Diego FusaroCabarettista antisionistaDavide Cavaliere
4 Febbraio 2021
http://www.linformale.eu/cabarettista-antisionista/Tutto è cominciato con “La gabbia”, il programma televisivo condotto da Gianluigi Paragone. Quest’ultimo ha fornito spazio a una serie di soggetti cabarettistici e poco raccomandabili: Paolo Barnard, Giulietto Chiesa e Massimo Fini. Ma il suo principale demerito rimane quello di aver sdoganato Diego Fusaro.
Il filosofo torinese dalla barbetta gramsciana veniva presentato come: “il filosofo dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni”. Con questa comica biografia cominciava l’ascesa mediatica di Diego Fusaro, osservata con perplessità e invidia da chiunque si occupi di politica, storia e filosofia in modo serio.
Da allora, circa sette anni fa, “l’allievo indipendente di Marx, Gramsci, Hegel e Gentile” – come è solito definirsi – ha partecipato in modo sistematico a dibattiti televisivi e radiofonici, esibendo uno stile oratorio che, con Gadda, può essere compendiato nell’espressione “enfatiche cazziate”.
Fusaro è solito tuonare contro il “turbocapitalismo” dei “Signori del Mondialismo”, cosa che fa attraverso l’assemblamento di una serie di lemmi e declamazioni. Il tutto condito con una spolverata di termini tratti dal sistema hegeliano e da quello marxista. Il suo registro è talmente povero da poter essere sintetizzato in una manciata di formule: “cretinismo economico”, “epoca della compiuta peccaminosità”, “talassocrazia del dollaro”, “lo dico nel modo più radicale possibile”, “élites finanziarie” e così via.
Nulla di nuovo. Le sue idee sono le tesi di Costanzo Preve ed Alain de Benoist ridotte all’osso e adattate alle necessità del teleschermo. Se il “socialismo della cattedra” di Fusaro è assai noto, meno conosciute sono le sue convinzioni in merito a Israele.
Per analizzare la posizione “fusariana” sullo stato ebraico bisogna fare una premessa: il nostro, da buon marxista, identifica acriticamente gli Stati Uniti d’America col capitalismo. Il novello Gramsci riduce la storia e la complessa società statunitense alla formula – di sapore schmittiano – “talassocrazia del dollaro”. Con questa locuzione intende dire, sulla scia di Carl Schmitt, che gli Stati Uniti sarebbero una “potenza di mare” – il mare è la metafora di una spazio liscio, illimitato, senza frontiere, adatto allo scorrimento delle merci –, fondata sul potere economico e mercantile ben rappresentato dalla banconota verde: il dollaro.
La repubblica statunitense intrattiene, come tutti sanno e come Fusaro sa, una relazione speciale con Israele. Il sostegno che gli Usa forniscono a Gerusalemme, alla luce del modo in cui sono concepiti gli Stati Uniti, viene interpretato come una strategia economica americana tesa a colonizzare il medioriente. Nella brutale semplificazione della realtà posta in essere da Fusaro, Israele non è il prodotto dell’epopea sionista, bensì una mera punta di lancia dell’imperialismo economico americano. Come dimostra il contenuto di questo post Facebook:
“Non fatevi ingannare. Israele è e resta uno Stato criminale, esempio insuperato di democrazia missilistica”.
Nella mistificazione operata da Fusaro, Israele è un piccolo stato colonialista e militarista, un’estensione del potere “a stelle e strisce”. Ma non finisce qua, il telegenico filosofo torinese sembra credere che Israele controlli il mondo e sia un tutt’uno con la finanza e il capitalismo. Sono eloquenti, in tal senso, le seguenti riflessioni, sempre affidate a Facebook:
“Vorrei che la finiste di inneggiare a Bolsonaro come sovranista, patriota e antiglobalista. Bolsonaro è più liberista di Reagan. Non è patriottico, ma atlantista. Non difende l’interesse del suo Paese, ma quello degli Usa nel suo Paese. E, dulcis in fundo, nel suo rapporto servile verso Israele è la chiave per valutarne l’operato”.
“Se lottate contro l’immigrazione dall’Africa e poi accettate di essere colonia di Washington e camerieri di Israele, siete dei pagliacci senza dignità”.
Non è un caso, infatti, che Fusaro abbia condiviso gli articoli complottisti e anti-israeliani di Thierry Meyssan e abbia incontrato e discusso amichevolmente con Maurizio Blondet, noto pubblicista dal paranoico antisemitismo.
Il “filosofo dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni” sembra ritenere che Israele sia la chiave di volta di un potere oscuro, invisibile, onnipervasivo definito, di volta in volta, “turbocapitalismo”, “mondialismo” o “padronato cosmopolitico”. Fusaro ripropone la vecchia tesi del “complotto pluto-giudaico-massonico” rivestita di materialismo scientifico e invettive antiamericane.
Il logico corollario della suddetta visione è il sostegno che garantisce ai regimi illiberali e alle teocrazie, da lui definiti “eroici” e “resistenti” – quest’ultima è una parola chiave della retorica antimperialista. Sempre su Facebook scrive:
“Io non legittimo la resistenza dell’Iran all’imperialismo made in Usa: la esalto”.
Fusaro esalta un regime ierocratico, oscurantista e terrorista. Alle democrazia basate sull’economia di mercato, non certo prive di contraddizioni, preferisce una tirannia fondata sulla forca. A lui si adatta alla perfezione quella frase di Ayn Rand contenuta ne “La rivolta di Atlante”, che recita: “Il farabutto che dice di non vedere alcuna differenza fra il potere del dollaro e quello della frusta, dovrebbe imparare la differenza sulla sua stessa schiena”.
Fusaro è solo l’ultimo e più farsesco filosofo sedotto dall’illusione di Siracusa, quella che spinse Platone nella città siciliana per affiancare il tiranno Dionigi il Giovane. Le esibizioni filotiranniche dell’autore sono il portato della vecchia ideologia marxista che lo possiede e che gli mostra una realtà capovolta: quella di una democrazia occidentale gravida di intenti autoritari ben più nocivi di quelli dei regimi palesemente dittatoriali. Tale convinzione permette a Fusaro di chiudere gli occhi con la coscienza pulita davanti alla violenza, al terrore, all’antisemitismo, al totalitarismo dei nemici dell’Occidente.
Che cosa abbiamo fatto per meritarci Diego Fusaro?di Raffaele Alberto Ventura pubblicato martedì, 7 aprile 2015
http://www.minimaetmoralia.it/wp/che-co ... ego-fusaro In principio era un sito Internet intitolato “La filosofia e i suoi eroi”. Nei primi anni Duemila, chi cercasse in rete informazioni su Platone o Aristotele poteva facilmente imbattersi in queste pagine redatte da uno studente torinese di nome Diego Fusaro. Il sito era una galleria di santini animata da una visione schematica della storia del pensiero, ricalcata dai manuali, ma trasudava di un entusiasmo impressionante. Una decina di anni più tardi, nel 2013, il loro autore veniva annoverato da Maurizio Ferraris su La Repubblica tra i più promettenti giovani filosofi d’Europa.
Ho assistito alla folgorante ascesa mediatica di Diego Fusaro con un misto d’invidia e di stupefazione. Invidia perché, essendo suo coetaneo e avendo fatto gli stessi studi, ammetto che non mi dispiacerebbe affatto pubblicare libri con i più prestigiosi editori, dirigere una collana di testi filosofici, andare in televisione a tuonare contro il capitalismo e l’ideologia gender, partecipare a convegni col fior fiore degli intellettuali infrequentabili, condurre un programma su Radio Padania, rilasciare alla stampa russa interviste a sostegno di Vladimir Putin, fare dei selfie con Marione Adinolfi e infine essere definito “filosofo dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni”.
Stupefazione, tuttavia, perché a leggere e ascoltare certe esternazioni di Fusaro si può avere l’impressione di avere a che fare con un idiot savant che ripete meccanicamente degli slogan. Stupefazione, anche, per come Fusaro sia riuscito a non far pesare la sua progressiva radicalizzazione politica sul credito che gli prestano editori come Il Mulino, Bompiani e Feltrinelli. Così, come se nulla fosse, uno storico editore della sinistra italiana ha potuto affidare una monografia su Antonio Gramsci al promotore di un Fronte Nazionale Italiano. Nessuno sembra voler fare caso al fatto che il Gramsci di Fusaro, anti-scientifico e nazionalista, sia una filiazione diretta del gramscismo di destra teorizzato negli anni Settanta da Alain De Benoist. Un Gramsci fascista se teniamo fede alla definizione che De Benoist fornisce del fascismo come, appunto, “variante del socialismo avversa al materialismo e all’internazionalismo”.
Com’è potuta accadere questa cosa che chiamiamo Diego Fusaro? Alle fondamenta dell’edificio c’è una rapida carriera accademica, sostenuta dall’impressionante socievolezza del giovane Fusaro con alcuni grandi vecchi della filosofia italiana, a cominciare da Giovanni Reale e Gianni Vattimo. E poi l’incontro col pensiero di Costanzo Preve, studioso di Marx che teorizzò il superamento della dicotomia destra-sinistra, caldeggiando la nascita di un fronte comune — “rossobruno” come dicono alcuni, o “eurasiatico” come dicono altri — contro il capitalismo. Per questo motivo, alla fine della sua vita Preve si trovò a pubblicare i suoi libri per editori di estrema destra (Edizioni all’insegna del Veltro, Settimo Sigillo…) accanto a Julius Evola, Corneliu Codreanu e Robert Faurisson.
È da Preve che Fusaro prende le sue idee principali, ma è soltanto traducendole in un sistema di frasi a effetto che il giovane filosofo trova la ricetta adatta per bucare lo schermo. La sua strategia “nazionale-popolare”, programmaticamente gramsciana, si pone come obiettivo di “creare un nuovo senso comune” tenendo conto dei “semplici” (bontà sua) al fine di creare un “fronte trasversale” contro il “capitalismo trionfante”. Tutto questo, tuttavia, senza mai definire chiaramente le caratteristiche del suo progetto politico radicale.
Sicuramente Fusaro non è fascista, poiché autocertifica di non ammirare Hitler o Mussolini; sicuramente non è leghista, avendo preso duramente le distanze da Salvini; ma per sua stessa ammissione si considera più vicino al programma di CasaPound che a quello di Tsipras. Marxista, Fusaro? Questo proprio no, a meno di considerare marxista chiunque abbia il vezzo di citare Marx, e ultimamente sono tanti e insospettabili, da Alain De Benoist a Marine le Pen: Fusaro stesso si definisce “allievo indipendente di Marx e Hegel”, come già Preve prima di lui, ma il suo immaginario politico assomiglia quello del socialismo controrivoluzionario otto-novecentesco che culmina nel circolo Proudhon. Pare di avere a che fare con un caso particolarmente acuto di “marxismo immaginario”, per citare Raymond Aron… Forse è vero che destra e sinistra non esistono più, e allora dovremo trovare nuove parole. Non tanto per capire meglio le trasformazioni del piano ideologico — roba vecchia, del secolo scorso! come direbbe il giovane filosofo — quanto per taggare con maggiore precisione i nostri tweet: allora diciamo che Fusaro è indubbiamente un #sovranista e approssimativamente un #lepenista.
Malgrado la giovane età, Diego Fusaro è già fatto maestro nell’arte in cui eccellono i più celebrati filosofi contemporanei: quella di riuscire a trattare qualsiasi problematica dicendo sempre le stesse quattro cose, assumendo inoltre un linguaggio e un’espressività che il pubblico riconoscerà come professorale. A differenza di altri filosofi universitari ai quali viene rimproverato di esprimersi in un idioletto indecifrabile — ad esempio usando paroloni come “idioletto” — Fusaro parla e scrive in maniera relativamente chiara e persino pedagogica, anche se non immune da una certa tragicomica pesantezza.
La chiacchiera fusariana consiste nel montaggio semi-aleatorio di un pugno di moduli argomentativi preconfezionati, di formule declamatorie (“lo dico nel modo più radicale possibile”) e di citazioni ricorrenti (“cretinismo economico”, “epoca della compiuta peccaminosità”, eccetera). Come già segnalato sopra, molti elementi del suo discorso sono presi di peso dai libri di Costanzo Preve. Il risultato non è diverso da quello che si potrebbe ottenere con un generatore automatico e la quantità di testi generabile in questo modo è potenzialmente infinita, come testimonia la prolificità del giovane filosofo. Avventurarsi nella visione della sua gigantesca videografia su YouTube significa fare i conti con un universo di slogan ripetitivo e autoreferenziale. E per ciò stesso, incredibilmente efficace.
Talvolta il meccanismo s’inceppa e produce delle affascinanti anomalie, dei loop e dei glitch nel tessuto logico. Ecco un esempio gustoso della lingua fusariana, del suo modo di “occupare lo spazio” dicendo poco o nulla, tratto da un intervento al Festival della Politica di Mestre nel 2014:
Io credo che si tratti oggi più che mai di lavorare filosoficamente a partire da una critica delle ideologie che porti all’attenzione la critica del potere come necessariamente basata sulla critica delle ideologie.
Questa frase non passerebbe il test di Turing, celebre esperimento mentale che serve a distinguere l’intelligenza umana da quella artificiale. Ma siamo indulgenti: si tratta di uno scivolone come se ne fanno talvolta nella lingua orale. Parliamo allora del conto Twitter del filosofo, dove vengono mandati in rotazione continuamente gli stessi slogan, come se ad animarlo fosse un bot. Questo accade non perché Fusaro sia effettivamente un robot, ma perché applica un preciso metodo che si apprende nelle facoltà di filosofia. Una tecnologia espressiva della quale oggi l’ineguagliato campione è Umberto Galimberti, grande copia-incollatore di testi propri e altrui: con elevatissimi tassi di riciclaggio da un libro all’altro — fino al 95% — l’editorialista del magazine D di Repubblica ha tracciato la via del suo giovane erede.
Il metodo combinatorio, in effetti, si applica anche allo scritto. La carriera accademica di Fusaro segue il ritmo delle numerose pubblicazioni scientifiche, come il recente Fichte e l’anarchia del commercio. Si tratta di una lettura de Lo Stato commerciale Chiuso di Johann Gottlieb Fichte, testo feticcio della nuova destra ripubblicato nel 2009 per le Edizioni di Ar da Franco Freda, già fondatore del primo Fronte Nazionale italiano. Più che un vero saggio di storia delle idee, il libro di Fusaro è un capolavoro nell’arte di allungare il brodo: due o tre occorrenze per ogni singola citazione da Fichte; la tesi del libro parafrasata decine di volte cambiando l’ordine delle parole ma senza mai riuscire a darle maggiore profondità; grappoli di frasi identiche una dietro l’altra. Se vi siete mai chiesti come sia possibile realizzare un libro di 274 pagine con il materiale che serve a riempirne tutt’al più una cinquantina, un indizio tiene in questa semplice citazione dal testo (pp. 96-97):
L’aporia può essere superata continuando a concentrare l’attenzione sul mondo storico a contatto con il quale la Wissenschaftslehre come System der Freiheit si è venuta costituendo. È nostra convinzione che l’aporia possa essere superata continuando a concentrare l’attenzione sul mondo storico a contatto con il quale la Wissenschaftslehre è sorta.
Se non fosse chiaro, Fusaro sta dicendo che l’aporia si può superare concentrando l’attenzione sul mondo storico dalla quale è sorta la Wissenschaftslehre, che poi è un altro modo di affermare che si potrà superare l’aporia concentrandosi sul mondo storico a contatto della quale la Wissenschaftslehre si è costituita. La cosa più interessante è che comunque Fusaro non ci dirà assolutamente nulla di rilevante su questo benedetto contesto storico. Contrariamente a quello che ribadisce spesso, il nostro è incapace di storicizzare i testi: la sua tesi su Fichte infatti, molto simile alla sua tesi su Gramsci, è che… bisogna uscire dall’Euro! Per un’introduzione più pertinente all’opera di Fichte nel suo contesto, si preferirà leggere l’ottimo The Closed Commercial State: Perpetual Peace and Commercial Society from Rousseau to Fichte di Isaac Nakhimovsky.
Tra il 2005 e oggi Fusaro ha pubblicato più di dieci monografie. La maggior parte sembrano libri composti secondo le buone regole della scrittura filosofica universitaria e indicano una frequentazione approfondita delle fonti. Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, per fare un esempio, svolge in maniera indubbiamente scorrevole il compito di difendere la sua tesi. Tesi piuttosto contestabile, va detto, che ancora una volta è esattamente la stessa di Preve: secondo Preve-Fusaro, della tradizione marxista si deve lasciar perdere l’elaborazione economica e invece concentrarsi sul lascito puramente filosofico. L’economia è, in generale, la bestia nera di Fusaro, che diffida da ogni confronto con la realtà empirica poiché potrebbe scoraggiare l’ottimismo della volontà.
È un libro che parla molto di alienazione, di feticismo, di sfruttamento, e assolutamente mai di composizione organica del capitale, di caduta tendenziale del saggio di profitto o semplicemente di teoria delle crisi. Il Marx di Fusaro sta qui semplicemente per dirci che il capitalismo è una cosa ingiusta, da abbattere a ogni costo, e non ci dice nulla sugli elementi che condannano il sistema a una perenne instabilità. Questo Marx è un Dickens che parla come un hegeliano. Appiattendo il pensiero di Marx sull’idealismo tedesco, Fusaro può facilmente liberarsi di tutto ciò che nel pensatore di Treviri appartiene alla tradizione del marxismo novecentesco e tornare alla fonte di un socialismo pre-scientifico, pronto per convergere con nazionalismo e comunitarismo. E d’altra parte, questo suo lavoro sull’attualità del pensiero di Marx — fermo circa ad Althusser — astrae totalmente dai più recenti dibattiti.
Vizi di forma esclusi, affinità elettive con i neofascisti a parte, c’è ancora chi sostiene che Fusaro porti avanti una critica necessaria del pensiero dominante del nostro tempo. In realtà, Diego Fusaro deve la sua fortuna alla capacità che ha avuto di occupare di forza un certo territorio ideologico, quello della critica del Sessantotto inteso come momento culminante del capitalismo — una critica popolarizzata da Michel Houellebecq con vent’anni di anticipo e molta più finezza, ripresa con originalità da Jean-Claude Michéa nei primi anni Duemila, ma in fondo già evidente a marxisti come Michel Clouscard e liberali conservatori come Raymond Aron che vivevano “in diretta” il maggio francese e ne coglievano con lucidità le contraddizioni.
Il pubblico di Fusaro è fatto di chi, non avendo avuto modo di sentire altrove certe idee, si convince che queste siano originali e controcorrente. Si convince quindi che esista una dittatura del “pensiero unico” semplicemente perché si abbevera egli stesso alle fonti della cultura dominante e non riesce a concepire che magari è la sua concezione di destra e di sinistra ad essere caricaturale. Ogni volta che legge un trafiletto su Judith Butler e la teoria del gender, marginalissima moda intellettuale non più rilevante del balconing, invece di farsi una bella risata lo prende come indizio di un progetto mondialista che minaccia direttamente il suo uccello. Questa non è critica dell’ideologia, e nemmeno dialettica conservatrice: è retorica populista, buona solo per arringare le folle.
Non avevamo certo bisogno di Fusaro per aprirci gli occhi sulle contraddizioni della sinistra e del capitalismo, eppure eccolo qui. Qualcuno lo applaude per avere scoperto l’acqua calda e lui la butta giù a secchiate su facili capri espiatori, nella più nobile tradizione di un “socialismo degli imbecilli” (cit. August Bebel) incapace di vedere all’opera le forze dell’economia dietro i comportamenti degli individui. Nel frattempo, la stampa, l’editoria e l’accademia continuano a fare come se fosse tutto normalissimo: d’altra parte questo ragazzo va in televisione, non lasciamocelo scappare! Altrimenti chi se lo compra un libro su Gramsci?
Corea del Nord e Stati Uniti, chi oggi rappresenta il vero pericolo per la pace?Diego Fusaro
Filosofo
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... ce/3834656Si continua ormai da mesi a discutere, senza troppe variazioni sul tema, sul pericolo rappresentato dalla Corea del Nord e dalla sua disponibilità di armi nucleari. Il dibattito, tuttavia, per chi sappia avventurarsi al di là degli steccati del pensiero unico e del teatro delle ideologie dominanti, è intrinsecamente falso nelle sue stesse fondamenta.
Provo a fare chiarezza, nel modo più semplice e diretto: sarebbe giusto e onesto chiedere alla Corea del Nord il disarmo, se il richiedente fosse esso stesso disarmato o, più realisticamente, si disarmasse contestualmente anch’esso. Ma non è così. Autoeleggendosi a poliziotto planetario (non mi risulta che tale incarico le sia stato assegnato consensualmente da nessuno), la monarchia del dollaro continua a reti unificate a lanciare grida d’allarme circa il pericolo rappresentato dalla Corea del Nord armata nuclearmente. Ma la monarchia del dollaro, che pretende il disarmo altrui, è pronta essa stessa, contestualmente, a disarmarsi?
Nei film western, quando i pistoleros si puntano l’uno contro l’altro la pistola, ciascuno può deporre l’arma se e solo se l’altro opera in modo analogo. Sarebbe pura follia, infatti, che uno gettasse la pistola e l’altro invece continuasse a impugnarla. Perché, dunque, la Corea del Nord dovrebbe deporre l’arma se la talassocrazia a stelle e strisce continua a essere armata fino ai denti e, di più, a esportare democrazia missilistica e a donare al mondo intero bombardamenti umanitari? Se la Corea del Nord gettasse l’arma, firmerebbe la propria condanna a morte: ossia la propria ridefinizione come colonia periferica del nuovo ordine mondiale atlantista.
Ricordo, per incidens (e a beneficio degli smemorati con interesse), che ad oggi le bombe atomiche sulla popolazione le ha gettate la liberalissima monarchia del dollaro e non la totalitaria Corea del Nord. Se, come si dice, quest’ultima è impresentabile, che dire allora di una potenza che ha sterminato centinaia di migliaia di innocenti con armi nucleari? Se la Corea del Nord è – come in larga parte è – oscena per la mancanza di libertà d’espressione e di diritti civili, che dire degli Usa, dove i signori apolidi del big business coesistono con immense nuove plebi emarginate, senza tetto e senza diritti sociali garantiti?
La Corea del Nord, se non altro, per quel che ne so, non si erge a modello universale per i popoli del pianeta. Il vero problema – lo sappiamo – è che il nuovo ordine mondiale post-1989 ha assunto un aspetto neoimperiale: il mondo intero deve, con le buone o con le cattive, subordinarsi all'”unica nazione indispensabile”, come Bill Clinton, il paladino degli spin doctors del progressisimo, ebbe a qualificare gli Usa. Chi non si piega, viene prima diffamato come Stato canaglia, poi bombardato in nome dei diritti umani, infine costretto a essere incluso nel nuovo ordine mondiale americano-centrico, identificato con la fine (capitalistica) della storia. Ecco lo storytelling dominante dal 1989 ad oggi: esso ci permette di leggere tutti i principali conflitti nel mondo post-sovietico (Iraq e Serbia, Afghanistan e Libia, ecc.).
L’happy end è sempre il medesimo: deposizione, quando non uccisione (Gheddafi, Saddam), del “dittatore” sempre accostato a Hitler dalla pubblicistica, e ingresso dello Stato liberato, nell’open space della libertà universale della free market democracy sotto egemonia statunitense. Lo sappiamo, nell’ordine simbolico dominante gli Stati traggono la loro legittimità non dalla sovranità popolare, dalla libera volontà del demos, bensì dalla lealtà al Fondo monetario internazionale e dal grado di asservimento alla talassocrazia del dollaro. Con tutti i suoi macroscopici limiti (se ne potrebbero certo menzionare tantissimi), la Corea del Nord è uno Stato non allineato al Washington consensus: e per questo i signori del mondialismo le hanno giurato odio imperituro. Fa bene, da un punto di vista geopolitico, a non disarmarsi: almeno fintantoché non si saranno disarmati anche quanti le chiedono di disarmarsi. È realisticamente il solo modo che ha per non capitolare. Senza esagerazioni: peggio della Corea del Nord vi sono solo gli Stati Uniti d’America. Chiedetevi, seriamente, chi oggi rappresenta il vero pericolo per la pace, la libertà e la sovranità dei popoli e avrete tutti gli elementi per inquadrare il senso della questione.
Non è guerra di religione. È guerra alla religioneDiego Fusaro
2016/08/17
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... mo/2978988La grande narrazione procede ormai dal 2001: Twin Towers, 11 settembre. La religione islamica avrebbe – si dice – dichiarato guerra all’Occidente. Ci troveremmo, dunque, nel bel mezzo di una “guerra di religione” dichiarata dal mondo islamico a quello cristiano. La si è battezzata “terrorismo”, come se Islam e terrore coincidessero in toto. Sia pure per cenni, propongo qui di rovesciare la prospettiva e di guardare le cose da un angolo prospettico diametralmente opposto: non è guerra di religione. È guerra alla religione. Non è l’Islam che ha dichiarato guerra all’Occidente. È l’Occidente del partito unico della produzione capitalistica che ha dichiarato guerra all’Islam e a ogni religione della trascendenza (cristianesimo compreso, sia chiaro).
Dopo la fine ingloriosa del comunismo storico novecentesco (Berlino, 1989), le religioni della trascendenza restano un ostacolo per l’economia di mercato: già solo in ragione del fatto che sono monoteismi alternativi a quello del mercato. Già solo in ragione del fatto che ci ricordano che il vero Dio è quello che sta nei cieli e non nelle banche; che i luoghi sacri sono le chiese e le moschee e non i centri commerciali.
Comunque la si voglia intendere, la religione della trascendenza – sia islamica, sia cristiana – è una feconda risorsa di senso e di resistenza rispetto al monoteismo idolatrico del mercato, all’integralismo fanatico dell’economia e al nichilismo assoluto della forma merce. “Il tempio è sacro perché non è in vendita”: così scriveva Ezra Pound. Per questo, il capitale ha dichiarato guerra alle religioni e aspira ad abbatterle: le fa passare per intrinsecamente terroristiche, fanatiche e violente, di modo che l’opinione pubblica sia pronta all’attacco contro di esse.
Di più, fa sì che gli islamici si illudano che i loro nemici siano i cristiani e i cristiani si illudano che i loro nemici siano gli islamici: laddove il vero nemico degli uni e degli altri è il fanatismo economico, la violenza immanente del mercato, l’integralismo liberista. In questo modo, anziché lottare insieme contro l’integralismo economico, islamici e cristiani finiscono per favorirlo: e per dissolvere se stessi in questo esiziale gioco al massacro da cui a uscire sconfitta è la religione della trascendenza.
Ce l’ha insegnato Pasolini: il contrario della religione della trascendenza non è il comunismo, ma il capitalismo. Che è ateo, nichilista e, per ciò stesso, nemico di ogni religione della trascendenza. Se il capitale, come ci insegna Marx, mira ad abbattere ogni ostacolo che lo limiti, ben si capisce perché esso oggi sia in lotta contro le religioni. È bene saperlo. Siamo nel bel mezzo di una guerra alla religione: una guerra tutta funzionale alla teologia economica del mercato, che aspira a essere il solo monoteismo legittimo, riconosciuto e venerato.
Prendiamone atto: il vero fanatismo, oggi, è quello dell’economia di mercato. Che in nome del “ce lo chiede il mercato” massacra i popoli e i lavoratori, distrugge ogni valore che non sia quello economico, abbatte ogni senso che non sia quello della forma merce.
La disuguaglianza è una categoria astrattasettembre 15, 2017
Diego Fusaro
http://www.tempi.it/cari-sfruttati-se-s ... bwfZdFx2jIFinito il conflitto di classe, resta un mondo fatto di atomi competitivi, ciascuno in cerca del riscatto individuale e della fuga solitaria dalla miseria di cui è abitatore
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Fintantoché il conflitto di classe si articolava nella forma della contrapposizione frontale e diretta, era possibile individuare tanto lo scontro quanto lo sfruttamento quale essenza del nesso di forza capitalistico come rapporto teso a spremere pluslavoro in vista della creazione di un sempre più esteso plusvalore per il quale il capitale non pagava alcun equivalente. Con la mondializzazione americano-centrica compiuta, permane lo sfruttamento senza il conflitto. In luogo degli sfruttati, i quali sono tali nella misura in cui vi sono gli sfruttatori, figurano ora gli esclusi, secondo la nuova categoria che genericamente rimanda a chi subisce, senza alcun riferimento agli agenti dell’oppressione.
Gli esclusi non sono vittime di qualcuno: semplicemente, essi non partecipano dei benefici della società opulenta basata sulla miseria dei più, né godono di un’inclusione entro il sistema dei servizi e del lavoro. La loro esclusione, tuttavia, non dipende visibilmente da un rapporto di forza incardinato sullo sfruttamento, ma solo dall’accidentalità della loro situazione sociale, come se si trattasse di un evento fortuito e senza legami con il campo di forze conflittuale in cui si articola la società.
In termini convergenti e ugualmente inscrivibili nel registro della neolingua liberista e della sua ortodossia sempre riconfermante l’ordine simbolico vigente, nel regno del blocco storico capitalistico, in cui il disoccupato stesso figura come “lavoratore in transito”, è permessa la parola “disuguaglianza” e sono, invece, banditi lemmi come “sfruttamento” e “dominio di classe”.
Desocializzare per isolare
La disuguaglianza, alla stregua dell’esclusione, è una categoria generica, che desocializza e, insieme, ipostatizza nella forma di una cosa ciò che, in verità, corrisponde a un rapporto sociale asimmetrico. Più precisamente, la disuguaglianza è un’astrazione, un nome pudico con cui viene oggi definito l’inconfessabile, ossia il sempre crescente differenziale di classe fondato relazionalmente sullo sfruttamento, sull’estrazione forzata del pluslavoro. Oltre a rimuovere la dimensione relazionale, ossia il suo fondarsi sul nesso di signoria e servitù, la categoria di disuguaglianza si rivela coerente con l’ordine simbolico in ragione del fatto che produce e consolida l’individualizzazione livellante degli esseri umani e la solitudine dei lavoratori.
Se la precedente – e ora dichiarata fuori corso – nozione di sfruttamento classista affratellava, creando un orizzonte comune e una prospettiva solidale basata sul senso di appartenenza e sulla coscienza di classe, la nuova e astratta figura della disuguaglianza produce una visione del mondo composta da atomi competitivi e conflittuali, ciascuno in cerca del proprio riscatto individuale e della propria fuga solitaria dalla miseria di cui è abitatore (cfr J. Seabrook, Classi, caste, gerarchie, Carocci). Finisce per introdurre il vangelo della competitività – nella forma iperbolica del mors tua, vita mea – anche presso il polo del Servo, tradizionalmente più vicino al credo della solidarietà. La disuguaglianza è ora percepita non già come un rapporto classista di sfruttamento, riguardante l’individuo in quanto parte di una classe, bensì come una condizione ingiusta per il singolo io narcisista dal legame sociale spezzato, aspirante unicamente alla propria salvezza personale. Quest’ultima è essa stessa intesa in forma reificata come semplice “inclusione” nel sistema dell’apartheid capitalistico.
Un fato ineludibile
Di qui la scena di ordinaria postmodernità dei soggetti mercificati e disillusi, che continuano imperterriti a ravvisare nella loro condizione di sconfitti della mondializzazione l’eldorado di opportunità individuali che, di fatto, non si concretizzeranno mai.
La ricerca solidale e condivisa di un futuro diverso e migliore in cui lo sfruttamento sia superato, ma poi anche il sogno desto di un miglioramento delle condizioni della classe cui si appartiene, cedono allora il passo al nuovo paradigma, figlio della cultura del narcisismo, in cui i singoli atomi perseguono in solitudine prospettive di riscatto individuale nel quadro della gabbia d’acciaio del capitale trasfigurato ideologicamente in fato ineluttabile. La salvezza è intesa non come rovesciamento della situazione intrinsecamente ingiusta, bensì come semplice esodo personale da quella condizione, percepita come fisiologica e dunque non trasformabile in quanto tale, se non addirittura come densa di opportunità per l’individuo in grado di volgerla a proprio favore.
Alberto Pento Si pensi alla Svizzera dove le assurdità di Fusaro non trovano alcun riscontro.
Il capitalismo ci vuole infantililuglio 25, 2017 Diego Fusaro
http://www.tempi.it/perche-il-capitalis ... huuKjdryjJIl tentativo è rendere la società per sempre giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La forma repressiva del capitalismo dialettico si è da tempo capovolta in quella permissiva del capitalismo assoluto: il suddito diventa consumatore la cui libertà si estende senza limiti fin dove si estende la sua capacità di acquisto. Alla morte di Dio segue, dunque, l’avvento non già dell’Oltreuomo profetizzato da Nietzsche, bensì del consumatore senza identità e senza spessore. Questi, a differenza dell’uomo maturo in grado di dire di no, deve essere permanentemente nella condizione del ragazzo immaturo, in balìa di desideri ai quali può soltanto cedere e ai quali, come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, non è in grado di porre fine.
Il sistema della finanza planetaria e flessibile è, per sua natura, giovanilistico non solo perché nega la possibilità delle forme mature dell’eticità e vive di quella precarietà che caratterizza fisiologicamente la fase giovanile. Accanto a questi motivi, vi è anche il collegamento tra consumismo e giovinezza, ossia la propensione degli individui di età giovane all’acquisto incontrollato di merci, alla flessibilità degli stili di vita, al godimento disinibito, al ribellismo verso le norme stabili.
A differenza dell’uomo maturo borghese, progettuale e stabilizzato nelle forme di esistenza alle quali ha scelto di consegnarsi, l’eterno giovane post-borghese e ultra-capitalistico vive l’eterno presente instabile e non stabilizzabile dell’adolescenza perpetua estesa a ogni età dell’esistenza, centrata sul godimento aprospettico, aprogettuale e senza differimenti del life is now. La vita cessa di essere concepita e vissuta come un progetto fondato sulla stabilizzazione delle sue forme: prende a essere intesa come successione rettilinea e puntiforme di istanti sconnessi ed episodici, autonomi e tutti volti in senso esclusivo alla massimizzazione aprospettica del momento.
Il giovane si riconferma, così, il soggetto ideale per l’adesione al modello consumistico americano-centrico, per il nichilismo anarco-consumistico delle moltitudini eternamente giovani, instabili, anglofone e immature. Ed è per questa ragione che la tendenza del capitalismo flessibile coincide con l’infantilizzazione del mondo della vita, ossia con il tentativo di rendere la società permanente giovane, cioè dedita al consumo senza autorità e al ribellismo verso le forme mature dell’eticità borghese (negate realmente dalla logica del capitale e avversate ideologicamente dai giovani).
Il capitalismo flessibile e precario è, per sua stessa natura, giovanilistico. Esalta il giovane, perché esso – senza diritti e senza maturità, senza stabilità e biologicamente precario e in fieri – è il suo soggetto antropologico privilegiato; e questo non solo per via della scarsa compatibilità delle fasce non giovani con la nuova logica flessibile (da cui il sempre ribadito invito che la tirannia della pubblicità rivolge anche ai non giovani a vivere come se lo fossero), ma anche in ragione del fatto che il nuovo assetto della produzione e del consumo coarta l’intero “parco umano” a vivere alla stregua dei giovani, ossia in forme provvisorie, precarie e mai mature, perennemente in attesa di un assestamento sempre differito. Il capitalismo flessibile ci vuole tutti eternamente giovani, perché, a prescindere dall’età, permanentemente immaturi e non stabilizzati, disposti ad accettare di buon grado le forme coattive della precarietà e del mondo della vita deeticizzato.
D’altro canto, se oggi si è considerati “diversamente giovani” fino a cinquant’anni, è perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività lavorativa, sia nella vita sociale sia in quella affettiva, incapaci cioè di stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme dell’etica borghese e proletaria, ormai superata dal nuovo modo della produzione flessibile, post-borghese e post-proletario.
L’imperativo del tutto e subito
La maturità borghese dell’età adulta con possibile coscienza infelice è stata sostituita dall’immaturità post-borghese con incoscienza felice dell’età giovanile. La capacità di progettare futuri stabilizzando l’esistenza mediante le forme della vita etica e mediante l’intreccio ragionato di legge e desiderio quale si esprime nell’austero imperativo categorico kantiano, ha ceduto il passo al presentismo assoluto e aprospettico della fase odierna del finanz-capitalismo. In essa, l’instabilità come cifra dell’esistenza, con la sua strutturale impossibilità di sedimentarsi in forme fisse, non permette la progettazione dell’avvenire. Impone, come unico imperativo, quello sadiano del godimento immediato e senza misura, autistico e tutto proiettato nell’hic et nunc di un presente pensato, pur nella sua instabilità, come sola dimensione temporale disponibile.
In questo scenario di deeticizzazione in atto e di precarizzazione forzata del lavoro e delle esistenze, i giovani costituiscono indubbiamente il nucleo di un progetto – silenzioso quanto violento – di mutazione antropologica orientato a trasformarli nel nuovo soggetto assoggettato al paradigma della società capitalistica planetaria.
Diego Fusaro: la filosofia come truce cabaretNiram Ferretti
2018/01/08
http://caratteriliberi.eu/2018/01/08/in ... ce-cabaretEpoca di parodie e cloni, la nostra, è anche quella di un generale adeguamento ai falsi spacciati per originali. Ormai si scommette perlopiù sull’incapacità dell’occhio a distinguere ciò che è alto da ciò che è basso, la qualità dalla sua imitazione.
Tutto è superficie, forma senza sostanza, avanzi radunati per produrre la frittata. Così, quando ci tocca leggere Diego Fusaro è come quando ci tocca vedere un film di Paolo Sorrentino. Scorrono immagini allestite da un vetrinista, da un illustratore patinato.
Con Fusaro che imita un filosofo, come Sorrentino un cineasta, e Allevi un musicista, troviamo bell’e pronto un armamentario di concetti abusati fino allo sfinimento. Fossero un pastiche, potremmo anche divertirci, purtroppo no, Fusaro è desolantemente privo di ironia. Marx, Marcuse, Bloch, Lukács, la Scuola di Francoforte, Lenin, un po’ di Hegel (povero Hegel tirato di qui e di là) e, ovviamente, il maestro di Fusaro, Costanzo Preve di cui l’allievo è il pret a porter.
Fusaro è perfetto per la nostra epoca. E’ un calco, come i gessi che imitano la scultura greca, solo che di greco in lui non si trova nulla. Il logos è stato abbandonato e al suo posto c’è la sua inconsapevole parodia, l’ideologia.
L’ideologia è un salasso della mente, una sua vampirizzazione. La priva della fatica del concetto e l’accomoda dentro un vocabolario preconfezionato affinché il pensiero vi si attacchi come la mosca alla carta moschicida. “Non si può restare intelligenti sotto l’ideologia“, scrive fulminante Alain Besancon.
Prendiamo ad esempio un articolo pubblicato da Fusaro sul suo blog e trainato da Il Fatto Quotidiano. Vi si parla di Iran, delle manifestazioni che vi hanno avuto luogo. Fusaro ci offre la sua ermeneutica, o meglio ci offre l’allestimento scenico di una koine vintage. La fucina è quella prevetiana. Le parole d’ordine sono le medesime. Saggiamone i campioni.
“La storia insegna ma non ha scolari. E, per questo, è destinata a ripetersi. Così ricordava Gramsci. E, in effetti, oggi, dopo il 1989, assistiamo a un canovaccio che si ripete sempre lo stesso. La monarchia neoleviatanica del dollaro dichiara guerra a tutti gli Stati non allineati con il nuovo ordine mondiale atlantista post-1989. Lo fa a suon di bombardamenti etici, rivoluzioni colorate, imperialismo umanitario, esportazione missilistica della democrazia”.
“Nuovo ordine mondiale”, “imperialismo” sono lemmi sperperati assai sul mercato delle idee, fanno parte del repertorio consolidato della narrativa rosso-bruna che ha fatto proprio quel verbo antimodernista e anticapitalista che annovera numi novecenteschi a sinistra come a destra, da Heiddeger a Hamsun, da Celine a Pound, da Adorno a Horkheimer, da Guenon a Marcuse a Pasolini, e così via. “Monarchia neoleviatanica” ha un buon sapore hobbesiano ed è farina del sacco di Fusaro anche se è un sacco abbondantemente pieno di farina altrui.
Dunque:
“Nihil novi. Non bombarda mai, ovviamente, per fini meschinamente imperialistici: ma sempre e solo per i diritti umani violati e per la liberazione dei popoli, id est la loro annessione nell’open space del mercato planetarizzato sotto l’egida della talassocrazia atlantista. A volte lo storytelling implode, quando si scopre che, ad esempio, non v’erano armi di distruzione di massa in Iraq o armi chimiche in Siria. Ma intanto l’obiettivo neo-colonialistico è stato raggiunto e i cani da guardia a guinzaglio cortissimo del giornalismo aziendale possono distrarre agevolmente le masse ampiamente manipolate dallo spettacolo pornografico televisivo e giornalistico”.
E’ un pezzo di vaudeville quasi espressionista se non fosse per la meccanicità della prosa, la rigidità cadaverica dei concetti. Fusaro riduce la filosofia a un cabaret lugubre, snocciola le sue battute come fossero roba seria come nel monologo sulla moglie bruciata di Felice Andreasi. La favola nera che ci racconta è quella archetipa del grande Leviatano, americano in questo caso, dell’ordo plutocratico all’insegna della de-umanizzazione e della reificazione.
Spartito suonato e risuonato sui cui margini slabbrati dal protratto uso sono visibili tuttora le impronte di Lenin, Mussolini, Hitler a cui si sovrappongono più recenti quelle di Khomeini. Infatti, quattro anni prima della sua nascita, che l’Iran rigenerò se stesso, deponendo il regime filoamericano dello Scia per abbracciare il rigorismo islamico. Anche Michael Foucault, all’epoca, salutò l’evento con grande fervore e insieme a lui numerosi altri intellettuali. Fusaro è in buona compagnia.
I custodi della fede, gli ayatollah, loro si che ci hanno saputo fare, ripristinare la lettera coranica all’insegna della sharia più integralista. Come fece Lenin in Russia (ammirato da Khomeini) si trattò di bonificare il paese col terrore. Terrore catartico, necessario, propedeutico alla palingenesi.
D’altronde, se aborrisci l’espansione del libero mercato, se detesti la libertà e il suo involontario corollario, il libertinismo, cosa c’è di meglio della Tradizione, qualsiasi veste essa possa avere? Bruna, nera, rossa, il colore della giubba non importa, l’importante è essere uniti contro monarchie neo-leviataniche all’insegna di Mammona, così come, una volta, non così tanto tempo fa, si era uniti contro il complotto demo-pluto-giudaico-massonico.
Notiamo en passant che nel dispositivo onirico di Fusaro non manca l’omaggio indiretto ad Assad, vero e proprio idolo degli antiamericani al cubo. Si trova nella frase, “non vi erano armi chimiche in Siria”. La realtà è il grande problema di molta filosofia, soprattutto quando si è sostituita la gnoseologia con le allucinazioni autoindotte.
Lo sanno anche i sassolini che dopo il massacro alla periferia di Damasco dell’agosto 2013 in cui circa 1400 persone vennero uccise con il sarin, il governo siriano si accordò con gli Stati Uniti e la Russia per la distruzione totale delle sue scorte di armi chimiche.
Distruzione totale che non avvenne mai purtroppo per le vittime successive, come testimoniano i casi degli attacchi a Talmens il 21 aprile 2014, a Sarmin e a Qmenas il 16 marzo 2015, e infine a Khan Shaikhun il 3 aprile 2017. Ma lui, il “filosofo” non lo sa. Infondo Assad è una protesi iraniana e dunque, all’occorrenza va difeso. Il problema è la “talassocrazia atlantista”.
Per quanto riguarda le fantomatiche armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, un’altra “vittima” della “monarchia neoleviatanica del dollaro”, ci sono ottime ragioni attraverso l’ampia documentazione satellitare dell’intenso traffico che si svolse tra Iraq e Siria prima dell’intervento americano del marzo 2003, che esse o i documenti e i materiali inerenti alla loro fabbricazione siano stati trasferiti in Siria. Tuttavia non è questo il punto, se in Iraq c’erano o non c’erano le armi. Quello che ci interessa sono gli assunti di Fusaro, è la sua farneticazione.
L’apice giunge ora, in questo paragrafo:
“È quel che sta accadendo in Iran: in quell’Iran che è, ad oggi, uno Stato eroicamente resistente al mondialismo imperialistico. E che, come tale, già da tempo è stato designato come bersaglio privilegiato da parte della monarchia del dollaro e delle sue colonie asservite (Italia in primis, ovviamente). Le manifestazioni di piazza in Iran debbono essere lette secondo questa chiave ermeneutica. Come un’enorme rivoluzione colorata manipolata e volta non a liberare i persiani, bensì a integrarli nel mondo “libero”, cioè sotto dominazione Usa con ridefinizione della società come regno del libero costume e del libero consumo”.
Lo schema dell’ideologo può funzionare solo in un modo, attraverso la distruzione della realtà e la sua sostituzione con una realtà astratta, monolitica, agghiacciante nella sua allucinata schematicità. Si tratta di quella realtà di secondo livello, interamente determinata dal pensiero che si contrappone a quella di primo livello, la realtà empirica dei fatti, secondo la fondamentale distinzione posta da Eric Voegelin. E ancora è Alain Besancon che ne definisce con impareggiabile lucidità il meccanismo. “Lo stato psichico del militante si distingue per l’investimento fanatico nel sistema. La visione centrale riorganizza l’intero campo intellettuale e percettivo fino alla periferia. Il linguaggio viene trasformato…ha il compito magico di piegare la realtà alla visione del mondo. E’ un linguaggio liturgico, in cui ogni formula indica l’adesione del locutore al sistema e, insieme, invita l’interlocutore ad aderirvi
Lo schemino di Fusaro è rudimentale e semplice e semplice perché rudimentale. Riassumiamolo. Esiste un potere globale, tentacolare, che il dispositivo liturgico di cui parla Besancon, definisce “mondialista” (parola totem) il cui scopo è quello dell’asservimento del pianeta alla propria volontà. A questo enorme potere oscuro, che, di nuovo, sia Lenin che Hitler avevano identificato nell’ordinamento moderno tecnologico capitalistico creato dalla borghesia imprenditoriale, si oppongono quei paesi i quali “eroicamente” (ma perché non “virilmente”?) resistono al suo imperio. Come facevano negli anni ’30 e ’40 l’Italia fascista, la Germania nazista, la Russia comunista.
L’asse rosso-bruno, l’antimodernismo salda i propri embrici. Dai totalitarismi e autoritarismi novecenteschi si passa poi con esemplare coerenza all’Islam. Antimodernista per vocazione, propugnatore di una visione di società sottomessa all’ordine del sacro. Chi meglio dell’Iran può rappresentare questa resistenza “eroica”, un paese che definisce gli Stati Uniti appunto “il Grande Satana”?
Verso la fine del suo articolo il Fusaro si chiede retoricamente dove sia finita la sinistra. E già dove è finita?
“La Destra del Danaro, con i suoi bellatores, dichiara guerra agli Stati resistenti e non allineati con il neo-leviatanico ordine mondiale atlantista, perché essi costituiscono un ostacolo al progetto globalistico di inclusione neutralizzante del pianeta nel modello unico reificato e classista. La Sinistra del Costume, dal canto suo, anziché resistere e opporsi a queste pratiche in nome della leniniana lotta contro l’imperialismo, le legittima in nome dei diritti umani con bombardamento etico incorporato e della democrazia missilistica d’asporto. Dov’è finita, in effetti, la sinistra? Perché non lotta contro l’imperialismo, come fece Lenin? Perché non difende gli Stati resistenti al mondialismo capitalistico e anzi si adopera perché vengano invasi militarmente?”.
Ecco sì, il santino di Lenin non poteva mancare all’album di famiglia. Il fanatismo di Vladimir Il’ič da proporre come cura per i mali del Weltmarket! Perché non fare come lui, non seguirlo nuovamente, magari istituzionalizzando un’altra volta come panacea sociale il terrore di massa, ripristinare una sorta di Ceka globale con a capo un altro Feliks Djerzinskij, il “Torquemada dell’Inquisizione rossa”? Fusaro, il fustigatore, sogna un Occidente finalmente liberato dalla sua decadenza. L’Iran, perché no? è un esempio a cui guardare.
Questo talebano da salotto riciclatore di vecchi programmi sconfessati dalla storia, ricoperti di sangue versato in nome del Progresso, dell’opposizione al capitalismo, alla democrazia, al libero mercato, considerati, non per quello che sono, naturali propensioni umane volte a una maggiore autonomia, a una maggiore emancipazione, a una maggiore prosperità, ma come una mostruosa schiavitù da cui liberarsi in nome di una società futura del tutto immaginaria e irrealizzabile perché innaturale, mostruosa e impossibile, ci trascina con le sue allucinazioni là dove, come in Iran domina il sopruso, la violenza, il terrorismo di stato. Là, dove l’umanità è stata già trascinata in un bagno di sangue durante nazismo e comunismo.
Quando il logos si assopisce è così che accade, prendono corpo chimere, arpie, parassiti della mente, incubi già sognati e terribilmente sperimentati. Storia vecchia questa, quella del giovane borghese occidentale il quale rigetta l’Occidente per umiliarsi, come ha scritto Leszek Kolakowski, “di fronte allo splendore di un’inequivocabile barbarie”.
Complottisti all’operaDavide Cavaliere
24 Febbraio 2021
http://www.linformale.eu/complottisti-allopera/ Da un po’ di tempo, nel panorama politico nazionale, è apparso Vox Italia. Si tratta di un partito anticapitalista, antiantlantista, socialista, il cui principale ispiratore è il “filosofo” Diego Fusaro.
Sul canale YouTube del suddetto partito, Vox Italia Tv, è comparsa un’intervista a Dea, che si autodefinisce “un’artista israeliana di origine italiana e una fervida attivista per la Pace (in particolare fra israeliani e palestinesi) e per i Diritti Umani”.
L’intervista era condotta dal presidente di Vox Italia, Francesco Toscano, un “fusariano” di ferro con tendenze cospirazioniste e una radicata avversione a Israele. In un post su Facebook del 04/06/19, Toscano scrive:
“Oggi con il Corriere esce in edicola una biografia di Lenin. Alcuni accusano il leader russo di ferocia, anche per avere ordinato lo sterminio di tutta la famiglia Romanov, uccisa nel corso di un “rituale” kabbalistico (Blondet ricorda che gli assassini erano 12, come 12 sono le tribù di Israele. Il rabbino russo ha respinto sdegnato questa ipotesi). Nessuno dice però che lo Zar fece impiccare il fratello di Lenin per “sovversione”. Non giustifico la reazione di Vladimir Uljanov detto Lenin ma in parte ne comprendo le ragioni”.
E ancora, in un post del 10/07/17, elogiava il Generale Soleimani:
“Ora che Soleimani ha preso a schiaffi il burattino (“Isis”), si rischia una guerra diretta con i burattinai (Stati Uniti e Israele). Attenzione perché Soleimani mena…”.
Toscano cita come fonte credibile il noto antisemita Maurizio Blondet, parteggia per la teocrazia iraniana e ammicca alla tesi complottista secondo la quale l’Isis sarebbe una creazione israeliana e americana.
Il soggetto in questione intervistava la sopra citata Dea in merito alla presunta “dittatura” sanitaria in Israele. Quest’ultimo è uno stato piccolo e assediato dal terrorismo, che non può permettersi mesi di lockdown, dunque ha puntato su una massiccia e rapida campagna di vaccinazione. Premesso che, la politica sanitaria dello stato ebraico può essere criticata, essa però non deve tracimare in assurdi paralleli col nazismo come avvenuto durante la conversazione tra Dea e Toscano.
L’intento del colloquio dei due – anche al netto delle posizioni antisioniste di Vox Italia – non era informare sulle misure adottate da Gerusalemme, ma demonizzare Israele come dittatura “paranazista”, che tratta i non vaccinati come la camicie brune trattavano gli ebrei tedeschi. Siamo in presenza del solito dispositivo linguistico teso a delegittimare Israele come “Stato canaglia”.
La pandemia da Covid-19, come tutti i grandi eventi mondiali, catalizza tutte le ossessioni e le fantasie relative agli ebrei. Nelle fasi iniziali del contagio si incolpavano i banchieri ebrei e i sionisti di aver diffuso il virus per depredare le economie nazionali. Poi, si è continuato accusando Israele di aver diffuso il Covid-19 e incolpato la Cina nel tentativo di causare un conflitto tra Washington e Pechino. Ora, si sviluppano paralleli improbabili tra il totalitarismo nazista e le misure anti-Covid.
L’incontro tra il presidente di Vox Italia e l’artista italo-israeliana è stata un piccolo, ma significativo, addensarsi di paranoie antisemite, affermazioni provocatorie e consunte mascherate da “informazione libera”.