Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iranici o turco altaici ?

Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iranici o turco altaici ?

Messaggioda Berto » gio giu 26, 2014 12:35 pm

Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iranici o turco altaici ?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =134&t=943


Sciti e Sarmati: iranici o turco altaici ?
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... FNYmc/edit
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Origini turco altaiche delle culture nomadico pastorali
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... tjWE0/edit
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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ...

Messaggioda Berto » gio giu 26, 2014 12:36 pm

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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ...

Messaggioda Berto » gio giu 26, 2014 9:37 pm

Per qualcuno i Kurgan erano shiti-iranici e pensa che gli studi del genetista Cavalli Sforza lo abbia confermato sostenendo l'ipotesi che fossero indoeuropei ma a ben leggere il suo libro non pare proprio che lo abbia dimostrato.:


Genetica europea, etrusca e veneta
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... BlSkE/edit

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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ...

Messaggioda Berto » gio giu 26, 2014 9:49 pm

Canevo, canapa e mariuana
viewtopic.php?f=44&t=907


Gli Sciti e la canapa - The Scythians and the hemp

http://samorini.it/site/archeologia/asia/sciti-canapa

Al nome “Sciti” (Skythai) utilizzato dagli antichi Greci corrisponde un insieme di tribù nomadiche che vissero fra il VII secolo a.C. e il III secolo d.C. attorno al Mar Nero. A queste popolazioni viene oggi dato il nome di Sciti europei o del Ponto. L’origine di queste popolazioni è stata alquanto dibattuta fra gli studiosi, sebbene vi sia oggi concordanza in una loro origine asiatica. Il fulcro regionale dei proto-Sciti è probabilmente da ascrivere alle estese regioni degli Urali meridionali e delle zone del Mar Caspio e del Lago d’Aral, e vi sono evidenze per strette relazioni e genesi culturali con le antiche Culture Kurgan dell’Asia centrale.

I Greci incontrarono gli Sciti del Ponto a partire dal VII secolo d.C. nel corso della loro colonizzazione del Mar Nero. Erodoto, che scrisse le sue Storie attorno al 500 a.C., descrisse ampiamente la storia e i costumi di queste popolazioni scitiche. In un suo famoso passo riportò l’uso della Cannabis da parte degli Sciti, internamente a una cerimonia di purificazione eseguita dopo la sepoltura di un re:

“Compiuta una sepoltura, gli Sciti si purificano nel seguente modo. dopo essersi unto e deterso il capo, al corpo fanno questo: piantati tre pali inclinati l’uno verso l’altro, vi stendono sopra tutt’intorno coperte di lana e, stringendole il più possibile, gettano pietre arroventate in una conca posta in mezzo ai pali e alle coperte.

Nasce presso di loro una pianta di canapa, assai simile al lino fuorché per spessore e grandezza: da questo punto di vista la canapa supera di molto il lino. Essa nasce sia spontanea sia seminata, e i Traci ne fanno anche vesti assai somiglianti a quelle di lino, e chi non fosse assai esperto non potrebbe distinguere se sono di lino o di canapa; chi poi non conosce ancora la canapa, riterrà senz’altro che la veste sia di lino.

Gli Sciti dunque, dopo aver preso semi di questa canapa, si introducono sotto quelle coperte, e poi gettano i semi sopra le pietre roventi. Il seme gettato fa fumo ed emana un vapore tale che nessun bagno a vapore greco potrebbe vincerlo. Gli Sciti mandano urla di gioia soddisfatti da questo bagno, perché non si lavano il corpo con acqua” (Plinio, Historiae, IV, 73(2)-75, nella traduzione di Augusta Izzo D’Accini, 1984, Mondadori, Milano, vol. 2, pp. 253-5).

Le ricerche archeologiche parrebbero aver confermato questa particolare pratica di uso della canapa. Nel sito archeologico della valle del fiume Pazyryk, nelle montagne dell’Altai orientale e a un’altitudine di 1600 metri sul livello del mare, sono state portate alla luce alcune decine di tombe a tumulo (kurgan), risalenti al 500-300 a.C. Queste tombe, appartenenti al ciclo culturale dei “Grandi kurgan dell’Altai”, si sono conservate nel ghiaccio e sono in relazione con le popolazioni scitiche asiatiche. Nel kurgan di Pazyryk 2, scavato nel 1947-48 da Sergei Ivanovich Rudenko, vi erano seppellite le mummie di una donna e di un uomo, quest’ultimo un probabile condottiero dell’età di circa 60 anni. Come in tutte le inumazioni di Pazyryk e di altri kurgan eurasiatici, il cadavere veniva sottoposto a un trattamento di mummificazione prima della sepoltura, con estrazione del cervello mediante trapanazione cranica e di tutti gli organi interni e dei muscoli. Accanto ai resti di sette cavalli sacrificati nel corso del funerale e a diversi utensili, strumenti musicali, specchi, nella sepoltura dell’uomo di Pazyryk 2 è stato ritrovato un calderone di bronzo con due manici, che era stato coperto con della corteccia di betulla; nel suo fondo è stato ritrovato del feltro, mentre la parte superiore era stata riempita con delle grosse pietre. Fra queste pietre sono stati ritrovati semi di canapa, alcuni dei quali erano carbonizzati.

Alcuni dei semi di canapa ritrovati nell'inumazione maschile del kurgan di Pazyryk 2 (da Russo, 2007, fig. 8, p. 1635)
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Al di sopra del calderone sono stati ritrovati sei pali che erano legati insieme nella parte superiore per formare una specie di struttura per una tenda a cui era probabilmente sospeso il calderone. Accanto al calderone sono state ritrovate rimanenze di una coperta di cuoio decorata con motivi animali e che era forse servita per coprire la struttura in modo da completare la tenda per permettere l’inalazione dei vapori dei semi di canapa.

Tripode sopra a un incensiere di rame, uno strumento per l’inalazione dei fumi di canapa. Pazyryk (Altai orientale, 500-300 a.C.) (da Popescu et al., 2001, fig. 134, p. 140)
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In un altro angolo dell’inumazione è stata ritrovata un’ulteriore struttura a sei pali coperta con corteccia di betulla, sotto alla quale v’era un braciere rettangolare a quattro gambe e il cui interno era riempito di pietre e di altri semi di canapa (Rudenko, 1970).

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Braciere di bronzo ritrovato nel kurgan di Pazyryk 2, contenente semi carbonizzati di canapa (da Jettmar, 1981, p. 532)

Una camicia associata all’inumazione dell’uomo di Pazyryk 2, conservatasi quasi integralmente, è risultata essere costituita da due tipi di tessuto, canapa e kendyr, quest’ultimo ricavato da una specie di Trachomitum, della famiglia delle Apocynaceae (Rubinson, 1990).

Camicia ritrovata nell'inumazione di Pazyryk 2, costituita di canapa e kendyr (da Charrière, 1979, fig. 320, rip. in Rubinson, 1990, p. 51, fig. 4)
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Anche in un’inumazione dei kurgan del sito archeologico di Shumaevo, localizzato nel distretto russo di Tashlinsky della regione di Orenburg, al confine con il Kazakhstan, sono stati ritrovati semi di canapa all’interno di una faretra. L’inumazione appartiene alla cultura Sarmata tarda del secondo secolo d.C. (Morgunova & Khokhlova, 2006). Ulteriori evidenze del rapporto degli Sciti con la canapa sarebbero venute alla luce in Ucraina (Pashkevich, 1999). Ma la pratica di bruciare semi su dei bracieri potrebbe essere molto più antica della cultura scita; sono stati ritrovati semi di canapa carbonizzati in un’inumazione (tumulo n. 12) in un sito della cultura neolitica Kurgan a inumazioni a fossa (pit-grave) nei pressi di Gurbanesti, un villaggio distante una cinquantina di chilometri da Bucarest, in Romania, e datato attorno al 2000 a.C. (Rosetti, 1959: 801). Semi di capana sono venuti alla luce anche in un vaso collocato vicino alla testa di un’inumazione dell’Età del Bronzo nella regione settentrionale del Caucaso (Markovin, 1963, p. 98, cit. in Ecsedy, 1979, p. 45).

E’ stata suggerita l’ipotesi che le lastre di pietra a forma di montone, rinvenute in Siberia e nell’Asia centrale, erano forse altari portatili che servivano per bruciare semi e altri prodotti della Cannabis (Jettmar, 1964-65).

Nel passo sopra riportato Erodoto parla dei soli semi di canapa che venivano bruciati per produrre le esalazioni purificatrici, e nei resti archeologici sono effettivamente stati ritrovati solamente i semi di canapa. Non sono note proprietà inebrianti dei semi di questa pianta, e il rito scita descritto da Erodoto e confermato dagli scavi archeologici poteva aver avuto solamente scopi purificatori e non inebrianti. Tuttavia, la pratica di inalare i fumi dei semi bruciati di canapa comporta molto probabilmente la conoscenza degli effetti inebrianti dei fumi del resto della pianta e della sua resina.


Si vedano anche:

- La canapa nell’antica Cina
- La canapa nell’antico Egitto
- La canapa in Israele

ri_bib

CHARRIÈRE GEORGES, 1979, Crafts of the Early Eurasian Nomads, Alpine Fine Arts Collection, New York.

ECSEDY ISTVÁN, 1979, The people of the pit-grave kurgans in eastern Hungary, Akadémiai Kiadó, Budapest.

JETTMAR KARL, 1964-65, The Slab with a Ram’s Head in the Rietberg Museum, Artibus Asiae, vol. 27, pp. 291-300.

JETTMAR KARL, 1981, Skythen und Haschisch, in: G. Völger (Hg.), Rausch und Realität, Köln, Rautenstrauch-Joest Museum für Völkerkunde, vol. 2, pp. 530-536.

MORGUNOVA N.L. & O.S. KHOKHLOVA, 2006, Kurgans and nomads: new investigations of mound burials in the southern Urals, Antiquity, vol. 80, pp. 303-317.

PASHKEVICH GALINA, 1999, New evidence for plant exploitation by the Scythian tribes during the early Iron Age in the Ukraine, Acta Palaeobotanica, suppl. 2, pp. 597-601.

POPESCU GRIGORE ARBORE, ANDREI ALEKSEEV & JURIJ PIOTROVSKIJ (cur.), 2001, Siberia. Gli uomini dei fiumi ghiacciati, Electa, Milano.

ROSETTI D.V., 1959, Movilele funerare de la Gurbăneşti. (r. Lehliu, reg. Bucureşti), Materiale şi Cercetari Arheologice, vol. 6: 791-816.

RUBINSON S. KAREN, 1990, The Textiles from Pazyryk, Expedition, vol. 32(1), pp. 49-61.

RUDENKO SERGEI IVANOVICH, 1970, Frozen Tombs of Siberia: the Pazyryk Burials of Iron Age Horsemen, University of California, Berkeley.

RUSSO B. ETHAN, 2007, History of Cannabis and its Preparations in Saga, Science, and Sobriquet, Chemistry and Biodiversity, vol. 4, pp. 1614-1648.

- See more at: http://samorini.it/site/archeologia/asi ... Q8IPt.dpuf


Uso sacramentale della cannabis nella tradizione indoeuropea

http://www.sostanze.info/node/4410

La pianta di cannabis ha alle spalle una storia antica di utilizzo rituale come mezzo per raggiungere stati di meditazione profonda, per esaltare la coscienza e facilitare il raggiungimento della trance. E per questo motivo è stata impiegata in contesti religiosi in tutto il mondo antico.

Fu sicuramente una delle prime piante coltivate dall'uomo e poichè la sua area di origine è da ricercarsi nell'Asia Centrale, questa pianta ha conosciuto un diffuso uso da parte dei cosiddetti popoli indoeuropei (area turco altaega, mongola), stanziati anticamente in un'ampia fascia che va dall'Asia occidentale (India, Iran, Asia minore) fino all'Europa.

Per esempio uno dei più antichi (500 a.C.) e famosi riferimenti scritti sull'uso della pianta lo si ritrova in Erodoto (Storie, IV, 74-5) in cui a proposito degli Sciti (popolazione seminomade di origine iranica o turco-altaega?) si dice che dopo aver buttato semi di canapa sul fuoco fossero soliti inalarne il fumo, fino a diventare ebbri, come i Greci si inebriavano con il vino. E anche le ricerche archeologiche hanno confermato questa particolare pratica di uso di canapa per evidenti scopi inebrianti.

Altri riferimenti alla cannabis come sostanza psicoattiva si ritrovano anche nel filosofo greco Democrito (460 a.C.), che parla di una bevanda a base di vino, canapa e mirra, usata per produrre visioni.

E anche medici e scienziati del mondo antico come Dioscoride, Plinio, Galeno ed altri citano l'uso della canapa come inebriante.

L'etnofarmacologo Christian Rätsch afferma che probabilmente nella cultura germanica la pianta di cannabis fosse associata alla dea dell'amore e della fertilità Freya.

La cannabis sarebbe stata utilizzata anche dalla cultura di Hallstatt (Austria), di cui i Celti sarebbero eredi.

Ma è soprattutto in India che la cannabis ha svolto e continua a svolgere un significativo ruolo religioso.
L'uso tantrico della cannabis sorse in India attorno al VII secolo d.C. in base ad una mescolanza di dottrine e pratiche dell'Induismo Shivaita e del Buddismo tibetano.
Ci sono tre tradizioni indiane che derivano dall'antico culto vedico del Soma e che si intrecciano nelle pratiche tantriche: l'uso cerimoniale della cannabis, il concetto di bevanda-veleno come atto divino e le pratiche yoga.
L'uso cerimoniale della cannabis è attestato già nell'Atharva Veda e questa pratica è antica quanto quella vedica del soma. Mentre il soma era un sacramento, la cannabis (bhang) era considerata una pianta speciale usata per scopi magico-sciamanici. L'Atharva Veda cita il bhang insieme al soma, entrambe facenti parte delle cinque piante usate "per la liberazione dalla sofferenza".
In Tantric Cannabis Use in India Michael R. Aldrich scrive a proposito della cerimonia del Mahanirvana Tantra (che contiene una descrizione completa del rituale di consacrazione della Cannabis). Questa consiste nell'utilizzo di una piccola palla verde di bhang inumidito nel latte o nell'acqua; più frequentemente, almeno nell'India contemporanea, è un delizioso frullato di latte di cannabis saporito con mandorle, pepe, cardamomo, semi di papavero e altre spezie.
La droga viene purificata e consacrata attraverso la recitazione di specifici mantra e gesti magici, che portano il potere della Dea Kali nella Cannabis.
La cannabis è usata anche dai sadhu indiani come mezzo di illuminazione e di contatto con il divino.
Il chilum nella religione shivaita è una sorta di pipa in cui si fuma la cannabis e che viene impiegata per celebrare la gloria di Shiva.
Come nella religione cristiana il calice e l'ostia sono la comunione con il Divino, così per gli Shivaiti lo è il chilum. Il chilum è Shakti. Quello che brucia è Shiva. E prima di accendere il chilum gli shivati sono soliti enunciare i nomi di Shiva e della sua consorte Parvati. I mantra più conosciuti sono: Bom Shankar, Bolenat, Shambo, Alak Naranjan. O i luoghi delle sue dimore: Kailash, Kasi, ecc..
In una leggenda vedica si dice anche che il dio indiano Shiva trovò riparo all'ombra di una pianta di cannabis, ne mangiò le foglie e da allora ne fece il suo cibo preferito.

E nel rapporto della Indian Hemp Drugs Commission è riportato che:
"L'abitudine di adorazione della pianta della canapa, anche se non è così comune come quella di offrire canapa a Shiva e ad altre divinità Hindù, tuttavia sembrerebbe, dalle dichiarazione dei testimoni, esistere in parte in alcune province dell'India. La ragione per la quale questo fatto non è conosciuto generalmente può forse essere trovata in dichiarazioni come quella di Pandit Dharma Nand Joshi, che dice che tale culto è effettuato in segreto. Ciò può essere un'altra causa della smentita da parte della grande maggioranza dei testimoni indù di alcuna conoscenza dell'esistenza di un'abitudine di adorazione della pianta della canapa, in quanto l'Hindu istruito non ammetterà che adora un oggetto materiale, ma la divinità che esso rappresenta. (...)
C'è un passaggio citato da Rudrayanmal Danakand e Karmakaud nel rapporto sull'uso delle droghe della canapa nello Stato di Baroda, che mostra anche che il culto della pianta del bhang è incoraggiato negli Shastras. E' dichiarato così: "Il Dio Shiva dice a Parvati - 'Oh Dea Parvati, ascolta quali benefici derivano dal bhang. Il culto del bhang innalza il praticante alla mia posizione'. Nel Bhabishya Purana è dichiarato che nella tredicesima luna di Chaitra (marzo ed aprile) chi desidera vedere aumentare il numero dei suoi figli e nipoti deve adorare Kama (Cupido) nella pianta della canapa".
E secondo una leggenda indiana Indra, signore della folgore e del temporale, provando pietà per il popolo degli umani, regalò loro una bevanda a base di cannabis cosicché anch'essi potessero sperimentare le sue virtù: euforia, ampliamento delle percezioni, perdita della paura ed eccitazione sessuale.

Infine, nel mare magno delle speculazioni sull'identità del soma vedico e dell'haoma mazdeo (bevande sacre dalle proprietà inebrianti), qualcuno ha creduto che fossero ottenute da miscugli di cannabis, oppio ed efedra (http://it.wikipedia.org/wiki/Ephedra).

Fonti : M. Aldrich - Cannabis e "veleni" nella pratica sessuale tantrica della Mano Sinistra; B. Parrella - Breve storia della cannabis; DrugLibrary - The Indian Hemp Drugs Commission Report; G. Samorini - Gli Sciiti e la canapa; G. Samorini - L'uso tantrico della cannabis in India; G. Samorini - Soma e Haoma; Kalimandir.it, Encarta.msn.com; Wikipedia.org


http://www.psiconautica.in/index.php?op ... i&Itemid=2

LA CANAPA NELL'ANTICA CINA
di Giorgio Samorini
I dati archeologici hanno dimostrato che in Cina l'uso della canapa, per lo meno come fibra tessile, risale ad almeno l'8000 a.C.. Si tratta della documentazione più antica al mondo circa il rapporto uomo/cannabis. L'origine della coltivazione di questa pianta è probabilmente cinese.

Nel vasellame del sito neolitico di Yang-shao (provincia di Honan), datato al 6000-3500 a.C., sono state rinvenute impronte di tessuti tessili fatti con fibra di canapa. La cultura di Yang-shao si estese lungo la valle del Fiume Giallo verso il nord-est della Cina. L'analisi di depositi di pollini nel sito archeologico di Pan-p'o, nella provincia di Shensi, ha dimostrato la presenza di Cannabis (Li, 1974a).

Nell'antica lingua degli scritti chuan - prototipo dell'antico cinese - alla canapa era dedicato un articolato vocabolario, che partiva dal carattere ma, che sta per canapa.
L'antico scritto Pen-ts'ao Ching, attribuito al leggendario imperatore Shan-nung nel 2000 a.C. circa, fu compilato nel primo o secondo secolo d.C.
In esso è riportato che: "ma-fen [il frutto della canapa] se preso in eccesso produrrà la visioni di diavoli.
Se preso a lungo permette di comunicare con gli spiriti e di illuminare il proprio corpo" (Li, 1974b).



Riferimenti bibliografici
LI HUI-LIN, 1974a, The Origin and Use of Cannabis in Eastern Asia. Linguistic-Cultural Implications, Economic Botany, vol. 28, pp. 293-301.

LI HUI-LIN, 1974b, An Archaeological and Historical Account of Cannabis in China, Economic Botany, vol. 28, pp. 437-448.

SCHULTES R.E., 1973, Man and Marijuana, Natural History, 82/7 : 59-63.

TOUW MIA, 1981, The Religious and Medicinal Uses of Cannabis in China, India and Tibet, Journal of Psychoactive Drugs, vol. 13(1), pp. 23-34.
fonte: http://www.samorini.net
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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ...

Messaggioda Berto » mar dic 02, 2014 12:36 pm

L’ONDATA ÀVARA

http://www.eurasia-rivista.org/londata-avara/21731

Avares sive Huni

La nomenclatura toponimica italiana ha conservato le tracce di tutte le migrazioni di popoli che interessarono la penisola nel periodo della caduta dell’Impero d’occidente e nei secoli successivi. Nella stragrande maggioranza si tratta ovviamente di località originate da arimannie germaniche (gotiche, longobarde, franche, normanne ecc.); ma non mancano alcuni toponimi che corrisponderebbero addirittura a stanziamenti di Sarmati, mentre l’insediamento di nuclei protobulgari è testimoniato dalla denominazione di parecchie località (1), tra cui la maremmana Bolgheri, resa celebre da quello stesso Carducci che nel Comune rustico e nella Chiesa di Polenta rievocò le scorrerie di popoli affini ai Protobulgari, quali gli Unni e gli Avari. Quanto agli Avari, se pure non si può escludere “che qualche relitto avaro possa essere realmente individuato anche in Italia” (2), le tracce da loro lasciate nella toponomastica italiana sono “ben poche ed incerte” (3), mentre più sicure sono quelle presenti nella penisola balcanica. Infatti questo popolo, che andò ad occupare le terre del grande Bassopiano ungherese ed estese il proprio dominio fino alla Boemia, alla Carinzia e alla Dalmazia, fece numerose incursioni a sud del Danubio, arrivando nel 626 ad assediare Costantinopoli.

Gli Avari erano originari dell’Asia centrale, dove per tutto il sec. V avevano egemonizzato uno spazio compreso tra la Corea e il lago Balkhash. Sollecitati da una mutazione climatica (4), sospinti e incalzati da altri popoli lungo la Via della Seta, erano giunti al corso meridionale della Volga (5); presso il Don avevano sconfitto i Protobulgari, una parte dei quali si spinse a nord e si stanziò sulle rive della Volga, mentre un’altra parte andò a insediarsi nella regione del basso Danubio. Dopo aver preso stanza tra il Caucaso e la Crimea, proseguirono la marcia verso ovest; sottomessi gli Slavi stanziati tra il basso Dnestr e il basso Danubio, nel 561 erano si erano già attestati sul corso inferiore del Danubio, da dove minacciavano l’Impero Romano d’Oriente e il regno dei Franchi.

I nuovi arrivati furono ritenuti i diretti discendenti degli Unni (6), tanto il loro aspetto ricordava quello della gente di Attila.
Per quanto fosse presente tra gli Avari il tipo antropico europide, nella maggior parte di loro erano evidenti i caratteri mongolidi:
bassa statura (in media 165 cm. i maschi e 155 le femmine, con un successivo aumento di 6-8 cm.), carnagione giallastra, volto piatto, occhi scuri e a mandorla, capelli neri – che però, diversamente dagli Unni, gli Avari raccoglievano in due trecce ricadenti sulle spalle. Emanavano una puzza tremenda, perché non si lavavano mai. Indossavano mantelli di pelliccia o cappe di cuoio; e di cuoio avevano le corazze, gli stivali, le selle. Usavano staffe di ferro, che furono i primi a introdurre in Europa. Maestri nel tiro con l’arco, nel combattimento ravvicinato adopravano una spada ricurva. Al termine della battaglia, il loro khan (khâqân) raccoglieva in un sacco gli orecchi dei nemici uccisi, mentre i prigionieri di rango erano impalati con una tecnica raffinata. Donne e bambini venivano portati via. Abitavano in tende simili alle yurte mongole, adornate con nastri multicolori, code di cavallo, corna di bufalo, teschi umani. La lingua che parlavano apparteneva, come quella degli Unni, ad un ramo turco (7); la grafia di cui si servivano era quella “scrittura a tacche” usata dai popoli turchi che fu usata successivamente dai Magiari e che presso i Székely dei Carpazi si è conservata fino a tempi recenti (8).

Il basileus Maurizio (582-602) dedicò ai costumi militari degli Avari – e dei Turchi in genere – un capitolo intero (XI, 2) del suo Strategikon:

(…) Sono armati con cotte di maglia, spade, archi e lance; in battaglia la maggior parte di loro porta con sé due tipi di arma, le lance portate a tracolla e l’arco in mano, ed usano l’uno o l’altro secondo la necessità. Non solo indossano essi stessi delle armature, ma anche i cavalli dei loro uomini più nobili hanno una protezione frontale fatta di ferro o feltro. Dedicano particolare attenzione all’addestramento al tiro con l’arco dal cavallo. Un consistente branco di animali, maschi e femmine, li segue, sia per fornire alimento che per dare l’impressione di un esercito enorme. Essi non pongono il campo all’interno di fortificazioni, come fanno i Persiani e i Romani, ma, rimanendo divisi per gruppi o tribù fino al giorno della battaglia, lasciano pascolare i cavalli sia in estate che in inverno. Quindi prendono i cavalli che servono, li tengono impastoiati vicino alle loro tende e li sorvegliano fino al momento di formare lo schieramento di battaglia, che cominciano a fare durante la notte. Piazzano le sentinelle ad una distanza tale l’una dall’altra, che non è facile coglierle di sorpresa. (…) Preferiscono le battaglie combattute da lontano, le imboscate, gli accerchiamenti degli avversari, le finte ritirate e gli improvvisi contrattacchi, le formazioni a cuneo (koùnas), ovvero i gruppi sparsi. Quando mettono in fuga i nemici, essi mettono da parte ogni altra cosa e non si accontentano, come i Persiani, i Romani e gli altri popoli, di inseguirli semplicemente e di saccheggiare i loro beni, ma non desistono fino a quando non hanno ottenuto la loro completa distruzione, e usano ogni mezzo per raggiungere questo scopo. (…) (9)

Lo storico bizantino Teofilatto Simocatte (ca. 585 – ca. 636-640) (10), che aveva accesso alle informazioni provenienti dagli ambasciatori turchi e rappresenta quindi la fonte principale per l’identificazione degli Avari, ha distinto questo popolo in due gruppi ben diversi. Il primo sarebbe quello degli Zhuan-Zhuan delle fonti cinesi, i quali, sconfitti dai T’u-küe (= Turchi), si sarebbero rifugiati a Taugast e presso i Moukri. Quelli arrivati in Europa, invece, sarebbero in realtà degli pseudo-Avari, una branca dei Turchi Uiguri sfuggita al dominio dei veri Avari; Teofilatto li cita come Uar (Ouar) e Hun (Chounnì), mentre da altre fonti bizantine (11) risulta che venivano chiamati Varconiti (Ouarchonìtai). Lo stato attuale delle risultanze relative all’etnogenesi degli Avari è sinteticamente presentato dall’archeologo ungherese Béla Kürti:

Una delle ondate della grande migrazione verso occidente si mosse nel 552, quando i popoli turchi fondarono il loro vasto impero nomade nell’Asia centrale. Sulla base delle fonti scritte, Károly Ceglédy è giunto alla conclusione che gli Zhuan-Zhuan – che si diressero a occidente dell’area turcica – potevano essere uno dei principali elementi costitutivi del popolo successivamente noto in Europa come Avari. Il primo luogo in cui essi sostarono nel corso della loro marcia fu probabilmente lo stato asiatico degli Eftaliti, i quali furono a loro volta sconfitti nel 557 dai popoli turchi avanzanti verso occidente. Alcuni pensano che gli etnonimi Uar (Avari) e Hion (Unni) – che compaiono nelle fonti scritte bizantine come denominazioni degli Avari – indichino le due componenti. (12)

Nel 558 giunse per la prima volta a Bisanzio una delegazione avara, la quale presentò a Giustiniano la richiesta del giovane khan Bayan (Baina), figlio di Khovrat: che agli Avari fosse concesso di insediarsi entro i confini dell’Impero. La risposta del basileus fu conforme alla sua opzione strategica. “Deciso ad esercitare il massimo sforzo sull’Occidente, Giustiniano non ebbe forze sufficienti per difendere la frontiera del Danubio e fu questo l’aspetto più debole della sua azione militare. Non che egli si disinteressasse di queste frontiere, ma, in assenza di eserciti disponibili, credé di poterne assicurare l’inviolabilità” (13) fortificando la riva destra del Danubio e spingendo gli uni contro gli altri i popoli accampati a nord del fiume o nel Norico: “i Longobardi contro i Gepidi che occupavano la pianura ungherese, gli Unni Utiguri insediati ad oriente del Mar d’Azov contro gli Unni Cutriguri (tra il Don e il Dnestr) alleati dei Gepidi” (14). Gli Avari sarebbero serviti a tenere a bada un po’ tutti quanti. Fu così che Giustiniano non acconsentì alla richiesta di insediamento, ma garantì ai nuovi venuti un sussidio annuo, purché tenessero lontani dai confini gli altri popoli nomadi.

Dopo che gli Avari ebbero posto fine alla lotta fratricida delle tribù unniche, sterminandone una parte e incorporando i sopravvissuti, verso il 560 la loro sovranità “si estendeva dalla Volga fino alla foce del Danubio e abbracciava in tal modo l’insieme del territorio che era stato precedentemente occupato dai due rami degli Unni” (15). Pressati da altre tribù turche, gli Avari si spinsero lungo l’arco dei Carpazi ed oltre, finché ai confini della Turingia vennero a scontro coi Franchi; nel 562 il khan Bayan fu sconfitto dal Re di Austrasia Sigiberto I (537-575), ma quattro anni dopo fu lo stesso sovrano merovingio ad essere sconfitto e fatto prigioniero dagli Avari.

Alla morte di Giustiniano, salì sul trono imperiale suo nipote Giustino II (565-578), il quale revocò il sussidio che era stato concesso agli Avari, sostenendo che l’Impero non doveva essere tributario dei barbari. Nello stesso anno Alboino diventava re dei Longobardi, i quali si erano insediati in Pannonia e resistevano alla pressione dei Gepidi, un altro popolo germanico che, occupata dopo la caduta dell’impero unno la regione compresa tra il Tibisco e i suoi affluenti transilvani, tendeva a trasferirsi anch’esso nella Pannonia. Sul fianco orientale dei Gepidi premevano gli Avari. Benché i Gepidi avessero tolto all’Impero Sirmio (Mitrovica) e Singiduno (Belgrado), città confinarie sulla Sava e sul Danubio, Giustino li giudicava meno pericolosi dei Longobardi e quindi decise di aiutarli contro questi ultimi; poi però, siccome i Gepidi non intendevano restituire Sirmio, il basileus li abbandonò al loro destino, lasciando che il loro stato venisse distrutto da Longobardi e Avari coalizzati. Il patto di alleanza che Alboino e Bayan aveva stipulato prevedeva che gli Avari, in cambio dell’aiuto fornito ai Longobardi, potessero occupare il territorio dei Gepidi; oltre a ciò, gli Avari avrebbero ricevuto una decima parte del bestiame appartenente ai Longobardi. È stato ipotizzato che “fin d’allora Alboino meditasse l’impresa d’Italia, e volesse prima, vendicandosi dei Gepidi, assicurarsi le spalle, altrimenti sarebbe difficile rendersi ragione dei patti che stipulò cogli Avari” (16).
Fatto sta che nel 568 Alboino condusse in Italia il popolo longobardo, cui si erano aggregati anche gruppi di Gepidi, Bavari, Svevi, Sassoni e perfino Protobulgari.

Avares et Sclavi

Nel frattempo l’esercito imperiale tentava di tenere a bada gli Avari, che dilagavano fra il Tibisco e il Danubio e invadevano la Transilvania. Nel Bacino dei Carpazi sorse così un khanato avaro che comprendeva una potente lega di popoli, sicché “da quel momento Bisanzio si trovò sottoposta alla crescente pressione degli Avari e delle tribù slave del medio Danubio vassalle dell’impero” (17). La futura Ungheria diventava ancora una volta, come già al tempo di Attila, il cuore di un regno di cavalieri nomadi.

La politica bizantina cercò di trarre partito dalla nuova situazione. “Prendendo due piccioni con una fava, Bisanzio cercherà di neutralizzare il pericolo più immediato, le continue incursioni degli Slavi a sud del Danubio, sviando contro di loro la potenza degli Avari” (18). Ecco in che modo Menandro Protettore (vissuto sotto l’imperatore Maurizio) illustra la tattica seguita da Tiberio (578-582) per difendere l’Impero da Slavi ed Avari:

Nel quarto anno del regno dell’imperatore Tiberio, circa centomila Slavi devastarono la Tracia e numerose altre province (…) La Grecia fu saccheggiata: era minacciata da ogni parte. Tiberio non disponeva di forze sufficienti per opporsi agli uni e agli altri. Non potendo mandare contro di loro l’esercito, che già era stato mobilitato per la guerra in Oriente, inviò un’ambasceria al principe degli Avari, Baina, il quale allora non era ostile ai Romani e anzi sperava di ottenere qualche profitto dall’ascesa di Tiberio al trono imperiale. Questo era lo stato delle cose quando Tiberio lo spinse a combattere gli Slavi. (19)

Il khan avaro accettò la proposta del basileus, sicché Bisanzio fece passare sul territorio dell’Impero sessantamila cavalieri avari e mise a loro disposizione le imbarcazioni necessarie per varcare il Danubio. Appena furono sbarcati sulla riva destra, gli Avari cominciarono a incendiare i villaggi degli Slavi e a devastare i loro campi. “Nessun barbaro di quelle terre osò opporre resistenza: tutti si diedero alla macchia e si rifugiarono nel profondo dei boschi”, scrive Menandro, il quale spiega che gli Avari intendevano imporre agli Slavi il versamento di un tributo, come si può d’altronde evincere da questa frase che, secondo Michele Siro, gli Avari dicevano alle popolazioni sottomesse: “Andate, seminate, fate raccolto; noi vi prenderemo solo la metà della tassa” (20). Un progetto, questo, che rivela nel khan Bayan una saggezza politica “agli antipodi di quell’accecamento brutale e feroce troppo spesso attribuito ai nomadi asiatici” (21) e lo avvicina ad altri grandi creatori di imperi analoghi, come Attila e Gengis Khan.

Nel 582 Bayan si impadronì della fortezza di Sirmio. Tiberio dovette riconoscere agli Avari gli arretrati del tributo rifiutato da Giustino; ma in quello stesso anno Tiberio morì e il suo successore Maurizio (582-602) rimise tutto in questione. Allora Bayan, non ritenendo più valido il patto concluso con Tiberio, inviò le sue orde in Tracia, fino ai porti del Mar Nero, ottenendo in tal modo un aumento del tributo; poi, mentre il nuovo basileus era impegnato contro i Persiani, gli Avari spinsero contro l’Impero gli Slavi, che nel 586 assediarono Salonicco e arrivarono fino alle Mura Lunghe fuori Costantinopoli. Gli Avari stessi penetrarono nella Mesia e dilagarono in Tracia; ma ad Adrianopoli, nel 587, gli invasori subirono una sonora sconfitta che li indusse a tornare a nord del Danubio, anche se si può ritenere verosimile l’ipotesi del Runciman, secondo cui “molti di questi invasori si sistemarono permanentemente entro il territorio imperiale” (22). Cinque anni più tardi, Bayan era di nuovo sul Mar Nero, da dove si diresse verso Adrianopoli; ma la notizia dell’imminente arrivo di una flotta imperiale lo indusse a ritirarsi.

Cominciò così una guerra che doveva durare dieci anni e la cui principale posta in gioco era il controllo dei passaggi danubiani. Sembra che l’obiettivo di Bayan fosse quello di raggiungere il Mar Nero, come è dimostrato dalla sua spedizione del 592 e da quella del 600, quando attaccò la Dobrugia e assediò Tomi, nel verosimile intento di vietare alle flotte imperiali la penetrazione nel Danubio. (23)

Bayan fu sconfitto più volte, perse alcuni dei suoi figli e rischiò di essere catturato lui stesso; ma gli errori di Maurizio e l’indisciplina dell’esercito imperiale resero vane le vittorie conseguite da Prisco, il miglior generale bizantino. La pace con gli Avari venne conclusa dall’imperatore Foca (602-610), il quale aumentò loro il tributo, senza che ciò servisse a tenerli lontani dai Balcani.

Nel 602 gli Avari sottomisero anche gli [b]Anti, un popolo di ceppo sarmatico affine agli Alani orientali che aveva assorbito una consistente componente slava e alla metà del sec. VI vagava (vagava ?) a nord del Danubio (24).[/b] Poi mossero guerra contro i Longobardi: invasero l’Istria, devastarono il Friuli ed espugnarono Cividale; quindi si ritirarono, probabilmente perché stava arrivando Agilulfo, che gli Avari avevano favorito all’epoca della conquista longobarda di Cremona.

Il nuovo khan avaro, il figlio di Bayan, nel giugno del 617 guidò un esercito sotto le mura di Bisanzio, catturando 270.000 prigionieri nei dintorni della città; tre anni più tardi il successore di Foca, Eraclio (610-641), stipulò con gli Avari una tregua biennale, per potersi preparare alla guerra contro i Persiani, che sconfisse ripetutamente fra il 622 e il 625. Conclusa un’alleanza con Protobulgari, Slavi ed Avari, il re persiano Cosroemosse contro Eraclio, mentre gli Avari posero l’assedio a Bisanzio, la quale però oppose una resistenza che dovette riuscire vittoriosa. Da allora in poiil peso degli Avaricominciò a diminuire, mentre gli Slavi, più numerosi,dilagarono fino alla Grecia, alla Dalmazia, all’Istria, alla Carniola.

In seguito allo scacco subito nel 626 sotto le mura di Bisanzio e all’occupazione slava del territorio compreso tra il Danubio e la Sava, l’egemonia avara fu notevolmente ridimensionata. Bisognerà tuttavia attendere Carlo Magno, per assistere alla scomparsa definitiva degli Avari. Ancora nel sec. XII il monaco kieviano Nestore utilizzerà nella Povest’ vremennych let il proverbio “perire come gli Obri”, cioè come gli Avari, per indicare la sorte di tutti quei popoli che avevano sì assoggettato gli Slavi, ma poi erano stati dispersi, mentre gli Slavi sono rimasti. In particolare, Nestore cita il durissimo trattamento che gli Avari avevano imposto avevano riservato ai Dulebi, una tribù slava stanziata sul Bug:

A quei tempi vivevano anche gli Obri, i quali mossero contro Eraclio imperatore e poco mancò che lo facessero prigioniero. Questi Obri avevano combattuto contro gli Slavi, e avevano oppresso i Dulebi, che erano slavi, e violenza avevano usato alle donne dulebe: se uno degli Obri voleva andar [lontano], non dava ordine di attaccare un cavallo né un bue, ma ordinava di attaccare tre o quattro o cinque donne al carro e di trasportare l’obr, e così opprimevano i Dulebi. Erano gli Obri di corporatura grande e di mente proterva e Iddio li annientò, e morirono tutti e non restò neanche un obr. (25)

Fredegario, lo storico dei Merovingi, descrive in termini analoghi l’asservimento degli Slavi (i “Vendi”)da parte degli Avari:

Ogni anno venivano a svernare tra gli Slavi, dei quali prelevavano mogli e figlie affinché giacessero con loro; oltre all’obbligo di versare tributi, gli Slavi subivano molteplici tormenti. (…) Ogniqualvolta aveva inizio una campagna militare contro un altro popolo, gli Avari se ne restavano trincerati, con l’arma al piede, mentre gli Slavi si schieravano da soli in combattimento. Se i Vendi vincevano, quelli si facevano avanti per depredare i vinti; se perdevano, li sostenevano finché non avessero ripreso il vantaggio. (26)

Nonostante la condizione di sfruttamento imposta dagli Avari agli Slavi, tra i due popoli dovette instaurarsi una sorta di simbiosi, dalla quale gli Slavi stessi non mancarono di trarre vantaggio, in particolare per quanto concerne l’apprendimento di una valida tattica militare:

Mentre lo “stato stratificato” importato dai conquistatori avari poggiava economicamente sugli Slavi, che vivevano dell’allevamento del bestiame e talvolta della coltivazione dei campi, per converso stirpi slave, affamate di pascoli e di terra, impararono l’efficacia tattica guerresca dei loro padroni. (27)

L’espansione avara tra gli Slavi incontrò un ostacolo allorché in Boemia, Moravia e Slovacchia si formò una lega di tribù delle quali si pose a capo, nel 623, un certo Samo, “abilissimo mercante e generale franco (o forse tedesco del nord) che fece dell’odierna Slovacchia il primo grande Stato abitato da Slavi, ne divenne re e lo difese non soltanto ad oriente contro gli Avari, ma anche ad occidente contro i Franchi” (28). Questo primo Stato slavo durò trentacinque anni, poiché alla morte di Samo gli Avari ripresero il sopravvento.

Avares, quos Ungarios vocamus

Pasquale Villari ha paragonato il rapporto degli Avari con gli Slavia quello degli Unni con i Germani. Gli Unni infatti cominciarono col combattere e vincere la potenza dei Germani, i quali, uniti poi a Romani, li disfecero e li obbligarono a ritirarsi, dopo di che scomparvero quasi del tutto. E così gli Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi, furono poi da questi e dall’Impero disfatti, rimanendo come totalmente assorbiti ed assimilati dai primi. Li vediamo ad un tratto ricomparire più tardi, a tempo di Carlo Magno, il quale diè loro l’ultima e definitiva sconfitta. Questi popoli finnici, turanici appariscon quasi tutti come un uragano, cui da principio nulla può resistere. Ma se con grande facilità avanzano, con grande difficoltà riescono ad organizzarsi stabilmente, e presto decadono, per disciogliersi e sparire colla stessa rapidità con la quale s’erano riuniti. Un’eccezione notevole sono gli Ungari (…) (29)

Per quanto riguarda la migrazione ungara, essa fu vista dai contemporanei come una nuova fase di quella avara. “Avares, quos modo Ungarios vocamus, gentem belli asperrimam…” (30) scrive Widuchindo di Corvey, cronista di Enrico I l’Uccellatore (876-936). Ancora oggi, una teoria storiografica ampiamente accreditata vede nell’arrivo degli Ungari la fase conclusiva di un movimento migratorio già iniziato da alcuni secoli. Gli storici ungheresi considerano infatti l’insediamento degli Avari di Bayan nel Bacino dei Carpazi come la seconda ondata di una migrazione che, cominciata con gli Unni di Attila, si sarebbe conclusa nell’896 con l’arrivo degli Ungari guidati da Árpád: “l’impero unno d’un tempo fu riunito di nuovo sotto una sola mano, quella del popolo àvaro. Gli àvari, come pure gli unni, provenivano da un ramo dei turchi orientali. Gli unni e più tardi gli àvari che invasero il Bacino danubiano erano affini a quei popoli turchi che a quel tempo collaborarono alla formazione del popolo ungherese” (31). Secondo questa ricostruzione, il panorama etnico nel quale si sarebbero successivamente inseriti gli Ungari prese forma proprio al tempo dell’immigrazione avara, poiché gli Avari convissero con gruppi di Protobulgari: “Ai confini delle foreste e sui territori occupati dagli avari, vivevano, in più gruppi dispersi, frammenti di popoli bulgaro-onogurici, che vi erano stati trascinati dalle regioni della Volga e del Don” (32). Ma con questi gruppi etnici, nella zona compresa tra l’Ural, il Caucaso e il Mar Nero, dalla metà del V sec. alla fine del VIIconvissero anche i Protomagiari, i quali d’altronde avevano vissuto per secoli in simbiosi coi Protobulgari, tant’è vero che lo stesso etnonimo degli Ungari (lat. Hungari) non è se non un adattamento del termine turco Onogur (on ok, “dieci frecce”, cioè confederazione di “dieci tribù”) (33). Non solo, ma nella stessa epoca apparvero anche le prime tribù slave: “Accanto alla popolazione nomade turco-orientale e a questi gruppi bulgaro-onogurici, che dimostravano già allora una cultura più elevata, lungo le frontiere compaiono gli slavi, penetrati nei territori nord-occidentali da nord e nella regione montagnosa del sud e dell’est da mezzogiorno” (34).

La teoria secondo cui il processo di formazione del popolo magiaro avrebbe avuto inizio nel periodo degli Unni e sarebbe proseguito nel periodo avaro è stata esposta tra l’Ottocento e il Novecento da vari studiosi, tra i quali Ármin Vámbéry (1832-1913), József Hampel (1849-1913), Géza Nagy (1855-1913). Secondo quest’ultimo, per Avari bisogna intendere una lega etnica ugro-unna che, sotto la spinta di tribù turche, si allontanò dalle regioni centrali della Siberia e si diresse verso l’Ungheria. Tale teoria è stata ulteriormente formulata nel 1978 dall’archeologo Gyula László (35): l’insediamento degli Ungari nel Bacino carpato-danubiano – che gli Ungheresi sono soliti chiamare “occupazione della patria” (honfoglalás) – non sarebbe avvenuto in un’unica fase, ossia con l’arrivo delle tribù condotte da Árpád nell’896; in realtà vi sarebbe stata una “duplice occupazione della patria” (kettös honfoglalás), una occupazione in due tempi, poiché il primo arrivo degli Ungari avrebbe avuto luogo con l’invasione avara, due secoli prima di Árpád. Ecco come Gyula László riassume la sua teoria, che domina attualmente il dibattito storiografico.

Anche da fonti antiche (Teofilatto Simocatte) sappiamo che gli Avari che nel 568 occuparono la patria consistevano di due popoli: il ramo uar e il ramo hyon (varconiti); a loro si aggregarono, alla fine del VI sec., i popoli degli Zabender, dei Tarniach e dei Kotzager. Nel VI secolo si ribellò il popolo dei Bulgari, che viveva sotto il dominio avaro. Così, nella prima metà del periodo del dominio avaro la nostra patria fu popolata da una lega che constava di sei popoli. A questa lega si aggregarono, intorno al 670, gli Onoguri, i popoli della prima occupazione magiara della patria. Anche costoro consistevano di almeno tre elementi: c’era un popolo originario dei territori della Volga, uno strato centroasiatico e uno della zona caucasica (ed era quest’ultimo lo strato onogurico dominante). Inoltre sappiamo che tra i popoli dell’antico impero unno viveva assieme agli Avari una significativa quantità di Gepidi, mentre nell’Oltredanubio è possibile tener conto di un modesto residuo d’epoca romana o dell’immigrazione di elementi romanizzati di epoca più recente. (36)

Assieme agli Avari, dunque, si stabiliscono sul territorio della futura Ungheria gruppi etnici decisamente asiatici (mongolidi, pamiriani, turanici ecc.), che nel periodo della “occupazione della patria” da parte degli Ungari si fonderanno con questi ultimi. Secondo l’antropologo Lajos Bartucz (37), gli elementi mongolidi reperibili nella popolazione ungherese dal Medioevo ad oggi sarebbero appunto un retaggio degli elementi asiatici che si aggregarono al periodo avaro.

Con la migrazione magiara si concluderà la fase storica del più antico nomadismo centroasiatico. Tutti quei popoli che avevano attraversato le steppe, dal deserto del Gobi al Danubio, alla fine saranno incorporati nelle sintesi slave, ungheresi e turche.

Finis Avariae

Il regno avaro, che dal medio Danubioera arrivato ad estendersi fino alla Carinzia, dopo più di due secoli fu condannato a morte dalla potenza dei Franchi. Carlo preparò la campagna di guerra in maniera tale che contro gli Avari convergessero tre eserciti: due da occidente, lungo le rive del Danubio, e un terzo dall’Italia. La prima fase della guerra terminò senza alcun esito, perché l’armata proveniente dall’Italia, condotta da Pipino figlio di Carlo, fu bloccata nel 791 da un’epidemia che fece morire gran parte dei cavalli dei Franchi; ma negli anni successivi gli eserciti dei Franchi riuscirono a devastare il paese degli Avari. Il colpo di grazia venne inferto agli Avari dai Bulgari del khan Krum (802-814), i quali si impadronirono della parte orientale dell’ex-impero avaro, fino al Tibisco. Una parte della popolazione avara cercò allora rifugio presso i Franchi, i quali le consentirono di insediarsi nel Transdanubio occidentale.

La guerra contro gli Avari (contra Avares sive Hunos) sembrò ad Eginardo (770-840) la più importante tra quelle combattute da Carlo Magno, se si prescinde dal bellum Saxonicum:

Carlo la diresse con maggior impegno delle altre e vi impiegò forze di gran lunga più imponenti. (…)Delle battaglie combattute e del sangue versato sono testimoni la Pannonia spopolata e il sito in cui sorgeva la reggia del Khan, così desolato ancor oggi da non presentare più nemmeno una traccia di vestigia umane. In questa guerra perirono tutti quanti i nobili unni (Hunorum nobilitas), tutta la loro gloria scomparve: tutta la loro ricchezza e i tesori accumulati nel tempo furono saccheggiati; a memoria d’uomo, non si ricorda nessuna altra guerra mossa contro i Franchi che fornì a quest’ultimi tanto bottino e ricchezze. In vero ai Franchi sembrò essere stati fino a quel tempo quasi poveri; tanto fu l’oro e l’argento trovato nella reggia, tante furono le spoglie preziose conquistate nei combattimenti che si può con ragione credere che i Franchi abbiano strappato giustamente agli Unni (Francos Hunis juste eripuisse) ciò che essi, tempo prima, avevano ingiustamente rapinato (injusteeripuerunt) agli altri popoli. (38)

Il tesoro degli Avari, che veniva custodito all’interno di una cittadella (Ring o campus) protetta da nove muraglie concentriche, fu conquistato dall’esercito longobardo partito dal Friuli sotto la guida di Pipino. Tutta questa ricchezza fu portata ad Aquisgrana, dove lo stesso tudun avaro, il luogotenente del khan, si era arreso a Carlo e si era fatto battezzare. La parte occidentale del regno avaro, tra il Danubio e la Sava, veniva così annessa al regno dei Franchi.

“È possibile che la componente centroasiatica della popolazione avara abbia recato con sé elementi cristiani” (39) e in ogni caso “abbiamo notizia di Avari che erano cristiani nel sec. VIII” (40); ma la conversione generale degli Avari al cristianesimo, preparata nel 796 da un sinodo che doveva organizzare l’invio di missionari in Pannonia, fu conseguenza del loro crollo militare e politico. Così gli Avari rinunciarono alla religione dei loro antenati, che era presumibilmente “molto vicina a quella dei T’u-küe” (41) e quindi apparteneva al quadro generale dello sciamanesimo centroasiatico. In un’opera agiografica bizantina ancora parzialmente inedita,
gli Avari così si presentano a san Pancrazio che cerca di convertirli:

“Siamo il popolo degli Avari, e veneriamo come dèi qualsiasi simulacri (sic) di rettili e quadrupedi, ma insieme con questi, sacrifichiamo anche al fuoco, all’acqua, ed alle nostre spade” (42). Sono parole che riecheggiano l’informazione fornita da Teofilatto circa i Turchi in generale: “innanzitutto onorano il fuoco; venerano (gerairousin) inoltre l’aria e l’acqua e celebrano la terra; ma adorano e chiamano Dio unicamente colui che ha fatto il cielo e la terra (proskynousi monos kai Theononomazousi ton pepoiekota ton ouranon kai ten gen). A lui sacrificano cavalli, buoi e montoni; ed hanno sacerdoti che essi reputano aver la facoltà di predire il futuro” (43).

Per quanto concerne il culto avaro del fuoco, Menandro Protettore riferisce che Bayan, stipulando un trattato coi Bizantini, prestò giuramento proprio sul dio del fuoco: “deus ignis, qui in coelo est” (44). D’altronde la sacralità del fuoco, come pure quella dell’acqua, è ampiamente documentata per quanto concerne i popoli affini agli Avari (45). Ma l’episodio del giuramento di Bayan conferma anche il dato relativo al culto avaro della spada, poiché il khan giurò dopo averla snudata secondo l’uso tradizionale del suo popolo: “ense educto abarico ritu” (46). D’altra parte, veri e propri sacrifici offerti alla spada, analoghi quelli che l’agiografo di san Pancrazio attribuisce agli Avari, sono testimoniati da Erodoto in relazione agli Sciti e da Ammiano Marcellino (47) in relazione agli Alani, che gli Unni sottomisero verso il 370.
In ogni caso, per gli Avari come per gli altri popoli delle steppe la spada è un simbolo religioso; “il valoroso popolo combattente la assume come simbolo del suo dio, considerato come il dio guerriero che lo protegge; esso dunque la colloca sugli altari, in quanto emblema del dio della guerra, onorandola con l’uccisione dei prigionieri catturati in battaglia” (48).
Un altro rito sacrificale in uso presso gli Avari era l’immolazione del cavallo: attribuita da Erodoto e da Strabone (49) agli Sciti e ai Massageti, questa usanza risale anch’essa alla più antica cultura delle steppe (50). Già praticato dagli Unni, il sacrificio del cavallo sarà praticato anche dagli Ungari.

Notevole, nella simbolica degli Avari, è il motivo dell’albero. “Gli Avari – scrive Ibn Rustah nella seconda metà del III sec. dell’Egira – hanno presso la loro capitale un albero colossale, che non produce frutti. La popolazione vi si raduna ogni mercoledì per appendervi frutti di ogni genere. Si prosternano davanti ad esso recando offerte” (51). È nota l’importanza che l’albero cosmico – simbolo assiale universalmente diffuso – rivestì nelle culture sciamaniche dei popoli della Siberia e dell’Asia centrale (52); ed è noto che nell’iconografia di tali popoli la figura dell’albero si accompagna spesso a quelle di animali custodi quali il drago o il grifone.
Quest’ultimo, in particolare, compare con una certa frequenza nell’arte avara (53), sicché si è potuto ipotizzare che questo animale simbolico rappresentasse una sorta di antenato mitico degli Avari
.

Nonostante la splendida produzione artistica avara, manifestazione di quell’arte delle steppe che Mario Bussagli giudicava come uno dei fenomeni più rilevanti dell’attività figurativa eurasiatica, uno storico anglosassone ha creduto di poter stabilire che “la caduta degli Avari non fu una perdita molto grande per il genere umano” (54). Traspare da tale spocchioso giudizio quella visione storica che, riducendo a pura e semplice barbarie distruttiva le culture e gl’imperi dei popoli delle steppe, si rivela davvero, per citare le severe parole di Lev Gumilëv (1912-1992), “ingiustificata, parziale, cieca dinanzi alla grandiosità di eventi politici e culturali che hanno segnato in maniera decisiva la storia universale” (55). E che hanno contribuito a dare all’Eurasia il volto che essa ci ha presentato per una lunga serie di secoli.

Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Helvetia, Venezia 1987, p. 155.

Giovan Battista Pellegrini, Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale, in: AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari (= C.I.S.A.M. XXXV Settimana di studio, 23-29 aprile 1987), Spoleto 1989, p. 339.

Ivi, p. 318.

“Se l’esodo degli Unni dal territorio del Turkestan verso la Russia meridionale coincise con una caduta della curva climatica verso l’anno 300, analogamente la marcia degli Avari (Pseudoavari) verso occidente ebbe relazione con un abbassamento ancor più forte di questa stessa curva verso la metà del VI secolo” (Franz Altheim, Attila et les Huns, Payot, Paris 1952, p. 219).

Sulle migrazioni degli Avari e sui loro primi rapporti con Bisanzio, cfr. René Grousset, L’Empire dessteppes, Payot, Paris 1941. Ancora oggi la popolazione più numerosa del Daghestan è quella degli Avari (cfr. Sergej A. Tokarev, URSS: popoli e costumi, Laterza, Bari 1969, pp. 224-239). La lingua avara, parlata attualmente da circa 260.000 individui, appartiene con altre 24-27 lingue al gruppo caucasico orientale, il cosiddetto gruppo naho-daghestano, caratterizzato da una struttura morfologica agglutinante-flessiva, “con la particolarità che qui l’aspetto flessivo è più sviluppato che nelle altre lingue caucasiche” (Lucia Wald – Elena Slave, Ce limbi se vorbescpe glob, Editura stiintifica, Bucarest 1968, p. 100).

Nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono sono ricorrenti espressioni del tipo “Hunni, quiet Avares appellantur” (I, 27; II, 10; IV, 11; IV, 26; IV, 37). Nella Vita Karoli Magni Imperatoris di Eginardo leggiamo “Avares sive Huni” (cap. XIII). Nel Carmen de Aquilegianumquam restauranda la distruzione di Aquileia, avvenuta nel 452 ad opera degli Unni di Attila, viene addebitata agli Avari: “Impiorum Avarorum tradita sub manibus” (A. De Nicola, I versi sulla distruzione di Aquileia, “Studi Goriziani”, 50, 1979, II, pp. 7-31).

Turcologi e mongolisti hanno abbandonato da tempo l’opinione secondo cui gli Avari avrebbero parlato una lingua mongola: “La cauta spiegazione sulla lingua degli Avari fornita ultimamente da Lajos Ligeti sembra abbastanza giustificata: ‘Resta il problema della lingua degli Avari di Pannonia. Da Vámbéry in poi, presso di noi questa lingua è riconosciuta come lingua turca. Pelliot credeva che fosse la lingua mongola’” (János Harmatta, De la question concernant la langue des Avars, Türk tarih Krumu basïm evi, Ankara 1988, p. 4).

Harmatta János, Avar rovásirásos edényfeliratok, “Antik tanulmányok”, 31, 272-284; Idem, Rovásírásos feliratok avar szíjvégeken, in AA. VV., Rovásírás a Kárpát-medencében, Magyar Östörténeti Könyvtár, Szeged 1992, pp. 21-30.

Maurizio Imperatore, Strategikon. Manuale di arte militare dell’Impero Romano d’Oriente, a cura di Giuseppe Cascarino, Il Cerchio, Rimini 2006, pp. 123-124.

Theophylakti Simocattae Historiarum libri, VII, cap. 7 (Bonn 1834 e 1924; Leipzig 1887; Stuttgart 1972).

De legationibus Romanorum ad gentes, fr. 43.

Kürti Béla – Lörinczy Gábor, “… avarnak mondták magukat …”, Trogmayer Ottó, Szeged 1991, p. 54.

Louis Bréhier, Vie et mort de Byzance, Albin Michel, Paris 1969, p. 39.

Ivi, p. 40.

Franz Altheim, op. cit., p. 205.

Pasquale Villari, Le invasioni barbariche in Italia, Hoepli, Milano 1928, p. 264.

Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, p. 70.

Francis Conte, Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi, Torino 1990, pp. 19-20.

Cit. in : A. V. Mišulin, Drevnie slavjane v otryvkach greko-rimskich i vizantijskich pisatelej po VII v. n. e., « Vestnik Drevnej Istorii », I, 1941, p. 247.

I. Sorlin, Le témoignage de Constantin VII Porphyrogénète sur l’état ethnique et politique de la Russie au débutdu Xe siècle, « Cahiers du monde russe et soviétique », VI (1965), pp. 164-165, nota 5.

Francis Conte, op. cit., p. 20.

Steve Runciman, Bisanzio e gli Slavi, in: AA. VV., L’eredità di Bisanzio, Vallardi, Milano 1961, p. 408.

Louis Bréhier, Vie et mort de Byzance, cit., p. 50.

“Ci è noto come dal secolo IV al secolo VII il popolo degli Anti si componesse del duplice elemento slavo e iranico. Nella lotta contro i Goti e successivamente contro gli Avari, avrebbe acquistato una propria specificità e una propria cultura quale progenie della ‘cultura di Cernjachov’ che deve il nome a un villaggio nella regione kieviana” (Francis Conte, op. cit., p. 319.

Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del sec. XII, Einaudi, Torino 1971, pp. 7-8.

Cit. in: I. Boba, Nomads, Northmen and Slavs. Eastern Europe in the Ninth Century, The Hague 1967, p. 45.

Hans Kohn, Il mondo degli Slavi, Cappelli, Bologna 1970, pp. 286-287.

Hans Kohn, op. cit., p. 154.

Pasquale Villari, op. cit., pp. 316-317.

Cit. da Ovidio Capitani, La migrazione magiara, l’Italia, l’Occidente, in: AA. VV., Gli antichi Ungari. Nascita di una nazione, Skira, Milano 1998, p. 23.

Nicola Asztalos – Alessandro Pethö, Storia della Ungheria, Genio, Milano 1937, p. 14.

Bálint Hóman, I Siculi, in: AA. VV., Transilvania, a cura della Società Storica Ungherese, Athenaeum, Budapest 1940, p. 46.

Ibrahim Kafesoglu, Origins of Bulgars, Institute for the Study of Turkish Culture, Ankara 1986, p. 5.

Bálint Hóman, ibidem.

László Gyula, A kettös honfoglalás, Magvetö, Budapest 1978.

László Gyula, Árpád népe, Helikon, Budapest 1986, pp. 15-16. In una nota al brano riportato, l’autore riferisce che secondo István Bóna né gli Zabender né i Tarniach né i Kotzager si sarebbero stanziati nel Bacino dei Carpazi, ma avrebbero vissuto oltre i confini dell’impero avaro.

Bartucz Lajos, A magyarországi avarok faji összetétele és ethnikai jelentösége, “Ethnographia”, 3-4, 1935.

Eginardo, Vita di Carlo Magno, a cura di Giulia Carazzali, Bompiani, Milano 1993, p. 21.

Kürti Béla – Lörinczy Gábor, op. cit., p. 60.

Kürti Béla – Lörinczy Gábor, op. cit., p. 65.

Jean-Paul Roux, La religion des peuples de la steppe, in : AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, cit., p. 520.

Zoltán Kádár, Gli animali negli oggetti ornamentali dei popoli della steppa: Unni, Avari e Magiari, in: AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, cit., p. 1381.

Theophylakti Simocattae Historiarum libri, VII, cap. 8.

Menandro Protettore, 2, in Fragmenta Historicorum Graecorum, Müller, Paris 1870, ora in Thesaurus Menandri Protectoris (Corpus Christianorum. Thesaurus Patrum Graecorum), a cura di B. Coulie e B. Kindt, Turnhout (in corso di stampa).

Per limitarci alla tradizione magiara, rinviamo a due testi “classici”: Ipolyi Arnold, Magyar mythologia, Pest 1854, ristampa anastatica Magyar Kultura, Buenos Aires 1977, I, pp. 265-278 (fuoco), 279-288 (acqua) e Kandra Kabos, Magyar mythologia, Beznak Gyula, Eger 1897, pp. 71-72 (fuoco), 71, 300 e passim (acqua).

Menandro Protettore, ibidem.

Erodoto, IV, 62; Ammiano Marcellino, XXXI, 3, 23. Sul gladius Martis della tradizione unna, ci si consenta di rinviare il lettore al nostro Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 49-51.

Ipolyi Arnold, op. cit., II, p. 272.

Erodoto, IV, 60-61, 72; Strabone, XI, 8, 6.

“L’animale che gli Altaici preferiscono sacrificare è quello che per loro è il più prezioso, quello per il quale nutrono il massimo affetto: il cavallo. I testi antichi e moderni che citano l’oblazione del cavallo sono così numerosi e monotoni che sarebbe vano volerli raggruppare” (Jean-Paul Roux, Faune et flore sacrées dans les sociétés altaïques, Adrien-Maisonneuve, Paris 1966, p. 207).

Abû ‘Alî Ahmad ibn ‘Omar ibn Rustah, Kitâb al-‘alâ’iq an-nafisah (Libro dei gioielli preziosi), Bibliotheca geographorum Arabicorum, ed. de Goeje, vol. VII, Leyden 1892. Trad. franc. : Ibn Rusteh, Les atours précieux, trad. G. Wiet, Le Caire 1935, p. 166.

Cfr. Jean-Paul Roux, op. cit., pp. 357-380 (cap. VI); Uno Harva, Les représentations religieuses despeuples altaïques, Gallimard, Paris 1959, pp. 52-62 ; Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Bocca, Roma-Milano 1954, pp. 211-214.

Si veda, ad esempio, la cintura con raffigurazione di grifi riprodotta in Karl Jettmar, I popoli delle steppe. Nascita e sfondo sociale dello stile animalistico eurasiatico, Il Saggiatore, Milano 1964, tavola a colori p. 221.

G. P. Baker, Carlo Magno, Dall’Oglio, Milano 1962, p. 189.

Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 219.
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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ...

Messaggioda Berto » mar dic 02, 2014 1:20 pm

Łi hippobotai de Strabon e ‘l povolo Botai
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... RrY2M/edit


Cavaj e càri veneti, na tradision milenara
viewforum.php?f=108


Il caso del cavallo padovano e il termine ekupetaris ???

http://www.carlo.dadamo.name/articoli/2 ... dovano.htm

di Carlo D’Adamo

Sostiene Maurizia De Min in un saggio contenuto ne “La città invisibile” (sottotitolo Padova preromana. Trent’anni di scavi e ricerche) che la presenza di cavallini bronzei nei corredi funerari padovani serviva forse a “indicare una peculiare valenza cultuale o la specifica appartenenza sociale degli offerenti alla classe dei cavalieri” (1).

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Mentre indubbiamente si deve consentire sulla “peculiare valenza cultuale”, credo si possa dissentire sulla valutazione del cavallino come indicatore di status sociale. Non parlo dei morsi in bronzo né delle miniature raffiguranti cavallini con cavalieri, che possono rappresentare forse un indicatore di status, ma mi riferisco al cavallino da solo, continuatore di una diffusa tipologia di accessori del rito funebre ininterrottamente attestata fin dall’età del bronzo, presente nella cultura terramaricola e in seguito in quella venetica, oltre che in quella villanoviana e in altre culture.
Il fatto che il cavallino sia presente anche in tombe di donne, per le quali sono altri gli indicatori di status (fuso, conocchia, grani d’ambra, e magari anche il coltello sacrificale) e che continui una tradizione ultrasecolare (fin da tempi per i quali credo sarebbe prematuro parlare di classe di cavalieri) sconsiglia di attribuire al cavallino una valenza sociale, mentre la sua quasi costante presenza in tombe sia maschili che femminili di epoche tra loro molto lontane attesta indubbiamente una continuità ideologica e cultuale che va anche oltre l’orizzonte venetico.

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 200075.jpg

Nuocciono ai nostri veneti sia quei passi del “catalogo delle navi” dell’Iliade in cui si fa riferimento agli Eneti e alle loro mule selvagge (2), sia il mito di Diomede che, emigrato in Italia, fondò cento città ed insegnò ad addomesticare i cavalli. Quei racconti, anche se troppo vaghi per fornire indizi utili, condizionano evidentemente gli studi sulla civiltà venetica, spesso associata ingiustificatamente anche dalle fonti letterarie antiche ad una particolare predisposizione per l’allevamento dei cavalli, attività che però i dati archeozoologici non consentono a tutt’oggi di confermare.
Sono stati trovati infatti rilevanti resti di bovini ovini e suini, ma cani, cavalli, cervi, lepri ed uccelli acquatici hanno lasciato solo resti “relativi a pochi individui” (3).

Ciò porta a concludere che probabilmente l’allevamento dei cavalli non costituiva un aspetto così economicamente rilevante della società venetica.

Tuttavia il pregiudizio del cavallo è duro a morire. ???

Nello stesso volume – una pregevole sintesi dei risultati delle ricerche sul mondo venetico e in particolare padovano – si trova anche, nell’articolo “Lingua e scrittura”, la ripresa della tesi che ekupetaris, termine attestato in quattordici epigrafi dell’area padovana, possa essere spiegato con “signore del cavallo” e quindi con “cavaliere”, nonostante la presenza significativa del pronome di prima persona ego, che sta a indicare che è la pietra che parla, e nonostante la presenza del termine anche su tombe femminili (4), evidenze che sconsiglierebbero tale interpretazione.

Credo quindi che, a partire da queste due certezze (una epigrafica e una archeologica) si debba ricercare un significato diverso da quello di solito ipotizzato e una etimologia diversa da quella proposta. Non convince infatti nemmeno in questo caso il consueto ricorso alla classe dei cavalieri:

Vista l’estensione delle attestazioni, l’epiteto non sarà da intendere in diretto riferimento a cavalli dal punto di vista materiale, per attività produttiva: ekupetaris si trova anche in oggetti privi di raffigurazioni o richiami esplicitamente collegati ai cavalli; il collegamento anche a personaggi di sesso femminile inoltre esclude una attribuzione a sfondo guerriero o agonistico; si tratterà pertanto dell’indicazione di un rango, di una classe sociale, che va identificata con i ‘cavalieri’: una/la classe ‘equestre’ (5).

Credo siano di ostacolo a questa lettura non solo l’improbabile attestazione dell’appartenenza di una donna alla classe dei cavalieri, non solo l’arcaicità di alcune iscrizioni che rendono irrealisticamente proiettabile nel VI secolo una classe equestre (donne comprese) padovana, ma anche (e quest’ultimo argomento è inoppugnabile) l’evidenza grammaticale, dal momento che ekupetaris, nominativo, è sempre associato con un nome di persona al dativo, anche quando non è presente il pronome personale ego.

La formula della maggior parte delle iscrizioni presenta infatti la seguente struttura: [ego] ekupetaris + antroponimo in dativo, che trasparentemente vale “[io sono] ekupetaris per….” (o “dedicato a….”).

Hanno ragione quindi i commentatori che attribuiscono combinatoriamente al termine ekupetaris il senso di “monumento funebre”, anche se ricorrono a volte a incredibili contorsioni per risolvere la contraddizione tra la logica conclusione del ragionamento combinatorio e l’etimologia di eku cavallo (6).

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Se evitiamo tuttavia di cadere nel riflesso condizionato che necessariamente vuole i veneti associati ai cavalli, appare evidente che la prima parte del termine ekupetaris può essere spiegata anche altrimenti.

Nelle Tavole Iguvine il termine ekv nella forma ekvi e le forme derivate eikvasese ed eikvasatis (7) indicano con ogni probabilità la sede della confraternita degli Attiggiani e le pratiche ad essa connesse; ekvi è quindi probabilmente il santuario, il sacrario (8).
Il termine dà luogo ad almeno un derivato anche in osco: un’iscrizione infatti reca la forma eikviarìs (9).

La forma umbra e quella osca sono parallele al greco oìkos, che definisce non solo la casa ma anche la sede, il tempio e la tomba, con una latitudine semantica maggiore ma simile a quella del lemma etrusco suth, che dà luogo al sostantivo suthi (“tomba” e “sede”) e al verbo suth, che vale “porre”, “mettere”, “collocare”.
Anche in miceneo il termine woikos designava la “casa del dio” (10), ed è evidente la connessione del greco oìkos con il miceneo woikos. Meno evidente è la possibile connessione del latino lucus (“bosco sacro”) con woikos attraverso l’umbro vuku (11); se il collegamento è ammissibile, vuku umbro e lucus latino avrebbero designato in origine la sede del dio.

Si possono delineare, a mio parere, diverse trafile parallele a partire dal miceneo woikos: greco oìkos umbro vuku latino lucus, con specializzazione semantica; latino vicus, con altra diversa specializzazione semantica; umbro e osco eku (ed eiku) e venetico eku, con possibili altre specializzazioni rispetto al termine miceneo.
Del resto i significati di “sede” o “casa” o “sacrario” o “tomba” di solito costituiscono accezioni dello stesso termine, pertinenti alla stessa area semantica, come si può vedere a puro titolo esemplificativo anche dalla seguente tabella, schematica e parziale:
...
L’appartenenza di eku venetico alla stessa area semantica può essere quindi accettata con ragionevole sicurezza; ma rispetto all’osco e all’umbro, che hanno selezionato per eku l’accezione di “sede sacra”, il venetico sceglie probabilmente la specializzazione di “tomba”, casa del defunto.
Dato il contesto funerario delle iscrizioni con ekupetaris il senso di eku in venetico non può essere che questo, derivato per estensione semantica da quello di “sede”, come accade anche in greco e in etrusco.

La seconda parte del composto ekupetaris, che, come hanno sostenuto diversi autori (12), sarà probabilmente da collegare al greco petra, è qui posposta ad eku e seguita dalla particella aggettivante –ar e dal morfema del nominativo singolare –is.
Il termine risultante è un aggettivo sostantivato formato su un vocabolo composto, che può forse essere reso in italiano con l’espressione “pietra tombale”.
La sua attestazione su oggetti pertinenti ai riti funerari sarà da spiegare come la presenza dell’aggettivo suthina su oggetti del corredo funebre etrusco: l’indicazione serve a contrassegnare quegli oggetti come “appartenenti alla tomba”.

Elenco delle figure: 1) cavallino in bronzo (da “La città invisibile”); 2) ciotolo con iscrizione in cui si legge anche il termine ekupetaris che occupa il semicerchio superiore della spirale di destra nella trascrizione (da “La città invisibile”); 3) apografo della parte superiore della facciata a della II Tavola Iguvina. Nella tredicesima riga si può leggere (da destra a sinistra): perae fetu, puni fetu, ekvi ne fetu.

NOTE

1.M. De Min, Il mondo religioso dei Veneti antichi, in M. De Min, M. Gamba, G. Gambacurta, A. Ruta Serafini (a cura di), La città invisibile. Padova preromana. Trent’anni di scavi e ricerche, Bologna 2005, pag. 118.
2.Iliade, II, 851-855.
3.G. Petrucci, Ambiente naturale: dati archeozoologici ed economia, in M. De Min ecc., op. cit., pag. 57. Sia pertinente o no ai venetici, la formula omerica potrebbe essere semplicemente una clausola metrica utilizzata in più contesti per sottolineare il “valore” e la “perizia” di uomini o di gruppi di armati, secondo l’ideologia aristocratica che pervade l’Iliade.
4.A. Marinetti, A. L. Prosdocimi, Lingua e scrittura, in M. De Min ecc., op. cit., pag. 33 e segg
5.Ibidem, pag. 36.
6.Ibidem, pag. 35.
7.Nelle Tavole Iguvine la forma ekvi (IIa 13) è locativo singolare e la formula tra ekvi ne fetu può essere tradotta “non sacrificare fuori dal sacrario” (C. D’Adamo, Il dio Grabo, il divino Augusto e le Tavole Iguvine, S. Giovanni in Persiceto 2004, pag. 47); la forma eikvasese (Va 4) è locativo plurale e la formula eikvasese atiieřer può essere tradotta “nelle sedi degli Attiggiani (C. D’Adamo, op. cit., 83); la formula ahtisper eikvasatis infine (III 24) presenta un sostantivo (ahtis) e un aggettivo (eikvasatis) in ablativo plurale retto dalla posposizione –per, e può essere tradotta “per gli atti collegiali” (C. D’Adamo, op. cit., 67). Sia ekv (“sede”, “casa”) che i suoi derivati definiscono in sintesi un’area semantica che individua la sede della confraternita, il sacrario e i riti ad esso relativi.
8.Così anche A. Ancillotti, R. Cerri, Le tavole di Gubbio e la civiltà degli Umbri, Perugia 1996, pag. 171 e pag. 355.
9.L’iscrizione osca (Vetter 1953, 79) è la seguente: ùpil. vi. pak. tantrnnaiùm iùvil. sakrann. pùmperiaìs sull. eikviarìs pùn medd. pìs inìm verehias fus sakrid sakrafir. La sua possibile traduzione è a mio parere la seguente: “Iovila di Opilio figlio di Vibio Pacio dei Tanterneii, da consacrarsi nelle processioni solenni a tutti i sacelli con la partecipazione di un meddix e della vereia. Sarà consacrata con una vittima.” Il termine che io rendo con “sacelli”, l’osco eikviarìs (ablativo plurale) sembra individuare i pilastrini o le aedicolae sacre che costituivano le stazioni di sosta e di preghiera nelle processioni solenni (pùmperiaìs).
10.E. Peruzzi, I greci e le lingue nel Lazio primitivo, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, vol. 6, Roma 1978, pag. 57.
11.C. D’Adamo, op. cit., pag. 202.
12.V. anche A. Marinetti, A.L. Prosdocimi, in M. De Min, op. cit., pag. 35.
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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iraneghi o turco altaeghi ?

Messaggioda Berto » mar dic 02, 2014 2:17 pm

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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iraneghi o turco altaeghi ?

Messaggioda Berto » ven feb 27, 2015 7:28 pm

Spiritualità dalla preistoria, sciamanesimo e cosmologia sciamana

http://www.filarveneto.eu/forum/viewtopic.php?f=24&t=19

Da ste statue stełe andropomorfe a se capise ben ke i morti de łe tonbe dite Kurgan dei pastori goerieri de łe stepe a cavało, come anca i Sarmati i łi Shiti e i Cimeri (Cimmeri) łi fuse de orexente turco altaega, altro ke endouropei e iraniani o iraneghi e tanti łi xe migrà ente tuta l'Ouropa:

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... jte-II.jpg

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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iraneghi o turco altaeghi ?

Messaggioda Sixara » gio mar 26, 2015 2:25 pm

A zherco notizhie so Gyula Laszlo e so i scavi ke l ga fato te la pianura ongherexe... e me vièn fòra el link a filarveneto Kurgan,Shiti,Sarmati... :D
elora tanto vale ca te lo domanda a ti :
Gyula el càta ste tonbe (IV sec.d.c.?) indoe ca xe sepelìi i membri de le tribù. E l nota on "particolare curioso: le armi erano disposte alla destra dei cadaveri maschili ( che in vita, invece, portavano la spada alla sinistra per poterla brandire in modo più agevole), mentre gli oggetti domestici erano disposti alla sinistra dei cadaveri femminili, che in vita li tenevano abitualmente alla portata della destra. " Come se si aspettassero di rinascere in un mondo dove tutti fossero mancini", conclude l'archeologo che, a questo punto, ... fa un accostamento fra questa fede degli antichi guerrieri in un mondo mancino ... e la stregoneria, i cui riti sacrileghi si basavano sul recitare alla rovescia le preghiere cattoliche."
L è Lisa Morpurgo ke la conta de sta roba cuà, de na conversazhion ke la gà co Gyula, indoe ke la vien savere anca ke " la scoperta del Laszlo appare legata a certe tradizioni popolari sopravvissute in Ungheria fino ai nostri tempi, tanto che in una canzoncina infantile, i giorni della settimana sono contati di nuovo, alla rovescia, e il ritornello dice : e l'ultimo è il lunedi."
(El discorso de la Morpurgo, dato ke la scrive de astroloja, lè so n spostamento da destra a sinistra de la letura de lo Zodiaco, ma anca capovolgimento da l bàso n alto, co na intaresante interpretazhion ke magari ghe ne parlaremo pì vanti).
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Re: Kurgan, Shiti, Sarmati, ... iraneghi o turco altaeghi ?

Messaggioda Berto » gio mar 26, 2015 10:06 pm

Sixara ha scritto:A zherco notizhie so Gyula Laszlo e so i scavi ke l ga fato te la pianura ongherexe... e me vièn fòra el link a filarveneto Kurgan,Shiti,Sarmati... :D
elora tanto vale ca te lo domanda a ti :
Gyula el càta ste tonbe (IV sec.d.c.?) indoe ca xe sepelìi i membri de le tribù. E l nota on "particolare curioso: le armi erano disposte alla destra dei cadaveri maschili ( che in vita, invece, portavano la spada alla sinistra per poterla brandire in modo più agevole), mentre gli oggetti domestici erano disposti alla sinistra dei cadaveri femminili, che in vita li tenevano abitualmente alla portata della destra. " Come se si aspettassero di rinascere in un mondo dove tutti fossero mancini", conclude l'archeologo che, a questo punto, ... fa un accostamento fra questa fede degli antichi guerrieri in un mondo mancino ... e la stregoneria, i cui riti sacrileghi si basavano sul recitare alla rovescia le preghiere cattoliche."
L è Lisa Morpurgo ke la conta de sta roba cuà, de na conversazhion ke la gà co Gyula, indoe ke la vien savere anca ke " la scoperta del Laszlo appare legata a certe tradizioni popolari sopravvissute in Ungheria fino ai nostri tempi, tanto che in una canzoncina infantile, i giorni della settimana sono contati di nuovo, alla rovescia, e il ritornello dice : e l'ultimo è il lunedi."
(El discorso de la Morpurgo, dato ke la scrive de astroloja, lè so n spostamento da destra a sinistra de la letura de lo Zodiaco, ma anca capovolgimento da l bàso n alto, co na intaresante interpretazhion ke magari ghe ne parlaremo pì vanti).



Gyula Laszlo el credeva ke łi ongarexi łi fuse rivà a partir dal VII secoło dapò Cristo, da łe stepe ouroaxiateghe e de raça nomadego turco- ugrega.

http://it.wikipedia.org/wiki/Gyula_L%C3%A1szl%C3%B3
Tra i suoi più importi contributi allo studio della storia e della cultura ungherese si ricorda l'elaborazione della teoria della "doppia conquista della patria", elaborata dagli anni '60 e imperniata sull'idea che gli ungheresi sarebbero giunti nell'Europa danubiana in due momenti, nel VII secolo e nel IX secolo. Andato il pensione nel 1980, dopo la fine del regime nazional-comunista di Nicolae Ceauşescu, ritorna nella sua amata Transilvania. Muore a Granvaradino, oggi Romania, il 17 giugno del 1998.

Par ła TDC dal pałeołetego łi jera xa ente l'Ongaria da miłara de ani:
http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Alinei
Nel libro Etrusco: una forma arcaica di ungherese Alinei propone, in coerenza con la Teoria della continuità, di identificare l'etrusco come una fase arcaica dell'attuale lingua ungherese e propone una lettura in questo senso di diversi testi etruschi.
Nel successivo libro Gli Etruschi erano Turchi Alinei, sulla base della scoperta delle affinità genetiche, culturali e linguistiche turco-etrusche, modifica questa tesi e identifica nei Turchi gli antenati degli Etruschi; tesi confermata anche dall'etnonimo latino Tuscus < *Tur-s-cu-s, umbro Turskum. Inoltre spiega che le affinità etrusco-ungheresi sono anch'esse reali, ma sono dovute alla massiccia presenza di turchismi nell'ungherese, dovuta all'invasione preistorica dell'Europa sud-orientale da parte dei Turco-Altaici, i primi domesticatori del cavallo.
http://www.continuitas.org/texts/alinei_addenda.pdf
http://www.gatc.it/ritagli/anatomiamistero.htm

So ła coestion de łe robe al contraro tra el mondo dei vivi e coeło dei morti, me par, ke anca James Frazer, entel so Ramo de Oro, el gapie scrito coalke paxena.

http://it.wikipedia.org/wiki/James_Frazer
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_ramo_d%27oro
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