Lo scivolone di Alexandria Ocasio-Cortez
Roberto Vivaldelli
20 dicembre 2020
https://it.insideover.com/politica/lo-s ... 1606764792 Si può criticare apertamente il capitalismo, professarsi socialisti e “antisistema”, da una parte, e poi sfruttare la propria posizione e visibilità per vendere dei gadget dal proprio sito a prezzi tutt’altro che “popolari”? No, nemmeno se ti chiami Alexandria Ocasio-Cortez e la stampa progressista di tutto il mondo ti ritiene la giovane superstar del partito democratico americano. Ecco cosa è accaduto: come riporta l’agenzia Ansa, la giovane star dem è stata attaccata sui social, in particolare dai conservatori, per aver messo in vendita sul website della propria campagna una felpa con lo slogan “Tax the rich” (Tassa i ricchi) al “modico” – si fa per dire – prezzo di 65 dollari, ridotto a 58 dopo le polemiche. Uno slogan che richiama la proposta di aumentare le tasse ai più ricchi per finanziare il Green New Deal e i programmi sociali. “Con 58 dollari per una felpa non stai tassando i ricchi, stai chiedendo un prezzo esorbitante agli stupidi”, ha commentato un utente di Twitter.
Lo scivolone di Alexandria Ocasio-Cortez
Perché va bene il socialismo, il Green New Deal, l’anticapitalismo (a parole), ma poi c’è bisogno di battere cassa: e così Alexandria Ocasio-Cortez è caduta nella più banale delle contraddizioni per chi ama professarsi “di sinistra”. “Niente spiega meglio l’idea di giustizia economica che spendere 65 dollari per una felpa”, denuncia Ben Shapiro, autore e conduttore conservatore di successo, suggerendo che gli studenti – uno dei punti di forza elettorale della deputata – farebbero meglio a usare quei soldi per pagare i loro prestiti bancari per il college. “Niente spiega meglio lo slogan ‘Io combatto per i più deboli di chiedere 65 dollari per una felpa”, scrive ancora un altro. Perché nella più spaventosa crisi economia dal 1929 spendere 65 dollari per una felpa – piuttosto che 58, cambia poco – per molti americani – quelli a cui idealmente dovrebbe essere vicina Aoc – può anche essere un problema. Soprattutto se la felpa riporta un messaggio politico chiaro come il “tassiamo i ricchi”: perché se si vuole veramente rappresentare i ceti popolari, bisogna anche non sgarrare nella comunicazione.
Ma davvero Aoc rappresenta i ceti meno abbienti oppure, come il Partito democratico Usa, è l’espressione di quel “partito della Ztl”, delle città e dei quartieri più ricchi? Di recente, il New Republic – mensile schierato a sinistra – ha fatto mea culpa e ha pubblicato un’analisi piuttosto interessante. Innanzitutto, alle recenti elezioni presidenziali nove dei dieci stati più ricchi hanno votato Joe Biden, 14 dei 15 più poveri per il presidente Usa Donald Trump. Come nota anche l’HuffPost, Trump ha realizzato qualcosa di straordinario: il primo boom egualitario degli ultimi decenni. Nel 2019 è riuscito ad abbassare la disoccupazione al 3,7% (praticamente pieno impiego, tranne la quota frizionale di chi sta cambiando lavoro), e soprattutto un aumento del 4,7% dei salari del quarto più basso della popolazione. Capito Aoc?
La replica della deputata
La replica di Alexandria Ocasio-Cortez alle critiche apparse sui social network è a dir poco curiosa. Ocasio-Cortez ha spiegato che il prezzo “è giusto” perché la felpa e le t-shirt della sua campagna sono realizzate in Usa da lavoratori sindacalizzati e non dalla manodopera a basso prezzo in Cina, a differenza di quelle di Donald Trump. Sarà, eppure se c’è un Presidente americano che si è mosso a tutela dei lavoratori americani, dando inizio a una guerra commerciale proprio con Pechino, quello è Donald Trump. A differenza dei suoi predecessori (Barack Obama compreso), che si sono battuti per spalancare tutte le frontiere, liberalizzare gli scambi, toglier le barriere, inneggiare alla mondializzazione senza se e senza ma, The Donald si è mosso a difesa dei lavoratori Usa. Se Aoc fosse stata coerente, lo avrebbe appoggiato nella sua sfida alla Cina. Ma la coerenza non sembra essere di casa e di “antisistema” sembra esserci veramente poco.
Hunter Biden sotto indagine federale
Roberto Mazzoni
11-12-2020
https://www.youtube.com/watch?v=2oc2G7agJ6YDOJ: TRUMP VUOLE LA NOMINA DI UN PROCURATORE SPECIALE PER INDAGARE SU HUNTER BIDEN E SUI BROGLI ELETTORALI, E LASCIA BALENARE L'IPOTESI DI LICENZIARE BARR
Elezioni USA 2020
12 dicembre 2020
Il presidente Trump ha espresso interesse ad ottenere la nomina di un Procuratore Speciale da parte del Dipartimento di Giustizia per indagare sulle accuse di frode nelle elezioni di novembre e sulle questioni relative a Hunter Biden.
Lo riferisce il The Wall Street Journal
(WSJ) sulla base di persone a conoscenza della questione.
Negli ultimi giorni, il presidente ha da ordine ai suoi consiglieri di cercare persone che potrebbero ricoprire una tale posizione, ha detto una delle persone coinvolte, poiché le cause legali e gli altri sforzi di Trump e della sua campagna per invertire i risultati elettorali stanno collassando nelle aule giudiziarie.
Anche i funzionari della Casa Bianca ed i supporter del presidente a Capitol Hill ed altrove stanno spingendo fortemente per la nomina di un Procuratore Speciale, ha detto un'altra persona a conoscenza della situazione.
Una delle fonti afferma che il capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows è tra coloro che stanno spingendo maggiormente affinchè arrivi la nomina di questo Procuratore Speciale, in particolare per indagare sulle presunte frodi elettorali, ed ha fatto sapere che il presidente intende agire rapidamente.
In questo contesto alla Casa Bianca si è più volte espressa frustrazione per la gestione delle indagini da parte del Procuratore Generale, William P. Barr, sugli affari finanziari di Hunter Biden, nonché preoccupazione per il fatto che la prossima Amministrazione di Joe Biden possa cercare di porre fine alle indagini in corso.
Il presidente Trump, in particolare, ha ha espresso crescente frustrazione nei confronti del suo Procuratore Generale negli ultimi mesi, sia in pubblico che in privato, a causa del fallimento delle cause legali per cercare di rovesciare il risultato del voto.
L'annuncio di pochi giorni fa da parte di Barr sul fatto che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti non aveva trovato prove di una diffusa frode elettorale tale da poter ribaltare il risultato elettorale, ha fatto letteralmente infuriare il presidente, e Trump ha apertamente accusato Barr ed il suo Dipartimento di essere coinvolto nel complotto e nei brogli elettorali.
Nella giornata di ieri, inoltre, dopo le indiscrezioni della stampa americana sul fatto che Barr fosse a conoscenza dell'esistenza di una indagine federale su Hunter Biden già da prima delle elezioni e che abbia lavorato attivamente per fare in modo che la notizia non venisse divulgata, il presidente Trump ha apertamente minacciato il licenziamento del suo Procuratore Generale.
Non è ben chiaro al momento, comunque, se il presidente intende portare a termine questa minaccia, visto anche il poco tempo che ormai manca alla fine del suo mandato alla Casa Bianca, sebbene da settimane alcuni dei più stretti collaboratori ed alleati del presidente facciano pressione in questo senso. Da parte sua Barr ha detto che intende restare al suo posto a meno che non venga licenziato.
Ricordiamo che le accuse di brogli sono state ripetutamente bocciate dalle corti statali e federali e che giusto ieri la Corte Suprema ha bocciato l'esposto presentato dal Texas per chiedere l'annullamento del risultato elettorale negli Stati che hanno consegnato le chiavi della Casa Bianca a Joe Biden: Michigan, Pennsylvania, Wisconsin e Georgia.
Secondo i regolamenti del Dipartimento di Giustizia americano, la decisione di nominare un Procuratore Speciale spetta al Procuratore Generale ed è prevista per garantire un "livello di indipendenza" più elevato delle indagini, non soggetto alla supervisione quotidiana da parte dei funzionari del Dipartimento.
Inoltre un Procuratore Speciale, per legge, avrebbe maggiori protezioni e non potrebbe essere licenziato se non nei soli casi specificamente previsti dalla legge come comportamento scorretto o conflitto di interessi, e tutte le motivazioni dovranno essere fornite per iscritto.
Da parte del Dipartimento di Giustizia si fa notare che è estremamente improbabile che Barr intenda nominare un secondo Procuratore Speciale per indagare su Hunter Biden o sui presunti brogli elettorali, dopo che lo stesso Barr ha già nominato John Durham ad ottobre 2020 come Procuratore Speciale per indagare sull'origine del Russiagate.
L'indagine su Hunter Biden è al momento è gestita dall'ufficio del Procuratore Distrettuale del Delaware, guidato da David Weiss, la cui nomina da parte di Trump nel 2017 era stata sostenuta a suo tempo dai senatori democratici del suo Stato di origine.
Nessun commento sulle indiscrezioni del WSJ né da parte della Casa Bianca, né dal team di transizione di Joe Biden, che comunque ha fatto notare come il presidente eletto non sia in alcun modo implicato nelle indagini che riguardano il figlio.
NY Post: i media di sinistra hanno ignorato lo scandalo di Hunter Biden per proteggere papà Joe prima delle elezioni.
L'Osservatore Repubblicano
14 dicembre 2020
https://www.facebook.com/elezioniusa202 ... 9451483140 "Collusione" è stata forse la parola preferita dai media negli ultimi quattro anni, anche quando non era vera. Ma sai com'è la vera collusione? È quando i media di sinistra , cioè i media in generale, decidono che qualcosa "non è una storia da pubblicare e da seguire" perché danneggia il loro candidato politico preferito.
Questo è un aspetto fondamentale della notizia bomba di mercoledì 9 dicembre che ha rivelato esserci un'indagine federale sul figlio di Joe Biden, Hunter, che secondo quanto riferito coinvolge e-mail dal suo laptop - di cui il New York Post aveva riferito in esclusiva a ottobre. Allora avevamo (New York Post) anche notato che l'FBI aveva sequestrato il computer e il disco rigido; Fox News aveva successivamente confermato che il sequestro faceva parte di un'indagine sul riciclaggio di denaro dell'FBI.
Altri media non si limitarono a ignorare la storia; hanno cercato di sopprimerlo. Quindi i social media sono intervenuti, impedendo la pubblicazione della storia (Facebook) e persino vietandolo al The New york Post (Twitter).
La loro scusa? Pura speculazione, la quale prevedeva che la storia fosse opera della propaganda russa, ora dimostrata del tutto priva di fondamento.
"Il controverso 'scoop' del New York Post implica un comportamento losco", sbuffò Slate. "La storia di Hunter Biden è una disinformazione russa, dicono dozzine di ex funzionari dell'intelligence", ha insistito Politico dopo che 50 alti ufficiali ex-intel hanno firmato una lettera in tal senso. La lettera non ha offerto alcuna prova, e ora questa affermazione si è rivelato essere la disinformazione.
La National Public Radio aveva soppresso le notizie sul laptop di Hunter Biden poiché il suo editorialista, Terence Samuel, le ha definite irrilevanti.
"Non vogliamo sprecare il nostro tempo in storie che non sono realmente storie" ma "pure distrazioni", ha detto, liquidando la notizia come "un evento diretto dal punto di vista politico".
Molti americani che avevano già votato in anticipo hanno cercato di cambiare i loro voti dopo aver appreso delle e-mail, ma altri non ne sono mai venuti a conoscenza, grazie ai censori pro-Biden . Quanti potrebbero aver votato diversamente?
Dopotutto, le questioni coinvolte non riguardavano solo Hunter, ma poichè ha utilizzato il nome di suo padre per fare soldi, sollevando domande su ciò che sapeva Joe Biden.
Hunter sta dipingendo l'indagine solo come una frode fiscale, mentre insistendo su una "revisione obiettiva" mostrerà che "ho gestito i miei affari legalmente e in modo appropriato". Tuttavia, le notizie di giovedì indicano che l'indagine ha anche esplorato il possibile riciclaggio di denaro sporco e i legami d'affari con l'estero di Hunter, molti dei quali sono stati delineati nelle storie di ottobre del Post.
Il nostro rapporto citava e-mail che parlavano, ad esempio, dei legami di Hunter con le imprese ucraine e cinesi e con funzionari corrotti, alcuni legati al Partito Comunista Cinese. Si faceva riferimento anche a un diamante da 2,8 carati ottenuto nel 2017 dal fondatore di CEFE China Energy Ye Jianming, che aveva legami con l'esercito cinese e che da allora è scomparso. Secondo quanto riferito, la gemma fa parte dell'indagine dei federali.
Un'e-mail suggerisce persino che lo stesso Joe Biden potrebbe essere stato coinvolto nel ricevere dei soldi.
Tutto ciò solleva serie questioni di sicurezza nazionale. Un ex socio in affari di Hunter, Tony Bobulinski, ritiene che Joe Biden sia stato "compromesso".
"Ci sono accuse di frode sui titoli, riciclaggio di denaro [e] un accordo ospedaliero storto con [il fratello di Joe] Jim Biden", osserva il senatore Tom Cotton, R-Ark., Che chiede a un procuratore speciale di supervisionare l'indagine. "Se Joe Biden diventa presidente, allora tutte quelle indagini potrebbero essere terminate il mese prossimo", avverte.
Un procuratore speciale per le indagini sembra doveroso, vista la profonda politicizzazione del Dipartimento di Giustizia sotto l'ultimo presidente democratico. Chiunque indaga sul figlio del presidente ha bisogno di una sorta di scudo da potenziali interferenze della Casa Bianca.
Una serie di spiegazioni, e scuse sono dovute al popolo americano da parte di tutti i giorali e social che hanno trovato questa notizia non adatta alla stampa. Come dice il motto di un giornale, "La democrazia muore nell'oscurità".
https://www.foxnews.com/opinion/hunter- ... rial-board Devine del NY Post: i media mainstream hanno soppresso la storia di Hunter Biden fino a quando il "loro uomo" non ha vinto le elezioni.
L'Osservatore Repubblicano
14 dicembre 2020
https://www.facebook.com/elezioniusa202 ... 6461481439L'editorialista del New York Post, Miranda Devine ha criticato i media mainstream venerdì 11 dicembre per "aver soppresso attivamente" la storia di Hunter Biden fino a quando il "loro uomo" Joe Biden non è stato eletto.
Dopo che la scora settimana era arrivata la notizia che gli affari fiscali di Hunter Biden che coinvolgevano rapporti d'affari all'estero, inclusa la Cina, sono stati oggetto di un'indagine federale penale, i media tradizionali hanno iniziato a dover affrontare un contraccolpo per aver sminuito e persino condannato il New York Post per il suo scoop di ottobre sul contenuto del laptop di Hunter Biden.
"La storia del New York Post è scoppiata il 14 ottobre, cioè più di due settimane prima delle elezioni", ha detto a " Fox & Friends ". "Avrebbe dovuto essere coperto mediaticamente e invece è stato attivamente soppresso. È stato ignorato."
I media mainstream a ottobre hanno ripetuto che le affermazioni contenute nello scoop del New York Post sul laptop facevano parte di un'operazione di intelligence straniera, probabilmente da parte della Russia, lo spauracchio preferito a cui imputare tutte le colpe negli ultimi cinque anni.
Twitter ha impedito agli utenti di condividere l'articolo del New York Post e Facebook ne ha limitato la distribuzione in una dimostrazione senza precedenti di censura Big Tech.
L'account Twitter del New York Post è stato bloccato fino a quando una protesta sufficiente non ha forzato la sua mano.
L'indagine è in corso dal 2018, prima che l'anziano padre di Hunter Biden dichiarasse la sua candidatura per il 2020.
"Non avevi solo una soppressione attiva, ma la Big Tech bloccava il nostro account Twitter", ha detto Devine, "soffocando la storia su Facebook, e poi ci sono stati 50 agenti dei servizi segreti che hanno firmato una lettera ... 'Oh, questo assomiglia molto a un Operazione di disinformazione russa `` e quella ovviamente è stata il via libera a tutti quei media come CNN, Washington Post e NPR e così via per fingere che la nostra storia fosse disinformazione russa, che noi del New York Post stavamo effettivamente agendo come agenti russi.
"Era tutto uno stratagemma per portare il loro uomo, Joe Biden alle elezioni, senza nessun scandalo nonostante lo scoop che lo riguardava, e ora ovviamente lo stanno riportando perché pensano che hanno vinto.
Il consigliere della campagna di Trump, Steve Cortes, ha detto su "Fox & Friends" che i media si sono interessati a coprire mediaticamente la storia solo dopo la vittoria elettorale di Joe Biden.
"Quello che è cambiato è che abbiamo avuto un'elezione e credono che il loro candidato abbia vinto, quindi i media aziendali ora sono improvvisamente interessati a coprire ciò che è sempre stato e ciò che sapevamo a ottobre era la storia più grande ed esplosiva dell'intera campagna"
Cortes ha deriso i media per essersi resi colpevoli della loro parola preferita durante l'amministrazione Trump: "collusione". Cortes ha accusato la collusione dei media, Big Tech e agenti dei servizi segreti di alto livello che avevano lavorato insieme per seppellire la storia di Biden e promuovere la falsa idea che facesse parte dell'intelligence russa.
https://www.foxnews.com/media/ny-post-d ... iden-story LE BUGIE DI BARACK OBAMA SU ISRAELE
Progetto Dreyfus
15 dicembre 2020
https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 3071737029 “La Dichiarazione Balfour del 1917”, scrive l'uomo che per otto anni ha presieduto i destini degli Stati Uniti, “fu pubblicata dagli inglesi che allora occupavano la Palestina”. E’ nel capitolo 25 del suo libro, intitolato con un tocco di enfasi “Una Terra Promessa, volume 1 delle memorie presidenziali”, che Barack Obama
presenta la sua visione molto personale degli eventi che hanno cambiato la storia del Medio Oriente.
Solo che, il 2 novembre 1917, quando Lord Balfour, Ministro degli Affari Esteri del Regno Unito, inviò una lettera ufficiale a Lord Rothschild, uno dei leader della comunità ebraica d’Inghilterra, assicurandogli che il suo governo stava considerando favorevolmente la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina, gli inglesi non stavano ancora occupando la Palestina. Aspri combattimenti sono in corso tra le loro truppe e quelle dell'Impero Ottomano entrato in guerra a fianco della Germania nella Prima Guerra Mondiale. Fu invece l'11 dicembre del 1917 che le forze del Generale Allenby entrarono a Gerusalemme. Ma Obama conosce il peso della parola ‘Occupazione’ e la usa consapevolmente per delegittimare l'iniziativa britannica sin dall'inizio.
Consideriamo ora il Piano di Partizione votato dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947, che prevede la divisione del Paese tra uno Stato ebraico e uno arabo - nessuno ancora parla di uno Stato palestinese. Secondo Obama, “i leader sionisti’ lo accettano, mentre gli ‘Arabi palestinesi’-ancora una volta fino ad allora nessuno aveva usato questo termine - come le nazioni arabe circostanti, che stavano appena uscendo dal giogo coloniale, lo rifiutano”. Ma di quale giogo coloniale sta parlando? Di quello dell'Impero Ottomano che aveva soffocato per quattro secoli qualsiasi velleità di indipendenza araba? No di certo. Parla delle potenze alleate vittoriose che hanno portato questi Paesi arabi all'indipendenza. Paesi che non si accontentano di ‘rifiutare’ il Piano: i loro eserciti lanciano un attacco concertato contro lo Stato ebraico, proclamato il 18 maggio del 1948. Solo che, dice Obama, hanno la meglio ‘le milizie ebraiche’ . Ma quali milizie? In realtà si tratta di Tsahal - l'Esercito di Difesa Israeliano - creato il 28 maggio e che comprende gli eserciti di terra, aria e mare. E l'ex Presidente così continua: “durante i tre decenni che seguono, Israele si impegnerà in una serie di conflitti con i suoi vicini arabi”. Il resto del capitolo è tutto dello stesso tono. Una presentazione dei fatti che è stata ovviamente adottata subito dai palestinesi, troppo felici di scoprirsi dei veri eroi. Un gruppo di cittadini interessati ha appena presentato una denuncia contro la Gran Bretagna a causa della dichiarazione Balfour “che ha dato la Palestina come focolare nazionale agli ebrei e permesso alle bande sioniste di occupare la Palestina”.
Presentata davanti a un tribunale palestinese, la denuncia è stata dichiarata ammissibile. Questi competenti cittadini hanno indubbiamente dimenticato che nel 1920, quando la Gran Bretagna aveva ricevuto il Mandato della Palestina, si era affrettata ad amputarne i quattro quinti a beneficio di uno dei figli del suo vecchio alleato, lo Sharif della Mecca. Così era nato “l'Emirato della Transgiordania” che approfitterà della Guerra d'Indipendenza di Israele per occupare la Giudea e la Samaria - questo è il nome che compare nel Piano di Partizione, che poi sarebbe dovuta tornare allo Stato arabo - e prendere il nome di Giordania. Il giovane Stato di Israele dovrà accontentarsi di un decimo dei territori della Palestina mandataria. È vero che Barack Obama ha ignorato questo dettaglio che considera senza dubbio privo di interesse. Resta il fatto che di questo ammasso di inesattezze e di falsificazioni intenzionali, che farebbe vergognare uno studente di storia del primo anno, se ne sono già vendute un milione di copie nella prima settimana, e sarà tradotto in numerose lingue, per diventare poi un testo di riferimento per intere generazioni.
[Titolo originale: "Barack Obama condanna la Dichiarazione Balfour e subito dopo i palestinesi sporgono denuncia contro l’Inghilterra" | di Michelle Mazel]
Biden fragile, tosse in pubblico. Fauci: "Vaccino per lui e Harris"
Valeria Robecco
16 dicembre 2020
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1608104368 Il presidente eletto dopo la raucedine: "Un raffreddore". Ma il virologo della Casa Bianca: "Va protetto subito"
Dopo il sigillo della vittoria di Joe Biden e Kamala Harris da parte del collegio elettorale, che ha confermato il risultato delle urne, a preoccupare gli americani è la salute del presidente eletto.
Durante il discorso alla nazione gli spettatori non hanno potuto fare a meno di notare gli attacchi di tosse continui e la raucedine mentre parlava, che lo ha obbligato più volte a fermarsi per schiarirsi la gola. Durante un live streaming con i sostenitori, Biden ha cercato di tranquillizzare gli animi, dicendo che ha solo «un po' di raffreddore», ma il virologo Anthony Fauci sostiene che lui e la Harris dovrebbero vaccinarsi contro il Covid al più presto, in modo da essere completamente protetti prima dell'insediamento.
Intanto, a Biden sono arrivate le congratulazioni anche da parte di alcuni «irriducibili». Tranne Donald Trump. A fargli gli auguri è stato anzitutto il presidente russo Vladimir Putin: in un telegramma, il leader del Cremlino ha espresso la fiducia che il suo paese e gli Stati Uniti, «i quali hanno una responsabilità speciale per la sicurezza e la stabilità globale», possano «nonostante le loro differenze» aiutare realmente «a risolvere molti problemi e sfide che il mondo sta affrontando». «Da parte mia sono pronto per l'interazione e i contatti con lei», ha sottolineato. Negli Usa, invece, il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha ammesso per la prima volta pubblicamente che gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente eletto, con cui si è congratulato. Tuttavia ha aggiunto che Trump «merita il nostro ringraziamento»: «La lista dei risultati raggiunti dal 2016 è quasi infinita».
The Donald, però, prosegue dritto per la sua strada, insistendo nella battaglia contro l'elezione di Biden e ribadendo su Twitter: «Incredibili prove stanno emergendo sulla frode elettorale. Non ce n'è stata mai una così nel nostro paese». Nel frattempo ha silurato il ministro della giustizia William Barr. «Il nostro rapporto è stato molto buono, ha fatto un lavoro straordinario», ha scritto il tycoon, annunciando che il ministro «lascerà prima di Natale per trascorrere le feste con la sua famiglia». Il suo posto sarà preso dal vice Jeff Rosen. Trump era ai ferri corti con Barr dopo che lui aveva negato i brogli di massa nelle elezioni: nella lettera di dimissioni il ministro della Giustizia si è detto onorato di aver servito l'amministrazione Usa, e ha scritto che «in un periodo in cui il paese è così profondamente diviso, è d'obbligo per tutti i livelli di governo fare quello che possono per garantire l'integrità delle elezioni e promuovere la pubblica fiducia nel loro esito». Intanto, si torna a parlare pure delle aspirazioni politiche dei familiari del Comandante in Capo, a partire da quelle della figlia prediletta e consigliera alla Casa Bianca Ivanka Trump. La first daughter sarebbe intenzionata a scendere nell'arena: «Ha ambizioni politiche, non ci sono dubbi», ha rivelato una fonte alla Cnn. Tra le opzioni ci sarebbe la possibilità che Ivanka si candidi in Florida per il Senato, sfidando il repubblicano Marco Rubio nel 2022 alle elezioni di Midterm. Lei e il marito Jared Kushner tra l'altro hanno appena acquistato un terreno nell'esclusiva Indian Creek Island, a Miami, dove vogliono costruire la loro prossima residenza. La zona è a solo un'ora di distanza da Mar-a-Lago, dove ha intenzione di stabilirsi The Donald, e il Sunshine State sembrerebbe essere il perfetto trampolino di lancio per Ivanka. Ma a pensare a un futuro politico è anche Donald Trump Jr, l'altro figlio del presidente che piace molto alla base conservatrice del partito repubblicano. E Lara Trump, moglie dell'altro figlio adulto del tycoon, Eric, sarebbe interessata a correre per il Senato nel suo stato di origine, la North Carolina.
Le sfide di Biden nel Mediterraneo: ecco cosa rischia l'Italia
Lorenzo Vita
20 dicembre 2020
https://it.insideover.com/politica/bide ... talia.htmlIl Mediterraneo resta il grande punto interrogativo della strategia degli Stati Uniti. Negli ultimi decenni, il Mediterraneo è stato visto sostanzialmente come uno specchio d’acqua gestito da Washington attraverso le proprie forze e quelle degli alleati. Erano le forze Usa e quelle dei partner Nato (e non) a permettere all’America di controllare le due porte di accesso di Suez e Gibilterra e di conseguenza tutto quel grande stretto tra Atlantico e oceano Indiano che è appunto il Mediterraneo: lasciando così attivo un flusso continuo di uomini, merci e capitali. E quindi di influenza.
Le certezze americane si sono però scontrate con una realtà in rapida evoluzione, in cui quello che sembrava un “lago” americano rischia di ora di trasformarsi definitivamente in un grande teatro di scontro tra gli Stati Uniti e le grandi potenze coinvolte nell’area mediterranea: in primis Cina e Russia. Ovviamente questo non significa che gli Stati Uniti stiano cedendo il Mediterraneo, ma quello che è abbastanza chiaro è che di fronte alla crescita esponenziale del pericolo cinese – questo stando agli strateghi del Pentagono – sia necessario per Washington in rimodulazione dei suoi impegni sul fonte internazionale, spostando il focus dal Mediterraneo all’Indo-Pacifico. Una scelta che non può non lasciare vittime sul terreno, specialmente nell’area nordafricana e mediorientale. Ma che rischia di avere enormi conseguenze sulla stessa stabilità dell’area euro-mediterranea.
Joe Biden si trova ora a dover gestire questa difficile fase di transizione. E la questione non è certamente semplice. Washington non può abbandonare il Mediterraneo dal momento che è un mare dove sono presenti alleati strategici e dove Mosca e Pechino non vedono l’ora di sfruttare gli spazi lasciati vuoti dal rimodellamento degli impegni Usa. Ma per evitare che questi vuoti di potere creino ulteriore instabilità o inserimento di nemici strategici dove prima regnava la sfera di influenza americana, l’unica soluzione è quella di bussare alle porte degli alleati. Scelta che rischia però di essere particolarmente complessa per due ordini di ragioni: bisogna capire chi sono gli alleati su cui fare affidamento e soprattutto capire chi sia realmente interessato a esserlo. Domande cui non sembra così semplice rispondere.
In questi ultimi anni, Donald Trump ha fatto intendere che l’idea americana sia quella di fidarsi sempre meno sia della struttura europea che dell’asse franco-tedesco. Il presidente uscente aveva degli eccessi nei confronti di Berlino e di Bruxelles, ma quelle idee espresse in modo spesso disordinato da parte di Trump non erano semplici esternazioni, ma avvertimenti che rappresentavano il pensiero di una buona fetta di strateghi americani. Gli stessi strateghi che sembrano aver volto lo sguardo, da qualche tempo, sia sul fronte greco-turco che su quello dell’intero Nord Africa, dove alcuni Stati sembrano particolarmente inclini a svolgere un ruolo di primo piano nella strategia americana nell’area mediterranea. E dove si moltiplicano i fattori di rischio.
Biden ha diversi dossier mediterranei davanti ai propri occhi. Ha una Libia in fiamme su cui dovrà mettere la testa il prima possibile, ha un rapporto con la Turchia sempre più difficile certificato dall’ultimo monito lanciato da Washington – e cioè le sanzioni per gli S-400 russi, si trova un’alleanza sempre più solida con Marocco e Tunisia che può sfruttare per stabilizzare l’area nordafricana, mentre l’Egitto sarebbe ben lieto di tornare a essere un valido partner americano pur avendo da molto tempo rapporti eccellenti con Cina e Russia. In tutto questo, non si placano le tensione sulla faglia tra Grecia, Turchia e Cipro, mentre Israele, dopo la normalizzazione dei rapporti con molti Paesi arabi, potrebbe diventare un nuovo hub per gli idrocarburi del Golfo nel Mediterraneo. Se a questo si aggiunge il rischio di un nuovo grande fronte mediterraneo con Cina e Russia, è abbastanza evidente che la nuova amministrazione americana dovrà mettere mano al nodo Mare Nostrum prima che siano altre superpotenze a prendere il sopravvento.
Finora, il futuro presidente Biden appare concentrato sul fronte turco. Le sanzioni, come dicevamo, sono state un avvertimento rivolto a Recep Tayyip Erdogan per fermare la sua liaison con Mosca. Non va poi dimenticato che gli americani hanno anche rafforzato la loro presenza militare in Grecia, quasi a ricordare ad Ankara i pericoli di una escalation con l’Occidente. Tuttavia, al netto di questi messaggi, Ankara resta il secondo esercito della Nato oltre che un tassello imprescindibile dell’Alleanza atlantica. Colpire troppo Erdogan potrebbe essere un boomerang dai risvolti molto peggiori per gli Usa rispetto all’instabilità provocata dallo stesso Sultano.
Questo interesse per il fronte turco fa comprendere però quale sia in realtà l’orientamento strategico americano per l’area euro-mediterranea. Vero che ora è aperto il tavolo con la Turchia, ma il fatto che gli Usa siano sempre più inclini a guardare a oriente del bacino, dimostra che il focus del Mediterraneo, per gli Usa, è sempre più decentrato. Oggi l’America guarda al Mediterraneo allargato con una logica in cui si inserisce non solo il fronte con la Russia, ma tutto il mondo mediorientale, porta di accesso per la Via della Seta in Europa.
Per farlo però occorre che il Mediterraneo centrale sia stabilizzato. Ed ecco che entra in gioco la Libia, ma anche l’Italia. In un recente articolo de La Stampa, si è posto l’accento sul commento di Michael Carpenter, consigliere di Biden per gli esteri, che ha sottolineato come “l’Italia sarà enormemente importante per la strategia meridionale della Nato, che va rafforzata”. Parole che sembrerebbero far presagire un maggiore coinvolgimento italiano nelle scelte Usa nell’area di nostra competenza, ma che non devono però trarre in inganno. L’Italia è un partner molto importante per gli Stati Uniti, tuttavia non è detto che questo porti a un maggiore potere di Roma su alcuni dossier che la coinvolgono direttamente – leggi Libia – quanto semmai a una maggiore richiesta di chiarezza da parte degli americani. L’Italia si è dimostrata troppo tentennante sul fronte cinese, non piace per i rapporti con la Russia, e sul fronte libico le sue capacità operative sono state offuscate prima dalla guerra diplomatica con la Francia, poi dal coinvolgimento diretto di Russia e Turchia, che hanno di fatto estromesso l’Europa dal conflitto. Problemi basilari per qualsiasi amministrazione americana, tanto che lo stesso Carpenter ha ribadito che il compito della nuova presidenza sia quello favorire, per tutto il fronte Mediterraneo, un coordinamento nella Nato e nella Ue. Coordinamento che aiuti a superare le rivalità interne all’Europa, in primis tra Italia e Francia, e assegnare un ruolo di guida all’Unione europea. Pur apprezzando lo sforzo italiano in Libia.
Morale: la possibile scelta di Biden di dare un peso maggiore all’Unione europea potrebbe essere un’arma a doppio taglio. L’Italia è considerata fondamentale nello scacchiere mediterraneo, ma a Biden interesse soprattutto frenare la Russia a est così come la Cina. Per stabilizzare la Libia, Carpenter ha parlato di un ruolo dell’Europa: ma è a tutti evidente che l’Ue non è guidata dall’Italia, quanto da Francia e Germania. E visto che la Francia ha voglia di grandeur in Sahel mentre la Germania di un’ancora nel Mediterraneo, l’Italia rischia di rimanere ferma al palo in attesa di nuove direttive su cosa fare e come poter riabilitarsi agli occhi Usa. Se il dossier Libia e Mediterraneo orientale passa all’Ue, Roma di fatto verrebbe tagliata fuori. E lo spostamento dell’occhio di Washington su Grecia, Turchia ed Egitto, rischia di far saltare definitivamente il banco per chiunque sieda a Palazzo Chigi.
Un Natale di pace per i Cristiani che soffrono
"Biden alla Casa Bianca" - Alleanza Cattolica
Marco Respinti da IFN del 15/12/2020
https://alleanzacattolica.org/biden-alla-casa-bianca/Oggi è il 15 dicembre. Cioè il giorno dopo il primo lunedì successivo al secondo mercoledì del mese di dicembre (e non il «primo lunedì dopo il secondo mercoledì successivo alle elezioni», come scrive l’Adnkronos). Ieri, dunque, come sancisce la Costituzione federale, il Collegio Elettorale che è stato eletto il primo martedì successivo al primo lunedì di novembre dell’anno elettorale (sempre come sancisce la Costituzione), cioè il 3 novembre, e che è stato eletto dagli elettori degli Stati che compongono l’Unione nordamericana contati come “somma federale” dei “parziali” di ciascuno Stato (e non come insieme assoluto di cittadini statunitensi) si è riunito. Ogni slate di «Grandi elettori» eletto in ciascuno Stato (giacché i «Grandi elettori» sono stati eletti in numero diverso Stato per Stato, per ciascuno Stato essendo il loro numero quello dei deputati eletti dai cittadini di ogni Stato proporzionalmente al proprio numero più due, cioè la “quota fissa” dei due senatori federali che ogni Stato elegge pariteticamente al Congresso di Washington indipendentemente dalla propria ampiezza e dal numero dei propri cittadini) si è dato convegno nella capitale di detto Stato per eleggere, ancora come stabilisce la Costituzione, il presidente e il vicepresidente della repubblica federale. Senz’alcun mandato imperativo. La maggioranza dei «Grandi elettori» ha cioè eletto (come da indicazione, ma, appunto, senz’alcun mandato imperativo) Joe Biden alla presidenza federale e Kamala Harris alla vicepresidenza federale. Da oggi, dunque, Biden è il presidente degli Stati Uniti d’America. No.
6 gennaio 2021
Come viene correttamente detto, il collegium che negli Stati Uniti elegge il presidente e il vicepresidente federali (perché a farlo non è direttamente il popolo) non è un luogo, ma un processo. Questo processo collegiale è iniziato il 3 novembre con la scelta dei «Grandi elettori» da parte degli elettori di ciascuno Stato, si è espresso ieri con il voto, ma i voti che i «Grandi elettori» hanno consegnato ieri 14 dicembre nel segreto dell’urna predisposta nelle capitali degli Stati dove sono stati eletti il 3 novembre verranno contati il 6 gennaio alle 13,00 ora di Washington dal Congresso federale a camere riunite, ovvero Camera dei deputati e Senato. Solo il 6 gennaio si saprà ufficialmente il risultato del voto espresso ieri dai «Grandi elettori» eletti il 3 novembre e solo allora il voto farà testo. Biden diventerà così finalmente presidente degli Stati Uniti, passando da «president-elect» a «elected president» e l’«elected president» Biden si insedierà ufficialmente il 20 gennaio, detto Inauguration Day.
«President-elect»
Anche se di principio «president-elect» ed «elected president» sono due espressioni equipollenti della lingua inglese, la lingua (ogni lingua) si carica, nell’uso, di prassi storiche che finiscono per incidere sul significato dei termini (uno dei motivi per cui al dizionario si applica benone il proverbio latino che definisce la ricchezza bona ancilla, pessima domina). Se il candidato che esce vincitore dal conteggio dei suffragi espressi dai «Grandi elettori» il 6 gennaio viene definito «president-elect», e se «elected president» si dice solo a posteriori per indicare, genericamente, cioè al di là del calendario costituzionale che fissa le fasi dell’elezione (e il «processo» del Collegio Elettorale), chi sia stato eletto in una certa tornata elettorale, ovvero in un dato anno, dunque se fra le due espressioni c’è un uso fattuale differenziato, una ragione vi è.
L’uso dell’espressione «president-elect» viene introdotta dalla Sezione 3 del XX Emendamento (del 1933) alla Costituzione federale, vi compare tre volte in relazione al presidente federale e altrettante in relazione al vicepresidente federale. Nella Costituzione non compare altrove e nel XX Emendamento indica chiaramente la figura istituzionale che entrerà in carica il 20 gennaio (Inauguration Day), prestando giuramento. Quindi il termine ad quem è netto. Ma lo è anche il termine a quo, ovvero da quando si può utilizzare formalmente la dizione «president-elect»? Indicazioni precise non vi sono, ma forse solo apparentemente.
La Sezione 3 del XX Emendamento recita: «Se all’epoca fissata per l’inizio del mandato presidenziale», cioè il 20 gennaio, Inauguration Day, «il “president elect” fosse deceduto, il “vicepresident elect” diverrà presidente. Se non si fosse proceduto all’elezione di un presidente, prima della data fissata per l’inizio del mandato, o se il “president elect” non possedesse i requisiti necessari, il “vicepresident elect” fungerà da presidente sino a quando un presidente non sarà eleggibile o non possederà i requisiti necessari; e, nel caso in cui né un “president elect” né un “vicepresident elect” possedessero i requisiti necessari, il Congresso provvederà per legge a indicare la persona che assumerà l’incarico di presidente o il modo in cui verrà designata la persona che assumerà l’incarico di presidente. La persona così designata eserciterà le funzioni presidenziali sino a quando un presidente o un vicepresidente non possederà i requisiti necessari».
Ovvero è chiaro che «president elect» (e «vicepresident elect») è soltanto la persona oramai solo in attesa di insediarsi ufficialmente il 20 gennaio, essendo questi il candidato che si è aggiudicato la maggioranza dei voti espressi dai «Grandi elettori» il 14 dicembre e conteggiati il 6 gennaio. Nessun altro prima. Solo il 6 gennaio 2021, quindi, Biden diventerà presidente degli Stati Uniti in attesa di insediarsi ufficialmente il 20. L’unico intervallo di tempo, cioè, in cui Biden sarà presidente (elect) prima di insediarsi alla presidenza (having been elected, generally speaking, on November 3, 2020) è quello che trascorrerà fra il 6 e il 20 gennaio 2021. Questo perché, senza dubbio, il 6 gennaio 2021 il conteggio dei voti espressi ieri dai «grandi elettori» consegnerà la vittoria presidenziale a Biden.
Presidente legittimo
Tutto ciò è prassi costituzionale inveterata e non accade soltanto oggi, come qualcuno potrebbe erroneamente pensare, per effetto delle contestazioni e dei ricorsi sul voto del 3 novembre. Il che nega recisamente che Donald J. Trump non abbia voluto concedere la vittoria al rivale. Lo farà dopo il 6 gennaio.
Quindi il 6 gennaio Biden sarà il presidente legittimo degli Stati Uniti. Sarà anche il presidente che non avremmo voluto anche noi che statunitensi non siamo e che ci battiamo per la difesa della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona, ma questa è un’altra faccenda. Nessuno dovrà, cioè, fare come hanno fatto per quattro anni i nemici ideologici di Trump cercando di delegittimarne l’elezione con motivi pretestuosi che violano la Costituzione degli Stati Uniti. Biden sarà presidente, e se ne assumerà pienamente la responsabilità. Noi lo osserveremo e, nel nostro piccolo, essendo egli a guida del Paese più importante, potente e influente del mondo, lo avverseremo ogni qualvolta opererà contro la difesa della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona, ma non diremo mai che è un presidente illegittimo. Se lo facessimo, mineremmo alla radice quello stesso impianto costituzionale che invece permette anche l’elezione alla Casa Bianca di un uomo che la tutela della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona ha posto, pone, porrebbe e porrà al centro della propria azione di governo.
Brogli
Se dovessero in futuro, cioè da oggi al 6 gennaio, poi al 20 gennaio, quindi dopo il 20 gennaio, emergere prove che dovessero inficiare la legittimità dell’elezione di Biden dovranno essere ovviamente prese in considerazione. Ma sarebbero, e semmai saranno, appunto elementi ulteriori rispetto agli elementi che fino a oggi, e di qui al 6 gennaio, al 20 gennaio e oltre, risultano fino a prova contraria.
Si è parlato, molto, di brogli. I brogli sono possibili e quindi sono stati possibili anche stavolta. Ma vanno accertati a norma di legge. È possibile esistano motivi forti (non solo di natura morale) per essere convinti di brogli reali anche oltre i dati di fatto accertati. Non sono da ignorare, ma in sede giudiziaria non rilevano. Se i giudici competenti e la Corte Suprema federale non hanno fino a oggi ritenuto esservi gli estremi per inficiare il corso dell’elezione significa che non hanno avuto prove valide in sede giudiziaria. Il che non significa che elementi per parlare di brogli non esistano tout court, ma il risultato, in sede giudiziaria, non muta. La magistratura ha cioè fatto il proprio mestiere (compresa una Corte Suprema federale in maggioranza conservatrice, eletta anche per volontà di Trump proprio per amministrare la giustizia in modo cristallino) e continuerà a farlo qualora dovessero emergere elementi nuovi. Oggi però la verità giudiziaria sulla elezione di Biden è questa. Forse lo sarà sempre. Forse no. Adesso però bisogna agire con realismo. Sarebbe ideale che la verità giudiziaria coincidesse con la verità storica e con la verità morale, ma non vi è alcun automatismo, e il modo di accertare queste tre fattispecie dell’unica verità esistente sono diversi.
Il 5 gennaio
Affinché il 6 gennaio le Camere riunite del Congresso federale possano procedere alla conta dei voti espressi ieri dai «Grandi elettori» e designare finalmente il «president elect» (e il «vicepresident elect») occorre che sia Camera sia Senato siano insediati e prima che siano stati eletti. La data di insediamento del nuovo Congresso, il 116°, suddiviso fra Camera e Senato, è il 3 gennaio.
Il 116° Congresso che si insedierà il 3 gennaio è stato eletto il 3 novembre: la Camera federale per intero e il Senato per circa un terzo, come sempre avviene ogni due anni. Questa volta, però, fino al 5 gennaio non si conoscerà la composizione del Senato federale e quindi la maggioranza che lo guiderà. Infatti il 5 gennaio si svolgerà il ballottaggio per l’assegnazione dei due seggi senatoriali che spettano allo Stato della Georgia. Questo perché il 3 novembre nessun candidato al Senato federale della Georgia ha raggiunto il 50% più 1 dei voti espressi (per la presenza di “terzi candidati”) e così ha reso necessario un “secondo turno” fra i due migliori piazzamenti per ciascuno dei due seggi in palio.
Solo il 5 gennaio, dunque, si saprà se Biden conterà sulla totalità del Congresso federale (la Camera eletta il 3 novembre è infatti già vinta dai Democratici anche se i Repubblicani hanno ridotto le distanze in termini di numeri) oppure se dovrà fare i conti con un Senato a maggioranza Repubblicana.
Il vicepresidente Kamala Harris
Il “secondo turno” della Georgia resta quindi decisivo. I Repubblicani potrebbero infatti conservare, seppur di stretta e di strettissima misura la maggioranza, ma la maggioranza è però indispensabile: un pareggio nelle sessioni di voto al Senato, che potrebbe derivare da un pareggio nel conto dei seggi alla fine eletti, chiamerebbe infatti sempre in causa il parere dirimente del presidente del Senato, che, da Costituzione, è il vicepresidente della repubblica federale, ovvero la Harris.
La maggioranza Repubblicana al Senato comporterebbe invece un ostacolo serio all’attività legislativa dei Democratici, un ostacolo serio alle nomine di giudici federali che Biden opererà e prima ancora un ostacolo serio alla composizione del governo Biden, visto che non tutte, ma alcune, nomine strategiche del gabinetto del presidente federale passano al vaglio del Senato.
Anima biforcuta
Si parla molto, ora, delle “due anime” che compongono la «squadra di transizione» dall’Amministrazione Trump all’Amministrazione Biden e quindi ipotecando la composizione del governo futuro. Spessissimo la stampa internazionale definisce queste “due anime” con i termini «moderato», o «centrista», da un lato ed «estremista» dall’altro. L’ala «moderata» sarebbe quella che fa capo a Biden, mentre quella «estremista» l’ala che fa capo alla Harris. Descrivere così l’assetto attuale è però del tutto fuorviante.
Biden, infatti, non è per nulla «moderato» o «centrista».
Cosa vi è, infatti, di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, cattolico praticante, dichiari, come ha fatto Biden alla rete televisiva ABC il 15 ottobre, «The idea that an 8-year-old child or a 10-year-old child decides, “You know I decided I want to be transgender. That’s what I think I’d like to be. It would make my life a lot easier.” There should be zero discrimination»? Nulla. Lascio la citazione in lingua per beffare i fact-checker che poi direbbero che ho fatto dire a Biden ciò che Biden non ha detto.
Cosa vi è di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, da cattolico praticante, voti regolarmente per promuovere l’aborto come se l’aborto fosse un diritto umano?
Nulla. Non vi sarebbe nulla di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, ateo, dichiarasse così e votasse così, ma dichiarare così e votare così professandosi cattolico spedisce «moderatismo» e «centrismo» ad anni-luce di distanza da qui.
Piuttosto Biden incarna l’establishment del Partito Democratico. Ora, l’establishment del Partito Democratico, dopo otto anni di Barack Obama, dopo le incursioni di Hillary Clinton e dopo le sfide di Bernie Sanders (e dei Pete Buttigieg e delle Alexandria Ocasio-Cortez, qualunque cosa sarà di loro) è tutto tranne che «moderato» o di «centrista». Ovvero, le sue correnti «moderate» e «centriste» non esistono più. Biden rappresenta insomma la “macchina” di un partito politico in cui «moderatismo» e «centrismo» sono stati espunti. Se i media non pendessero in gran parte da quella parte politica lo riconoscerebbero con onestà.
Se dunque l’estremismo è l’establishment del partito, l’ala della Harris cosa rappresenta? Rappresenta l’ala “movimentista” di quello stesso estremismo. Più che “due anime”, una sola anima biforcuta.
I vicepresidenti
Ora, i vicepresidenti degli Stati Uniti servono, almeno da qualche decennio a questa parte, per cercare di assicurare a un certo candidato alla presidenza il raccordo strategico con un elettorato possibile, che va inseguito, coccolato, rassicurato. Quell’elettorato possibile può essere il “mondo liberal” se il candidato presidente è (più) conservatore, un “mondo conservatore” se il candidato alla Casa Bianca è (più) liberal, una Sinistra di strada e piazza se il candidato è di establishment, e così via.
La storia lo mostra. Il conservatore Ronald Reagan (1911-2004) scelse il meno conservatore George H. W. Bush (1924-2018) in un momento in cui il grosso del Partito Repubblicano, necessario per vincere, era assai meno mediamente schierato su posizioni conservatrici di quanto lo sia oggi. Poi Bush padre scelse al proprio fianco Dan Quayle, un po’ in odore di «social conservatism». Bill Clinton scelse quell’Al Gore che piaceva alle Sinistre movimentiste. Il George W. Bush figlio amico dei conservatori volle il Dick Cheney dell’establishment. L’idolo delle piazze Obama scelse l’uomo dell’establishment Biden. Il Trump che all’epoca non dava certezza completa al movimento conservatore scelse il campione del conservatorismo Mike Pence. E oggi il Biden dell’establishment estremista impalma la Harris dell’estremismo movimentista. Non fanno eccezione nemmeno un paio di “trombati” eccellenti: il meno conservatore John McCain (1936-2018) scelse la beniamina dei conservatori Sarah Palin e l’estremista Hillary Clinton predilesse il non meno estremista Tim Kaine, il quale però, cattolico, pur assomigliando in questo al Biden di oggi, assolveva quattro anni fa alla funzione di portare in dote l’elettorato cattolico che, perennemente turlupinato dai politici Democratici, resta essenziale, non fosse altro per il fatto che i cattolici sono la maggioranza relativa dei cittadini statunitensi.
Il mignolo e la chicchera
Le “due anime” che oggi si stanno misurando per il governo futuro degli Stati Uniti sono dunque l’estremismo da establishment di Biden e l’estremismo movimentista della Harris. Il primo conta ora più nomine vere, presunte e potenziali dentro la «squadra di transizione» e quindi, in ipotesi, nel governo. Vero. Questo perché le anime movimentiste, una volta assolto il compito di portare al voto un elettorato potenziale altrimenti inespresso o persino disperso, diventano ingombranti, se non imparano a scendere a patti con l’establishment. Fatto bottino dei voti scongelati dall’“ala Harris”, insomma, Biden potrebbe anche cercare di sfilarsi da un abbraccio che potrebbe risultare soffocante, relegando la propria vice a fare da carta da parati, come spesso i vicepresidenti degli Stati Uniti fanno e lo stesso Biden fece con Obama. L’establishment, infatti, anche quando estremista sa sempre vestire il doppiopetto, sa sempre maneggiare il turpiloquio in pubblico e per questo riesce a irretire stampa e quant’altri che lo definiscono «moderatismo» o «centrismo». Se e finché i movimentisti non imparano a farlo, verranno sempre adoperati solo come utili idioti. La radicalità dell’Amministrazione Biden cioè non cambia se l’“ala Harris” continuerà a essere tenuta un po’ al confino: cambierà soltanto il suo look, facendosi più digeribile nel mondo.
Realtà come Blacks Lives Matter e gli Antifa sono molto utili. Ma poi bisogna saper alzare il mignolo sorbendo dalla chicchera delle tavole dei George Soros, del World Economic Forum o del Center for Inclusive Capitalism, per dirne alcune.
Chez Paul
C’è però forse anche un secondo motivo per cui adesso i nomi di governo in quota Harris sono inferiori di numero rispetto a quelli in quota Biden. E quel motivo si chiama 5 gennaio.
Se il 5 gennaio il “secondo turno” della Georgia consegnerà ancora la maggioranza del Senato federale ai Repubblicani, il Senato avrà il potere politico di bocciare alcune nomine importanti del gabinetto Biden a termine del processo di vaglio delle loro candidature che a quell’assise spetta per dovere istituzionale. Un personale politico che l’establishment Democratico riuscisse a vendere come più «moderato» o «centrista», o qualcuno che desse garanzia di mignolo ben alzato alla tavola dei poteri forti, rispetto a nomi invece più targati street-fighting, o anche solo street-wear, potrebbe avere qualche chance in più di spuntarla pure davanti a un Senato in tesi ostile, soprattutto alla lunga e anzitutto se avesse ingaggiato qualche make-up artist di talento.
Se invece i Repubblicani perdessero il Senato, Biden potrebbe anche concedere al “mondo Harris” qualche figurina in più in stile The Blues Brothers a cena da Chez Paul. Magari anche con qualche avvicendamento nei mesi successivi all’Inauguration Day. I 74 milioni di statunitensi che hanno votato Trump e il personale politico che li rappresentano non debbono lasciarsi prendere dal panico. Ma ci sarà tempo per parlare di questo.