Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » mer mag 13, 2020 6:34 pm

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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » mer mag 13, 2020 6:35 pm

Le due sfide per il nuovo governo israeliano
Progetto Dreyfus
Ugo Volli
13 Maggio 2020

https://www.progettodreyfus.com/le-due- ... sraeliano/

Superati gli ostacoli per la costituzione di un nuovo governo, che non piace molto a nessuno e dovrà imparare a lavorare in condominio, il che non sarà facile, le questioni importanti restano aperte. Non tanto la crisi del coronavirus, che Netanyahu ha affrontato con energia e sicurezza, ottenendo un ottimo risultato; e neppure quella della ripresa economica, che certamente è alla portata del paese. I temi veri e i più controversi riguardano la politica di sicurezza e in particolare due problemi.

Il più pericoloso riguarda l’Iran: che fare se, come sembra, la politica di armamento nucleare del regime degli ayatollah prosegue e accelera, come sembra stia facendo? Israele riesce a contenere l’imperialismo iraniano perché può sfruttare la sua superiorità tecnologica, soprattutto nel campo aereo. La campagna di costruzione di avamposti militari in Siria e in Libano e il loro armamento missilistico è stata finora sconfitta per il fatto che l’aviazione israeliana riesce a operare senza problemi su questi paesi, non si sa se con il consenso dei russi, o superando le loro difese antiaeree – probabilmente una via di mezzo. I danni all’Iran sono stati ingentissimi, con molte centinaia di morti e la distruzione di armi e infrastrutture preziosissime. Questo fa pensare che Israele potrebbe colpire anche i suoi centri nucleari. Ma solo fino a che l’Iran non disponesse dell’arma atomica e dei vettori per farla arrivare in Israele. Quando l’armamento fosse realizzato, anche solo con poche bombe, il vantaggio strategico di Israele si dissolverebbe, perché l’Iran avrebbe una possibilità di deterrenza. E in termini di forze convenzionali un paese di 9 milioni di abitanti non potrà facilmente resistere a uno di 80 (più 17 della Siria, 38 dell’Iraq, 7 del Libano). Dunque Israele dovrà attaccare prima, soprattutto se negli Usa dovessero prevalere i democratici sostenitori dell’appeasment con gli ayatollah. Netanyahu l’ha fatto capire qualche volta. Ma Gantz, nuovo socio di governo, è uno dei comandanti militari (c’era anche il suo vice Askenazi) che una dozzina di anni fa minacciarono l’insubordinazione per impedire il bombardamento delle istallazioni nucleari dell’Iran. Su questo tema il contratto di governo non dice niente e non vi sono state prese di posizioni pubbliche, ma è prevedibile uno scontro che rischia di paralizzare il governo.

L’altro tema è ancora più pressante. Trump ha fatto sapere a Israele che è disposto ad avallare l’annessione allo Stato ebraico di alcuni spazi strategici in Giudea e Samaria, che oggi hanno lo statuto giuridico di territori contesi, ma sono rivendicati dall’Autorità Palestinese con il consenso di buona parte dell’Unione Europea e dei democratici americani. Si tratta dei cosiddetti “blocchi” dove abita circa mezzo milione di israeliani, che presidiano strategicamente Gerusalemme e la pianura costiera, cioè il cuore di Israele e della Valle del Giordano, essenziale per il controllo di infiltrazioni terroriste o militari da oriente. Israele in cambio di questo vantaggio molto concreto, che aumenterebbe notevolmente la sicurezza del paese e di molti suoi abitanti, dovrebbe acconsentire in linea di principio al Piano Trump, e cioè a uno stato palestinese demilitarizzato e ad alcuni aggiustamenti territoriali di compensazione – termini però puramente teorici, essendo chiaro che la controparte dell’autorità palestinese non è disposta neppure a discuterne. È un’occasione storica per risolvere con approvazione americana il problema gravissimo dello status dei suoi insediamenti in Giudea e Samaria, avendo un presidente amico alla Casa Bianca e rapporti molto buoni con il mondo sunnita (e non per una generica buona volontà, che potrebbe non reggere alla propaganda palestinista ma per la comune avversione per l’imperialismo iraniano, che per l’Arabia, i Paesi del Golfo e l’Egitto è un pericolo mortale). In cambio il palestinismo, sia nella versione di Ramallah che di quello di Gaza sembra in crisi profonda, incapace di mobilitare non solo la “piazza araba”, ma anche la sua stessa popolazione.

Insomma è una questione da risolvere nei prossimi due o tre mesi. Anche qui c’è un conflitto, perché Gantz e Askenazi hanno fatto rimarcare la loro contrarietà. Ma nel contratto di governo si sono impegnati a non opporre un veto e a lasciar libero Netanyahu su questo punto e alla Knesset c’è una netta maggioranza favorevole all’annessione. Riuscirà Netanyahu ad assicurare al paese questa vittoria? Forse il prezzo esorbitante che ha pagato a Gantz e all’apparato politico-burocratico che cerca di distruggerlo è stato accettato da Netanyahu non solo per rinviare un po’ la persecuzione giudiziaria cui è sottoposto, ma per raggiungere questo risultato storico, che le quarte elezioni non avrebbero consentito (perché gli sarebbe stato impedito da Mandelbit, il procuratore generale che gli fa guerra anche usando una pretesa incapacità del governo in proroga di prendere decisioni politiche impegnative, che non sta scritto in nessuna legge, ma fa parte dei quell’uso creativo della legalità cui purtroppo ci ha abituato negli ultimi anni).

Insomma la partita vera oggi è questa: vedremo molto rapidamente se la macchina molto estesa del nuovo governo bicipite, con tutti i suoi veti e contrappesi, sarà in grado di realizzare un risultato che cambierebbe in maniera molto importante i fatti sul terreno del secolare conflitto arabo-israeliano.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » gio mag 14, 2020 8:26 am

Il costo della pace con la Giordania
David Elber
13 maggio 2020

http://www.linformale.eu/il-costo-della ... giordania/

Il trattato di pace con la Giordania è senza dubbio un grande risultato diplomatico per Israele. Quando fu firmato, nel 1994, la Giordania era il secondo paese arabo – dopo l’Egitto – a sancire formalmente la pace con lo Stato ebraico. Questo importante risultato, assieme al contestuale avvio degli Accordi di Oslo con i palestinesi, sembrava dare l’avvio ad un processo di distensione e di cooperazione con il mondo arabo fino a quel momento impensabile. Oggi, dopo 26 anni dalla firma del trattato di pace si può stilare un primo bilancio delle ricadute, per Israele, di questo rilevante atto politico.

Prima di entrate nel dettaglio delle relazioni tra Israele e Giordania dal loro trattato di pace ad oggi, è utile fare un esempio, tra i tanti che si possono fare, delle relazioni diplomatiche intercorse tra altri due ex nemici confinanti: Francia e Germania. Questi due paesi dopo ben due guerre mondiali combattute da acerrimi nemici (Prima guerra mondiale 1914-18 e Seconda guerra mondiale 1939-45) hanno firmato un trattato di pace che dopo 26 aveva già dato notevoli frutti: furono tra i paesi fondatori della CEE (oggi UE), avevano solide relazioni politiche, tanto che si può tranquillamente parlare di asse franco-tedesca per tutte le più importanti decisioni prese in seno alla CEE prima e alla UE poi. Inoltre, gli scambi culturali, economici e turistici sono cresciuti fino ad arrivare a livelli impensabili prima della firma del trattato di pace del 1945. Quindi si può affermare che i due paesi, pur mantenendo una certa rivalità economica e politica nel tempo, hanno riconosciuto all’altro piena legittimità e rispetto.

Per prima cosa va evidenziato che, dopo quasi trent’anni dalla pace stipulata con i giordani, nessun altro paese arabo ha voluto intavolare un reale processo di pace con Israele. Le stesse trattative di pace con i palestinesi si sono, di fatto, insabbiate dopo qualche anno dalla firma degli accordi stessi: prima con il rifiuto di Arafat alla proposta di Ehud Barak nel 2000, e poi con il rifiuto della ancora più generosa proposta di Ehud Olmert ad Abu Mazen nel 2008.

In concreto Israele, dal punto di vista politico, diplomatico ed economico, non ha ottenuto dei significativi e reali miglioramenti con il mondo arabo-palestinese. Come sono andate, invece, le cose con la Giordania?

Israele e Giordania hanno combattuto da nemici due aspre guerre: la prima nel 1948 e la seconda nel 1967. A circa 20 anni di distanza – come nel caso di Francia e Germania – l’una dall’altra. Qui si concludono subito le analogie. Infatti, la Giordania, nonostante fosse in ambo i casi l’aggressore, dal 1967 fino al 1994 non ha mai manifestato una reale intenzione di voler trattare con Israele. Quali sono stati i reali vantaggi dell’una e dell’altra parte? Ne tracceremo i soli punti principali.

Con il trattato di pace del 1994, la Giordania ha ottenuto da Israele un grande vantaggio di approvvigionamento idrico: un accrescimento di circa il 7% fin dall’immediato, in più la Giordania a margine del trattato, ha ottenuto degli scambi d’acqua interstagionali, cioè “l’immagazzinamento” nel lago di Tiberiade di una parte delle acque dello Yarmuk spettanti alla Giordania, durante la stagione invernale avendone grande beneficio per il periodo estivo. Il 10 novembre 1997, inoltre, è stato raggiunto un ulteriore accordo tra i due Paesi, il Jordan Plan Development, che prevede tra l’altro anche la costruzione di comuni impianti di desalinizzazione frutto della tecnologia israeliana. Altri progetti sono in via di realizzazione sul mar Rosso.

Con la scoperta, da parte di Israele, di importanti giacimenti di gas offshore è stato siglato un importante contratto di fornitura di gas verso il regno hashemita a prezzi agevolati che consentono un notevole risparmio rispetto ai prezzi che la Giordania pagava ad altri fornitori.

Dal punto di vista politico e militare, la Giordania ha ottenuto due grandi risultati. Il primo e sicuramente il più importante, è il riconoscimento ufficiale da parte di Israele dello “statuto speciale” di custode dei luoghi sacri dell’Islam sul Monte del Tempio con le sue enormi implicazioni politiche e legali. Dal punto di vista politico questo statuto accresce molto il prestigio della casa regnante hashemita in tutto il mondo musulmano. Cosa ancora più importante, dal punto di vista giuridico, la Giordania ha da questo momento voce in capitolo su qualsiasi cosa relativa al Monte del Tempio (Kotel escluso), ciò significa che Israele, prima di prendere qualsiasi decisione interente a questa piccola porzione di territorio della sua capitale, deve avere l’approvazione giordana, ciò in virtù degli obblighi legali sanciti da un trattato internazionale qual è il trattato di pace. Un unico esempio può essere chiarificatore. Nel luglio del 2017, dopo che fu compiuto l’assassinio a sangue freddo da parte di tre terroristi arabi israeliani, di due agenti drusi israeliani della polizia di confine, Haiel Sitawe e Kamil Shnaan, le autorità di polizia di Gerusalemme decisero di installare per ragioni di sicurezza delle telecamere e dei metal detector all’ingresso del Monte del Tempio, per far fronte a evidenti problemi di sicurezza – che si protraevano già da anni e che vanno avanti anche ancora oggi – relativi alle forze dell’ordine e ai comuni cittadini ebrei che si recano al Monte del Tempio in visita. Dopo pochi giorni è intervenuto il governo giordano e il re Abdallah II in persona per chiedere che fossero tolte le telecamere e i metal detector (le armi utilizzate dai terroristi erano state nascoste, preventivamente, in una delle due moschee). Il governo d’Israele acconsentì alla richiesta nonostante vi fossero palesi ragioni di sicurezza pubblica per non infrangere l’accordo sottoscritto e il “buon rapporto” con i giordani. In pratica così facendo si è creato un precedente di extraterritorialità che avrà, sicuramente, gravi ripercussioni in futuro per la città di Gerusalemme.

Sotto l’aspetto militare è aumentato l’ombrello di protezione israeliano sul territorio giordano. Più stretta si è fatta la cooperazione di sicurezza – a vantaggio di entrambe le parti – che in più di un’occasione ha salvaguardato i confini giordani contro nemici esterni (i siriani prima e Saddam Hussein dopo). A dire il vero questo “accordo non scritto” già esisteva dagli anni Settanta e ha permesso una grande stabilità alla Giordania.

Dal punto di vista economico l’accordo di pace ha portato numerosi vantaggi ai giordani. Israele ha riconosciuto delle “Zone Industriali Qualificate” in cui sono investiti fondi israeliani, sono impiegati lavoratori giordani e gli americani sono gli acquirenti delle merci prodotte, offrendo così lavoro a migliaia di famiglie giordane. Queste zone franche sono a cavallo del fiume Giordano, in zone che non avrebbero nessuna possibilità di sviluppo economico. Infine, alcune migliaia di lavoratori giordani si recano in Israele – soprattutto nella città di Eilat – quotidianamente per lavorare nelle strutture israeliane.

Prima di passare in rassegna i “vantaggi” di Israele derivanti dall’accordo di pace, è opportuno fare alcuni esempi sul comportamento dei giordani nei confronti di Israele, da quando vivono in pace, per comprenderne il clima. E’ da sottolineare che molto è cambiato da quando re Abdallah II è salito al potere dopo la morte del padre, re Hussein, nel 1999.

Nel 2016 il quotidiano giordano Al-Ghad, si è dovuto scusare con i propri lettori per aver pubblicato degli annunci pubblicitari nei quali si reclamizzava la possibilità di assunzione di personale giordano a Eliat.
Nel 2018 il re Abdallah II ha dichiarato che non avrebbe rinnovato il contratto di gestione, come previsto dagli Accordi di pace del 1994 e della durata di 25 anni, agli agricoltori israeliani di due piccole isole del fiume Giordano, una la cosiddetta Isola della pace, nella zona settentrionale di Naharayim, l’altra situata nell’Aravà meridionale, vicino a Tzofar, un villaggio agricolo cooperativo (moshav). Isole coltivate fin dal 1994 da agricoltori israeliani in pieno spirito di collaborazione e di pace con la Giordania. La Giordania ha agito in piena conformità con il suo diritto di decidere di non rinnovare il contratto di affitto secondo le clausole del Trattato di pace del 1994 con Israele. Anche se non è certo un atto di amicizia.
Nel 2017, re Abdallah II ha concesso la grazia e ha liberato Ahmad Daqamseh, il soldato giordano che nel 1997 sparò e uccise a sangue freddo sette ragazzine israeliane di Beit Shemesh, ferendone altre sei (proprio nell’Isola della pace). Questo, nonostante la condanna all’ergastolo per l’efferato massacro. Fin dalla sua uscita dal carcere, l’assassino è diventato una celebrità: è costantemente rappresentato come un eroe sui media giordani, dove invita apertamente il pubblico a impegnarsi nel jihad contro Israele.
Nel 2018 a dicembre, il ministro delle telecomunicazioni e portavoce del governo giordano, Jumana Ghunaimat, si è fatta fotografare e riprendere dalla telecamere mentre, entrando nel palazzo dei sindacati di Amman, pestava la grande bandiera israeliana posta all’ingresso come zerbino.
Dal 2016 il cugino del re di Giordania, Zaid ben Raad, è stato promotore in molte sedi ONU di attacchi verso Israele per delegittimarlo a livello internazionale. Tra gli attacchi compiuti ricordiamo: la promozione in sede UNESCO della cancellazione di ogni riferimento ebraico dalla città di Gerusalemme (risoluzione passata a grande maggioranza). Mentre come Alto Commissario della Commissione dei diritti umani dell’ONU ha ideato, portato avanti e concluso una vera e propria black list di aziende che operano in Giudea e Samaria (unico caso al mondo). La lista è stata poi pubblicata nel 2020 dal suo successore Michelle Bachelet.

In merito ai vantaggi di Israele conseguenti al Trattato di pace, per i politici, gli analisti, gli esperti e soprattutto i responsabili della sicurezza, si tratterebbe di avere ottenuto una maggiore sicurezza sul confine più lungo dello Stato ebraico. E’ indubbio che di infiltrazioni terroristiche dal confine giordano non ne sono avvenute (anche se come si è scritto in precedenza il più grave attentato nell’area è stato compiuto da un soldato giordano), ma, a ben vedere, di grandi azioni terroristiche originate dal territorio giordano non erano più avvenute neanche nei vent’anni precedenti al Trattato ti pace, per la precisione da quando re Hussein si era sbarazzato con la forza di Arafat e dei suoi seguaci, uccidendone in gran numero e espellendone in Libano i superstiti.

Forse oggi è arrivato il momento di ridiscutere i termini dell’intesa: sicurezza per entrambi in cambio di cessazione di odio, disprezzo, ostilità e delegittimazione da parte giordana. Perché stando così le cose si ha la netta impressione che la pace ora si basi, non sulla sicurezza di entrambi, sulla mutua collaborazione culturale, sul rispetto reciproco, cioè sulla “vera pace”, ma piuttosto sul ricatto: ti garantisco la sicurezza sul confine al costo di disprezzo, odio e delegittimazione.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » mer mag 20, 2020 11:35 am

Giudea e Samaria: Perchè non si deve parlare di annessione
Da Roberta Vital, riceviamo e volentieri pubblichiamo:
20 maggio 2020

http://www.linformale.eu/giudea-e-samar ... nnessione/

Dal sollievo per la notizia della liberazione della connazionale Silvia Romano si è passati, complice una gestione della comunicazione stile Reality Show, a una spaccatura nella società invasa da accese polemiche.

È partita Silvia è tornata Aisha e questo ha creato un sentimento complesso che sarebbe stato meglio, in alcuni casi, non tradurre istintivamente in parole. Si è sollevata un’ondata di rifiuto nei confronto dell’abito indossato dalla ragazza, prendendo la forma di chi, non sapendo come gestire quella sensazione di rifiuto, lo ha tradotto in insulti di ogni genere.

Da un lato si è sollevato il femminismo, quello che si è battuto per decenni per la liberazione della donna, e il cui manifesto è stato di riappropriarsi del proprio corpo, scoprirsi e proclamarsi padrona delle proprie scelte e dunque uscire dall’ordine costituito da anni di imposizioni maschiliste. Dall’altro i difensori di una ” libera scelta” che a detta loro, spaventava per la presunta forza della sua indipendenza.

Abbiamo letto frasi come “Conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco, come a volerla eliminare, cancellandone l’identità”.

O altre ancora, che indicavano le critiche come puro sessismo perché in realtà altri connazionali, in questo caso, uomini, si convertirono senza tutto questo clamore mediatico e senza il bombardamento aggressivo delle accuse.

Ma se la conversione è una scelta intima su cui nessuno ha il diritto di sindacare, la sua esposizione circondata da alte cariche dello Stato in questo contesto, sdogana anche concetti come la libertà di scegliere e il rispetto dei diritti umani, in questo caso nelle mano di fondamentalisti, e questo merita invece una doverosa riflessione.

Uomo o donna che sia, è irrilevante. È il messaggio trasmesso in mondovisione, ossia quello attinente alla libertà individuale e al rispetto per i diritti umani in un mondo, quello integralista islamico, in cui ogni libertà è repressa, in cui, quella tunica verde è simbolo di oppressione per le donne somale e con quella è stata imposta la negazione della loro libertà.

Libertà di espressione, di culto, libertà sessuale, la libertà di essere ciò che si è, che nel mondo a cui appartengono i sequestratori di Silvia Romano, è punita severamente. Ed è proprio da questo ambito che si cerca la liberazione di un ostaggio. Una conversione avvenuta in un contesto coercitivo, indotta certo da chi non rappresenta l’Islam dialogante.

C’è dunque una netta differenza tra quello che dovrebbe essere un rispettoso silenzio davanti una scelta intima, e l’indignazione nei confronti di chi ha evidenziato come la scelta di Silvia Romano non sia maturata in condizioni idonee, cioè in un contesto realmente opzionale. Un contesto di totale assenza di libertà, di imposizione, di ricatto, di oppressione e prigionia che si oppone per contrasto alla democrazia e al concetto di libertà individuale in essa contenuto. Poiché soltanto la democrazia offre una vera libertà di scelta tra diverse opzioni esistenziali, tutte conciliabili con il rispetto dei diritti umani che permette a ognuno di abbracciare la religione che crede o di non abbracciarla affatto, di essere ateo, omosessuale, ebreo, musulmano, cristiano, di essere se stesso. Una scelta si può qualificare come tale, solo se si hanno delle alternative liberamente perseguibili, senza costrizione alcuna. Dunque, spostiamo lo sguardo dall’abito, dalla donna o dall’uomo che sia e rivolgiamolo al nostro concetto di libertà. È su questo, soprattutto che dobbiamo fare convergere la nostra attenzione perché è con questi valori, non altri, opposti, con quelli della nostra democrazia e con gli ideali di libertà difesi dal nostro paese, che Silvia Romano è stata liberata.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » sab mag 23, 2020 2:18 pm

Un demenziale ebreo non israeliano antisraeliano e filo palestinese

Se non ora, quando?
J-LINK agli ebrei di Israele e del mondo contro l’annessione
Giorgio Gomel

https://www.hakeillah.com/2_20_16.htm

In “Una rete mondiale della sinistra ebraica” (HK, dicembre 2019) riferivo di un tentativo di dare vita ad una rete mondiale dell’ebraismo progressista, un’esigenza esistenziale indifferibile in un frangente difficile per l’ebraismo mondiale, in Israele e nella Diaspora. Questo lavoro di tessitura ha prodotto un risultato importante: si è formato J-Link (vedi il documento fondativo) che raggruppa uno spettro ampio di organizzazioni ebraiche progressiste: fra le principali, Jstreet, Ameinu e New Israel Fund negli Stati Uniti; Jcall in Europa; Jspace in Canada; Jewish Democratic Initiative in Sud Africa; J -Amlat in America del Sud; in Israele Peace now e Policy working group; Ameinu e altri in Australia. Il comitato direttivo di sette membri riflette questo assetto multinazionale; chi scrive rappresenta Jcall Europa.

Il primo atto pubblico è stato, nel corso delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale in Israele, una lettera aperta inviata a Binyamin Gantz e agli altri parlamentari dei partiti Kahol Lavan (Blu e bianco) e laburista contro il proposito – divenuto poi una delle clausole del patto di governo - , sotto la spinta della destra nazionalista e religiosa, di proporre una legge al Parlamento per annettere una parte rilevante della Cisgiordania. Ciò avverrà senza una trattativa con i palestinesi, in contrasto con le risoluzioni dell’ONU e il diritto internazionale. Con una maggioranza semplice del Parlamento, che è nei numeri dell’attuale Knesset uscita dalle elezioni di marzo, una decisione siffatta porrà fine alla possibilità di una soluzione “a due stati” del conflitto. Secondo il piano Trump, a cui tale clausola si rifà esplicitamente, Israele potrà annettere la valle del Giordano, abitata da circa 80.000 palestinesi e 10.000 israeliani, e la totalità degli insediamenti dove vivono oltre 400.000 israeliani – in toto circa il 30% della Cisgiordania – cedendo al più in cambio il 14% di territorio lungo il deserto del Negev non distante dalla striscia di Gaza. Questo “scambio” di territori è vistosamente lontano da quanto discusso in precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008, dove offerte pragmatiche di Israele furono respinte da Arafat e Abbas).

Un atto unilaterale di annessione da parte di Israele porrebbe fine all’ipotesi di una composizione del conflitto basata sul principio di “due stati per due popoli” e sancirebbe per i palestinesi l’impossibilità di giungere ad uno stato indipendente con mezzi non-violenti. L’illusione che la destra in Israele coltiva che essi accettino una soggezione permanente all’occupante è esiziale.

In un documento di recente reso pubblico, i “Comandanti per la sicurezza di Israele” – un’associazione che raggruppa più di 200 ex alti ufficiali dell’esercito, del Mossad e Shabak, nonché della polizia – ammoniva che tale decisione – una conferma de iure di una condizione di fatto sedimentatasi con il protrarsi da oltre cinquant’anni di un’occupazione militare - “condurrà alla perdita di legittimità dell’Autorità palestinese, alla denuncia della cooperazione in materia di scurezza fra essa e Israele come atto di collaborazionismo con l’occupante, infine alla disintegrazione della stessa ANP e all’esplodere di violenza intestina nei territori.”

Ma le implicazioni di un atto di annessione saranno dirompenti anche sul piano regionale e internazionale. Soprattutto la Giordania, fortemente popolata di palestinesi, in particolare rifugiati, potrebbe essere percorsa da un’onda di instabilità interna e costretta a rivedere il trattato di pace con Israele.

La comunità internazionale, i paesi della UE in primis, difenderanno la soluzione “a due stati” in coerenza con i parametri noti; la UE stessa, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Irlanda hanno già manifestato una netta opposizione ad un’annessione. Quanto agli atti concreti, al di là della diplomazia “dichiarativa”, la UE dispone di mezzi di pressione sul piano giuridico ed economico-finanziario non irrilevanti nei suoi rapporti con Israele. In primis, l’impegno ad applicare con maggiore rigore la direttiva convalidata dalla recente sentenza della Corte di giustizia europea circa l’esigenza di etichettare in modo corretto le produzioni degli insediamenti (non “made in Israel”) in conformità con il principio di una distinzione netta fra gli insediamenti, illegali, e lo stato di Israele. In secondo luogo, la conferma delle regole introdotte nel 2013 che escludono l’erogazione di prestiti o doni finanziari a entità israeliane operanti negli insediamenti. Nell’ambito della ricerca scientifica, sotto l’egida di Horizon Europe, la decisione di escludere dalla fruizione di contributi agenzie o istituzioni pubbliche insediate nei territori. Potrebbe essere persino sospeso l’accordo di associazione fra la UE e Israele in vigore dal 1995 che consente fra l’altro a Israele di godere di trattamenti preferenziali sul piano commerciale nei paesi europei. In ultimo, la UE potrebbe reagire con maggiore vigore alle confische, demolizioni di case, ordini di espulsione di palestinesi da Gerusalemme est o altre aree della Cisgiordania.

Infine Israele stesso, il cui futuro ci sgomenta di più. Dei costi distruttivi dell’occupazione sulla società, risultato di una pervicace rimozione della realtà (la “Linea verde” rimossa dalle mappe, dai libri di scuola, dalla coscienza stessa del paese), siamo consapevoli da tempo. Con l’annessione l’attuale sistema legale, doppio e separato, che opera nei territori distinguendo i coloni israeliani soggetti alla legge israeliana e gli abitanti palestinesi soggetti ad un regime militare, troverà una sanzione sul piano normativo: Israele sarà uno stato che discrimina ufficialmente i palestinesi, sulla base di un principio di appartenenza etnica, privandoli di diritti civili e politici, violando gli stessi dettami di eguaglianza sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948 che sono a fondamento della genesi e storia dello stato.

E per gli ebrei della diaspora? Un regime del genere – uno stato “unico” di fatto con diritti diseguali - non potrà non pregiudicare i rapporti fra Israele e gli ebrei del mondo forzandoli ad una scelta dolorosa fra il sostegno acritico al paese e la difesa di valori di eguaglianza e rispetto dei diritti umani propri dell’etica ebraica.



Un ebreo non israeliano che ama Israele
La nostra bandiera
Emanuel Segre Amar
il 22 Maggio 2020
http://www.linformale.eu/la-nostra-bandiera/

Il titolo scelto rimanda non a caso al giornale che la Comunità Israelitica di Torino (così si chiamava allora) fondò nel 1934 subito dopo gli arresti di una decina di ebrei, in massima parte torinesi, poi condannati dal Tribunale Speciale. Leggo in rete, a proposito de “La nostra bandiera: si intendeva ‘fascistizzare’ tutta la comunità ebraica italiana ed estirparne gli indifferenti, i sionisti e gli antifascisti.”

Non molto diverso è, credo, il progetto di altri ebrei torinesi (anche se certo non si tratta oggi di fascistizzare, ma di convertire al verbo progressista), nipoti e pronipoti di quelli che gestivano la Kehillah (Comunità) di allora, e che non solo da oggi occupano posti di rilievo nella Comunità Ebraica torinese.

HaKeillah nacque nel 1975 e la testata sembra da sempre volersi presentare come l’autentica voce della Comunità torinese, così come appare dal nome che, tradotto, significa appunto La Comunità. Giorgio Gomel, che è una delle colonne di questa testata si presenta come la voce dell’ebraismo europeo. Il suo articolo, leggibile nel link in fondo, merita di essere esaminato con attenzione, quasi frase dopo frase.

Nel mese di dicembre del 2019 Gomel “riferiva di un tentativo di dare vita ad una rete mondiale dell’ebraismo progressista, un’esigenza esistenziale indifferibile per l’ebraismo mondiale”. Anche grazie a lui, Jstreet, Jcall, Jspace, Jewish Democratic Initiative e tante altre associazioni dei cinque continenti hanno creato J-Link, e Gomel ha l’onore di rappresentare in questa nuova associazione Jcall Europa.

Ma forse dobbiamo andare più in profondità, e così si comprenderà la ragione dello “sgarbo” di Gantz. Sì, perché qui si parla di non voler “annettere una parte rilevante della Cisgiordania”. Parlare di “annessione” è giuridicamente errato, come ha esaurientemente illustrato David Elber su questo giornale, e altrettanto hanno fatto autorevolmente Michael Calvo e Caroline Glick e Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs e già direttore generale del ministero degli Esteri di Israele.

Subito dopo, Gomel si rammarica per la mancanza di una “trattativa con i palestinesi”, come se fosse per colpa della destra di Netanyahu. Il programma della destra israeliana sarebbe “in contrasto … col diritto internazionale”. Del tutto falso, poiché ciò che il governo si appresta a fare, l’estensione della sovranità israeliana sul 30% dei terriotori cisgiordani è perfettamente in linea con quel diritto internazionale di cui si misero le basi a Sanremo nel 1920 e che venne poi sancito dalla Società delle Nazioni, e poi ancora definitivamente fatto proprio dalle Nazioni Unite.

Con quella che Gomel chiama “annessione” e attenzione alle parole, si “porrà fine alla possibilità di una soluzione a due stati del conflitto”, ma da quanti anni gli arabi palestinesi hanno rifiutato l’esistenza di due Stati?

Grave è anche voler “annettere la valle del Giordano”: eppure anche quel primo ministro Isaac Rabin, tanto amato dalla sinistra ebraica, anche se solo dopo la sua tragica fine, aveva chiaramente questo nel suo programma.

Gomel si rammarica che le “offerte” fatte in “precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008) furono respinte da Arafat e Abbas”. Sarebbe interessante che ci venisse spiegato che cosa Abbas abbia mai accettato fin da quando era il braccio destro di Arafat, e che cosa Arafat, dopo aver accettato, abbia usato per promuovere la pace.

“L’annessione unilaterale…sancirebbe per i palestinesi l’impossibilità di giungere ad uno stato indipendente con mezzi non violenti”. Curioso. Precedentemente i mezzi usati furono notoriamente pacifici, vedi alla voce Prima e Seconda Intifada. Ad Accordi di Oslo ancora caldi, Arafat invocava in una moschea di Johannesburg il jihad, e no, non lo intendeva nel senso di tenzone spirituale. Forse ora la violenza sarà maggiore? Proprio adesso che gli Stati sunniti, da anni stanchi della “causa palestinese” si sono fatti così prossimi a Israele in funzione anti-iraniana? C’è qualcuno, oltre a Gomel, che ci crede veramente?

Ci sarebbe anche un ulteriore rischio, tuttavia. Grave. La “perdita di legittimità dell’Autorità palestinese”. Un vero vulnus. Parliamo dell’organizzazione cleptocratica che governa l’Area A e B della Cisgiordania e il cui leader è un autocrate che non ha più indetto elezioni dopo che il suo mandato è scaduto il 15 gennaio 2009. Ma ci sono altri attori che si adonteranno. La “UE in primis, con Francia, Germania, Belgio, Irlanda”: proprio quegli stati che all’UNESCO hanno votato le mozioni che rinominano in arabo il Muro Occidentale e il Monte del Tempio, annullando nominalmente ogni legame ebraico con essi. La UE che, incalza il Nostro, “Potrebbe reagire con maggiore vigore…alle demolizioni delle case”. Case costruite abusivamente secondo quanto stabilito della Suprema Corte di Giustizia israeliana, che non ha mai fatto mancare di fare sentire la sua voce quando si è trattato di fare abbattere insediamenti ebraici ritenuti illegali. Nulla ci viene detto degli immobili fatti costruire illegalmente dalla UE in spregio assoluto di quegli Accordi di Oslo, di cui essa sarebbe garante. Ma è normale, qui si parla dei programmi abietti di Netanyahu, ci sarà una futura occasione, per parlare delle UE relativamente a Israele. Attenderemo fiduciosi.

Dall’articolo estraiamo anche altre gemme, “Israele…rimuoverebbe dalle mappe e dai libri di scuola la Linea verde”. Gomel si meraviglia. Curioso, perché la “linea verde” è una linea armistiziale, non sancisce alcun confine, se non quello in cui gli Stati arabi vorrebbero rinchiudere Israele. Confini indifendibili. La linea verde venne rimossa dai libri in quanto Israele si accordò con la Giordania nel 1994. Una delle conseguenze del trattato di pace tra i due paesi fu appunto la sua rimozione e il ripristino dei confini mandatari. Un fatto sfuggito all’attenzione di Gomel, come un altro fatto, che nelle mappe dell’Autorità Palestinese Israele è stato completamente cancellato.

In conclusione di articolo l’autore arriva a temere che Israele arrivi a “privare i palestinesi dei diritti civili e politici”, esattamente come accaduto da parte degli arabi, i quali, per decenni hanno allestito campi profughi in prossimità dei confini di Israele dove il popolo arabo-palestinese è stato privato di qualsiasi forma di rappresentanza istituzionale. Gomel dovrebbe rasserenarsi consultando il Piano di Pace proposto dall’amministrazione Trump dal quale scoprirebbe che l’Area C si allargherà soltanto negli insediamenti, e i palestinesi nella stessa non vedranno modificato il loro status attuale in attesa che Abbas si decida, finalmente, a sedersi al tavolo delle trattative.

Ma cosa succederà per “gli ebrei della diaspora” si chiede preoccupato Gomel, alto rappresentante di Jcall dentro J-Link? È bene che tutti rimangano allineati, come preconizzava già La nostra bandiera.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven giu 19, 2020 9:09 am

Decisione necessaria
Niram Ferretti
27 Maggio 2020

http://www.linformale.eu/decisione-necessaria/

Il titolo scelto rimanda non a caso al giornale che la Comunità Israelitica di Torino (così si chiamava allora) fondò nel 1934 subito dopo gli arresti di una decina di ebrei, in massima parte torinesi, poi condannati dal Tribunale Speciale. Leggo in rete, a proposito de “La nostra bandiera: si intendeva ‘fascistizzare’ tutta la comunità ebraica italiana ed estirparne gli indifferenti, i sionisti e gli antifascisti.”

Non molto diverso è, credo, il progetto di altri ebrei torinesi (anche se certo non si tratta oggi di fascistizzare, ma di convertire al verbo progressista), nipoti e pronipoti di quelli che gestivano la Kehillah (Comunità) di allora, e che non solo da oggi occupano posti di rilievo nella Comunità Ebraica torinese.

HaKeillah nacque nel 1975 e la testata sembra da sempre volersi presentare come l’autentica voce della Comunità torinese, così come appare dal nome che, tradotto, significa appunto La Comunità. Giorgio Gomel, che è una delle colonne di questa testata si presenta come la voce dell’ebraismo europeo. Il suo articolo, leggibile nel link in fondo, merita di essere esaminato con attenzione, quasi frase dopo frase.

Nel mese di dicembre del 2019 Gomel “riferiva di un tentativo di dare vita ad una rete mondiale dell’ebraismo progressista, un’esigenza esistenziale indifferibile per l’ebraismo mondiale”. Anche grazie a lui, Jstreet, Jcall, Jspace, Jewish Democratic Initiative e tante altre associazioni dei cinque continenti hanno creato J-Link, e Gomel ha l’onore di rappresentare in questa nuova associazione Jcall Europa.

Ma forse dobbiamo andare più in profondità, e così si comprenderà la ragione dello “sgarbo” di Gantz. Sì, perché qui si parla di non voler “annettere una parte rilevante della Cisgiordania”. Parlare di “annessione” è giuridicamente errato, come ha esaurientemente illustrato David Elber su questo giornale, e altrettanto hanno fatto autorevolmente Michael Calvo e Caroline Glick e Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs e già direttore generale del ministero degli Esteri di Israele.

Subito dopo, Gomel si rammarica per la mancanza di una “trattativa con i palestinesi”, come se fosse per colpa della destra di Netanyahu. Il programma della destra israeliana sarebbe “in contrasto … col diritto internazionale”. Del tutto falso, poichè ciò che il governo si appresta a fare, l’estensione della sovranità israeliana sul 30% dei terriotori cisgiordani è perfettamente in linea con quel diritto internazionale di cui si misero le basi a Sanremo nel 1920 e che venne poi sancito dalla Società delle Nazioni, e poi ancora definitivamente fatto proprio dalle Nazioni Unite.

Con quella che Gomel chiama “annessione” e attenzione alle parole, si “porrà fine alla possibilità di una soluzione a due stati del conflitto”, ma da quanti anni gli arabi palestinesi hanno rifiutato l’esistenza di due Stati?

Grave è anche voler “annettere la valle del Giordano”: eppure anche quel primo ministro Isaac Rabin, tanto amato dalla sinistra ebraica, anche se solo dopo la sua tragica fine, aveva chiaramente questo nel suo programma.

Gomel si rammarica che le “offerte” fatte in “precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008) furono respinte da Arafat e Abbas”. Sarebbe interessante che ci venisse spiegato che cosa Abbas abbia mai accettato fin da quando era il braccio destro di Arafat, e che cosa Arafat, dopo aver accettato, abbia usato per promuovere la pace.

“L’annessione unilaterale…sancirebbe per i palestinesi l’impossibilità di giungere ad uno stato indipendente con mezzi non violenti”. Curioso. Precedentemente i mezzi usati furono notoriamente pacifici, vedi alla voce Prima e Seconda Intifada. Ad Accordi di Oslo ancora caldi, Arafat invocava in una moschea di Johannesburg il jihad, e no, non lo intendeva nel senso di tenzone spirituale. Forse ora la violenza sarà maggiore? Proprio adesso che gli Stati sunniti, da anni stanchi della “causa palestinese” si sono fatti così prossimi a Israele in funzione anti-iraniana? C’è qualcuno, oltre a Gomel, che ci crede veramente?

Ci sarebbe anche un ulteriore rischio, tuttavia. Grave. La “perdita di legittimità dell’Autorità palestinese”. Un vero vulnus. Parliamo dell’organizzazione cleptocratica che governa l’Area A e B della Cisgiordania e il cui leader è un autocrate che non ha più indetto elezioni dopo che il suo mandato è scaduto il 15 gennaio 2009. Ma ci sono altri attori che si adonteranno. La “UE in primis, con Francia, Germania, Belgio, Irlanda”: proprio quegli stati che all’UNESCO hanno votato le mozioni che rinominano in arabo il Muro Occidentale e il Monte del Tempio, annullando nominalmente ogni legame ebraico con essi. La UE che, incalza il Nostro, “Potrebbe reagire con maggiore vigore…alle demolizioni delle case”. Case costruite abusivamente secondo quanto stabilito della Suprema Corte di Giustizia israeliana, che non ha mai fatto mancare di fare sentire la sua voce quando si è trattato di fare abbattere insediamenti ebraici ritenuti illegali. Nulla ci viene detto degli immobili fatti costruire illegalmente dalla UE in spregio assoluto di quegli Accordi di Oslo, di cui essa sarebbe garante. Ma è normale, qui si parla dei programmi abietti di Netanyahu, ci sarà una futura occasione, per parlare delle UE relativamente a Israele. Attenderemo fiduciosi.

Dall’articolo estraiamo anche altre gemme, “Israele…rimuoverebbe dalle mappe e dai libri di scuola la Linea verde”. Gomel si meraviglia. Curioso, perché la “linea verde” è una linea armistiziale, non sancisce alcun confine, se non quello in cui gli Stati arabi vorrebbero rinchiudere Israele. Confini indifendibili. La linea verde venne rimossa dai libri in quanto Israele si accordò con la Giordania nel 1994. Una delle conseguenze del trattato di pace tra i due paesi fu appunto la sua rimozione e il ripristino dei confini mandatari. Un fatto sfuggito all’attenzione di Gomel, come un altro fatto, che nelle mappe dell’Autorità Palestinese Israele è stato completamente cancellato.

In conclusione di articolo l’autore arriva a temere che Israele arrivi a “privare i palestinesi dei diritti civili e politici”, esattamente come accaduto da parte degli arabi, i quali, per decenni hanno allestito campi profughi in prossimità dei confini di Israele dove il popolo arabo-palestinese è stato privato di qualsiasi forma di rappresentanza istituzionale. Gomel dovrebbe rasserenarsi consultando il Piano di Pace proposto dall’amministrazione Trump dal quale scoprirebbe che l’Area C si allargherà soltanto negli insediamenti, e i palestinesi nella stessa non vedranno modificato il loro status attuale in attesa che Abbas si decida, finalmente, a sedersi al tavolo delle trattative.

Ma cosa succederà per “gli ebrei della diaspora” si chiede preoccupato Gomel, alto rappresentante di Jcall dentro J-Link? È bene che tutti rimangano allineati, come preconizzava già La nostra bandiera.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven giu 19, 2020 9:10 am

Israele, Corte suprema annulla legge sugli insediamenti. Netanyahu va avanti. Germania critica
Il piano di Netanyahu: una “mini” annessione
10 giugno 2020

https://www.ilsole24ore.com/art/la-cort ... ia-ADm39sW

Una mini annessione e senza la Valle del Giordano: sarebbe questa l'idea che il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, intende perseguire, almeno in una prima fase, nell'estensione - sulla scia del piano di pace di Trump - della sovranità di Israele a parti della Cisgiordania prevista per i primi di luglio. In pratica - secondo fonti ufficiali citate in forma anonima da Times of Israel - riguarderebbe i tre grandi “blocchi” degli insediamenti ebraici più grandi, più antichi nel tempo e stabili: Maalè Adumim, Gush Etzion e Ariel. Aree ben definite anche dal punto di vista geografico e di mappatura dei confini, che si trovano le prime due a sud e a est di Gerusalemme, mentre la terza è nel nord est della Cisgiordania ma collegato ai sobborghi di Tel Aviv.

Se così fosse - ha fatto notare fa stessa fonte - l’esclusione della Valle del Giordano, almeno nella fase iniziale, permetterebbe di non approfondire le tensioni con la confinante Giordania, che ha ha già manifestato netta opposizione alle intenzioni israeliane.

Ministro tedesco: annessioni fuori da diritto internazionale

Il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas ha espresso la «grave preoccupazione» della Germania per l'intenzione di Israele di un'annessione in Cisgiordania. «In quanto amici di Israele, siamo molto preoccupati per l'annessione, che non si concilia con il diritto internazionale». Lo ha detto il ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, incontrando a Gerusalemme il suo omologo israeliano, Gabi Ashkenazi. «Noi continuano a sostenere la Soluzione dei 2 stati. Occorre una spinta creativa per far rivivere le trattative». Maas vedrà anche il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Benny Gantz. Subito dopo avrà un colloquio su internet con il premier palestinese Mohammed Sthayyeh e quindi proseguirà per Amman.



La Corte Suprema boccia la “legge della regolarizzazione”
10 giugno 2020

https://www.corriereisraelitico.it/la-c ... izzazione/

Con un timing quantomeno sospetto, a pochi giorni dalla supposta applicazione della sovranità, la Suprema Corte israeliana boccia una legge di tre anni fa per lungo tempo al centro di polemiche.

Si tratta della “Legge per la regolarizzazione delle comunità in Giudea e Samaria” approvata dalla Knesset il 6 Febbraio 2017. La legge fu varata dopo che ONG israeliane di estrema sinistra e varie organizzazioni palestinesi riuscirono a far demolire case di famiglie ebraiche costruite su terreni considerati demaniali e che a posteriori si rivelarono di proprietà privata di famiglie arabe.

La registrazione dei terreni in Giudea e Samaria è una faccenda molto complessa in assenza di un catasto organizzato. In alcuni casi i documenti sono di origine ottomana ed in molti casi si tratta di falsi. Gran parte delle comunità ebraiche sono state costruite negli anni su terreni considerati demaniali. Ci sono però stati dei casi nei quali, a posteriori, ONG anti-israeliane sono riuscite miracolosamente a trovare qualcuno con in mano un ‘kushan’, il documento che attesta la proprietà del terreno. Come detto in molti casi il tribunale ha decretato che i documenti erano falsi, ma in alcuni casi invece li ha accettati come validi.

Questo ha comportato la decisione, arrivata alla Corte Suprema, di demolire alcune case di ebrei che sorgevano su quei terreni o che sconfinavano sui terreni anche se per pochi metri.

Uno dei casi più eclatanti è stato quello del quartiere Netiv HaAvot, ad Elazar nei pressi di Betlemme dove 17 case di ebrei sono state demolite su ordine del tribunale. Nella mappa che segue la zona in blu è terreno demaniale secondo tutti. Il terreno in discussione sono le due strisce colorate che in alcuni casi passano per una stanza di una casa o poco più.

A nulla sono valse le proposte di indennizzo dei proprietari. Qui nasce la legge, perché se la cosa fosse successa dentro i confini del 1967 la legge avrebbe previsto un indennizzo, non certo la demolizione. Se domani mattina si scopre che il terreno della Torre Azrieli era di un privato è presumibile che non si abbatte il grattacielo ma si indennizza il proprietario.

Questo è quello che fa la “legge della regolarizzazione” che applica un indennizzo parli al 125% del valore della proprietà o in alternativa l’assegnazione di un terreno demaniale equivalente.

La legge è stata subito impugnata dalle ONG di estrema sinistra perché ovviamente a loro non interessa il diritto – inalienabile – alla proprietà privata, ma lo smantellamento della presenza ebraica in Giudea e Samaria.

La legge si innesta sul terreno minato dello status giuridico della Giudea e Samaria e per questo è quanto mai curioso che il timing della decisione sugli appelli, attesa per tre anni, arrivi proprio alla vigilia della decisione sulla sovranità.

Il deputato Gideon Saar del Likud ha denunciato proprio il sospetto che qui la Corte stia entrando a gamba tesa su una questione politica. Non è la prima volta che la Corte Suprema esprime posizioni politiche di sinistra, e spesso di estrema sinistra, fungendo da strumento dei detrattori dello Stato d’Israele. Notevole il ‘minority report’ del Giudice Soldberg che sosteneva che le lacune della legge potevano essere emendate e che la legge era consistente con le leggi fondamentali dello Stato.

Ora la palla torna alla Knesset che potrebbe riscrivere la legge o muoversi verso la tanto discussa legge che consente al parlamento di mantenere – con una maggioranza qualificata – leggi squalificate dalla Corte. Certo è che le ingerenze continue della Corte e la sua sistematica attività a favore della sinistra hanno sbilanciato in maniera preoccupante la separazione dei poteri. Va ricordato che la Corte non è eletta come avviene in molte democrazie ne nominata dall’esecutivo come negli Stati Uniti, ma si perpetua autonomamente con dei meccanismi che da anni fanno infuriare la Knessete.

Non è un caso se la fiducia del pubblico nella Suprema Corte sia ai minimi storici.



La sentenza promulgata, alcune settimane fa, dalla Corte Suprema di Israele in merito ad una legge del 2017 con la quale si legalizzava, retroattivamente, la costruzione circa 4.000 abitazioni in Samaria, ha suscitato molto scalpore.
David Elber
30 Giugno 2020

http://www.linformale.eu/a-chi-appartiene-la-terra/

Sia in Israele sia in Europa questa sentenza è stata strumentalizzata politicamente facendola passare come una bocciatura della proclamata prossima volontà del governo di estendere la sovranità israeliana al 30% della Giudea e Samaria. Questa sentenza però, non ha nulla a che vedere con questo progetto politico. Vediamone brevemente gli aspetti principali.

La suddetta sentenza è il risultato del ricorso alla Corte Suprema da parte di alcuni palestinesi sostenuti da alcune ONG israeliane, all’indomani dell’approvazione della legge mai diventata esecutiva approvata dalla Knesset nel 2017, con la quale si intendeva legalizzare la costruzione di abitazioni su terreni privati palestinesi. Questa legge si riferisce a costruzioni di abitazioni edificate bona fide, cioè quando i proprietari delle abitazioni dimostrano che in buona fede hanno edificato su terreni di cui non si aveva la certezza che fossero proprietà privata, come impone la legge. Inoltre essa prevedeva una compensazione all’eventuale legittimo proprietario del 125% del valore del terreno una volta accertata la sua proprietà.

È da sottolineare che in Giudea e Samaria molto spesso non si ha una piena certezza di proprietà dei terreni in quanto sono ancora accettate dalle autorità militari israeliane le documentazioni catastali in vigore dal periodo ottomano, mandatario e giordano. Tali documenti sono in molti casi contradditori, carenti e lacunosi perciò molti sono i casi di diatribe e ricorsi di vario genere presso la Corte Suprema, che ha sempre agito in piena imparzialità come dimostra anche questo caso. Sono numerose le sentenze che nel corso dei decenni hanno dato ragione ad una parte o all’altra.

Molto noto, ad esempio, fu il caso Dwaikat contro Israele del 1979, conosciuto come il caso Elon Moreh, relativamente al quale la Corte studiò nel dettaglio la definizione di necessità militare e respinse le prove fornite dall’esercito, per consentire la creazione dell’insediamento Elon Moreh ritenuto non strategico dal punto di vista militare.

Dopo il caso Elon Moreh, tutti gli insediamenti urbani legalmente autorizzati dall’amministrazione militare israeliana (una categoria che, per definizione, esclude “avamposti illegali” costruiti senza previa autorizzazione o successiva accettazione) sono stati costruiti su terreni di proprietà statale o “pubblica” o, in una piccola minoranza di casi (circa il 10% delle abitazioni), su terreni acquistati (regolarmente e a caro prezzo) dagli ebrei dai proprietari arabi dopo il 1967. Il termine “terra pubblica” comprende terreni rurali non coltivati e non registrati a nome di nessuno oltre che terreni di proprietà di proprietari di assenti, che sono entrambe delle categorie di terreni pubblici secondo la legge giordana, mandataria e ottomana che Israele ha deciso di mantenere in Giudea e Samaria pur non avendone l’obbligo. Mentre, è considerata proprietà privata, per le autorità israeliane, la terra registrata a nome di una persona diversa da un proprietario assente (indipendentemente dal fatto che la terra sia attualmente coltivata), la terra in cui esiste un atto di proprietà (anche se l’atto non è registrato) o la terra detenuta per uso prescrittivo. In quest’ultimo caso è previsto che ci sia un uso continuo del terreno per un periodo di 10 anni (usucapione). Quindi come si può facilmente comprendere tutti i diritti di proprietà minimamente dimostrabili sono garantiti anche se ci vogliono anni per dimostrarlo.

Nonostante le citate garanzie sulla proprietà fornite dalla autorità, la caratterizzazione da parte dello Stato di alcune terre come “statali” o “pubbliche” ha suscitato notevoli controversie. In una delle critiche più dettagliate e citate, B’Tselem, la ONG israeliana per i diritti umani, ammette che il 90 per cento degli insediamenti sono stati costruiti su quella che è nominalmente terra “statale”, ma sostiene che circa il 40% di Giudea e Samaria (Cisgiordania) ora rientra in quella categoria. Ciò rappresenterebbe una vasta espansione rispetto al 16% dei terreni che erano stati considerati pubblici durante l’occupazione giordana (è da ricordare che secondo le statistiche di B’Tselem, solo circa il 5% del territorio della Cisgiordania rientra nei “confini municipali” degli insediamenti). Però come riconosce la stessa B’Tselem, la stragrande maggioranza di questa terra si trova nella Valle del Giordano, che, con la principale eccezione della città di Gerico, era a malapena popolata da arabi palestinesi prima del 1967.

Una delle pubblicazioni citate più frequentemente da B’Tselem sostiene che Ma’aleh Adumim, il più grande insediamento israeliano in Giudea e Samaria, a pochi chilometri ad est di Gerusalemme, si trova su un territorio sottratto a cinque villaggi arabi palestinesi e quindi rappresenta un esproprio. Ma poiché agli abitanti dei villaggi manca un qualsiasi titolo registrato che ne attesti la proprietà o anche dei semplici documenti non registrati che ne attesti una qualche titolarità, B’Tselem sostiene che la popolazione beduina Jahalin, che si accampa in modo intermittente e pascola il bestiame sulla terra ad est di Gerusalemme scendendo nel Mar Morto, ha effettivamente guadagnato il diritto alla proprietà della terra a causa del loro uso prescrittivo (una sorta di uso capione) della terra.

Forse, questa tesi può essere vera per questo “particolare principio di proprietà” – peraltro mai applicato in nessuna parte del mondo dove vige lo stato di diritto – ma anche così è tutt’altro che chiaro come un diritto dei beduini alla terra abbia qualcosa a che fare con le rivendicazioni legali degli abitanti dei villaggi palestinesi di 70 anni prima. Per giustificare questo “principio retroattivo” B’Tselem offre questo argomento piuttosto sorprendente: “Hanno pascolato sulla terra dei villaggi in conformità a degli accordi di locazione simbolici (una stretta di mano) con i proprietari terrieri, compresi i proprietari terrieri dei villaggi di Abu Dis e al’Izariyyeh”.

In altre parole, per B’Tselem – e successivamente per gran parte della comunità internazionale – solo i villaggi arabi palestinesi possono essere costruiti e ampliati sul questa terra perché i beduini di tanto in tanto hanno pascolato i loro greggi in base al consenso implicito (e simbolico) degli abitanti dei villaggi palestinesi. Ma quegli stessi abitanti dei villaggi hanno diritto alla terra solo per il suo uso da parte dei beduini. Una tesi che nei tribunali di un qualsiasi Stato di diritto verrebbe rigettata come inconsistente e fantasiosa. È chiaro che questa tesi non ha nessun fondamento giuridico ma è solo una precisa posizione politica: gli arabi hanno diritto alla terra mentre gli ebrei no nonostante il diritto internazionale derivante dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922 affermi esattamente il contrario.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven giu 19, 2020 9:11 am

Israele e “i territori” dal punto di vista del diritto internazionale
David Elber
14 giugno 2020

https://www.progettodreyfus.com/israele ... nazionale/

Il presente articolo dedicato ad Israele e ai “territori” conquistati dopo la guerra del ’67, vuole essere uno strumento di conoscenza per cercare di fare chiarezza su un argomento molto dibattuto e molto strumentalizzato dal punto di vista politico ma, di fatto poco conosciuto. Le considerazioni prese in esame scaturiscono esclusivamente dall’analisi del diritto internazionale.

Per prima cosa bisogna individuare quali sono le aree denominate “territori”. Questa denominazione è diventata espressione comune, soprattutto in ambito politico e diplomatico, a partire dalla fine degli anni ‘70 dopo gli Accordi di Camp David e il trattato di pace con l’Egitto. Da questo momento in avanti, Israele inizia il ritiro del proprio esercito dalla penisola del Sinai, uno dei “territori” conquistati dopo la vittoria nella Guerra dei Sei giorni.

Si ricorda, brevemente, che Israele alla fine della Guerra dei Sei giorni, conquistò i territori della Giudea e Samaria (West Bank o Cisgiordania) in quel momento sotto illegale occupazione giordana, del Golan e della penisola del Sinai. (vedi Mappa n.1).

Mappa 1

Va sottolineato che la Guerra del ’67 fu una guerra difensiva per Israele – come sancito dalla Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Si tratta di un punto di estrema importanza sotto il profilo del diritto internazionale, visto che esso non ammette (art. 2 dello Statuto ONU) la guerra come mezzo di conquista territoriale ma esclusivamente come mezzo di difesa del proprio territorio (art. 51 dello Statuto ONU).

Quindi, per “territori” si intendono i diversi territori di Giudea e Samaria (West Bank o Cisgiordania), Striscia di Gaza, alture del Golan e penisola del Sinai. Questi territori conquistati da Israele nel 1967 vanno considerati come tre casi distinti da affrontare, in quanto la loro posizione giuridica differisce in base al fatto che erano territori con caratteristiche giuridiche ante guerra molto diverse:

Penisola del Sinai;
Giudea e Samaria (West Bank) e Striscia di Gaza;
Alture del Golan;

Per quanto concerne la penisola del Sinai, non vi sono dubbi che fino al giugno 1967, fosse sotto la sovranità riconosciuta dell’Egitto, in quanto il confine, internazionalmente riconosciuto (anche se fino al 1979 in seguito alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele si trattava semplicemente di una linea di armistizio), era quello che divideva la penisola del Sinai dal Mandato britannico di Palestina come sancito dalla Società delle Nazioni nel 1922 con atto vincolante (vedi Mappa n.2) ribadito nel momento in cui l’Egitto diventava pienamente indipendente nel 1932. Il confine, tra i due paesi, nella zona nord, passava da Rafah. Ne consegue che, l’occupazione egiziana della Striscia di Gaza avvenuta nel 1948, con una atto di aggressione armata contro Israele, non era legale dal punto di vista del diritto internazionale.

Mappa 2

Dal punto di vista del diritto internazionale, la conquista territoriale israeliana sul fronte egiziano avvenuta nel 1967, va considerata in maniera differente: conquista di un territorio (Striscia di Gaza) del quale Israele aveva (fino al 2005 quando si ritirò e rinunciò ad ogni rivendicazione) diritto di sovranità ma non ne aveva il possesso a causa dell’occupazione illegale egiziana, e di un territorio (penisola del Sinai) del quale non aveva diritto di sovranità.

Riguardo alla Striscia di Gaza non vi erano dubbi, per il diritto internazionale, che l’Egitto ne avesse piena sovranità. La conquista di Israele pur essendo legale (in base all’art. 51 dello Statuto ONU), non aveva basi giuridiche per rivendicarne la sovranità – cosa che Israele non ha mai cercato – la questione doveva essere risolta tra le parti con un accordo giuridicamente valido. Tale accordo fu raggiunto con il trattato di pace firmato il 26 marzo 1978, nel quale Israele si impegnava a ritirarsi dalla penisola del Sinai fino ai confini “mandatari”, quindi, nella zona nord il confine ritornava ad essere quello di Rafah. Ogni rivendicazione egiziana sulla Striscia di Gaza cessava. Ad essere precisi un piccolo contenzioso era aperto in merito al confine all’estremo sud della penisola: nella zona di Taba. Entrambe le parti ne rivendicavano il possesso. Fu istituita una commissione arbitrale internazionale che stabilì – utilizzando vecchi documenti e cartine degli anni ’10 e ’20 – che il territorio in questione e la cittadina di Taba erano sempre state formalmente sotto il controllo egiziano (anche sotto protettorato britannico). Quando, nel 1922, fu istituito ufficialmente il Mandato britannico per la Palestina, tale zona era sotto sovranità egiziana. Israele accettò la decisione della commissione senza eccepire.

E’ importante comprendere che i confini degli Stati attuali, in mancanza di accordi tra Stati confinanti come è successo nella stragrande maggioranza dei casi, sono definiti da un principio che è diventato un punto fondamentale del diritto internazionale: il “Principio della successione degli Stati” o uti possidetis, principio universalmente accettato tranne nel caso di Israele. Cosa stabilisce questo principio? Che i confini di un nuovo Stato ricalchino esattamente i confini dell’entità statuale che l’ha preceduto. Questo principio è stato utilizzato per designare i confini degli Stati nati dal processo di decolonizzazione, dagli Stati nati dai Mandati della Società delle Nazioni e dagli Stati nati dall’implosione di Stati multietnici come ad esempio URSS e Yugoslavia. Lo scopo principale di questo Principio è quello di ridurre il più possibile i contenziosi tra gli Stati per evitare guerre per dispute di confine.

Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, la situazione era più complessa dal punto di vista del diritto internazionale. Come evidenziato, il vecchio confine internazionale tra l’Egitto e il Mandato britannico per la Palestina, fino al 1948, passava dalla città di Rafah a nord (vedi Mappa n.3) e a Taba a sud.

Mappa 3

Dopo la creazione dello Stato di Israele, l’Egitto, assieme ad altri quattro Stati arabi, invasero il neonato Stato con l’intento di distruggerlo e spartirsi il territorio. L’esercito egiziano entrò nel territorio israeliano da sud. L’obiettivo dell’alto comando egiziano era quello di puntare alla città di Tel Aviv a nord e Beer Sheva ad est. Dopo aspri scontri l’esercito egiziano fu fermato. Le posizioni tra i due eserciti si cristallizzarono in quella porzione di territorio – una sorta di lingua di terra – israeliana che per la sua conformazione sarà conosciuta da tutti come la Striscia di Gaza. Va subito sottolineato che l’armistizio firmato tra Israele ed Egitto a Rodi nel febbraio del 1949, sancì una linea di cessate il fuoco e non un confine internazionale riconosciuto dalle parti. Su insistenza araba fu sottolineato il fatto che le linee di cessate il fuoco non costituissero dei confini. Si riporta l’articolo V punto 2 dell’accordo per il cessate il fuoco:

2. The Armistice Demarcation Line is not to be construed in any sense as a political or territorial boundary, and is delineated without prejudice to rights, claims and positions of either Party to the Armistice as regards ultimate settlement of the Palestine question.
[La linea armistiziale non è da considerarsi in nessun modo come un confine politico o territoriale, ed è delineata senza pregiudicare i diritti, le rivendicazioni e le posizioni di entrambe le parti in merito alla risoluzione definitiva quella questione relativa alla Palestina.]

La stessa logica fu utilizzata nell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Giordania. Cosa che vedremo approfonditamente nel prossimo articolo.

Quindi per quanto detto finora è evidente che non si possa, in nessun modo, parlare dei “confini del ‘67” come in ambito politico, diplomatico e dell’informazione si è soliti definire le posizioni congelate nel 1949 tra Israele, Egitto e Giordania. Poi perché del ’67? Le posizioni sono quelle del 1949 e non sono in nessun modo dei confini ma delle linee per il cessate il fuoco. Perché allora si dice “confini del ‘67”? per ragioni esclusivamente politiche. Questa espressione implicitamente sottende che fino al 1967 esistessero dei confini, senza mai precisare chi fossero gli Stati confinanti per utilizzare forti pressioni politico diplomatiche su Israele al fine di costringerlo ad abbandonare questi territori.

Ma allora per il diritto internazionale a chi appartiene la Striscia di Gaza? Fino al 2005 e al ritiro unilaterale israeliano e alla contestuale rinuncia di sovranità, Israele era lo Stato titolato a rivendicarne il possesso per il succitato principio di successione degli Stati, essendo stata parte del territorio mandatario di cui Israele è il legittimo successore. Dal 2005 ad oggi la sovranità è stata affidata all’ANP nell’ambito degli Accordi di Oslo.




Cartine geografiche taroccate. L’Anpi Roma diffonde fakenews
Iaia Vantaggiato
18-06-2020

https://www.shalom.it/blog/news-in-ital ... ws-b888731

L'Anpi ha convocato per il 27 giugno una manifestazione a sostegno della nascita di uno Stato palestinese. Lo ha fatto corredando su Fb la convocazione con un'ignobile cartina geografica, in circolazione peraltro da tempo immemorabile, che costituisce un clamoroso e deliberato falso storico. La cartina in questione indica le aree palestinesi e quelle israeliane a partire dal 1946, quando Israele ancora non esisteva, sino ad oggi, giocando sull'equivoco tra la Regione Palestina e uno Stato palestinese che non è mai esistito.

La comunità ebraica romana ha risposto con comprensibile indignazione: “E’ difficile invocare l’antifascismo come valore universale – ha dichiarato la Presidente della Comunità Ruth Dureghello – quando l’Anpi Roma diffonde fake news certificate della propaganda antisemita come questa cartina. Chi usa l’antifascismo in maniera provocatoria e strumentale fa un danno alla memoria e alla democrazia”.

Dure e a ragione provocatorie anche le parole di Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità: ”Se poi ci spiegano questo fantomatico ‘Stato di Palestina’ quale sia, visto che non è mai esistito nella storia della umanità ci fanno un piacere. Come fantomatica è una cartina che non identifica Gerusalemme come capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele”.

L'Anpi ha deciso di cancellare la cartina, aggiungendo però un commento oltre modo offensivo, in cui i sedicenti eredi della lotta partigiana assicurano di non aver mai avuto "parole irrispettose nei confronti del mondo ebraico", del quale evidentemente ritengono che lo Stato di Israele non faccia parte e lamentando un "accostamento indecente" con il gran Muftì di Gerusalemme alleato dei nazisti, anche se quell'accostamento - effettivamente indecente anche se l'Anpi sembra non rendersene conto - purtroppo lo accerta senza possibilità di dubbio la storia.

Ognuno, naturalmente, manifesta a favore di chi vuole. Onestà vorrebbe però che, anche difendendo una causa, si rispettassero criteri di onestà e riferimenti alla realtà storica. Il problema di quelle cartine ignobili non si può superare semplicemente cancellandole da un post, perché il punto davvero critico è proprio che quelle immagini bugiarde rispecchiano un approccio disonesto alla complessa e delicata vicenda israelo-palestinese.

Ognuno manifesta per ciò che vuole, ma alcuni fatti storici non discutibili devono essere riconosciuti perché altrimenti ci si muove solo in mezzo agli inganni e alla propaganda da due soldi. Ne elenchiamo alcuni.

Il Gran Muftì di Gerusalemme, massima autorità politica palestinese prima durante e dopo la seconda guerra mondiale fu effettivamente un nazista, ospite di Hitler a Berlino per anni e principale arruolatore delle SS musulmane. Indecente è il fatto in sé, non l'"accostamento".

A rifiutare la spartizione della Regione palestinese nei due Stati che oggi l'Anpi invoca furono nel 1948 gli arabi abitanti nella Regione e 14 Stati arabi che dichiararono guerra al neonato Stato di Israele. Senza quel rifiuto e quell'aggressione oggi non dovremmo porci il problema. Il rifiuto di riconoscere Israele è rimasto tale per decenni e ancora oggi permane se non più per l'Anp, certo per Hamas e per molti Stati, a partire dall'Iran, che non mancano mai di promettere l'imminente distruzione dello Stato di Israele. Nel silenzio dell'Anpi.

Dopo la guerra del 1948-49 a impedire la creazione di uno Stato palestinese furono i paesi arabi e in particolare la Giordania che preferì annettere l'intera West Bank. Senza quella decisione oggi non si discuterebbe di un possibile Stato palestinese.

Nella Gerusalemme capitale di Israele la libertà di culto è pienamente garantita a tutti. Nella Città Vecchia occupata dagli arabi tra il 1948 e il 1967 l'accesso al Muro occidentale era proibito agli ebrei, le sinagoghe erano state distrutte e buona parte della popolazione ebraica (che a Gerusalemme è sempre stata la maggioranza nella storia) era stata cacciata dalle abitazioni nella Città vecchia. Sarà questa la "Gerusalemme cosmopolita" di cui favoleggia l'Anpi?

Nel 2000 gli accordi di Camp David, che avrebbero permesso la nascita di uno Stato palestinese con capitale la "Gerusalemme cosmopolita" furono respinti dall'Anp di Yasser Arafat, non dallo Stato di Israele. Se L'Anpi non fosse vittima di frequenti amnesie sarebbe meglio per tutti e in particolare per l'Anpi stessa.

A tutt'oggi le posizioni delle forze palestinesi tradotte a beneficio degli occidentali e quelle in lingua originale sono sideralmente distanti. Le vignette però sono in linguaggio universale e quanto a violenza e volgarità antisemite non hanno nulla da invidiare allo stile di Julius Streicher, il gerarca nazista che si distingueva per il suo antisemitismo portato ai livelli più estremi. Uno degli ospiti del Gran Muftì a Berlino.

Ognuno manifesta con chi vuole, e se un'associazione che si dichiara partigiana e di "avere per nemico solo il nazifascismo" vuole manifestare con chi dei nazifascsti è stato un tempo amico e alleato e ancora oggi ne condivide i codici antisemiti è un problema dell'Anpi. Un poblema grosso però...
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom giu 21, 2020 8:26 pm

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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom giu 21, 2020 8:27 pm

Perché critico le annessioni
21 Giugno 2020
Francesco Lucrezi

https://www.italiaisraeletoday.it/perch ... nnessioni/


Si susseguono, sui mezzi di comunicazione israeliani e stranieri, i commenti sul controverso piano di annessione di alcune zone della Cisgiordania preannunciato dal nuovo governo di Gerusalemme. Il tenore dei commenti, fuori da Israele, è quasi universalmente negativo. Cambiano le parole e i toni (chi dice semplicemente che l’annessione allontanerà la pace, chi profetizza catastrofici scenari di guerra e distruzione), ma è comunque un dato di fatto che le voci di approvazione, riguardo al progetto, sono praticamente zero, al di là di alcuni ristretti gruppi di persone ideologicamente orientate.

Tutti i politici del mondo o si dicono contrari, o contrarissimi, o tacciono, e lo stesso può dirsi per tutti gli opinionisti, intellettuali e artisti, di vario genere. Ma anche all’interno di Israele le voci contrarie sembrano molto superiori a quelle favorevoli. Ciò, naturalmente, non vuol dire che la maggioranza degli israeliani sia contraria, ma soltanto che i contrari parlano di più dei favorevoli, o a voce più alta, e, soprattutto, che la loro parola è ospitata, dai media internazionali, molto di più di quella dei “pro-annessione”.

Ma questa non è certo una novità: è ben noto che quasi tutti gli israeliani che hanno la possibilità e la voglia di fare sentire, all’estero, le loro idee sui problemi del Medio Oriente e del loro Paese, sono sempre molto critici verso le scelte del loro governo. Comunque, nel caso di specie, non si può certo liquidare il movimento di opposizione alla scelta di Netanyahu come lo snobismo di una èlite di intellettuali di sinistra, dal momento che anche non pochi esponenti di partiti conservatori, di giornali popolari e delle stesse forze armate hanno manifestato le loro preoccupazioni, o la loro aperta contrarietà.

Io credo che, prima di esprimersi nel merito del problema, sarebbe utile, o indispensabile, porsi una domanda preliminare, che invece viene sistematicamente elusa, da pressoché tutti i commentatori, siano essi simpatizzanti, antipatizzanti o indifferenti nei confronti dello Stato ebraico.

Questa domanda è suggerita, fra l’altro, da una nota di commento sulla vicenda formulata su queste pagine, lo scorso 4 giugno, da una persona che stimo molto, e con le cui analisi sono spesso d’accordo, Stefano Jesurum. Il noto scrittore si dichiara fortemente critico nei confronti dell’annessione, e confessa, “col senno di poi”, di essersi pentito del consenso a suo tempo manifestato riguardo al ritiro unilaterale da Gaza, deciso, com’è noto, dal governo Sharon nel 2004, e attuato nel 2005.

Stefano Jesurum

Anche quella, infatti, osserva Jesurum, “non è stata una scelta lungimirante e certamente non ha portato benefici né allo Stato di Israele, né ai palestinesi, né all’ANP e di conseguenza tanto meno al processo di pace. D’altronde la Storia insegna che l’unilateralità rarissimamente produce buoni risultati”.
La domanda, dunque, è questa: se le scelte unilaterali sono sempre sbagliate, cosa bisogna fare nel caso che quelle bilaterali o multilaterali siano del tutto impraticabili, in ragione della totale assenza di un tavolo negoziale, e della completa mancanza di fiducia negli interlocutori? Anzi, nella completa mancanza di interlocutori, di alcun tipo?


Perché il problema di fondo è questo.

Che le soluzioni negoziate e concordate siano preferibili è un dato su cui tutte le persone ragionevoli e pacifiche non possono non convenire, ma ciò non significa che queste soluzioni siano sempre effettivamente a portata di mano, per il solo fatto che le si desidera. E l’atteggiamento, le posizioni, il linguaggio, le azioni delle attuali dirigenze palestinesi sono quelle che sono, non lasciano, su questo piano, nessun margine di speranza.

Ariel

L’esempio del ritiro unilaterale di Sharon da Gaza, evocato da Jesurum, è emblematico al riguardo. Israele smantellò gli insediamenti senza chiedere nulla in cambio: avrebbe potuto concordare la mossa ad un tavolo negoziale, ottenere magari qualche contropartita, ma ciò era impossibile, perché Arafat aveva chiaramente fatto una scelta radicale di rifiuto del negoziato e di scelta della violenza e del terrore (e come ringraziamento, com’è noto, da Gaza sono poi solo piovute decine di migliaia di missili

Abu Mazen

L’alternativa, in quel caso, non era tra ritirarsi in modo concordato o unilateralmente, ma tra ritirarsi o no, e il governo fece, valutando le conseguenze, quella che riteneva la scelta più opportuna. Finché non ci sarà una chiara e sincera volontà negoziale, senza ambiguità, doppiezze e retropensieri, l’unilateralismo non può essere considerato conseguenza di un deliberato rifiuto del multilateralismo, ma, piuttosto, una scelta obbligata. Ciò è una cosa molto negativa, certo, una vera e propria tragedia, la cui prima responsabilità, però, non mi pare proprio che si possa attribuire a Israele. Tanto premesso, nel merito della vicenda, pur evitando in genere di giudicare le legittime e opinabili scelte dei governi israeliani, anch’io, per quel che vale il mio parere, mi iscrivo al partito dei critici dell’annessione, per motivi diversi da quelli correnti, che spiegherò la settimana prossima.



L’ ANNO PROSSIMO A GERUSALEMME
Di Bassem Eid - Analista politico palestinese e pioniere dei diritti umani.
17 giugno 2020

https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 6049058403

Sono nato nel quartiere Ebraico nella Città Vecchia di Gerusalemme, sotto l’occupazione Giordana. Nel giugno del 1966, il governo Giordano decise di evacuare 500 famiglie palestinesi compresa la mia famiglia, dal quartiere ebraico e di trasferirci nel campo profugo di Shuafat senza darci spiegazioni e senza motivi chiari.

Un giorno, prima della guerra del 1967, andai dal campo di Shuafat alla Città Vecchia di Gerusalemme per visitare mia zia. Il giorno dopo scoppiò la guerra del ‘67, avevo nove anni e rimasi a casa di mia zia. Sentii sparare e chiesi a mia zia spiegazioni di quello che stava succedendo- rispose - “ è una guerra tra arabi ed ebrei ‘ - gli chiesi “ cosa è un ebreo? Sono esseri umani come noi ?” Mi rispose di no.
“ Mangiano esseri umani “ ebbi paura. Tanta paura.
Dopo tre giorni di guerra, mia zia mi chiese se volevo andare a prendere del cibo, risposi di no. Ho pensato, mi mangeranno. Lei mi disse che non sarei andato solo ma accompagnato dai nostri vicini. Andai con loro e trovai soldati dell’ esercito Israeliano che distribuivano pane, pomodori e latte. Portai più cibo possibile a casa e capii che i soldati israeliani non erano come la strega della storia di Hansel e Gretel e che non facevano ingrassare i bambini per mangiarseli. Capii che mia zia mi menti’ e che il tutto non era una favola.

Il sesto e l’ultimo giorno di guerra, fecero ripetuti annunci tramite altoparlanti che chiunque volesse uscire era libero di farlo. La gente poteva aprire i negozi e poteva partire. Dissi a mia zia che volevo tornare dalla mia famiglia a Shuafat e camminai per sette km verso casa, attraversai Wadi al Joz, trovai cadaveri sparsi lungo la strada ed incontrai un auto militare Israeliana che mi nascose in una casa per aiutarmi e proseguire poi il mio cammino fino al campo di Shuafat.

All’entrata del campo trovai i miei genitori che stavano venendo a cercarmi, fu un momento molto emozionante dopo essersi persi per sei giorni senza sapere cosa fosse successo uno all’altro.

A Shuafat la vita era molto noiosa, terribile. Niente elettricità, niente acqua, corrente, televisione, frigo e nemmeno un bagno. Mio padre era un sarto, guadagnava un penny e noi in famiglia eravamo otto, costretti a sopravvivere in una stanza sola.

Nel 1972 mio padre trovò lavoro all’ospedale di Hadassah come uomo delle pulizie. Negli anni in cui mio padre lavorò li divenne molto amico di un medico ebreo. Questo medico veniva a trovarci il venerdì di Shabbat con sua figlia al campo di Shuafat. Il professor Isaac come lo chiamavamo noi, riuscì a costruire il Centro Sharett per la ricerca sul cancro a Hadassah e trovò un lavoro a mio padre nel nuovo edificio e fece fare un corso di sei mesi a mio padre a Tel Aviv per imparare a sterilizzare le attrezzature mediche. Mi ricordo di un giorno in cui vidi mio padre uscire di casa in giacca e cravatta e chiesi a mia mamma preoccupato “ ma sta partendo?” Mia mamma mi rispose di no, che stava andando al lavoro. Gli risposi “ ma perché gli serve una giacca ed una cravatta per fare le pulizie?” Lei mi rispose “ tuo padre ha una nuova posizione “

Un giorno andai a trovare mio padre all’ospedale di Hadassah e lo vidi indossare un camice da medico in una stanza con macchinari e strumenti enormi. Quel giorno capii e realizzai di quanto fosse importante sostenere Israele, perché Israele è stato l’unico paese che ci diede l’opportunità per una vita migliore.

Io penso che la questione della causa palestinese sia quasi finita. Ne gli arabi, nel gli Stati Musulmani, ne la leadership palestinese si interessano alla causa palestinese. Chiedo quindi ai miei colleghi palestinesi di calmarsi e di realizzare i fatti sul campo. È arrivato il momento per i palestinesi di dire “ muoio dalla voglia di vivere!” Adesso è il momento di farlo.
In questi giorni sono davvero felice di vivere a Gerusalemme sotto il Governo Israeliano e non c’è dubbio che Gerusalemme sia la Capitale di Israele e questo fatto non può essere cambiato a prescindere dalla decisione USA di spostare l’Ambasciata. Se sarò invitato a festeggiare la nuova apertura dell’ Ambasciata a Gerusalemme sarò lieto di farlo. Il giorno di Gerusalemme sarà particolarmente denso di significato quest’anno in virtù della prima Ambasciata straniera a Gerusalemme voluta dalla prima amministrazione americana che ha avuto il coraggio di rompere uno stallo senza fine. Mi auguro che l’anno prossimo lo faccia l’ Arabia Saudita, la UE ed il Regno del Bahrein. L’anno prossimo a Gerusalemme!

Bassem Eid è analista politico palestinese di Gerusalemme, pioniere dei diritti umani e commentatore esperto della questione Israelo- Palestinese.
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