La banalizzazione della Memoria27 gennaio 2022
http://www.linformale.eu/la-banalizzazi ... a-memoria/L’antisemitismo in Europa nel corso dei secoli, ha assunto forme poliedriche che hanno toccato anche personaggi di grande cultura e intimamente democratici. In questa ottica è interessante ricordare un episodio, poco noto al grande pubblico, avvenuto tra il primo ministro francese Georges Clemenceau e il leader sionista Haim Weizmann in occasione delle trattative che si svolsero a Parigi al termine del Primo conflitto mondiale. Però prima di entrare nello specifico dell’episodio è opportuno ricordare velocemente chi fosse Clemenceau e sottolineare il clima culturale nel quale visse.
Georges Clemenceau nacque in una famiglia repubblicana fortemente anticlericale, si laureò in medicina (professione a cui non si applicò molto). Dotato di una vasta cultura in campo letterario e filosofico si dedicò con passione al giornalismo. Divenne, nel corso degli anni, uno stimato politico e un grande statista: ricoprì varie cariche ministeriali e fu primo ministro durante le trattive di pace a Versailles nel 1919.
Ebbe grande notorietà durante gli anni del processo Dreyfus, che spaccò letteralmente la Francia in due. Durante le manifestazioni più violente di carattere antisemita scatenate dalle forze reazionarie e nazionaliste della società francese, prese senza esitazioni le difese del capitano ebreo alsaziano. Assieme ad Emile Zola, nel 1898, fu uno degli artefici che portarono alla riapertura del caso e alla sua riabilitazione (Dreyfus non ottenne la piena assoluzione a causa del clima politico pesantemente antisemita dell’epoca ma dovette fare richiesta di grazia). Non ebbe esitazioni ad attaccare le frange più antisemite definendole “clericali e bigotte”.
Aveva numerosi amici ebrei, tra i quali si possono ricordare Luis Mullem, Arthur Meyer, Jacques e Joseph Reinach e Cornelius Herz che fu uno dei maggiori finanziatori del suo giornale La Justice. Suo figlio Michel sposò una donna ebrea, Ida Michnay, originaria dell’attuale Slovacchia. In pratica Clemenceau era senza dubbio l’equivalente dell’odierno politico e attivista “progressista”.
In Francia, il clima politico e sociale – durante l’attività giornalistica e politica di Clemenceau – era contrassegnato da un pesante antisemitismo nonostante la Francia fosse lo Stato europeo più “tollerante” e che per primo aveva riconosciuto i pieni diritti civili e religiosi alla componente ebraica della cittadinanza. Questa apparente contraddizione non deve stupire. Larghe fasce della popolazione non aveva ancora pienamente accettato che gli ebrei francesi, grazie alla Rivoluzione del 1789, avessero gli stessi pieni diritti di tutti gli altri cittadini e restavano ancorati agli stereotipi e ai pregiudizi dei secoli precedenti. Per di più, numerosi ebrei non essendo più costretti a vivere nei ghetti e potendo accedere a tutti i mestieri e alle cariche (anche pubbliche) in poco tempo avevano iniziato a ricoprire importanti posizioni in tutti i campi. Questa ascesa sociale era vista, negli ambienti nazionalisti e cattolici, con diffidenza, stupore e odio. Come si vedrà a proposito di Clemenceau questo pregiudizio non era assente neanche a sinistra. Che lui stesso fosse imbevuto di analoghi pregiudizi antiebraici traspare numerose volte nei suoi scritti e nelle frasi da lui pronunciate con amici, collaboratori o avversari politici.
Si scorge in Clemenceau una vera e propria ambivalenza nei confronti degli ebrei; da un lato dimostrava ammirazione nei loro confronti in quanto singoli individui con molta cultura, perfettamente integrati nella società francese e che ne condividevano i valori. Sostanzialmente ammirava molto gli ebrei “depurati” della loro “ebraicità”, dall’altra, con quelli che desideravano conservare le tradizioni e la cultura ebraica aveva una posizione molto meno tollerante e ricca di stereotipi, come si evince dagli scritti prodotti dopo vari soggiorni nell’Europa dell’Est.
È utile ricordare, come esempio, che in occasione dell’accettazione da parte di Alfred Dreyfus della grazia del Presidente della Repubblica, nel 1899, Clemenceau affermò che “il temperamento degli ebrei non li spinge ad affrontare la battaglia”. Questo tipico stereotipo antiebraico (smentito dalla percentuale di ebrei caduti in tutte le guerre che era ben superiore alla loro percentuale sulla popolazione complessiva) non teneva conto di quello che Dreyfus aveva passato nei cinque anni precedenti e soprattutto delle possibilità quasi nulle di ottenere il ribaltamento di un’accusa costruita a tavolino dalle massime cariche dell’esercito francese.
L’Episodio
Haim Weizmann era il capodelegazione dell’Organizzazione Sionista presente a Parigi per perorare la causa del popolo ebraico al fine della ricostituzione di una patria nazionale ebraica, nel futuro riassetto generale del Medio Oriente fuoriuscito dal pluri secolare dominio turco. Il 27 febbraio, Weizmann aveva discusso un proprio memorandum contenente le richieste sioniste davanti al Consiglio delle Grandi potenze. Aveva già ottenuto l’appoggio britannico e in linea di massima anche quello delle altre Potenze. Clemenceau non era presente all’incontro in quanto ancora convalescente a causa dell’attentato subìto pochi giorni prima.
Quando Weizmann e Clemenceau si incontrarono molto brevemente, come testimoniò un ufficiale britannico presente all’incontro (il colonnello Richard Meinertzhagen), dopo una veloce descrizione delle richieste a nome del popolo ebraico fatta da Weizmann, Clemenceau disse: “Noi cristiani non possiamo perdonare gli ebrei per aver crocifisso Cristo”. Questa frase racchiude bene duemila anni di antigiudaismo cristiano.
La prima considerazione da fare in merito a Georges Clemenceau è che non si può certo accusare di avere coltivato nel passato posizioni pregiudiziali verso gli ebrei, come dimostra chiaramente il caso Dreyfus. Tuttavia va rilevato che all’epoca del processo, Clemenceau era all’opposizione e non al governo. In occasione dell’incontro con Weizmann, Clemenceau era a capo dell’esecutivo francese e vedeva minacciate le prerogative francesi in “Terra Santa” dalle richieste ebraiche. Il fatto di dover rinunciare al solo protettorato dei Luoghi Santi del cristianesimo era visto come una minaccia agli interessi francesi. Se a questo aggiungiamo lo stress per l’attentato subìto e i forti contrasti con i britannici e gli arabi di Feisal per interessi molto divergenti in Medio Oriente, si capisce chiaramente che sotto la spinta di una forte pressione anche il “laico e anticlericale” Clemenceau, non sia riuscito a contenere il riaffiorare del plurisecolare astio antiebraico presente nella cultura europea.
È importante rilevare che parole di quel tenore le espresse unicamente a Weizmann e non ad esempio a Feisal con il quale ebbe dissapori ben più gravi che portarono ad una rapida rottura tra i due. Viene spontaneo ipotizzare che l’acceso anticlericalismo di Clemenceau fosse reale fintanto che riteneva la Chiesa una minaccia per la Repubblica francese ma non avesse molto a che fare con il suo antigiudaismo. Per capire meglio l’ambivalenza di Clemenceau è necessario analizzare nel dettaglio la frase riferita a Weizmann, che comincia con l’inciso “Noi cristiani”. È interessante la scelta del “noi” che ha il duplice significato di specificare che egli stesso lo è (quindi si fa portavoce delle istanze di tutti i cristiani) e se c’è un noi, evidentemente c’è un “voi” che è interpretato come un antagonista, in questo caso, non perdonabile a causa delle colpe dei suoi antenati.
“Non possiamo perdonare gli ebrei per aver crocifisso Cristo”, è una affermazione in linea di continuità con la tradizione antigiudaica del cristianesimo più conservatore che Clemenceau aveva combattuto. Da questa frase si può trarre una considerazione fondamentale, la presenza irriducibile di un substrato culturale, o giacimento, così radicato da condizionare anche le élite più “progressiste”. Tutto ciò risulta essere ancora più sconcertante se consideriamo il contesto nel quale fu fatta questa accusa: una conferenza internazionale di pace dai contenuti squisitamente politici e diplomatici.
In pratica, Clemenceau, facendosi forza della falsa accusa di deicidio, pone Weizmann e tutto il movimento sionista su un piano moralmente inferiore al suo e a quello degli altri governi cristiani. Le conseguenze politico-diplomatiche di questo atteggiamento sono chiare: “voi” non potete trattare alla pari ma dovete accontentarvi di quello che decidiamo “noi cristiani”. A ben vedere questo atteggiamento è analogo a quello che ancora oggi si ha nei confronti di Israele, non fondato su un rifiuto teologico cristiano ma su un rifiuto religioso e politico islamico riassunto nella persuasione che Israele sia nato nella colpa e dunque meriti di essere trattato con regole diverse da quelle che valgono per tutti gli altri Stati.
Per comprendere meglio il clima del tempo (che, fondamentalmente è il medesimo di oggi) è utile riportare anche un altro giudizio espresso da un economista della delegazione britannica, niente di meno che John Maynard Keynes, il quale, riferendosi ad un consulente finanziario presente nella delegazione francese, Louis Klotz, così si espresse,”Klotz rimanda a tutti l’immagine dell’orribile ebreo che stringe la borsa dei soldi”. La “colpa” di Klotz era quella di rimanere rigido in merito alle richieste per le riparazioni tedesche nei confronti delle Francia dopo quattro anni di una devastante guerra che non aveva precedenti. Di posizioni rigide durante le trattative di Parigi ve ne furono parecchie e portate avanti da molti delegati ma nessuno venne giudicato in modo analogo. Un altro esempio di come l’antisemitismo fosse trasversale e ben diffuso nelle élite politiche, anche progressiste, ben prima del sorgere del nazismo.
In conclusione duemila anni di antisemitismo, declinato di volta in volta nelle sue molteplici forme di antigiudaismo, antisemitismo e antisionismo, si manifesta anche inconsapevolmente e non solo non riesce ad essere cancellato, ma sviluppa, come un virus, nuove varianti.
I mistificatori e la ShoahNiram Ferretti
27 Gennaio 2022
http://www.linformale.eu/i-mistificatori-e-la-shoah/Il Giorno della Memoria, che si celebra oggi, ha un significato chiaro e indiscutibile, la commemorazione della Shoah. Per questo motivo venne istituito dall’Assemblea Generale dell’ONU, il 21 novembre del 2005, con la Risoluzione 60/7. Il 27 gennaio fu scelto come data simbolica essendo il giorno in cui Auschwitz venne liberato dall’Armata Rossa. Nessuno pensò di istituire in quella stessa data la commemorazione di altri genocidi. Non avrebbe avuto senso farlo e non ha senso farlo. Ogni genocidio, ogni sterminio, ha la sua specificità, il suo bisogno di essere ricordato. Tutte le vittime della follia e della violenza umana pari sono, ma al di là dell’ovvietà di questa affermazione e della facile retorica a cui si presta, resta il fatto che per modalità, organizzazione, finalità, la decisione presa dal Terzo Reich di eliminare ogni ebreo vivente in Europa, e non solo in Europa, se il progetto hitleriano di dominio si fosse realizzato, (come ha ricordato Matthias Kuntzel in un articolo da noi pubblicato in questi giorni), non ha precedenti storici. Non li ha avuti prima non li ha avuti dopo.
Nel corso degli anni, al di là del negazionismo vero e proprio, sono stati fatti diversi tentativi di relativizzare la Shoah. Un aspetto ricorrente di questi tentativi è quello di inserire il genocidio degli ebrei all’interno di una categoria più ampia, che sposti l’attenzione dalla sua specificità. In questo senso, oggi, gli ebrei sterminati dai nazisti troverebbero una collocazione insieme ad altri assassinati dal regime: rom, omosessuali, testimoni di Geova, anarchici, ecc. tutti rubricabili sotto la meta-categoria delle vittime. La Vittima è infatti diventata il totem di una nuova dogmatica laica, per cui non conterebbero più le ragioni e le modalità del suo esserlo, quanto il fatto, appunto di esserlo.
Gli ebrei sterminati nella Shoah vengono così trasformati nel paradigma facile con cui altri morti possono essere paragonabili ad essi, come, ad esempio, i migranti morti in mare. L’enormità del divario che separa queste morti, ovvero le ragioni che le hanno provocate, diventano irrilevanti, l’unica cosa che conta è riconoscersi in un indifferenziato sentimento di cordoglio. Perché oggi, più che mai, tutto è giocato sul sentimento e sul dispositivo ricattatorio che esso implica. Se infatti si provano a fare delle distinzioni, si tenta di separare gli uni dagli altri, immediatamente si è accusati di essere al meglio insensibili, al peggio razzisti. Non solo. Agli ebrei che ricordano la più grande tragedia della loro storia, viene rimproverato di essere monopolisti della memoria, così come, in passato e ancora oggi li si accusava e li si accusa di monopolizzare la finanza, la politica, finanche la storia. È il vecchio rictus antisemita per cui gli ebrei avrebbero un potere eccessivo, anche quello di avere imposto il ricordo del più spaventoso crimine commesso nei loro confronti. E non pochi ebrei, pur di scostare da sè questa accusa, cercano di non attaccarsi a questo giorno, di mostrarsi di manica larga, aperti ad accogliere irenicamente anche altre vittime all’interno di un unico grande calderone vittimario pur di non essere accusati di essere eccessivamente identitari, l’accusa che sempre è stata loro rivolta nel corso dei secoli da chi voleva e vorrebbe che sparissero.
Se è vero che esiste il rischio di fare della Shoah, del suo ricordo istituzionalizzato, una sorta di unicum che si erigerebbe in vetta ed isolato nel mezzo di tutti gli stermini e i genocidi della storia, vi è sempre più, il rischio opposto e speculare di volerne ridurre la portata storica, il significato. Tra questi due estremi la ragione ci indica la via giusta, quella di affermarne l’unicità e l’imparagonabilità, non per trasformarlo in culto, ma perchè solo in questo modo si può fare storia, aderendo cioè ai fatti.
La Shoah è il culmine di secoli di antisemitismo, è cioè, l’evento terminale di una ininterrotta istigazione all’odio che non ha eguali nel corso della storia. Non si tratta di diminuire altri genocidi, si tratta di spiegare perchè questo genocidio in particolare ha una natura essenzialmente diversa da tutti gli altri. Non è un privilegio, non esistono privilegi nell’odio e nell’orrore, esiste però una eziologia che permette di comprendere come e perchè esso si è potuto generare.
Il tentativo di ridimensionre la Shoah, di diluirla, ha anche un altro risvolto, ed è quello di attaccare, attraverso di essa, Israele. Un libro come quello di Norman Finkelstein, pupillo di Noam Chomsky, L’industria dell’olocausto, uscito nel 2002, in cui si accusa Israele di sfruttare la memoria della Shoah per potersi presentare come uno Stato vittima e così immunizzarsi dalle critiche per i crimini che esso perpetrerebbe nei confronti dei palestinesi, ne è un esempio evidente.
Lo Stato ebraico diventa così il bersaglio della critica alla specifica identità della Shoah, ritenuta troppo marcata, divisiva, gerarchica, come è reputato intollerabile che Israele sia lo Stato degli ebrei, nato con il presupposto di dare ad essi una nazione.
Una operazione come quella del Festival delle Memorie di Ferrara, poi diventato Settimana delle Memorie, lavora proprio in questa direzione. Inserendo la Shoah in una serie di giornate dedicate anche ad altri genocidi o stermini, la trasforma in un episodio in mezzo a un lungo e inerrestabile processo di violenza che si dovrebbe, per coerenza, fare risalire all’antichità. Non potendolo fare, ci si limita a questo espediente demagogico. Bisogna fare “memorie” non “memoria”, anche se, guarda caso, per farlo si sceglie la settimana che culmina proprio il 27 di gennaio con il ricordo del genocidio degli ebrei.
Operazioni come queste sono trasparenti nel loro intento e vanno respinte con fermezza. Per tutti i genocidi e gli stermini che si desiderano ricordare ci sono dodici mesi a disposizione, gennaio è riservato a quello degli ebrei. Il resto è solo strumentale.