Dai lager al politicamente corretto: la lunga marcia del totalitarismo
Atlantico Quotidiano
Dino Cofrancesco
25 Giu 2019
http://www.atlanticoquotidiano.it/rubri ... litarismo/
Sono in un aereo di una grande compagnia che effettua voli transoceanici. Il servizio è discreto e non mancano i comfort—dal televisorino personale che offre un’ampia scelta di programmi, dal film alla musica, alle continue offerte di cibo e di bevande—per alleviare il fastidio e la noia insopportabile delle quattordici ore di viaggio. Ci sono, è vero, le turbulences ma nel transantlantico dell’aria si sentono meno. Quello che mi colpisce, invece, è un’hostess talmente grassa che sembra passare a stento nei corridoi tra le file di sedili. Lì per lì mi sento in colpa per lo sconcerto: non sarà mica dettato da antichi pregiudizi maschilisti che vogliono le assistenti di volo giovani, graziose, sorridenti? Subito dopo, però, penso che non avrei avuto reazioni diverse vedendo uno steward uscito da un quadro di Fernando Botero e, a questo punto, mi vengono in mente un sospetto inquietante e il ricordo di un episodio risalente a diversi anni fa. Una corte inglese aveva condannato un barista per aver messo un annuncio su un giornale, in cui si offriva un lavoro di cameriera a una donna giovane e di bell’aspetto. Soprattutto quel ‘bell’aspetto’ aveva scatenato le ire delle femministe, scandalizzate dalla strumentalizzazione del corpo della donna. In effetti, il barista era stato incauto: per non perdere tempo nella selezione delle aspiranti all’impiego, ne aveva ridotto la rosa – in realtà, avrebbe potuto benissimo raggiungere il suo scopo fingendo che la sua scelta fosse dettata solo da motivazioni professionali. Del fatto si parlò anche in Italia ma quasi unicamente per esaltare la civiltà britannica che non tollerava discriminazioni estetiche.
Tutto bene? Non per me. La mia natura di bastian contrario, infatti, mi rendeva molto perplesso: da una parte, vedevo un valore iscritto in quell’universalismo etico che dalle Lumières a Kant è diventato ormai il codice occidentale (una donna—o un uomo—ha diritto di essere presa in considerazione indipendentemente dal suo aspetto fisico), ma, dall’altra, vedevo restringersi lo ‘spazio della discrezionalità’, del non contemplato dalle norme giuridiche, al di là del quale vien meno la libertà e tutto diventa oggetto di regolamentazione. Se il ‘come ci si deve comportare’, il ‘come si deve pensare per essere soggetti morali’ invadono tutta l’esistenza quotidiana, le istituzioni – politiche, sociali, culturali – non sono più gli argini entro i quali scorre il fiume della libertà individuale ma diventano la prigione che la tiene sotto controllo. Forse il problema vero è la cancellazione del peccato originale, che, a mio avviso, sta a fondamento del liberalismo: che senso avrebbe, altrimenti, la teoria dei poteri che si controllano a vicenda, se non si credesse nella malvagità umana e nella necessità di neutralizzarla con istituti idonei? In fondo, la civiltà non è la rimozione del male ma la sua sublimazione: la bella dama che il focoso trovatore si porterebbe volentieri a letto si fa l’ispiratrice dell’amor cortese, Teresa T. diventa oggetto platonico della passione infelice di Jacopo Ortis. Più prosaicamente, nel film di Pietro Germi, Signori e signore (1965) a Treviso ci si reca volentieri al bar in cui lavora la bella cassiera Milena Zulian (Virna Lisi) per il piacere di vederla, anche se si rimane, come si dice a Napoli, ‘uocchie chine e mane vacante’ (occhi pieni e mani vuote). D’altra parte, la civetteria, su cui ha scritto pagine straordinarie il grande Georg Simmel, non richiama considerazioni in parte analoghe?
L’hostess lardellata, però, a ben riflettere, è qualcosa di assai più inquietante della barista londinese. Essa, infatti, segna il trionfo finale dell’idea di eguaglianza assoluta. Non solo stanno sullo stesso piano belli e brutti ma ora, diventano irrilevanti pure le differenze tra sani e malati (il grasso eccessivo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una malattia). Qui, insieme alla libertà individuale (di fare ciò che piace, mangiando, ad es., quanto, come e quando si vuole), l’egualitarismo azzera anche la responsabilità sociale. L’idea che quanti non hanno cura del loro corpo non sono nocivi solo a se stessi ma rappresentano un costo per la collettività (in termini di medicine, di assistenza sanitaria etc.) sembra non sfiorare neppure i fondamentalisti dell’egualitarismo. Tra poco sarà vietato, negli annunci di offerte di lavoro, pretendere che le candidate (i candidati) siano, se non magre, almeno snelle e in buona salute. I sacri diritti degli obesi, prima o poi, esigeranno una loro costituzionalizzazione e non mancherà molto che nelle assunzioni (anche quelle fatte dai privati) si debba tener conto delle ‘quote’ e delle proporzioni tra identità diverse (in ogni organizzazione si deve trovare un certo numero di femmine, di maschi, di omosex, di trans, di bulimici, di anoressici, di islamici, di cattolici etc. etc.).
Che tutto questo non spaventi è ciò che più mi meraviglia, per non dire: sconvolge. Vi vedo la lunga marcia del totalitarismo, che, da arma micidiale, che distrugge i corpi, diventa il virus letale, che distrugge le menti: dal Lager e dal Gulag al ‘politicamente corretto’. Scriveva Hannah Arendt, nelle “Origini del totalitarismo”, “L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana (…) E’ in gioco la natura umana in quanto tale”. Certo la “natura umana” non è un dato ontologico ma il precipitato di tradizioni, di costumi, di modi di pensare secolari e tuttavia tradizioni, costumi e modi di pensare sono diventati ormai, come si diceva un tempo, una ‘seconda natura’, modificabile non con operazioni chirurgiche ma con la longue durée. Tra il totalitarismo come regime e il totalitarismo come egemonia del pensiero unico c’è una differenza enorme: la stessa che passa tra il potere e l’influenza, tra il comando che si avvale degli strumenti della violenza fisica e la persuasione che ottiene la conformità con le parole. Al totalitarismo materiale non si sfugge, a quello spirituale sì (nessuno impedisce di fondare partiti o periodici alternativi) sicché ogni assimilazione è assurda. Ciò non toglie, però, che ci sia da aver paura di quanti vedono nell’eguaglianza ‘totalitaria’ l’angelo sterminatore del Male che in millenni di storia non si è finora riusciti a debellare. “Lasciateci un po’ di malizia e di cattiveria”, si sarebbe tentati di dire. Lasciateci rallegrare vedendo una hostess che avrebbe potuto fare la mannequin e voltare lo sguardo da un’altra parte se ci passa accanto una che avrebbe potuto fare la controfigura della soprano Ada Gallotti nel film Racconti d’estate (1958) di Gianni Franciolini, quella che il suo partner erotico Aristarco (Alberto Sordi) chiamava, non affettuosamente, Moby Dick. Il male che abbiamo dentro di noi non potrebbe essere il peperoncino che rende più saporito il minestrone della vita?
Il totalitarismo del politicamente corretto che ci rende tutti uguali
Dino Cofrancesco
di Nicola Porro 13 Marzo 2021
https://www.nicolaporro.it/il-totalitar ... ti-uguali/
Sono in un aereo di una grande compagnia che effettua voli transoceanici. Il servizio è discreto e non mancano i comfort – dal televisorino personale che offre un’ampia scelta di programmi, dal film alla musica, alle continue offerte di cibo e di bevande – per alleviare il fastidio e la noia insopportabile delle quattordici ore di viaggio. Ci sono, è vero, le turbulences ma nel transantlantico dell’aria si sentono meno.
Quello che mi colpisce, invece, è un’hostess talmente grassa che sembra passare a stento nei corridoi tra le file di sedili. Lì per lì mi sento in colpa per lo sconcerto: non sarà mica dettato da antichi pregiudizi maschilisti che vogliono le assistenti di volo giovani, graziose, sorridenti? Subito dopo, però, penso che non avrei avuto reazioni diverse vedendo uno steward uscito da un quadro di Fernando Botero e, a questo punto, mi vengono in mente un sospetto inquietante e il ricordo di un episodio risalente a diversi anni fa. Una corte inglese aveva condannato un barista per aver messo un annuncio su un giornale, in cui si offriva un lavoro di cameriera a una donna giovane e di bell’aspetto. Soprattutto quel ‘bell’aspetto’ aveva scatenato le ire delle femministe, scandalizzate dalla strumentalizzazione del corpo della donna. In effetti, il barista era stato incauto: per non perdere tempo nella selezione delle aspiranti all’impiego, ne aveva ridotto la rosa – in realtà, poteva benissimo raggiungere il suo scopo fingendo che la sua scelta fosse dettata solo da motivazioni professionali. Del fatto si parlò anche in Italia ma quasi unicamente per esaltare la civiltà britannica che non tollerava discriminazioni estetiche.
Tutto bene? Non per me. La mia natura di bastian contrario, infatti, mi rendeva molto perplesso: da una parte, vedevo un valore iscritto in quell’universalismo etico che dalle Lumières a Kant è diventato ormai il codice occidentale (una donna – o un uomo – ha diritto di essere presa in considerazione indipendentemente dal suo aspetto fisico), ma, dall’altra, vedevo restringersi lo ‘spazio della discrezionalità, del non contemplato dalle norme giuridiche, al di là del quale vien meno la libertà e tutto diventa oggetto di regolamentazione. Se il ‘come ci si deve comportare’, il ‘come si deve pensare per essere soggetti morali’ invadono tutta l’esistenza quotidiana, le istituzioni – politiche, sociali, culturali – non sono più gli argini entro i quali scorre il fiume della libertà individuale ma diventano la prigione che la tiene sotto controllo.
Forse il problema vero è la cancellazione del peccato originale, che, a mio avviso, sta a fondamento del liberalismo: che senso avrebbe, altrimenti, la teoria dei poteri che si controllano a vicenda, se non si credesse nella malvagità umana e nella necessità di neutralizzarla con istituti idonei? In fondo, la civiltà non è la rimozione del male ma la sua sublimazione: la bella dama che il focoso trovatore si porterebbe volentieri a letto si fa l’ispiratrice dell’amor cortese, Teresa T. diventa oggetto platonico della passione infelice di Jacopo Ortis. Più prosaicamente, nel film di Pietro Germi, Signori e signore (1965) a Treviso ci si reca volentieri al bar in cui lavora la bella cassiera Milena Zulian (Virna Lisi) per il piacere di vederla, anche se si rimane, come si dice a Napoli, ‘uocchie chine e mane vacante’(occhi pieni e mani vuote). D’altra parte, la civetteria, su cui ha scritto pagine straordinarie il grande Georg Simmel, non richiama considerazioni in parte analoghe?
L’hostess lardellata, però, a ben riflettere, è qualcosa di assai più inquietante della barista londinese. Essa, infatti, segna il trionfo finale dell’idea di eguaglianza assoluta. Non solo stanno sullo stesso piano belli e brutti ma ora, diventano irrilevanti pure le differenze tra sani e malati (il grasso eccessivo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una malattia). Qui, insieme alla libertà individuale (di fare ciò che piace, mangiando, ad es., quanto, come e quando si vuole), l’egualitarismo azzera anche la responsabilità sociale. L’idea che quanti non hanno cura del loro corpo non sono nocivi solo a se stessi ma rappresentano un costo per la collettività (in termini di medicine, di assistenza sanitaria etc.) sembra non sfiorare neppure i fondamentalisti dell’egualitarismo. Tra poco sarà vietato, negli annunci di offerte di lavoro, pretendere che le candidate (i candidati) siano, se non magre, almeno snelle e in buona salute. I sacri diritti degli obesi, prima o poi, esigeranno una loro costituzionalizzazione e non mancherà molto che nelle assunzioni (anche quelle fatte dai privati) si debba tener conto delle ‘quote’ e delle proporzioni tra identità diverse (in ogni organizzazione si deve trovare un certo numero di femmine, di maschi, di omosex, di trans, di bulimici, di anoressici, di islamici, di cattolici etc. etc.).
Disuguaglianza non è sinonimo di povertà
Matteo Milanesi
10 aprile 2021
https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... i-poverta/
In molti sostengono che il raggiungimento dell’uguaglianza sia il fine ultimo della politica. Le disuguaglianze sarebbero troppe, solo l’1 per cento della popolazione detiene il 99 per cento della ricchezza mondiale, e sarebbe quindi necessario redistribuire i redditi per aiutare i ceti sociali meno abbienti.
Di primo impatto, si potrebbe supporre che una maggioranza degli italiani condivida queste affermazioni, ma la risposta non è così scontata come sembra.
Nel dibattito sulla povertà e sulle diseguaglianze, di solito non ci si pone una domanda fondamentale: parliamo di uguaglianza delle opportunità o di uguaglianza degli esiti?
Il filosofo Harry Frankfurt, nell’opera “Sulla disuguaglianza”, scrive: “Pochi sarebbero pronti a sostenere che la disuguaglianza è un male peggiore della povertà. I poveri soffrono perché non hanno abbastanza, non perché altri ne hanno di più, né perché qualcuno ha decisamente troppo”. E continua: “La sfida fondamentale non è costituita dal fatto che i redditi degli americani siano ampiamente diseguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere”.
Frankfurt ci spiega in modo cristallino una verità inconfutabile: non è colpa dei ricchi o degli ultra-ricchi se ci sono i poveri. Anzi, espropriando i redditi ed i patrimoni dei primi, si arriverebbe sicuramente ad una uguaglianza tra cittadini, ma livellata verso il basso, con meno ricchezza e più povertà per tutti. Di conseguenza, minore produttività e progressivo peggioramento della qualità della vita. Insomma, arriveremmo al sogno (o incubo) marxista (e Dio ce ne scampi!).
E allora, quale può essere la soluzione? Frankfurt spiega: “Mostrare che la povertà è intimamente indesiderabile non contribuisce in nessun modo a mostrare che lo è anche la diseguaglianza economica”.
Tradotto: il problema non è il disequilibrio fra l’ultraricco ed il più povero; piuttosto capire se ad entrambi sono state concesse le medesime opportunità, le stesse libertà e gli stessi diritti.
Se sussistono queste condizioni – ed è tutto da verificare – poi ognuno si svilupperà secondo le sue capacità naturali, ma pur sempre partendo ad armi pari.
Esiste una radicale differenza – come ci spiegava anche Friedrich von Hayek, tra i padri del liberismo – tra il trattare le persone allo stesso modo ed il cercare di renderle uguali.
L’uguaglianza deve essere tradotta come uguaglianza delle opportunità, quindi uguaglianza davanti alla legge e parità di trattamento da parte dello Stato, senza nessun ostacolo dogmatico, burocratico ed arbitrario che impedisca a ciascuno di sfruttare le proprie capacità per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Prima di aumentare ulteriormente le tasse
Prima di aumentare ulteriormente le tasse, vanno ridotte drasticamente le spese per i tanti ingiustificati privilegi, i troppi oltraggiosi parassiti e gli inutili e demenziali sprechi e sperperi; tra questi ultimi le spese per accogliere e ospitare i clandestini e gli asilanti/rifugianti veri e presunti che siano, tra cui i minori non accompagnati, quelle per sostenere i terroristi nazi maomettani detti impropriamente palestinesi e quelle per aiutare i paesi dell'Africa e del cosidetto terzo mondo anche asiatico e americano e indirettamente tutte quelle categorie di cittadini italiani che vivono e lavorano in funzione di queste spese.
Certo in caso di bisogno come in questo di crisi economica da pandemia si sarebbe dovuto procedere doppiamente in questo senso e solo dopo si sarebbe potuto chiedere e pretendere un contributo ulteriore ai più ricchi.
Cacciari si iscrive al partito delle tasse: "La proposta di Letta? Il minimo sindacale..."
Claudio Rinaldi
21 Maggio 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1621603604
Il filosofo Cacciari non ha dubbi: "Siamo strani. In altri Paesi la tassa di successione è molto più alta che da noi e non ci sono mica i comunisti"
“È il minimo che si possa fare”. Il filosofo Massimo Cacciari non ha dubbi: l’idea di aumentare la tassa di successione su eredità e donazioni, lanciata dal segretario Pd Letta e subito osteggiata da tutto il centrodestra, è “una proposta ragionevole che condivido in toto”.
Ma le sembra il momento? Anche Draghi ha detto: non adesso…
“Sì, se non è questo il momento, quando allora? Viviamo in un paese strano. In altri Stati come il Giappone, ci sono tasse di successione pesantissime e non sono certo dei comunisti”.
Però dopo una crisi sanitaria ed economica di queste dimensioni…
“Ma guardi che stiamo parlando di un aumento delle tasse per l’1% della popolazione, quello più ricco, che ha patrimoni sopra i 5 milioni di euro”.
A chi gioverebbe questa riforma?
“È una manovra di un’equità sociale evidente. Servirebbe a finanziare i più giovani, molti dei quali saranno precari per molto tempo e avranno difficoltà a trovare lavoro. E poi sa una cosa…”.
Cosa?
“A un certo punto dovremo pure affrontare il debito incredibile che abbiamoa accumulato in questi mesi. Speriamo che Draghi riesca a gestire la situazione nel modo più indolore possibile, ma qualche manovra in casa dovremo pure riuscire a farla e questa, assieme alle riaperture, mi sembra un buon punto di partenza”.
È contento che il Paese finalmente stia riaprendo?
“Beh, non potevamo mica restare chiusi in casa a vita. Mi pare evidente…”.
Si è aspettato troppo?
“L’importante adesso è tornare alla normalità. Ma d'altronde con le vaccinazioni che corrono non si poteva di certo aspettare altro tempo”.
Qualcuno un mese fa aveva parlato addirittura di rischio calcolato male…
“E invece è un rischio calcolato benissimo. Ma le riaperture da sole non basteranno. Servono riforme strutturali che diano voce agli ultimi e questa proposta sull’aumento della tassa di successione è davvero il minimo sindacale”.
Ugo Sais
Non in tutti i paesi esiste questa tassa; Svezia, Portogallo, Norvegia, Malta, Canada, Nuova Zelanda, Australia... per esempio, non hanno alcuna tassa di successione. Comunque piuttosto che concentrarsi su una singola imposta bisognerebbe valutare l'imposizione fiscale totale che è già molto alta soprattutto in relazione si servizi che lo stato eroga.
Giorgio Fanelli
Ugo Sais ma che centra malta il canada l Australia, noi dobbiamo confrontarci con gli altri paesi Europei
Ugo Sais
Giorgio Fanelli; Portogallo, Malta, Slovacchia, Estonia fanno parte della EU. Svezia e Norvegia sono Stati europei. Non facciamo il "cherry picking". E poi, ripeto, non è questo il punto ma bisogna considerare l'imposizione fiscale totale e da quel punto di vista siamo nei primissimi posti (sia in eU che nel resto del mondo).
Lo Stato moderno nasce all’insegna dell’uguaglianza in base alla comune cittadinanza.
Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo.
Monica Lampugnani
https://www.facebook.com/groups/8991042 ... 7023366958
Questo riconoscimento ha influito sulla mentalità corrente degli uomini sempre meno disposti a riconoscere il merito degli altri e ad approvare il successo come conseguenza del merito. In questo modo il sentimento di uguaglianza, un sentimento nobile e ormai condiviso in tutte le società civili, paradossalmente ha moltiplicato le ragioni dell’invidia, fino a intaccare e a modificare il concetto di giustizia. Il marxismo, che da questo punto di vista è l’estrema radicalizzazione del cristianesimo, ritiene infatti che la semplice uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in grado di garantire una giustizia solamente formale, perché quella sostanziale può essere assicurata solo dall’uguaglianza economica, in modo che tutti possano disporre delle stesse opportunità. L’invidia è uno tra i più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitaliste. Nelle prime, infatti, si utilizza l’invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instaurare un’uguaglianza in cui si svuotino le ragioni stesse dell’invidia; nelle seconde si “produce” e si “vende” invidia per stimolare l’emulazione e quindi lo sviluppo del mercato.
Passione e resistenza: Intervista a Ugo Volli
10 gennaio 2022
http://www.linformale.eu/passione-e-res ... ugo-volli/
Da lunghi anni Ugo Volli presta la sua voce appassionata e lucida alla lotta contro l’antisemitismo e alla difesa di Israele, due facce inseparabili della medesima medaglia. In occasione della prossima uscita, il 13 gennaio, di Mai più! Usi e abusi del giorno della memoria, Edizioni Sonda, il suo ultimo libro, un testo breve e necessario come tutti quelli che nascono dall’urgenza di dire cose vere e scomode, L’Informale lo ha intervistato.
Mai Più! Usi e abusi del Giorno della Memoria, a breve in libreria, si offre come uno strumento per aiutare a comprendere cosa significa a settantasette anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ricordare la Shoah. Mi vorrei soffermare sul termine problematico del titolo, “abuso”, per chiederti quale è, secondo te, il rischio maggiore oggi dell’abuso nel celebrare questa ricorrenza.
Un osservatore sensibile non può non cogliere un’insoddisfazione abbastanza generale per il modo in cui in generale è celebrato oggi il Giorno della memoria; spesso si tratta di omaggi retorici e solo formali per le vittime di una violenza contro gli ebrei che non è mai del tutto cessata ed è ancora fra noi, in molti ambienti accettata come normale. Ma l’omaggio formale non è un abuso bensì piuttosto un’insufficienza di comprensione e partecipazione. Gli abusi veri e propri sono di coloro che mistificano il senso del ricordo, che per esempio cercano di staccare la Shoà dall’odio millenario verso gli ebrei coltivato dalla Chiesa, ma poi anche dagli intellettuali laici e illuministi. È un abuso anche cercare di mettere assieme tutte le stragi e i genocidi e perfino i disastri naturali, perché in questa maniera si confondono le cause specifiche e si nascondono le responsabilità storiche L’abuso peggiore è però di quelli che cercano di usare la Shoà contro gli ebrei e la loro autodeterminazione nazionale, per esempio parlando, senza alcuna base fattuale, di Israele “che si comporta come i nazisti” o di Gaza “come Auschwitz”.
In cosa consiste, al di là della formula ormai sclerotizzata del “non dimenticare”, l’importanza essenziale di ricordare questo evento, oltre alla necessità di fare memoria e dunque di inserirlo all’interno di una continuità storico culturale che è, principalmente legata alla storia del popolo ebraico, ma è anche parte inevitabile della storia dell’umanità?
La Shoà è stata un’immane catastrofe, un evento unico per il carattere programmatico e per così dire industriale dello sterminio di un popolo, avvenuto nel continente che si riteneva più evoluto, ai danni di cittadini spesso indistinguibili da tutti gli altri, caratterizzati solo dalla fede religiosa dalla particolarità culturale o dalla discendenza. Esso per questa ragione è davvero unico. Ma da un altro punto di vista è la continuazione di un odio che con vari pretesti dura da oltre due millenni e che ha investito tutta l’Europa e il mondo islamico. Il punto centrale è che esso non è affatto terminato con la Shoà, ma continua nei confronti del popolo ebraico, dei singoli ebrei e oggi si concentra soprattutto contro il loro stato, Israele. L’importanza del ricordo della Shoà non è solo far capire quali siano state le conseguenze di quest’odio in passato, ma prevenirlo o combatterlo oggi e per il futuro.
Il tuo impegno nella difesa di Israele è ben noto. Quanto è urgente per te nel momento in cui si fa ricordo del passato, unire militanza a favore di Israele e necessità di ricordare le vittime della Shoah?
Non ha senso, non è onesto ricordare gli ebrei uccisi perché ebrei ed essere solidali o indifferenti rispetto a chi cerca oggi di nuovo di uccidere altri ebrei perché ebrei. Un nuovo genocidio degli ebrei è il progetto più o meno esplicito dei palestinisti, dell’Iran, di quello che si usa chiamare “fronte del rifiuto”. Rispetto ad essi l’Unione Europea e in genere l’opinione politica e intellettuale che si vuole “progressista”, mostra comprensione e spesso vera e propria complicità. Ricordare correttamente la lezione della Shoà oggi richiede la difesa di Israele.
Come evidenzi nel testo, tra le varie giornate istituite nel mondo per fare ricordo della Shoah, quella israeliana si chiama Yom Hazikaron laShoahve–la Geuvurah, cioè «giorno del ricordo del genocidio ebraico e dell’eroismo”. Si abbina la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia alle vittime della furia nazista. È un modo per respingere il paradigma invalso dell’ebreo soccombente e agnello da macello e sottolineare che gli ebrei sono anche combattenti e resistenti. Il loro Stato, dal 1948 ad oggi è lì a testimoniarlo. Non sarebbe ora, anche in Europa di fare questo parallelo? E perché non viene fatto?
Non c’è stato solo il ghetto di Varsavia, le rivolte contro le forze immensamente predominanti dei tedeschi vi sono state anche in molti altri ghetti e campi di quel tempo. Gli ebrei si sono uniti, dovunque hanno potuto, ai partigiani. Per fare un solo nome, anche Primo Levi è stato catturato in montagna con un gruppo di partigiani. C’è stata in tutt’Europa una partecipazione ebraica alla Resistenza molto superiore alla proporzione numerica. Nella mia famiglia mio nonno, di cui porto il nome, è stato attivo nella Resistenza a Roma. Tutto ciò è stato occultato soprattutto per due ragioni: perché il movimento comunista ha sottolineato la propria egemonia sulla Resistenza, cancellando nei limiti del possibile le altre forze politiche e le altre ragioni per combattere il nazifascismo, fra cui la dimensione nazionale e religiosa non solo degli ebrei. E perché la Chiesa, quando si è decisa a farlo, ha trovato il modo di comprendere la Shoà sotto la categoria cristologica della vittima innocente, dell’”agnus Dei”, dell’Olocausto come sacrificio, imitata in questo dall’opinione pubblica progressista. Questa impostazione presenta anche per loro il vantaggio di tagliare il legame che invece è essenziale fra Shoà, antisemitismo e antigiudaismo.
Nell’introduzione del libro scrivi, “La resistenza ebraica è l’obiettivo del progetto eliminazionista, il motivo percepito della militanza che anima il progetto genocida, sia esso fisico che solo culturale”. Questo a me pare il plesso della questione, ovvero il nucleo incandescente su cui si innesta l’antisemitismo, ovvero la perseveranza ebraica nel volere restare ebrei nonostante tutti i tentativi posti nel corso della storia nel volere dissolvere questa identità. Vuoi elaborare il punto?
In seguito a sconfitte militari o a disastri economici gli ebrei hanno vissuto in prevalenza dispersi fra altri popoli negli ultimi due millenni, ma anche prima durante gli esili in Egitto e in Babilonia. Ma non si sono assimilati, hanno conservato la loro identità religiosa e culturale, rifiutando di fondersi e confondersi con civiltà che si ritenevano più avanzate e moderne. Si tratta di un fenomeno unico nella storia per vastità e durata. Questa ostinazione a restare se stessi è ciò che io chiamo resistenza ebraica. Non tutti hanno resistito, naturalmente, ma sempre sono rimasti dei “resti” abbastanza numerosi da perpetuare l’ebraismo. Questo rifiuto di diventare “come si deve”, di accettare la propria sconfitta culturale assumendo le vesti del vincitore, di convertirsi dunque all’ellenismo, al cristianesimo, all’islam, al marxismo, alla globalizzazione postmoderna, provoca in chi ritiene di aver diritto ad assimilare tutti insicurezza e quindi rabbia e odio. Basta leggere le pagine sugli ebrei di grandi intellettuali liberi, alfieri della tolleranza come Voltaire e Kant, senza neppure arrivare ai nazionalisti intolleranti come Wagner o Fichte o ai fanatici religiosi come Lutero, per vedere all’opera questo meccanismo micidiale.
Porre in essere la questione dell’identità, di una ben precisa continuità storico-culturale, di una fedeltà ininterrotta a tradizioni, valori e storie, oggi è considerato un peccato grave, perché ritenuto divisivo, discriminatorio. È uno dei motivi per cui Israele è percepito anche da molti ebrei come uno Stato troppo legato alla sua specificità identitaria. Non siamo qui, ancora dentro quella potente corrente del “progetto eliminazionista”, in senso culturale, e cosa si può fare a tuo avviso se si può qualcosa per modificare questo stato di cose?
Il progetto di uniformare l’umanità è ricorrente e caratterizza tutte le visioni imperiali: in Cina come a Roma, nel cristianesimo come nell’islam, nell’illuminismo europeo come nel marxismo vi è l’idea che costumi, cultura, sistemi politici ed economici, soprattutto quel complesso che noi oggi chiamiamo ideologia, debba essere unificato. Ci sono due ragioni per questo, entrambe nobili ma sbagliate. La prima è la confusione fra uniformazione ed uguaglianza nel senso di giustizia: tutti debbono essere uguali perché nessuno può essere lasciato sotto o sopra gli altri. L’immagine recente più iconica di questa ragione è quella della rivoluzione culturale cinese, in cui tutti dovevano portare la stessa uniforme, da Mao all’ultimo contadino. La seconda idea è che chi non si comporta anche nei dettagli secondo la giusta ideologia, chi non usa le parole giuste, non prega non si accoppia e non mangia come “si deve” ignora il progresso e, peggio, lo nega; dunque divide e disarma il popolo nella sua battaglia per un futuro migliore. È dunque un traditore degli ideali, un nemico dell’umanità, va combattuto e cancellato. Anche oggi siamo in un periodo in cui questa illusione post-politica regna in Occidente, in forma più o meno acute, dal consenso progressista degli intellettuali e dei media alla militanza woke e alla cancel culture. Si tratta di fenomeni in buona parte illusori e regressivi, che fanno parte di un suicidio culturale e non di un imperialismo trionfante. Sono però anche più pericolosi per questo aspetto nichilista e vanno combattuti, riaffermando il valore delle differenze, la legittimità di essere parti e particolari, all’interno di un quadro di diritti valido per tutti ma non uniformista, che è il sistema democratico. L’ebraismo in questo può avere un ruolo importante, proprio per la sua tradizionale capacità di resistere alle uniformazioni.
"Mi accusano di essere reazionario e pessimista. Hanno ragione"
Giulio Meotti
29 gennaio 2022
https://meotti.substack.com/p/mi-accusa ... MHCij2CPok
Dal giornale tedesco Kleine Zeitung di oggi l’intervista al filosofo francese Alain Finkielkraut, che in Italia ha pubblicato L’identità infelice e In prima persona. Finkielkraut è una delle ultime personalità intellettuali che ancora “pensano” in Europa.
Ha lasciato la sinistra o la sinistra ha lasciato lei?
Se non sono più di sinistra, è perché sono di sinistra. La sinistra in Francia era un'idea intransigente di laicità. Oggi, tutta una parte della sinistra accusa la scuola laica di islamofobia. La sinistra era la scuola repubblicana basata sui risultati e sulle pari opportunità. La sinistra oggi abolisce il merito. La sinistra ha difeso una certa idea di nazione. Oggi è post-nazionale. La sinistra conosceva l'insicurezza dei più poveri. Oggi - presumibilmente per proteggere i giovani nei quartieri "sensibili" - liquida l'insicurezza come una fantasia. È stato questo multiplo tradimento che mi ha fatto lasciare la sinistra. La disputa è iniziata nel 1987, quando ho osato criticare il relativismo culturale e difendere la cultura alta nel libro "La sconfitta del pensiero". La sinistra mi ha accusato di pensiero elitario. Diceva che la cultura di massa doveva essere difesa in nome dell'uguaglianza. Per Chesterton, il mondo era pieno di virtù cristiane impazzite. Penso che sia anche pieno di virtù democratiche impazzite. L'uguaglianza è un'idea nobile. Ma mezzo secolo fa la sinistra ha cominciato a sacrificarlo a un egualitarismo che rasenta il nichilismo.
Per i suoi avversari, lei è un reazionario, antimodernista, nostalgico e pessimista. La offende?
Rivendico queste attribuzioni. Ma mi stupisce vivere in un'epoca che criminalizza la nostalgia. Forse ha a che fare con il fatto che oggi ci troviamo in un'Europa della diversità che accusa di razzismo chiunque guardi con nostalgia ad altre epoche. Più questa diversità è conflittuale, più siamo costretti ad amarla. Et voilà, ecco il paradosso!
Nessuna delle accuse la tocca?
Mi diverte che mi si accusi di antimodernismo. Amo l'arte moderna e ho adottato la definizione di modernità di Milan Kundera. Essere moderni, ha detto, significa avanzare lungo un percorso ereditato verso nuove scoperte. In questo senso, sono moderno. Ma non credo più nel progresso.
Perché no?
Quello che una volta si chiamava progresso si è trasformato in un processo inquietante. Walter Benjamin diceva che secondo Marx le rivoluzioni erano la locomotiva della storia mondiale. Mi sento un discepolo di Benjamin e Kundera. Ma il fatto che mi si accusi di razzismo mi dà fastidio. Perché l'antisemitismo di oggi si presenta come antirazzismo. Gli ebrei sono accusati di ripetere i crimini dei nazisti contro gli ebrei. Nessuno mi dice più "sporco ebreo". Ora sono uno “sporco razzista!".
Lei è stato vittima di un attacco antisemita a Parigi due anni fa.
Stavo tornando a casa. C'erano circa 20 aggressori. Gridavano: "Sparisci! Torna a casa in Israele!". Ero sbalordito, i poliziotti sono venuti in mio soccorso. A casa dissi a mia moglie che mi era successo qualcosa di strano. Proprio allora il telefono squillò. L'attacco era stato filmato con il mio cellulare e pubblicato su internet. La gente era inorridita. Questo mi ha confortato.
Lei è figlio di immigrati polacco-ebraici. Suo padre è sopravvissuto ad Auschwitz. Nel suo nuovo libro "Ich schweige nicht" (Non tacerò) si rammarica di non aver parlato di più con loro di quello che hanno vissuto. Cosa vorreste chiedere?
Chiederei solo dei dettagli. Chiedevo a mio padre: come sono stati i tuoi giorni ad Auschwitz? E io lo spingevo ad andarci con me. Ma con i genitori è sempre particolare. Non credo in un aldilà, ma se ce ne fosse uno, la prima cosa che chiederei a Dio è di rivedere i miei genitori, in modo da poter continuare a parlare da dove siamo stati interrotti.
Vede il mondo occidentale in declino. Cosa la preoccupa?
Dobbiamo rifondare la scuola, bandire il nichilismo egualitario e reintrodurre l'aspirazione e l'eccellenza. Se questo non avverrà, la cultura non potrà sopravvivere. Ma dal punto di vista socio-politico, il clima in Francia è esplosivo. Il dialogo non è più possibile lì.
Perché no?
In termini socio-politici, la democrazia non è più percepita come una tribuna per il dibattito, ma come un movimento storico emancipatore. Se ti rifiuti di andare avanti, sei un ostacolo sulla via della liberazione. Non meriti di vivere. Per esempio, è molto difficile avere una discussione ragionevole sulla questione dei transgender. Se dici che è un problema, vieni immediatamente catalogato come transfobico. E se sei transfobico, il tuo pensiero è criminale.
I suoi avversari diranno che questo è il piagnisteo di un vecchio bianco. Hanno ragione?
Ho 72 anni, ma la mia malinconia è condivisa dai giovani che sfuggono miracolosamente all'indottrinamento e allo zeitgeist. Nel mio pensiero, quindi, non mi sento affatto vecchio.
Da dove viene il grande potere di seduzione delle nuove ideologie politico-identitarie?
Una volta sono rimasto colpito dal necrologio di Octavio Paz su Sartre. In esso, parla del masochismo moraleggiante che paralizza molti intellettuali in Europa. La critica era indispensabile, ma l'avevamo messa al servizio del nostro odio per noi stessi. Per il sociologo Ulrich Beck, l'Europa di oggi è nata per porre fine a 1500 anni di violenza sanguinosa. Vuoto sostanziale, apertura radicale, questa è la sua formula suggestiva. L'identità dell'Europa consisterebbe nell'aprirsi a tutte le altre identità. È un'Europa espiatoria che dovrebbe essere nulla perché tutti gli altri possano essere ciò che sono. Questo nichilismo prende vita nell'antirazzismo. George Floyd è stato assassinato in circostanze orribili a Minneapolis e gli studenti tedeschi, danesi e francesi portano gli stessi striscioni che in America: "Non riesco a respirare!", "Black Lives Matter!".
Qual è il problema?
L'Europa di oggi non è razzista. Facciamo un enorme regalo a Hitler quando gli sacrifichiamo la cultura europea che lui voleva distruggere. Dovremmo appoggiarci alla civiltà europea. Non dobbiamo vederci solo come innovatori. Siamo eredi. Non bruceremo Goethe a causa di Hitler! Tuttavia, per impulso antirazzista, stiamo per organizzare la più gigantesca auto-da-fé che si possa concepire.