la zona tra la Loira ed i Pirenei, potrebbe spiegare quell’afflusso indoeuropeo da nord-est verso sud-ovest che avrebbe occupato contemporaneamente gran parte delle terre abitabili nel nostro continente – non molte, date le condizioni climatiche del Secondo Pleniglaciale – ma soprattutto di quello atlantideo, probabilmente più libero dalle calotte wurmiane; da qui il mito dei contatti, inizialmente conflittuali, tra Bianchi e Rossi (o Tuatha de Danann / Fir Bolg, o Aesir / Vanir) ma poi superati nella già accennata fusione conclusasi in tempi tardo-pleistocenici, come confermato dagli eventi relativi al settimo Avatara, Ramachandra, e dove peraltro l’elemento di provenienza boreale prevalse nettamente.

E’ probabile che questa nuova unione abbia avuto luogo soprattutto in terra atlantidea perché proprio da un settore occidentale sarebbe partito verso est quel movimento che Evola definisce “orizzontale” portando, nel bacino mediterraneo, ad una primissima stratificazione ario-arcaica; un’ondata corrispondente agli antenati di popolazioni quali, ad esempio, i Pelasgi, i Creto-Egei, i Lici e che forse trova un riscontro archeologico nei movimenti di circa 15.000 anni fa della cultura Maddaleniana verso l’Europa centro-orientale, molto meno popolata di quella occidentale durante il Secondo Pleniglaciale. Quindi una prima stratificazione, antichissima ma già proto-indoeuropea, che erroneamente era stata ricondotta a popolazioni antecedenti, mentre invece queste in larga parte vennero linguisticamente assimilate nel processo fusionale accennato o, in alternativa, ridotte in enclave sempre più anguste quali oggi sono i Baschi ed i nord-caucasici (come i Ceceni). Ne sarebbe quindi derivata un’influenza molto ridotta del substrato sino-dene-caucasico sulle parlate indoeuropee-arcaiche ed in effetti, come segnala Villar, a tali conclusioni parrebbe essere giunta anche l’analisi sulla idrotoponomastica dell’Europa occidentale condotta da Hans Krahe: menzionato anche da Stuart Piggott, assieme alla scuola dei filologi di Tubinga, il linguista tedesco riuscì infatti a scoprire, nei nomi “vecchio-europei” dei fiumi, un’origine riconducibile ad uno strato indoeuropeo primitivo che sarebbe stato ben precedente alle popolazioni “storiche” (Italici, Celti, Germani…). Alla luce di tali risultanze, ormai accettate quasi unanimemente dai linguisti (solo Vennemann insiste su una toponomastica relazionabile al “Vasconico”, antenato del Basco, ma per Villar gli elementi a sostegno sono molto scarsi), la tradizionale visuale dell’indoeuropeizzazione recente risulterebbe ormai difficilmente sostenibile.

Da questo cambio prospettico deriverebbero due fondamentali conseguenze.

La prima, sarebbe che molte delle popolazioni finora ritenute pre-indoeuropee – ad eccezione dei sino-dene-caucasici, effettivamente antecedenti – sono state invece peri-indoeuropee, cioè estranee e periferiche ma non necessariamente più antiche della nostra famiglia linguistica; una conferma di questa impostazione può forse ritrovarsi nella distinzione che Devoto operò sull’Europa anaria, separando una parte più settentrionale che ipotizzò andare dai Baschi al Caucaso (appunto, i sino-dene-caucasici), da un’altra più meridionale e corrispondente al concetto di “Indomediterraneo” che sembra aver collegato il vicino oriente con l’Africa e la Spagna (e che vedremo nel prossimo articolo). In questa seconda categoria si potrebbe ad esempio far rientrare l’Iberico che, contrariamente a quanto ritenuto, sarebbe un superstrato intrusivo più recente, anche se non ne è chiaro il punto di provenienza; in zona, tuttavia, permaneva anche la lingua antenata dell’attuale Basco che però non sembra essere stata geneticamente collegata all’Iberico, anche se tra i due idiomi vi furono delle affinità probabilmente dovute solo a contatti reciproci. Di superstrato intrusivo, probabilmente proveniente da nord-est, si può forse parlare anche per i Pitti scozzesi (a conferma, a mio avviso, della non esclusiva “indoeuropeicità” della Razza Bianco-Eroica, proveniente dalla stessa direzione), o in alternativa, che questi siano coesistiti con i Celti fin dall’inizio.

La seconda importante conseguenza implicherebbe che anche altre popolazioni finora erroneamente ritenute pre-indoeuropee siano state invece proto-indoeuropee, cioè così antiche da aver subìto una tale quantità di modifiche linguistiche da renderne oggi problematico il pieno riconoscimento genetico (senza considerare che alcune, rientrando in parte nel punto sopra, avrebbero anche presentato dei caratteri ibridi indoeuropei e non indoeuropei). In questa categoria potrebbero ad esempio rientrare, oltre al Pelasgico già menzionato, anche il Tartessico o “sudlusitano”, l’Acquitano, il Ligure, la lingua parlata da Arcadi ed Aborigeni; inoltre, accostabili al Luvio anatolico (simile all’Ittita) sarebbero gli idiomi di Cari e Lelegi. In quest’ottica anche l’Etrusco troverebbe una collocazione simile: secondo Greenberg esso costituirebbe un terzo ramo delle lingue indoittite, mentre per Georgiev sarebbe un dialetto ittita piuttosto tardivo, il suo ramo occidentale, che tuttavia presenta delle affinità anche con il Lidio.

In definitiva, la posizione della nostra “Urheimat” primaria è ragionevolmente ipotizzabile in un’area dell’estremo settentrione russo – a mio avviso tra le penisole di Jamal e di Kola – ed in stretta vicinanza con le sedi della famiglia uralica (che peraltro, in un momento successivo, si sarebbe espansa verso ovest occupando le zone lasciate libere dai proto-indoeuropei); oltretutto, la prossimità con il mondo nord-siberiano e la condivisione di un bagaglio culturale largamente comune avrebbe portato, oltre che sul piano linguistico, a degli effetti anche su quello spirituale. E’ infatti probabile che proprio alla prima, profonda, stratificazione indoeuropea possano essere riconducibili quei rari ma significativi elementi di carattere sciamanico (fenomeni di tipo estatico, uso di droghe sacre, l’esistenza di esseri preolimpici dalle caratteristiche “acquatiche”, certe caratteristiche di Hefestos, Apollo ed Odino, ecc…), ben illustrati soprattutto da Mircea Eliade, ma non solo, e dei quali si era già accennato nel precedente articolo “Unità, dualità e molteplicità umana”. Si tratterebbe cioè di residui in parte sommersi sotto le strutture culturali e mitologiche apportate dalle ondate indoeuropee più recenti, quelle che, diversi millenni dopo la prima migrazione solutreana-maddaleniana, sarebbero giunte partendo da aree “secondarie” di sosta: forse anche dalla Russia meridionale della cultura kurganica (se non vogliamo seguire l’ipotesi di Mario Alinei che invece vi correla, come già detto, un centro di espansione di lingue “turciche”), ma soprattutto, a mio parere, da quella che nel mito iranico viene indicata come seconda sede nella quale gli Arii si stanziarono dopo l’uscita dalla Airyanem-Vaejo, ovvero la Mo-Uru nordatlantica citata anche da Herman Wirth. Una terra che sarebbe stata occupata più o meno in contemporanea con le aree europee durante la cultura solutreana, ma con la peculiarità di aver acquisito la funzione di un importante Centro costituito ad immagine di quello primario; qui vi stazionò una parte consistente della nostra famiglia etnolinguistica prima di una nuova migrazione che si rese necessaria a seguito degli ultimi rivolgimenti di tipo acqueo-diluviale (come vedremo in futuro). Ne costituirebbe un significativo indizio il fatto che i Celti si considerassero originari di una terra posta a nord-ovest, forse non troppo distante dall’Islanda; come anche che, nel corpus ellenico, il mito di Thule spesso alluda alla stessa area nordatlantica e non a quella autenticamente polare, della quale questa sarebbe solo una tarda immagine (e che Guenon ricorda come Centro primordiale del nostro Manvantara). Area nordatlantica che verrà sommersa per ultima, qualche millennio dopo la catastrofe che inonderà la parte principale del continente atlantico-occidentale: evento attorno al quale ruoteranno le considerazioni del prossimo articolo.

Michele Ruzzai

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Paolo Ettore Santangelo – Schizzo di storia della Preistoria. La Mitologia come Preistoria – Litotipografia Tenconi – 1946
P. Michele Schulien – L’unità del genere umano alla luce delle ultime risultanze antropologiche, linguistiche ed etnologiche – Società Editrice Vita e Pensiero – 1946
Bryan Sykes – Le sette figlie di Eva. Le comuni origini genetiche dell’umanità – Mondadori – 2003
Bal Gangadhar Tilak – La dimora artica nei Veda – ECIG – 1986
Francisco Villar – Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia – Il Mulino – 1997
Francisco Villar – La complessità dei livelli di stratificazione indoeuropea nell’Europa occidentale – in: “AA.VV. – Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici – Mondadori – 2001”
Felice Vinci – Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica – Fratelli Palombi Editori – 1998
L.M.A. Viola – Religio Aeterna, vol. 2. Eternità, cicli cosmici, escatologia universale – Victrix – 2004
L.M.A. Viola – Tempus sacrum – Victrix – 2003
Nicholas Wade – All’alba dell’Uomo. Viaggio nelle origini della nostra specie – Cairo Editore – 2006
Spencer Wells – Il lungo viaggio dell’uomo. L’odissea della nostra specie – Longanesi – 2006
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » lun dic 01, 2014 1:37 pm

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Re: La fola de l’endouropeo – la protolengoa endouropea

Messaggioda Berto » lun dic 01, 2014 6:45 pm

???

“Madre Africa” ?

http://www.ereticamente.net/2014/05/madre-africa.html

Di Michele Ruzzai

Avevo concluso il precedente articolo sul “Paradiso Iperboreo” preannunciando alcune riflessioni attorno a quella che è oggi la teoria prevalente in merito alle origini di Homo Sapiens, ovvero la cosiddetta “Out of Africa” (nel prosieguo, per brevità “OOA”); una teoria, ovviamente opposta a quella “iperborea”, che ipotizza l’origine delle attuali razze umane a partire da uno, o anche più, flussi migratori, che comunque sarebbero tutti usciti dall’Africa in un periodo più o meno situabile tra 50.000 e 100.000 anni fa.

Dirò subito che la teoria OOA non mi sembra così “neutra” ed oggettiva come vorrebbe accreditarsi – la scienza, in fondo, non lo è mai – ma pare alimentata ad arte per suggerire implicitamente di “abbassare la guardia” davanti ad un fenomeno divenuto ormai endemico, quello dell’immigrazione massiccia, che secondo i sostenitori non rappresenterebbe altro che la naturale riproposizione di quanto già verificatosi decine di migliaia di anni fa; un evento antico del quale anche noi Europei saremmo in fondo i discendenti e la cui riacutizzazione odierna dovrebbe essere accettata serenamente, rifiutando come “antistoriche” tutte le più “irrazionali” resistenze davanti ad un afflusso che, guarda caso, in larga parte proviene proprio da quel continente.

Se ora iniziamo ad entrare nel merito della solidità argomentativa della OOA – mai comunque dimenticando come non vi sia nessuna Tradizione che individui nell’Africa la sede primordiale dell’Uomo – possiamo già sottolineare in partenza quanto sintetizzato da alcuni ricercatori meno conformisti, ovvero che, contrariamente a quanto viene “passato” dai mass-media, non esistono tuttora prove veramente decisive, di tipo genetico, fossile o archeologico, che attestino con assoluta certezza l’origine africana di Homo Sapiens, come più nello specifico avremo modo di vedere. Un altro utile spunto preliminare, può essere costituito dal semplice, ma stringente, interrogativo che è stato posto sulle ragioni che avrebbero spinto l’uomo ad abbandonare i favorevoli climi africani per dirigersi, ad esempio, verso la gelida Europa del tempo; un’area che, per dei gruppi ipoteticamente provenienti da sud, ben difficilmente sarebbe apparsa climaticamente appetibile prima dell’Interstadio temperato di Hengelo, il quale, posto tra 42.000 e 36.000 anni fa, è però meno antico dei primi reperti attestati nel nostro continente.
Il discorso quindi non torna, e già sotto questo aspetto appare poco convincente.

Come già accennavo in un precedente articolo (“Discontinuità nella nostra Preistoria”), la teoria OOA sostiene che il processo di “speciazione” che avrebbe portato alla nascita di Homo Sapiens – il cosiddetto “Uomo anatomicamente moderno” – sarebbe avvenuto totalmente in Africa, insistendo sulla ipotetica maggior antichità, rispetto agli altri continenti, dei ritrovamenti locali attribuibili ai Sapiens (Omo, Herto, Pinnacle Point, Border Cave, Klasies, Blombos). Una maggior antichità che, appunto, è però solo ipotetica, perché non mancano, e sono piuttosto “scomodi”, anche reperti extra africani con età paragonabile: già da tempo quelli di Skuhl e Qafzeh in Palestina (risalenti a circa 100.000 anni fa e che avevano lasciato perplessi gli archeologi proprio per la loro prossimità temporale ai reperti sudafricani e la stasi, che allora sembrava evidenziarsi, nella ulteriore colonizzazione del mondo), ma in seguito anche Jebel Faya in Arabia (circa 120.000 anni fa), Liujiang in Cina (fino a 139.000 anni fa), Kununurru in Australia (forse fino a 174.000 anni fa). Per non parlare del recente ritrovamento, potenzialmente molto destabilizzante, di Qesem in Palestina che, se confermato, potrebbe arrivare anche a 400.000 anni e “far saltare” definitivamente tutto il banco.

La difficoltà con le datazioni “alte” dei reperti extra africani è particolarmente palese per la versione della OOA che, in tempi recenti, è sembrata prevalere, ovvero quella che ha preferito abbassare il momento della migrazione dall’Africa, rispetto a quanto stimato in precedenza, entro i 50.000 anni fa (tra l’altro, denotando un sensibile e significativo avvicinamento alle datazioni centro euroasiatiche, prossime a 45.000 anni fa se non di più); una riduzione che, in effetti, è sembrata essere più coerente con la vistosa carenza di elementi archeologici sud e centro asiatici collocabili, a grandi linee, tra 50 ed 80.000 anni fa, nonché con la ridatazione dei reperti australiani di Lago Mungo (precedentemente valutati a 60.000 anni fa, ma che poi hanno subìto un sostanzioso abbassamento a 42.000 anni da oggi). E’ però evidente che, d’altro lato, tale riformulazione ha ottenuto il risultato di accorciare ulteriormente la coperta ed incrementare ancora di più le perplessità sulla spiegazione da dare alle datazioni extra africane più alte. Tra i continui tentativi, dietro ai quali non è nemmeno agevole riuscire a stare aggiornati, che i ricercatori hanno messo in campo per trovare una soddisfacente quadratura del cerchio, anche una recentissima ipotesi (22 aprile 2014 – Sito Le Scienze) di una migrazione non più singola ma in “doppia fase”, situerebbe comunque l’ondata più antica, diretta soprattutto lungo la via costiera verso l’Asia meridionale e l’Australia, non prima di 100.000 anni fa (mentre la seconda sarebbe più recente e centro euroasiatica, entro i 50.000 anni da oggi), quindi di fatto mantenendo quasi del tutto irrisolto il disallineamento con le datazioni extra africane più antiche.

Secondo la teoria OOA i siti africani, la cui alta antichità come abbiamo visto non è così esclusiva, dovrebbero peraltro denotare anche un ininterrotto popolamento del continente nero, giustificandone così una incontestata funzione di “vagina gentium”; bisogna però dire che le evidenze demografiche più antiche non sembrano deporre in questa direzione. Infatti, a parte forse la sola zona orientale, è stato rilevato come circa 50.000 anni fa buona parte dell’Africa risultasse disabitata: più nello specifico, Klein ad esempio segnala come l’area maghrebina e settentrionale dai 40.000 ai 20.000 non fosse occupata, e così anche quella meridionale, forse da prima di 30-40.000 anni fa (ma un altro autore indica da ben 70.000 anni), sino alla fine della glaciazione, quindi a non meno di 15.000 anni da oggi. La stessa osservazione che nell’Africa sub-sahariana molte caratteristiche del comportamento umano moderno, come l’arte astratta, si ritroverebbero già 90.000 anni fa (ma, come già rilevavo nel precedente articolo “Discontinuità della nostra Preistoria”, questi reperti dovrebbero ricadere nel Manvantara precedente e quindi appartenere ad un’altra umanità) per scomparire circa 65.000 anni fa e riaffiorare solo 25.000 anni dopo, potrebbero andare nella stessa direzione di un antico popolamento africano scarso o saltuario, non molto compatibile con la centralità che la OOA dovrebbe implicare.

Come noto, la teoria OOA ha copiosamente utilizzato anche valutazioni di ordine genetico, soprattutto a seguito della ricerca di Alan Wilson dell’università di Berkeley sul DNA mitocondriale (cioè non il DNA del nucleo cellulare vero e proprio ma quello dei mitocondri, organelli ereditati solo per via femminile e presenti nel citoplasma con funzioni principalmente di produzione di energia); un lavoro che ha portato, più di vent’anni fa, alla costruzione del primo albero genealogico globale basato sulla distribuzione delle mutazioni intervenute in questo DNA tra varie popolazioni umane. Si è individuato in Africa un’unica capostipite femminile di tutte le linee riscontrate che ben presto è stata ribattezzata – anche con un certo effetto mediatico – “Eva mitocondriale”.

Ma, sulla base di ulteriori analisi di tipo statistico, secondo vari genetisti il lavoro di Wilson non sarebbe esente da critiche e la forma dell’albero mitocondriale avrebbe potuto essere piuttosto diversa, evidenziando anche una radice primaria collocata fuori dall’Africa. Ad esempio, Cavalli Sforza ha opportunamente rilevato come l’albero di Wilson sia stato scelto fra un’infinità di altri possibili, oltre ad essere costruito sulla base del “principio di parsimonia”: un postulato logico-statistico molto debole, che minimizza l’ipotesi delle mutazioni intervenute dall’inizio della storia evolutiva e individua preferenzialmente il percorso più semplice per la ricostruzione di una storia filogenetica. In pratica è l’applicazione del cosiddetto “Rasoio di Occam” principio metodologico che, in sintesi, suggerisce di percorrere, nel tentativo di spiegare un fenomeno in termini razionali, la via più semplice e soggetta al minor numero di fattori. E’ peraltro significativo il fatto che anche Renè Guenon vi accenni criticamente, notando come la formulazione del “Rasoio di Occam” appartenga al momento decadente della Scolastica e rappresenti un postulato del tutto gratuito, anche perchè spesso la natura non sembra seguire la via più semplice, ma ingegnarsi a moltiplicare gli eventi senza necessità alcuna…

Uno dei punti fondamentali collegati alla questione della “Eva africana” è oltretutto quello della corretta definizione della velocità del cosiddetto “orologio molecolare”, attraverso il quale tutta la serie di mutazioni rilevate possono in qualche modo essere accompagnate ad una datazione temporale dei vari eventi storici. E’ tuttavia molto importante tener presente che per “tarare” questo orologio – in pratica per definire la velocità del suo “ticchettìo” – la genetica non dispone di mezzi autonomi: deve invece ricorrere a degli elementi esterni per fissare almeno alcuni punti di partenza ed effettuare successivamente delle estrapolazioni più o meno proporzionate alla sequenza delle mutazioni intervenute. Wilson, ad esempio, come punto di partenza ha utilizzato la presunta data di separazione tra scimpanzé e uomo, evento che già avevamo discusso nei suoi aspetti meno convincenti; l’operazione, peraltro, è stata poi sottoposta ad una “ritaratura” utilizzando un altro evento considerato di datazione sufficientemente sicura, ovvero il momento di separazione dei nativi americani dalle popolazioni siberiane. Ma tale snodo è stato collocato 12.000 anni fa e quindi, come abbiamo già visto, appare certamente sottostimato. Sono stati quindi espressi, da parte di Cavalli Sforza ed altri ricercatori, forti dubbi sulla aleatorietà di un affidabile ancoramento degli orologi biochimici agli eventi preistorici, tanto che potrebbero conseguirne distorsioni interpretative non da poco, situando ad esempio in contesti paleolitici eventi neolitici, o viceversa; una “elasticità” che infatti anche lo stesso Wilson di fatto confermò segnalando come, ripercorrendo a ritroso tutte le mutazioni della linea mitocondriale, probabilmente ci si spinge ancora più indietro dell’origine dell’uomo moderno, con Eva africana che poteva addirittura far parte di una popolazione più arcaica. Cann e Stoneking – entrambi allievi di Wilson – ammisero infatti la difficoltà di datare “Eva mitocondriale” più precisamente del lasso tra 50.000 e 500.000 anni da oggi (ma qualcuno arriva anche ad ipotizzare fino ad un milione di anni), giungendo quindi ad affermare di aver potenzialmente individuato, nelle mutazioni mitocondriali, non le tracce dei flussi Sapiens dall’Africa ma forse quelle di precedenti migrazioni di Homo Erectus. Successive analisi di Stonecking, volte a raffinare ulteriormente il tasso di mutazione del DNA che Wilson aveva desunto partendo dall’ipotetico punto di separazione tra scimpanzè e uomo, avrebbero più o meno confermato l’antichità di Eva africana a circa 200.000 anni fa; potrebbero però essere state anch’esse negativamente influenzate dall’errata datazione, presa questa volta a riferimento “esterno”, di 60.000 anni fa per la colonizzazione di Homo Sapiens in Nuova Guinea, dal momento che secondo Roger Lewin le prove archeologiche di una presenza in sito di uomini anatomicamente moderni prima di 45.000 sono scarsissime, quindi rendendo fortemente ipotetica anche questa ulteriore analisi.

Ma, oltre al problema della corretta determinazione della velocità di questo orologio molecolare, vi sono seri dubbi anche in merito all’omogeneitàdel tasso evolutivo per tutte le popolazioni mondiali, piuttosto che un’ipotesi alternativa di ritmi diversificati e di velocità di mutazione non uguali per tutti. Secondo l’albero basato sui dati mitocondriali, l’Africa si fa preferire come patria iniziale solo, appunto, scegliendo a priori un’ipotesi di costante tasso di mutazione per tutta l’umanità, ipotesi che però non è ancora confermata; al contrario, alcuni studi hanno evidenziato come, anche all’interno di una stessa specie, il tasso di mutazione sembri invece variare in funzione dei geni considerati. Se piuttosto si fosse preferito dare maggior rilievo ad un concetto diverso, ovvero quello dell’area dove si riscontra il materiale mitocondriale più vicino alla media di tutte le popolazioni mondiali, è emerso che invece sarebbe l’Asia ad apparire più indicata come iniziale patria umana; in tal caso, la notevole divergenza (numero di mutazioni) riscontrata in gruppi quali i khoisanidi sarebbe interpretabile come il risultato di una specifica accelerazione nella velocità evolutiva di quella popolazione.

In effetti, alcuni studiosi valutano come più probabile l’ipotesi di una velocità di mutazione non omogenea per tutte le popolazioni mondiali ed in tal caso potrebbe, a nostro avviso, essere anche maggiormente intuitivo il concetto che alcuni dei gruppi odierni siano il risultato di un allontanamento genetico più marcato rispetto al comune tronco ancestrale, magari favorito da una precoce separazione geografica. Già infatti ricordavamo la notizia (Le Scienze – giugno 2006) della scoperta di una generale velocità doppia di fissazione delle mutazioni genetiche alle latitudini tropicali rispetto a quelle medie; a mio avviso non è quindi insensato considerare, a fianco della parallela osservazione di una minore biodiversità nelle zone polari rispetto a quella delle latitudini più basse, la possibilità che popolazioni migrate in prossimità delle zone equatoriali possano dare oggi l’erronea impressione di essere più antiche (perché con un genoma maggiormente mutato e quindi apparentemente più antico) rispetto magari ad altre, invece effettivamente loro coeve ma… rimaste “in frigorifero” a latitudini più elevate.

Eppure il tema della velocità evolutiva non impatta solo sulla datazione, più o meno corretta, dei vari eventi preistorici, ma comporta anche delle ricadute sull’architettura generale dell’albero filogenetico che viene prodotto dall’elaborazione statistica, con particolare importanza per la definizione della radice di partenza di tutta la struttura che, ovviamente, costituisce l’informazione fondamentale sul punto di origine di tutta la popolazione mondiale. In pratica, sulla base dei soli dati genetici, gli alberi che riescono a strutturarsi definendo autonomamente una chiara radice di partenza devono però essere pre-impostati proprio con una, indimostrata, velocità evolutiva costante per tutte le popolazioni, cioè programmando fin dall’inizio i vari rami dell’albero ad avere tra loro la stessa lunghezza dal punto di origine alla linea odierna: quindi introducendo un elemento fondamentale per l’architettura finale della struttura. Altre tipologie di alberi filogenetici, costruiti con metodi statistici diversi, non presentano una radice iniziale in conseguenza del fatto che non vengono limitati da una precondizione di ipotetica velocità mutazionale omogenea per tutti, ma scontano però l’inconveniente che il loro significato sia evolutivamente meno sicuro, perché chiaramente privi di indicazioni riguardo all’origine di tutto il disegno. In definitiva, che siano di tipo “NJ” (“evoluzione minima”), “massima verosimiglianza”, o altro ancora, le strutture filogenetiche che si rivelano compatibili con i dati di partenza – e che appaiono anche piuttosto diverse a seconda del metodo utilizzato – risultano sempre essere in numero considerevole; devono quindi venire vagliate alla luce dei dati “esterni” per scegliere quello con la radice o la struttura generale che si reputa essere più “ragionevole”.

E’ quindi evidente che non rappresentano uno strumento né univoco né infallibile.

Tutto ciò senza considerare il fatto che comunque gli alberi filogenetici devono scontare un rilevante problema metodologico in quanto, raffigurando essenzialmente la storia delle fissioni umane, non riescono efficacemente a tener conto di eventi di segno opposto, ovvero le possibili mescolanze intervenute tra popolazioni diverse, che in pratica costituiscono delle interconnessioni ed interferenze reciproche tra i rami. In effetti, oltre agli alberi filogenetici, è stata elaborata anche un’altra modalità di rappresentazione grafica per illustrare quella che è la variabilità umana nonché la sua distribuzione territoriale, ovvero le cosiddette “Componenti Principali”, applicabili su diverse scale geografiche a seconda del livello di dettaglio delle informazioni genetiche raccolte. Cavalli Sforza segnala comunque come la “Prima Componente Principale” del mondo (ovvero quella che dovrebbe raffigurare sinteticamente, se non tutte, almeno le grandezze più evidenti nella distribuzione genetica a livello globale) non mostri così nettamente la presupposta separazione primaria tra popolazioni africane e non, tendendo piuttosto ad indicare, genericamente, un ipotetico spostamento di uomini anatomicamente moderni lungo l’asse occidente-oriente. Ma anche a voler mantenere valida una primaria separazione africani / resto del mondo, Cavalli Sforza ammette significativamente una possibile “bidirezionalità” interpretativa dei dati, che non dicono necessariamente se i primi uomini fossero africani e si diffusero verso l’Asia o viceversa (!!!); le mappe geo-genetiche in fondo descrivono una situazione statica ed al massimo evidenziano delle “parentele” più o meno strette tra gruppi diversi, ma non possono mai indicare dinamiche e movimenti migratori. E’ fondamentale ricordarsi che questi li aggiungiamo sempre noi, sulla base di altri elementi, esterni alla genetica e con il supporto di ulteriori teorie.

Se quindi pure ammettiamo, come dato generale, l’esistenza di due grandi blocchi genetici separati (appunto, uno africano e l’altro euro-asiatico), tale evidenza non risulta spiegabile solo attraverso l’ipotesi di un’età più elevata degli africani – e quindi di una loro “ancestralità” rispetto a tutti gli altri – ma anche con quella, del tutto plausibile per evidenti motivazioni geografiche, che vi possa essere stato un maggior interscambio genetico (mescolamento) tra europei ed asiatici; in questo caso l’Africa potrebbe senz’altro non essere la culla iniziale di tutta la popolazione planetaria. Come anche potrebbe non esserlo in ragione della maggiore eterogeneità genetica interna delle popolazioni africane, che, invece di indicare, anche qui, una maggiore antichità, potrebbe invece essere il risultato di una distorsione statistica indotta dal fatto che il continente nero è stato probabilmente più popolato di altri, almeno in tempi abbastanza recenti: vi si sarebbe accumulato un maggior numero di individui con le relative diversificazioni, che quindi avrebbero impiegato più tempo, rispetto ad altre parti del mondo, per scomparire senza lasciare tracce rilevabili. Se allora la probabile origine geografica di un certo carattere non va ricercata dove esso è più diffuso, bensì dove esso appare più eterogeneo, e questo criterio non vale solo per la genetica ma sembrerebbe anche per la glottologia storica, che dire allora delle oltre 150 famiglie linguistiche indigene in America, mentre il Vecchio Mondo ne conta solo 40? Chiaramente non è sostenibile un popolamento americano (comunque meno recente di quanto finora ritenuto) che sia tre/quattro volte più antico di quello del resto del mondo, ed in effetti è un’ipotesi che nessuno si sogna di affermare.

Pare quindi evidente che molti punti della teoria OOA, che ci viene presentata quasi come una certezza “oggettiva” ormai acquisita, risentano invece moltissimo di elementi pregiudiziali del mondo scientifico-accademico-divulgativo: se ad esempio, come è stato effettivamente scritto (Sykes – Le sette figlie di Eva, riferendosi ipoteticamente alla Scozia), venissero attestate delle evidenze genetiche particolarmente significative in aree considerate però “non coerenti”, perché ad esempio ritenute a suo tempo glacializzate, è chiaro che tali dati non potrebbero essere letti come la dimostrazione di una possibile “patria di origine” di quella zona, e quindi andrebbero tranquillamente interpretati in modo alternativo.

Un esempio che mi è sembrato particolarmente calzante per la prospettiva nella quale ci muoviamo…

D’altro canto, invece, sempre sulla base di interpretazioni di dati genetici, anche di recente sono state proposte (Sito Le Scienze – 24/02/2014) zone di origine umana localizzate in posizioni nettamente più occidentali dell’Africa e che mai erano state avanzate prima, evidenziando in questo caso anche un’incongruenza veramente stridente con i dati paleoantropologici, vista l’assenza totale di reperti umani di età compatibile in quella specifica area: un dato fortemente problematico che, peraltro, già da tempo era stato rilevato sempre da Bryan Sykes. Non è quindi un caso che la teoria OOA, pur oggi fortemente maggioritaria, venga comunque avversata ancora da diversi ricercatori poco inclini ad unirsi al coro dei figli di “Madre Africa”; si tratta ad esempio dei “multiregionalisti” (come Milford Wolpoff) o della gran parte degli antropologi cinesi, che respinge l’idea di una discendenza dei loro connazionali da fantomatici protoafricani e si trova anche in disaccordo con l’ipotesi di una derivazione dei primi asiatici orientali e sud-orientali da zone più meridionali, come l’Australia o la Nuova Guinea (un concetto spesso correlato alla OOA).

Ma, oltre a tutte queste considerazioni di carattere metodologico e generale, più in particolare va evidenziato che sono emersi anche dei dati specifici e molto significativi che smentiscono direttamente gli assunti della OOA: si tratta delle analisi sul reperto australiano del Lago Mungo che avrebbero evidenziato una sequenza mitocondriale più divergente di qualunque altra finora conosciuta, comprese quelle africane (quindi chiaramente incompatibile con una provenienza da lì) e l’individuazione di linee ritenute più antiche di un gene coinvolto nel metabolismo dello zucchero, riconducibili una ad un individuo africano e l’altra ad uno asiatico, mettendo anche in questo caso in “fuorigioco” la teoria afrocentrica. Inoltre, altri studi rivelerebbero che le popolazioni della Melanesia sarebbero tra le più differenziate del pianeta, presentano molte varianti genetiche altrove ignote e quindi, anche qui, molto poco congruenti con il quadro OOA.
Quadro nel quale – oltretutto – sempre più pare sfuggente e mal definito proprio il soggetto che invece dovrebbe essere centrale in tutta la teoria, ovvero quella popolazione “protoafricana” ancestrale che dovrebbe aver migrato ovunque sul pianeta ed aver dato origine a tutti noi.

Infatti, se escludiamo i caucasoidi nordafricani ed andiamo ad analizzare l’Africa subsahariana, vedremo intanto che l’origine genetica delle popolazioni tipicamente negroidi e maggioritarie (quelle parlanti lingue niger-kordofaniane e nilo-sahariane) è praticamente sconosciuta. In termini tipologici, queste presentano una varietà interna estremamente elevata a causa dei moltissimi incroci avvenuti con popolazioni alloctone, in misura nettamente superiore a quella di altre razze; così tanto che oggi è difficile stabilire dove effettivamente si trovi il “Negro” puro. In rapporto a questo vero e proprio “magma” antropologico, i Khoisan (Boscimani ed Ottentotti), che secondo alcuni genetisti rappresenterebbero gli eredi più diretti dei “protoafricani” autoctoni ed ancestrali, per Cavalli Sforza invece evidenziano un patrimonio genetico misto e piuttosto deviante rispetto al tipo africano principale; ciò non disgiunto dalle stesse caratteristiche fenotipiche, tanto che l’antropologo Carleton Coon non li considerò neppure appartenenti al gruppo negroide classico (da lui chiamato “Congoide”) ma una razza a parte, quella “Capoide”. Sempre secondo Cavalli Sforza, i Khoisan potrebbero piuttosto essere il risultato di un antico meticciamento, forse avvenuto in zona mediorientale prima ancora di entrare in Africa (qualcuno ha addirittura rilevato un’antichissima impronta “semitica” nel sangue degli Ottentotti e dei Boscimani) tra popolazioni non ancora specializzatesi in direzione chiaramente negroide ed altre (secondo Vallois) di tipo asiatico e che forse iniziavano allora a dirigersi verso la forma dell’attuale razza gialla. Anche per quanto riguarda le popolazioni etiopiche è stata da più parti sottolineata una netta divergenza rispetto al tipo negroide ed una marcata prossimità a quello caucasoide (aspetto sul quale torneremo) e quindi anche per esse appare problematico considerarle dirette discendenti degli ipotetici protoafricani iniziali; come per i Khoisanidi, sembrerebbe più corretto inquadrarle come un gruppo fondamentalmente allogeno e non autoctono. D’altronde Cavalli Sforza rileva come la “Seconda Componente Principale“ africana evidenzi un valore estremo presente sia in Etiopia che nell’Africa meridionale e relazionato ai Khoisan, quindi accomunando i due gruppi che geneticamente appaiono intermedi tra asiatici ed africani subsahariani, forse addirittura più vicini agli asiatici occidentali che a questi ultimi; una parentela peraltro già a suo tempo ipotizzata anche dal glottologo Alfredo Trombetti che avvicinò il cuscitico, parlato da popolazioni etiopiche, alle lingue boscimano-ottentotte.

Ancor di più, fuori dall’Africa, è stato notato (Klein) come in genere i più antichi europei ed australiani conosciuti tendano ad evidenziare delle somiglianze fisiche molto più pronunciate con i loro discendenti di età storica piuttosto che nei confronti di questi presunti antenati africani; ad esempio, nei primi ritrovamenti ossei del nostro continente – Combe-Capelle e Cro-Magnon – sono riscontrabili non poche caratteristiche ancora oggi presenti negli attuali europei, o almeno in buona parte di essi (più avanti torneremo sul significato di tali reperti); di questi ipotetici antenati africani, ad un esame attento, non sembrano cioè sussistere reperti di antichità compatibile con la teoria OOA e chiaramente riconoscibili come tipo fisico africano, arcaico o avvicinabile ad una qualche popolazione attuale. Ad esempio i famosi ritrovamenti liguri di Grimaldi, o dei Balzi Rossi, hanno da un po’ di tempo viste completamente ridimensionate le caratteristiche “negroidi” inizialmente attribuite loro (probabilmente anche in malafede, proprio per meglio inquadrarli in una presupposta visuale evolutivo-progressiva-afrocentrica). Ed, a fianco delle “non evidenze” antropologiche, il discorso appare analogo anche a livello archeologico, nel senso che non si riscontra negli altri continenti alcuna comparsa di tecnologie litiche tipicamente africane portate dagli ipotetici discendenti della “Eva mitocondriale”.

Davanti ad un simile quadro, e tenendo presente la summenzionata ammissione di Cavalli Sforza sulla “bidirezionalità” delle possibili interpretazioni dei dati genetici, a mio avviso si potrebbe completamente capovolgere l’assunto iniziale: l’Africa, cioè, non sarebbe stata la “culla” dalla quale partirono le migrazioni più antiche ma, all’opposto, un’area di forte immigrazione, dove nel corso del tempo avrebbero confluito le più disparate varietà umane. Soprattutto fattori climatici (ricordiamo che, ad esempio, il Sahara era una terra rigogliosa fino a non molti millenni fa) ne avrebbero favorito il ruolo di refugium, mentre vaste zone del pianeta venivano aggredite dalla glaciazione wurmiana; tutto ciò probabilmente in tempi diversi ma soprattutto, ed in termini demograficamente più rilevanti, in un momento più recente, ad esempio in occasione del secondo pleniglaciale o più tardi ancora, alla fine del Pleistocene, che infatti per Kozlowski avrebbe denotato una migrazione più massiccia in particolare verso le zone costiere e subequatoriali.

Un’Africa, quindi, che potrebbe essere stata una specie di “melting pot” ante litteram.

In effetti, pur rimanendo nell’ambito della teoria OOA, vari studiosi ipotizzano essersi verificato un “riflusso” (che per noi invece è un vero e proprio primo ingresso) di popolazioni dall’Asia occidentale verso l’Africa; un’idea che aveva già trovato un certo spazio nell’antropologia classica e sembrava anche concordare con gli accenni, presenti nel folklore di varie popolazioni subsahariane, ad antichi antenati giunti dalla direzione di nord-est. Diversi antropologi ipotizzarono infatti che il ceppo originario delle popolazioni nere dovette essersi formato primariamente in aree iranico-indiane, migrando poi sia verso ovest, in Africa, sia verso est, in Insulindia ed Oceania; una linea simile a quella postulata dal glottologo Alfredo Trombetti, sulla base di alcune influenze linguistiche che ritenne di aver individuato, per il quale i progenitori dei negroidi africani (sopratutto i Bantu, ma non solo) sarebbero anticamente giunti dalle regioni dell’India orientale abitate sia dai Munda, oggi ancora ivi presenti, che da alcune popolazioni australoidi poi migrate in direzione sud-est. Oswald Spengler suggerì addirittura l’idea, più estrema ancora, di un’origine iniziale dei neri africani direttamente in area australiana, e di una loro successiva modificazione tipologica una volta giunti nella sede più occidentale. Più recentemente, Olson segnala oltretutto l’innegabile persistenza di contatti tra Africa ed Asia meridionale, prendendo ad esempio tutte quelle popolazioni asiatiche (pigmei semang, andamanesi, indiani meridionali di pelle nera) che dall’aspetto appaiono chiaramente accomunati a quelle africane; d’altro canto lo stesso autore riferisce opportunamente un ulteriore dato molto significativo, ovvero che i geni dei “negridi classici” sembrerebbero essere più recenti di quelli pigmei (popolazione sulla quale sarà il caso, a tempo debito, di fare delle riflessioni specifiche).

E’, questo, un elemento che introduce un ultimo punto a mio parere fondamentale, ovvero quello dell’effettiva antichità delle popolazioni subsahariane e che, nell’ottica della teoria OOA, ritengo dovrebbe essere di primaria importanza; infatti, ammettendo tale ipotesi, sarebbe logico attendersi che il vasto insieme delle popolazioni centro-occidentali, quelle che forse più “tipicamente” rappresentano l’umanità africana rispetto ai gruppi più segnatamente allogeni – come abbiamo visto, i Khoisanidi meridionali, gli Etiopi orientali, i Caucasoidi settentrionali (p.es. i Berberi) – risultino della massima antichità, in quanto ultime e più dirette discendenti di quegli ipotetici ed antichissimi “protoafricani” che avrebbero generato loro e tutte le altre popolazioni mondiali.

Ebbene, anche qui, la teoria OOA non sembra suffragata da evidenze paleoantropologiche favorevoli.

Caratteristiche razzialmente ed inequivocabilmente “nere” in Africa si segnalano infatti molto tardi ed in modo anche piuttosto problematico: ad esempio, i ritrovamenti di Boskop sono relativamente recenti (circa 20.000 anni) e gli elementi negroidi ivi rilevati non trovano consenso unanime, dal momento che viene piuttosto ipotizzata una componente khoisanide, se non addirittura un’affinità che sembrerebbe ancora a più chiara con elementi caucasoidi del tipo Cro-Magnon. Un altro famoso reperto africano, l’Uomo di Asselar, presenta caratteristiche negroidi probabilmente più nette, ma anch’esso denota una certa affinità con i reperti Cro-Magnon e forse khoisanidi; in ogni caso, risale a tempi ancora meno antichi di Boskop, probabilmente al paleolitico recente se non addirittura al neolitico. Il reperto di Asselar è stato rinvenuto in corrispondenza del margine meridionale del Sahara che in quel periodo, ormai piuttosto vicino ai tempi storici, era abitato (come immaginavamo sopra) da popolazioni già ben diversificate, quali protoberberi mediterranei, etiopi di tipo orientale, boscimani, negrilli ascendenti degli attuali pigmei; è in effetti probabile che solo in questo momento si sia verificata la mutazione che ha prodotto l’attuale tipo negroide, il quale rappresenta la base razziale dei tre odierni raggruppamenti etnici Bantu, africani occidentali e Nilo-sahariani.

In definitiva, è generalmente riconosciuto (Kurten, Canella, Biasutti, Bertaux) che vi è una forte carenza di resti sufficientemente antichi riconducibili ad individui antropologicamente negroidi; ed anche se la cosa fosse spiegabile con una certa difficoltà di conservazione dei fossili nelle foreste pluviali dell’Africa centro-occidentale, vi sono in ogni caso molti antropologi che insistono nell’idea che la “Razza Nera” rappresenti una variante umana relativamente recente, forse anche meso-neolitica (Bernatzik, Biasutti, Brian, Coon; Canella segnala che per Weinert sarebbe più giovane delle popolazioni oceanico-melanesiane).

Infine va rimarcato che, oltre ad essere particolarmente recente, il ramo negroide non denoterebbe affatto caratteri di “primitività”, ovviamente non da intendersi nell’errato senso “evolutivo-progressivo” (cioè corrispondente più o meno al concetto di “animalità”) ma in quello di un tipo ancora relativamente indifferenziato, originario e – diciamo così – “standard”; al contrario, in rapporto alle caratteristiche antropometriche medie dell’ecumene umano, i negroidi presentano valori molto specializzati, estremi e differenziati (per Biasutti, analogamente a quanto, in direzione tipologica ovviamente diversa, sembra rilevarsi anche per biondi europei e mongolici).

Tutto ciò, a mio avviso, è piuttosto significativo in merito a quanto, invece, sarebbe lecito attendersi secondo la teoria OOA, e ci porta verso l’interrogativo di quali caratteristiche razziali possono aver avuto i primi Uomini che hanno popolato il pianeta; argomento che cercheremo di affrontare nel prossimo articolo.
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· Hugo A. Bernatzik – Popoli e Razze – Editrice Le Maschere – 1965
· Pierre Bertaux – Africa. Dalla Preistoria agli stati attuali – in: Storia Universale Feltrinelli – Feltrinelli – 1968
· Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1959
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