La truffa venetista: "Il Plebiscito del 1866 fu una truffa"

La truffa venetista: "Il Plebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 11:42 am

La truffa ideologica venetista della falsa tesi secondo cui il Plebiscito del 1866 fu una truffa
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 176&t=2859
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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La truffa venetista: "Il Plebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 11:44 am

Su questo dogma completamente falso/artefatto si è costituita la convinzione ampiamente diffusa negli ambienti venetisti, venezianisti, indipendentisti veneti che il passaggio di proprietà/appartenenza politica del Veneto e dei veneti dall'Impero austro-ungarico al Regno dei Savoia fu un atto del tutto illegale, una vera truffa politica ai danni dei veneti.

Questa tesi è stata avanzata, sostenuta e argomentata da Ettore Beggiato, uno dei politici storici del venetismo nel suo oramai famoso libro: "1866: la grande truffa, Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia".
Leggendo il libro però, ci si accorge che l'argomentazione svolta nel testo diverge dal titolo e non tratta affatto di una truffa ma piuttosto di un'estorsione tramite intimidazione e minaccia che avrebbe costretto i poveri veneti così intimoriti a recarsi in massa ai seggi e a votare a stragrande maggioranza Sì (per paura e viltà ? Beggiato non ce lo dice).
Si sarebbe trattato di una truffa qualora i veneti avessero votato No e se le loro schede fossero state sostituite con altre riportanti invece un Sì ma così non avvenne e nemmeno ciò è quanto ipotizzato e sostenuto nel libro.
Quindi secondo Beggiato il Plebiscito di annessione all'Italia del 1866, in cui i veneti a stragrande maggioranza votarono Sì, più che una truffa sarebbe un'estorsione, anche se il plebiscito era solo consultivo e non vincolante poiché non prevedeva nel caso del No nessun'altra alternativa all'annessione.

Su questa falsa tesi divenuta dogma (assieme ad altre idee tra cui il mito statale e imperiale della Serenissima e quello cristiano di San Marco), si è formata l'ideologia fideistica acritica e la retorica venetista della rivendicazione all'indipendenza e al rifacimento del Plebiscito; a tale scopo si sono costituiti gruppi, comitati, partiti, si sono fatti libri e film, conferenze, manifestazioni di piazza e comizi, progetti politici, istanze al consiglio regionale, si sono concessi contributi regionali, ... tutto un lungo lavorio che ha impegnato e illuso decine di miliaia di veneti per anni.

Con questa bufala sono stati tratti in inganno molti veneti che senza verificare-approfondire la tesi l'anno fatta propria come un dogma, motivando così ulteriormente con un presunto delitto politico storico (mai avvenuto) in aggiunta alla loro giusta avversione per lo stato italiano che da 150 anni li mortifica, li opprime e li depreda con la scusa dell'unità d'Italia e della fratellanza italiana che gran parte dei veneti accettano come un fatto storico naturale con radici antiche nella Roma pagana e nella Roma cristiano-cattolica.


La grande truffa italiana
https://www.youtube.com/watch?v=nKXnOUqwZH4

Il Leone di vetro
https://www.youtube.com/watch?v=mMl04hQ8iZU
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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 11:53 am

Annessione del Veneto all'Italia - il plebiscito truffa o farsa o illusione?
viewtopic.php?f=139&t=518

Ła storia contà da Etore Bejato
viewtopic.php?f=148&t=793

El Leon de Vero
viewtopic.php?f=148&t=1529


Comitato 1866 (area fiło leghista)

viewtopic.php?f=126&t=2161

https://www.facebook.com/comitato1866/?fref=photo

http://www.consiglioveneto.it/crvportal ... izia=29605

Indipendenza Veneto. Comitato 1866 presenta programma 150 anni annessione all'Italia

(Arv) Venezia 14 gen. 2016 – Diffondere la conoscenza dei fatti storici che portarono all’annessione della Repubblica Veneta al Regno d’Italia, far riflettere i cittadini sulla loro reale volontà di far ancora parte dell’Italia. Sono questi gli obiettivi che il “Comitato 1866” intende raggiungere e per i quali ha elaborato un programma di iniziative in occasione dei 150 anni della consultazione con la quale i veneti votarono l’unione.
Il programma è stato illustrato oggi nel corso di una conferenza stampa tenutasi a palazzo Ferro Fini, alla quale sono intervenuti il Presidente del Consiglio, Roberto Ciambetti, l’assessore alla cultura, Cristiano Corazzari, i consiglieri regionali Antonio Guadagnini (INV) e Riccardo Barbisan (LN) e la presidente del Comitato 1866, Ilaria Brunelli.
Per quanto riguarda il programma si inizia con il Capodanno veneto, dal 27 febbraio al 6 marzo, che prevede feste e format, per proseguire l’11 marzo con un convegno a Rovigo sul tema “150 anni di Veneto ‘italiano”, il 25 aprile con “Doge per un giorno”, un’invasione digitale a Palazzo Ducale e con visite guidate destinate ai ragazzi; il 21 e 22 ottobre si terrà una celebrazione “diffusa” nelle città venete.
“L’iniziativa - ha sottolineato la presidente Brunelli - è rivolta a tutti i veneti, ma in particolare ai ragazzi che diventeranno il Veneto di domani e ai politici di oggi, perché sappiano leggere con onestà le esigenze della nostra terra. La nostra – ha ribadito– è una iniziativa per certi versi provocatoria, per porre la domanda se oggi, dopo 150 anni, non è forse il momento di chiedere ai veneti se vogliono ancora stare in Italia”.
“Si tratta – ha sottolineato Ciambetti – di una serie di iniziative articolate lungo un percorso informativo per spiegare come avvenne l’annessione 'plebiscitario' del Veneto”.
“Senza alcuna polemica – ha dichiarato Guadagnini – confermo il forte impegno della Regione per affermare la verità dei fatti e per la realizzazione del referendum sull’indipendenza e se poi vinceranno i no ne prenderemo atto”.
Il consigliere Barbisan ha espresso l’auspicio che della cosa se ne possa parlare nelle scuole con una visione laica, “perché finora vi è stata una totale dimenticanza della storia del Veneto e della Repubblica Serenissima”.
“Si tratta – ha sottolineato Corazzari – di una iniziativa che vuole affrontare un argomento controverso come quello dell’annessione del Veneto in modo critico e libero da condizionamenti, aprendo un dibattito che intende approfondire le dinamiche che portarono al plebiscito. In questa logica – ha annunciato – ci faremo promotori con il Provveditorato agli Studi per coinvolgere le scuole in un dibattito nuovo che intende scoprire le vere ragioni dell’annessione”.

Con Cristiano Corazzari, Davide Guiotto, Gianfranco Maschio, Marina Dalla Costa, Ilaria Brunelli, Roberto Ciambetti, Ettore Beggiato, Alberto Montagner, Marco Zonta, Miatello Patrizio, Claudio Scomazzon, Davide Lovat, Mattia Giolo e Antonio Guadagnini.

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Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 11:54 am

Che il Plebiscito non fu una truffa e nemmeno un'estorsione appare più che evidente nel personaggio reale che ben rappresenta i veneti del Plebiscito, il vicentino Domenico Pittarini che negli anni precedenti al Plebiscito militò come patriota italiano nei comitati liberali vicentini che lottavano contro la sudditanza austriaca e per diventare parte del Regno dei Savoia.

Costui fu uno di quei veneti cha sapendo leggere e scrivere e avendo una professione, poteva votare e sicuramente votò Sì in linea con la sua storia.
Il fatto che poi si ricredette sulla bontà dell'annessione a causa della miseria che arrivò con lo Stato italiano, non cancella la sua responsabilità e libera volontà precedentemente espressa di far parte dell'Italia essendosi fatto prendere e imbrogliare dal mito risorgimentale italiano come accadde per tanti altri veneti che illudendosi avevano abbracciato l'ideale unitario risorgimentale italiano.


Domenico Pittarini, vicentino, nel 1866 votò per l'annessione allo Stato italiano
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Commenti

Marco Dal Corso
Si sta limitando a singoli episosi...il Pittarini talmente fu amaliato dall'Italia che il cognome della sua famiglia non fu più Pittarin ma Pittarini, distorcendo la propria radice.... È statisticamente dimostrabile che tale affluenza in favore di un unico esito (quasi unanimità) è più raro che improbabile, ma questa è questione di logica. Prima si tiene alla propria vita e faniglia, e solo in seconda battuta alla propria Patria. Come si è svolto il plebiscito? Chi l'ha istituito e chi l'ha scrutinato? Com'era la propaganda? Non è forse vero che fu dato esito favorevole all'annessione ancor prima dello scrutinio? Solo chi mosso da vera fedeltà al Leone anche a costo della propria vita, votava No...


Alberto Pento
Domenico Pittarini (Sandrigo, 28 agosto 1829 – El Trebol, 28 novembre 1901) è nato nello stato del Regno Lombardo Veneto e non nello stato della Serenissima.

La Patria di Pittarini non era la Serenissima ma la sua terra veneta vicentina e il suo stato di riferimento era il Lombardo Veneto e il suo ideale era il mito risorgimentale italiano e non il ritorno della Serenissima.

I veneti del 1866 non dovevano scegliere tra la Serenissima che non c'era più da 70 anni e il Regno italiano dei Savoia, ma solo dare il loro parere all'annessione, un parere consultivo non politicamente vincolante.
Nessuno è andato con le armi casa per casa a prendere i veneti e a portarli al seggio, ci sono andati tutti come il Pittarini volontariamente e convintamente, nessuno era intimidito e minacciato.
Se non volevano l'annessione e avevano paura di manifestarlo al seggio potevano starsene a casa e non votare.

Io non credo assolutamente che i veneti nl 1866 siano stati così intimoriti, vili e senza dignità da andare a votare e votare Sì al posto del No.
Nessuno può farmi credere che i veneti siano stati così meschini nel 1866.

I veneti odierni debbono trovare altre ragioni ben più valide per spiegare, giustificare, motivare la loro volontà di essere indipendenti dallo Stato italiano, la storia del Plebiscito Truffa non sta in piedi infatti sono solo pochi che ci credono e tutti più per fede che per altro e riportano tutti le stesse argomentazioni fasulle che mi paiono come i maomettani che raccontano le balle di Maometto riportate dal Corano.
Votando come hanno votato visibilmente davanti a tutti per il Sì o per il No era naturale che l'esito dello scrutinio fosse conosciuto prima.



Marco Dal Corso
E tanta gente si scomodò per andare a votare consultivamente ed esprimere un parere in merito ad un'ammissione già avvenuta? Credo avessero ben altro da fare che esprime un parere su scelte immodificabili già fatte da altri sulla loro pelle

Alberto Pento
E invece stramente ci andarono e in tanti.
L'affluenza al voto fu molto alta, oltre l'85% degli aventi diritto al voto. Nel solo distretto di Padova votarono 29.894 elettori, pari a circa il 98% degli aventi diritto.
Nel comune di Venezia gli aventi diritto erano 30.601, ma votarono 4.000 persone in più (34.004 sì, 7 no e 115 nulli), poiché furono ammessi al voto anche i militari e gli esiliati che erano rientrati.
https://it.wikipedia.org/wiki/Plebiscit ... o_del_1866

Il fatto che la cessione formale dei territori veneti, tra i rappresentanti dell'Impero austro-ungarico e del Regno dei Savoia sia avvenuta tre giorni prima del plebiscito, forse sta a significare che per le parti l'esito del plebiscito non aveva importanza politica determinante e che la volontà dei veneti non era per nulla vincolante.
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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 11:54 am

Nel 1848, quindi 16 anni prima del Plebiscito del 1866, accadde quanto segue:
Questo del Prebiscito Truffa è un dogma venetista che fa passare i veneti per dementi o vili a cui io non posso più ragionevolmente e sensatamente credere.

https://www.facebook.com/groups/2376236 ... 9488245128

Alberto Pento
Ai poveri storici venetisti-venezianisti che sostengono la falsità che il Plebiscito del 1866 fu una truffa (o più precisamente un'estorsione) e che l'hanno trasformato in uno dei dogmi del venetismo -venezianista ricordo:
che nel 1848 durante la ribellione contro l'Austria, Daniele Manin che sperava in una confederazione italiana, sventolava il Tricolore italiano con il Leone di San Marco incorporato;
ma questo è nulla al confronto di quanto accadde nelle province venete di Padova, di Rovigo, di Vicenza e di Treviso dove i veneti con diritto di voto e cittadini di questi comuni e province furono chiamati a votare assieme alla Lombardia per l'annessione al Regno d'Italia che si andava costruendo, e in massa votarono Sì
quindi nessuna meraviglia se 18 anni dopo nel 1866 i Veneti votarono in massa per l'annessione allo Stato Italiano.



Governo provvisorio centrale di Lombardia, 1848 aprile 8
Codex, Pavia (IT) - http://www.codexcoop.it

http://www.lombardiabeniculturali.it/is ... de/8000227

Questa, dichiarando la Lombardia – così come le province di Rovigo, Treviso, Vicenza e Padova – parte integrante dello Stato prevedeva inoltre che sarebbero rimaste in vigore le leggi e i regolamenti vigenti in Lombardia, la libertà di stampa, di associazione e la guardia nazionale; che il potere esecutivo sarebbe stato esercitato dal Re per mezzo di un ministero responsabile verso la nazione rappresentata dal Parlamento; che il governo del re non avrebbe potuto concludere trattati politici o di commercio senza essersi preventivamente concertato con una consulta straordinaria, trasformazione nominale del governo di Lombardia, e infine che si sarebbe promulgata una legge elettorale per la costituente e che questa sarebbe stata convocata entro un mese dall’accettazione della fusione. Il 28 giugno la Camera subalpina votò solo il primo articolo del progetto di legge e lo approvò con 127 voti favorevoli e 7 contrari.
Questo recitava: “L’immediata unione della Lombardia e delle province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, quale fu votata da quelle popolazioni, è accettata. La Lombardia e dette province formano con gli Stati Sardi e con gli altri già uniti un sol regno. Col mezzo del suffragio universale sarà convocata una comune Assemblea Costituente, la quale discuta e stabilisca le basi e la forma di una nuova Monarchia costituzionale colla Dinastia di Savoia, secondo l’ordine di successione stabilito dalla legge salica, in conformità dal voto emesso dai veneti e dal popolo lombardo sulla legge 12 maggio 1848 del governo provvisorio di Lombardia. La formula del voto sovra espresso contiene l’unico mandato della Costituente e determina i limiti del suo potere”.



I plebisciti e le elezioni
di Gian Luca Fruci - L'Unificazione (2011)
http://www.treccani.it/enciclopedia/i-p ... cazione%29
...
Fra 1860 e 1870 più di tre milioni di ex sudditi degli antichi Stati italiani si esprimono con meccanismi differenti, ma sempre caratterizzati dall’applicazione del suffragio universale (maschile), a favore prima dell’ingrandimento dello Stato costituzionale piemontese, poi della progressiva costruzione del Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Decine di migliaia di essi, appartenenti ai Ducati di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza e alle province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, hanno già votato, insieme ai lombardi, nella primavera del 1848 per la formazione (inattuata) del Regno dell’Alta Italia, mentre i cittadini delle «provincie parmensi» sono convocati separatamente anche nell’agosto 1859, prima del voto plebiscitario che coinvolge l’Emilia e le Romagne a metà marzo 1860.

Le consultazioni dell’aprile-maggio 1848 nei Ducati padani, in Lombardia e nelle province venete di terraferma, e quelle dell’agosto 1859 a Parma si svolgono tramite sottoscrizioni su pubblici registri, aperti per settimane nei municipi e nelle parrocchie, sul modello degli «appelli al popolo» sperimentati nella penisola in epoca rivoluzionaria e napoleonica (segnatamente nel febbraio 1799 per chiedere l’unione del Piemonte alla Repubblica francese; nell’estate del 1804 in occasione del voto che, anche nei dipartimenti italiani aggregati al territorio transalpino e nell’isola d’Elba, sanziona l’ereditarietà della corona imperiale ai discendenti maschi della famiglia Bonaparte; nel maggio-giugno 1805 per ratificare l’annessione della Repubblica ligure all’Impero francese e la trasformazione della Repubblica di Lucca in principato satellite (sotto l’egida di Felice Baciocchi e di sua moglie Elisa, sorella di Napoleone).
...


La rivoluzione a Venezia
DIARIO degli AVVENIMENTI MARZO 1848-AGOSTO 1849 l
Consiglio regionale del V
http://www.consiglioveneto.it/crvportal ... erweb2.pdf



Alberto Pento
Non si capisce proprio perché i veneti di allora avrebbero dovuto odiare e avversare lo stato italiano che prometteva loro molto e che ancora non avevano sperimentato e sopratutto che ancora non aveva fatto loro alcun male.
Fu solo dopo molto tempo, dopo l'annessione, dopo la miseria, l'emigrazione, dopo la prima guerra mondiale, ecc. ecc. che i veneti incominciarono a chiedersi se allora avessero fatto un affare a farsi annettere allo stato italiano;
ma nel 1866 non avevano alternative ed erano pieni di illusioni e di speranze.
È del tutto sbagliato attribuire ai veneti di allora la coscienza e l'esperienza dei veneti di oggi ed è ancora più sbagliato falsificare la storia stupidamente o scientemente per ingannare.
La menzogna stupida o ingannevole non crea buona coscienza, non convince e non aggrega.


Alberto Pento
Il Plebiscito del 1866 non è stato una truffa, questa è una balla di certo demenziale venetismo vittimista.

https://www.facebook.com/permalink.php? ... ment_reply


Mèlo Riva
Da Coe Ah, no?!? con i carabinieri che controllavano il voto dato con due schede diverse... che manco Hitler con l'Anschluss.
Basta pensare che i voti pel "no" in tutto il Veneto sono stati meno dei marinai veneti decorati solo due mesi prime con le onorificenze della marina austriaca; me l'immagino io il Vianello che con la medaglia d'oro conquistata al timone della Ferdinand Max appuntata al petto va a votare convinto per diventare italiano... ma per piacere...


Alberto Pento
I CC o i soldati vi sono anche oggi ai seggi.
I veneti se volevano il No e temevano di esporsi potevano stare a casa e boicottare il voto e nessuno avrebbe potuto far loro nulla oppure avrebbero potuto andare a votare e coraggiosamente votare No lo stesso sfidando orgogliosamente e dignitosamente lo stato italiano.
Se sono andati a votare e hanno votato Sì o sono stati dementi e vili o effettivamente e coscientemente volevano il Sì come credo proprio volessero e come si erano già espressi nel 1848 durante la rivolta repubblicana e antiaustriaca.
Questa è una balla che offende i veneti e che li fa passare per dementi o vili.
Io non credo più a queste balle irragionevoli di certo insulso venetismo intriso di vittimismo che deresponsabilizza i Veneti.

Nel 1848, quindi 16 anni prima del Plebiscito del 1866, accadde quanto segue:
https://www.facebook.com/groups/2376236 ... 9488245128


Mèlo Riva Da Coe
Ah, certo! potevano boicottare il voto, e come no! :D
Ti ricordo che stiamo parlando di anni in cui Alfonso La Marmora prendeva a cannonate i cittadini di Genova, Bava Beccaris quelli di Milano e i bersaglieri di Cialdini e del rinnegato Eleonoro Negri trucidavano uomini, stupravano donne e incendiavano case con dentro i bambini nel Meridione; e, a parte questo, che ne sappiamo di chi sia andato realmente a votare?
Perché mai poi il paragone con il Burgenland dovrebbe essere inappropriato? Se si avesse voluto una votazione imparziale, o che almeno potesse sembrare tale, bastava farla presiedere dai soldati francesi, erano già qui per il passaggio di consegne tra Austria e Italia, visto che gli austriaci con gli italiani non volevano averci nulla a che fare.
Oltracciò, questo è un manifesto per la convocazione al voto, puoi notare da solo lo stile perfettamente imparziale nella migliore tradizione della par condicio italiana.
Risultato: 647.246 favorevoli e 69 contrari (che, ripeto, nemmeno solo i marinai decorati dagli austriaci), una volta si diceva voto bulgaro, se la pantomima fosse non dico vera, ma almeno verosimile, dovremo ridenominarlo in voto veneto.
Comunque sia, tutti gli storici sono concordi nel ritenerlo un "plebiscito truffa", se tu ti senti in grado di smentirli, buon per te.


Alberto Pento
Mèlo Riva Da Coe, mi dispiace tanto ma il confronto con Genova non regge è fuori completamente perché Genova era un territorio libero e indipendente (la Repubblica Ligure https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_Ligure ) che non aveva bisogno di passare sotto i Savoia per stare meglio, mentre il Veneto non era libero in quanto da 70 anni era dominio prima dei francesi e poi degli austriaci e quindi per i veneti il passaggio allo stato italiano era una speranza di stare meglio.
Il paragone con Milano e la repressione di Bava Beccaris è completamente sballato perché i moti repressi da Beccaris datano il 1898 e non c'entrano nulla con l'annessione allo Stato italiano di Milano e del resto delle città lombarde che già nel 1848 si espressero votando per l'annessione e mai vi fu rivolta contro l'annessione e lo Stato italiano di allora.
La questione del conquista/annessione del meridione è altro ancora anch'essa non paragonabile al caso Veneto, come non è paragonabile la conquista e l'annessione dello Stato della Chiesa e di Roma nel 1870 dove gli eserciti combatterono contro i sovrani storici e legittimi di quelle terre.
Nel Veneto gli italiani non combatterono contro i veneti ma contro i dominatori austriaci del Veneto dai quali i veneti volevano liberarsi come già avevano tentato di fare nel 1848 senza però riusirci.

Io come veneto indipendentista (non venezianista) non ho bisogno di inventarmi Plebisciti truffa o estorsivi (e miti venezianisti) per giustificare il mio diritto all'indipendenza che si basa sul fatto che nel complesso l'esperienza italiana dei veneti è stata tanto deludente e disastrosa e che si pensa che fuori dallo Stato italiano come Stato indipendente si possa stare meglio. Questa è una motivazione più che sufficente ma in una repubblica democratica deve trovare riscontro nella volontà della maggioranza più che assoluta dei veneti che finora è mancata quasi completamente.




1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta

viewtopic.php?f=148&t=2344

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1848, 1866, 2017
viewtopic.php?f=181&t=2684

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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 12:38 pm

La responsabilità e la colpa è anche dei veneti che a suo tempo quando vi era ancora la Repubblica aristocratica veneto-veneziana non hanno saputo e voluto trasformarla in una Repubblica democratica di tutti i veneti così siamo stati vilmente presi da Napoleone, ceduti all'Austria e poi illudendoci di andare a star meglio siamo passati all'Italia; colpa nostra e di nessun'altro.

Il mito risorgimentale e le sue falsità italico-romane
viewtopic.php?f=139&t=2481

Ecco cosa ci ha portato il Risorgimento italiano e il suo Stato unitario a noi veneti:
fame, miseria, emigrazione con esodo biblico, deprivazione e arretramento economico, la nefasta rinascita dell'imperialismo romano, guerra con distruzione e morte, sottosviluppo, corruzione amministrativa e politica, mafia ed altre organizzazioni criminali, falsificazione della nostra storia, induzione al disprezzo etno razzista verso noi stessi e la nostra gente, inciviltà italica con le sue caste e istituzioni ademocratiche ed il suo fascio-comunismo, l'arroganza romana, l'ipocrisia democristiana, la falsa fratellanza con il suo parassitismo statale, romano, etnico e sociale, il ladrocinio bancario, la finanza truffaldina, l'industria assistita ...



Furono in molti che si pentirono di aver partecipato alla promozione dello Stato italiano:

non solo il veneziano Daniele Manin nel suo esilio dopo il 1848, il vicentino Domenico Pittarini dopo 1866, il trevisano Pietro Manfrin ma anche l'emiliano Giueppe Verdi, il genovese Giuseppe Mazzini, il lombardo Carlo Cattaneo, e moltissimi altri.

Tutti costoro si illusero, si fecero ingannare dal mito risorgimentale, si ingannarono e si truffarono con le loro stesse illusioni.




Ƚe colpe, ƚe responsabeƚetà e ‘l tradimento dei venesiani
viewtopic.php?f=167&t=1277


Coel parlamento veneto de tuti i veneti, mai nato e ke i venesiani ke łi gheva el poder no łi ga mai promòso
viewtopic.php?f=183&t=2597

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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 1:06 pm

???

L’indipendentismo veneto fatto sulla pelle del Risorgimento è una truffa
di Guido Pescosolido
2016/10/09

https://www.ilfoglio.it/cultura/2016/10 ... ffa-104922

L’uscita del volume di Ettore Beggiato (“1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia”, Editrice Veneta) ha riacceso la vecchia polemica sui modi in cui fu realizzata l’Unità d’Italia, basata su brogli elettorali orchestrati da casa Savoia mentre le popolazioni, in questo caso quella veneta, sarebbero state contrarie all’annessione. L’autore peraltro non nasconde la speranza che Venezia e il Veneto possano decidere con un referendum di riacquistare la propria indipendenza.

Il libro è stato pesantemente criticato sull’Arena per questioni di merito e di metodo storiografico e per l’uso strumentale della vicenda a fini politici. Carlo Lottieri lo ha difeso sul Giornale. Ma sullo stesso Giornale Dino Cofrancesco è intervenuto sottolineando che, al di là della discutibilità dei risultati, il dato storico più importante dei plebisciti indetti nel corso dell’unificazione fu il cambiamento delle fonti di legittimazione del potere che essi implicavano. E ha pienamente ragione. Sottoporre a plebiscito la decisione di annessione equivalse comunque a riconoscere la sovranità popolare come fattore, sia pure non esclusivo, di legittimazione della sovranità di principi e stati che, sino allora, era avvenuta esclusivamente “per grazia di Dio” e/o per volontà delle grandi potenze, come nel caso della creazione del Regno del Lombardo-Veneto nel 1814-’15, che aveva posto la parola fine alla storia della Serenissima.

Nello specifico veneto, Beggiato ha ragione: una percentuale di Sì del 99,9 per cento dei votanti, non è credibile di essere rappresentativa degli orientamenti della popolazione veneta. Da ciò tuttavia non si può dedurre meccanicamente che la maggioranza dei veneti fosse contraria all’annessione, o, peggio, che tutto il Risorgimento sia stato un piccolo gioco truffaldino organizzato dall’alto e senza concorso di popolo. Dire questo significa, specie nel caso del Veneto, dimenticare che esso, assieme alla Lombardia, fu la culla del Risorgimento, prima e ben più di casa Savoia.

Significa dimenticare la crescente insofferenza che dopo il 1815 le aristocrazie e le borghesie lombarde e venete ebbero contro il regime politico e le relazioni economiche e sociali imposte da Vienna alle due regioni italiane. Il carico fiscale rovesciato su di esse le fece sentire subito fortemente sfruttate a favore degli altri territori dell’Impero. Carlo Cattaneo sottolineava nel 1849 che il Lombardo-Veneto, con un ottavo della popolazione, forniva un terzo delle entrate fiscali dell’Impero. Illustri studiosi di storia economica veneta hanno accertato, spulciando per anni archivi pubblici e privati e rapporti delle camere di commercio venete, che dal 1818 in poi Vienna attuò una politica doganale che mise le industrie cotoniere e laniere lombarde e venete alla mercé della concorrenza dei panni della Boemia e della Moravia, peraltro smaccatamente favoriti anche in materia di forniture militari.

La sollevazione di Milano e Venezia del 1848-’49, oltre che dalla richiesta di indipendenza e libertà politica, nacque anche da queste cose e fu pagata col sangue, non con i voti. Gli esuli del Lombardo-Veneto dopo il 1848-’49 furono la spina dorsale del movimento nazionale italiano. Il primo presidente della Società nazionale voluta da Cavour fu il veneto Daniele Manin.

Tralasciamo i Mille, ma il corpo dei garibaldini cacciatori delle Alpi, formato da decine di migliaia di volontari che combatterono nel 1859-’60 e che nel 1866 furono gli unici italiani a battere gli austriaci, ebbe concorso non secondario di veneti.

D’altro canto non si hanno notizie di umori antiunitari e ancor meno di eclatanti proteste in Veneto negli anni successivi al 1866, come invece si ebbero nel Mezzogiorno dopo il 1861. Tutt’altro. Il ceto imprenditoriale veneto, guidato da Alessandro Rossi, e la rappresentanza parlamentare veneta, guidata da Luigi Luzzatti, assunsero un ruolo di primo piano nella vita nazionale. Luzzatti (presidente del Consiglio nel 1910-’11) fu il massimo responsabile della politica commerciale dell’Italia con l’estero dagli anni Settanta alla Prima guerra mondiale, e massimo artefice quindi del passaggio dal liberismo al protezionismo tra il 1878 e il 1887. All’ombra della tariffa del 1887 il Veneto ebbe ciò che i suoi imprenditori avevano sempre sognato (un mercato nazionale protetto dalla concorrenza estera) e fu regione di punta nel processo di industrializzazione nazionale. Sarebbe stato così nel contesto austriaco? La borghesia e il mondo imprenditoriale veneto nel 1866 pensarono di no, e negli anni precedenti avevano preferito battersi per la creazione in Italia di quello stato autenticamente liberal-costituzionale e con pari diritti etnico-territoriali che dall’Austria non avevano mai avuto.

I veneti oggi possono avere tutte le loro ragioni per essere insoddisfatti dei rapporti con lo stato nazionale. Ma non si dica che il popolo veneto passando nel 1866 all’Italia fu truffato né tanto meno che il Risorgimento è stato un imbroglio a danno di una parte qualsiasi degli italiani. Società civile e classe politica e dirigente italiana da 30-40 anni a questa parte hanno letteralmente divorato tutto quello che era stato costruito nei precedenti centodieci e più anni di storia. Non divoriamo anche la memoria storica del Risorgimento, perché esso resta una delle poche realizzazioni, se non l’unica, per la quale il mondo ancora non ci ride dietro e ci guarda con rispetto, se non anche con ammirazione.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 1:08 pm

L'Italia impossibile di Giuseppe Mazzini
16 Marzo 2010
di Paolo Mieli - Corriere della sera

https://appelloalpopolo.it/?p=1385

Giuseppe Mazzini morì il 10 marzo del 1872 senza essersi riconciliato con quello Stato italiano che grazie (anche o, forse, soprattutto) a lui era nato undici anni prima. Il giorno successivo, l' 11 marzo, la Camera approvò all' unanimità un ordine del giorno di cordoglio ma nessun parlamentare poté prendere la parola nel timore che qualche frase potesse mettere in imbarazzo Vittorio Emanuele II o il governo. Dieci anni dopo, a Genova, gli venne dedicata la prima statua, in piazza Corvetto.

Nel marzo del 1890 il nuovo re, Umberto I, controfirmò la delibera parlamentare che prevedeva gli fosse eretto un monumento a Roma. Nel 1901, un altro Savoia, Vittorio Emanuele III, approvò la decisione della Camera di introdurre nelle scuole elementari il libro di Mazzini Dei doveri dell' uomo. Ma il testo fu purgato di alcuni passaggi, cosa che fu definita dai mazziniani una «profanazione»; altri criticarono il fatto che fosse fatta leggere ai ragazzi un' opera «eccessivamente dogmatica», qualche esponente socialista trovò da eccepire alla «morale conservatrice» di quelle pagine; da parte cattolica si osservò che la lettura dello scritto avrebbe «avvelenato» la gioventù e trasformato le scuole in «uffici di arruolamento per le logge massoniche». Ma è un fatto, sottolinea Giovanni Belardelli nel libro Mazzini – di imminente pubblicazione nella collana «L' identità italiana» curata da Ernesto Galli della Loggia (il Mulino) – che nel giro di pochi anni si passò da una «relativa» emarginazione della sua figura a una inclusione nel Pantheon dell' Italia monarchica.

Questa consacrazione, scrive Belardelli, «comportò inevitabilmente che di lui si sottolineasse soprattutto la fede unitaria, a scapito delle idee repubblicane e anticlericali e che, di fronte ai pericoli del nascente movimento socialista, si evidenziasse la portata conservatrice della sua ultima accesa battaglia contro la Comune parigina e contro l' Internazionale. Un tale processo che doveva condurre a includere anche l' immagine di Mazzini (assieme a quelle di Vittorio Emanuele, Garibaldi e Cavour, ndr) in quelle raffigurazioni dei quattro padri della patria che sarebbero poi diventate comunissime, coincise con il progressivo affermarsi dell' interpretazione conciliatorista del Risorgimento, che smussava e quasi annullava i contrasti tra le diverse componenti del movimento per l' indipendenza, poiché tutte avevano concorso al risultato finale». L' istituzionalizzazione di Mazzini così andò di pari passo con la depoliticizzazione della sua figura. Il che non impedì (anzi!) che nel Novecento un nuovo ceto politico cercasse di impadronirsene. Dapprincipio gli interventisti che si batterono perché l' Italia entrasse nella Prima guerra mondiale. Poi fu la volta dei fascisti: «Fatta salva la differenza sempre esistente tra le singole storie individuali» scrive Belardelli «i richiami a Mazzini furono di una qualche importanza nell' accompagnare o favorire il percorso di quanti passarono dall' interventismo al fascismo». Mazziniani si dichiararono Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Italo Balbo (che si era laureato con una tesi su «Il pensiero economico e sociale di Mazzini»). Quindi Alfredo Rocco e ancor più Giovanni Gentile (lo ha messo ben in luce Roberto Pertici): nei volumi che raccolgono gli scritti e i discorsi politici di Gentile il nome più citato dopo quello di Mussolini è proprio quello di Mazzini. Appropriazione impropria? No, sostiene Pierre Milza che ha sottolineato quanto la cultura mazziniana abbia influito sulla formazione dello stesso Mussolini. E anche per Karl Dietrich Bracher Mazzini è «profeta di un' idea nazionale imperialistica che, riferendosi alla tradizione di dominio dell' antica Roma, sembra anticipare le pretese imperiali del fascismo». Gli antifascisti non furono da meno nel rifarsi a Mazzini. In particolare il movimento di Giustizia e Libertà. Scrisse ad esempio Carlo Rosselli nel 1931 a uno studioso inglese: «Agiamo nello spirito di Mazzini e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la lotta dei nostri antenati per la libertà e quella di oggi». Sulla scia di Rosselli fu poi il Partito d' Azione a richiamarsi agli ideali mazziniani. Pubblici estimatori di Mazzini furono anche il leader socialista Pietro Nenni, che in gioventù era stato un fervente repubblicano, e quello comunista Palmiro Togliatti. «Mazzini e il suo eccitato, nebuloso, mondo spirituale» ha scritto Galli della Loggia «rappresentarono tutto ciò che di religioso l' unificazione italiana poté permettersi, ma si trattò di quella religiosità politico-sociale, intrisa di profetismo utopico e di autoritarismo, da cui dovevano scaturire precisamente le ideologie nazionalistiche, gentiliano-fasciste e gramsciano-comuniste, destinate a fare piazza pulita dello Stato e della cultura liberali». In effetti quando all' inizio degli anni Trenta (dell' Ottocento) Mazzini fuggì all' estero divenne un personaggio del tutto sui generis. Dopo aver attinto, più di quanto fosse disposto ad ammettere, ad alcuni pensatori del suo tempo – François Guizot, Victor Cousin, il marchese de Condorcet e successivamente il sansimonismo che permeava la «Revue encyclopédique» – si diede incessantemente da fare per l' organizzazione di una rete cospirativa che avesse come obiettivo la sollevazione dei popoli per l' unità d' Italia (quando nessuno ancora la prefigurava) e la Repubblica. Il suo voleva essere un movimento «eminentemente religioso», che contrapponeva la dottrina del dovere a quella dei diritti individuali. Ma il mito di Mazzini si deve anche ad altro. «Destinatario, da parte di corrispondenti ed emissari, di esagerazioni che spesso lui stesso aveva contribuito a creare, privo già prima dell' esilio di una diretta conoscenza degli Stati italiani» sostiene Belardelli «viveva nella condizione visionaria e allucinata dell' emigrato politico, che è spinto dalla sua condizione infelice a prestar fede alle notizie più ottimistiche, continuamente mescolando realtà e fantasia». «Se un principio è vero» scriveva Mazzini nel 1833 «le applicazioni hanno a riescirne più che possibili, inevitabili». Le sconfitte, prosegue Belardelli, venivano imputate alla scarsa determinazione dei cospiratori e in ogni caso non erano che tappe verso l' immancabile successo finale. La sua attività, come ben individuò Denis Mack Smith nel fortunato Mazzini. L' uomo, il pensatore, il rivoluzionario (Bur), fu caratterizzata da una serie quasi incredibile di fallimenti. L' insurrezione abortita nei primi mesi del 1833, a cui seguirono, senza che si fosse mosso alcunché, arresti ed esecuzioni capitali (con il suicidio, subito dopo l' arresto, del suo più caro amico, Jacopo Ruffini). La «sollevazione» di Napoli e del Mezzogiorno – dove Mazzini sosteneva di avere tra i 50 e i 60 mila affiliati, del tutto inesistenti – fissata per l' 11 agosto di quello stesso anno: anche questa fu un fiasco. La spedizione rivoluzionaria in Savoia stabilita per il febbraio 1834: un disastro anche per colpa del generale Ramorino, l' uomo chiamato a dirigere l' impresa, che sperperò a Parigi i soldi destinati a reclutare i partecipanti. Stessa sorte per la spedizione del 1844 in Calabria dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati assieme ai loro compagni dopo una mancata rivolta popolare. In ugual maniera fallì l' insurrezione di Milano (dove Mazzini sosteneva di avere a disposizione diecimila uomini che si rivelarono anch' essi inesistenti) nel febbraio 1853. E nel maggio del 1854, al secondo tentativo di mettere in rivolta la Lunigiana, al posto dei mille volontari annunciati se ne presentarono una dozzina che, agli ordini di Felice Orsini, vagarono per otto giorni sui monti nell' inutile ricerca di nuovi adepti. Nel 1857 fu la volta della tragica missione di Carlo Pisacane a Sapri: anche qui finì in un massacro dei mazziniani. Il tutto accompagnato da un continuo tentativo di far ribellare la sua città, Genova, cioè di provocare una sollevazione che, come osservò Rosario Romeo, in quanto rivolta contro l' unico governo libero della penisola, «sarebbe apparsa all' opinione italiana come un atto di guerra civile». L' ultimo e più importante di questi tentativi, nel 1857, gli valse la seconda condanna a morte da un tribunale del futuro Stato italiano (la prima era stata nel 1833). Mazzini, osservò Carlo Cattaneo, «reputava vittorie anche le sconfitte, purché si combattesse». Peccato, aggiungeva, che la sua «dottrina del martirio» fosse fondata sulla «ostinazione di sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi». Già negli anni universitari Mazzini aveva preso l' abitudine, conservata poi per tutta la vita, di vestirsi di nero in segno di lutto per l' oppressione della sua patria. «Non badate alla mia melanconia» scriveva alla madre «questo spleen non ha cause definite o nuove, è un mal umore che mi serpeggia dentro a ore a ore, come in altre persone il mal di testa». È stato già osservato dagli storici come negli scritti mazziniani vi fosse un' evidente risonanza di vari pa

ssi del Don Carlos di Schiller, ad esempio la costante presenza di riferimenti a cimiteri e sepolcri, scheletri e fantasmi, ossa e cadaveri (perfino con «i vermi che vi brulicano sopra») nonché la stessa predilezione per l' aggettivo «incadaverito» per designare istituzioni o principi considerati privi di futuro. A ciò si aggiunse – in modo più evidente dopo il 1837 nel suo soggiorno inglese – una vera e propria vocazione all' infelicità come elemento fondante di una esistenza votata al sacrificio. Eppure la Giovine Italia rappresenta, nella nostra storia, il primo esempio di moderno partito politico dotato di un programma pubblico, un' attività di propaganda, un sistema di finanziamento attraverso quote e sottoscrizioni, una struttura organizzativa basata su un centro e su una rete periferica estesa in tutta la penisola. Paradossalmente l' alone di leggenda che avvolse la figura di Mazzini fu dovuto – come ha puntualmente mostrato Salvo Mastellone in Mazzini e la Giovine Italia – all' attività di spie e agenti provocatori che furono infiltrati da varie polizie nella sua organizzazione: gli informatori, per continuare a percepire i loro compensi, avevano interesse a dipingerlo come un rivoluzionario tanto pericoloso quanto imprendibile e a fornire ai loro committenti un' immagine amplificata di quella rete cospirativa. L' adesione alla Giovine Italia era espressamente vietata a chi avesse più di quarant' anni. «La gioventù» scrive Mazzini a Carlo Alberto «è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne' propositi per vigore di sensazioni, spezzatrice della morte per difetto di calcolo». I giovani a cui si riferisce Mazzini, secondo Belardelli, «avevano appreso a sentirsi parte di una medesima generazione attraverso la lettura delle sofferenze di Werther e di Ortis e del "pellegrinaggio" del giovane Harold byroniano; avevano tratto da Rousseau l' idea che la gioventù non fosse ancora corrotta o almeno non fosse irrimediabilmente segnata dai mali che colpivano la società; le stesse biografie di Byron, Shelley, Keats (morti rispettivamente a 36, 30 e 26 anni) rendevano familiare l' idea che il fulcro della vita andasse collocato nella giovinezza». Cosa che innervava il suo giudizio sulla rivoluzione francese del 1830: nella rivoluzione di luglio, scriveva Mazzini, era stata la gioventù a svolgere un ruolo determinante, ma gli uomini della generazione precedente, che pure «alcuni anni addietro avevano comunicato l' impulso… s' erano ritratti atterriti» e avevano accettato la monarchia orleanista. La vera eredità di Mazzini è un modo d' essere e di pensare che è vivo anche oggi. Ricorda Silvana Patriarca (docente alla Fordham University di New York) nel pregevole libro Italianità. La costruzione del carattere nazionale, appena pubblicato da Laterza, che, cinque anni dopo l' unificazione italiana, nella primavera del 1866, Mazzini pubblicò un articolo dal significativo titolo «La questione morale» in cui accusava i suoi compatrioti che avevano fatto, appunto, l' unità, di esser rimasti «servi nell' anima, servi nell' intelletto e nelle abitudini, servi a ogni potere costituito, a ogni meschino calcolo d' egoismo, a ogni indegna paura… Rinati decrepiti, portiamo avvinta al piede l' antica catena e nell' animo il solco di tutti i vizi, di tutte le fiacchezze del secolo XVII». Poco importa se la maggioranza la pensa diversamente. C' è una famosa pagina della Democrazia in America di Tocqueville (1835) che lo spiega bene: «Ciò che si intende per repubblica negli Stati Uniti è l' azione lenta e tranquilla della società su se stessa: è una condizione normale fondata realmente sulla volontà illuminata del popolo… Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo». Mazzini vuole sì il suffragio universale, ma lo concepisce come manifestazione di una volontà collettiva unanime, come rito della religione nazionale durante il quale il popolo rigenerato mostra la comunanza di sentimenti e di idee con «i migliori e i più saggi». E quando nel 1849 è alla guida della Repubblica romana, Mazzini, scrive Belardelli, dà prova di «non comprendere meccanismi e regole di una assemblea rappresentativa… è appena il caso di osservare che sia la contrarietà ai partiti, concepiti come strumenti di frattura di una volontà generale che è e deve restare una e indivisibile, sia l' avversione alla divisione dei poteri (denunciata già allora da Terenzio Mamiani) mostrano come Mazzini si muovesse nel solco della tradizione democratica rousseauiana-giacobina». Nel gennaio del 1837, espulso dalla Svizzera, Mazzini giunse a Londra, dove nel volgere di qualche anno divenne assai popolare. L' opinione pubblica inglese provò grandi simpatie per la causa italiana, ha scritto Sergio Romano nell' assai interessante Vademecum di storia dell' Italia unita (Rizzoli), e lo dimostrò favorendo l' impresa dei Mille ma anche garantendo ospitalità, oltre che a Giuseppe Mazzini, a Francesco Crispi, a Giovanni Ruffini, ad Antonio Panizzi e ad altri esuli italiani. Il governo britannico, mette a fuoco Romano, «vedeva con favore la nascita di un moderno Stato mediterraneo, governato da una classe dirigente liberale, ma ancora fragile e quindi interessato ad avere con Londra rapporti amichevoli». L' Inghilterra consacra Mazzini come il più grande italiano dell' epoca, offre argomenti alla sua polemica contro la Chiesa, ma anche contro i compromessi tra Cavour e Napoleone III; a Londra Mazzini apprezzerà le «virtù» del colonialismo («Vedo con soddisfazione alcuni passi degli Europei nelle contrade dominate dalle credenze retrograde e stazionarie», scrisse) e sempre a Londra mise a fuoco, in sorprendente anticipo sui tempi, l' inevitabile esito tirannico di un controllo statale dell' economia. Quando infine nacque lo Stato italiano, Mazzini espresse subito un giudizio del tutto negativo, «contribuendo», afferma Belardelli, «così a gettare le basi di quella critica del Risorgimento come rivoluzione tradita che avrebbe poi avuto larga e duratura fortuna». Ai suoi occhi sarebbe stata perfino da preferire la «tirannia straniera, sotto la quale la nazione si dibatteva temprandosi», all' Italia «servile, scettica, opportunista» che era stata creata da Cavour. Ciò nonostante tra il 1863 e il 1864 provò a convincere Vittorio Emanuele II a promuovere un' insurrezione nel Veneto. Il 1864 fu l' anno della rottura con un suo importante ex adepto, Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio. Nel 1866 fu eletto al Parlamento, ma Camera e governo non ratificarono quell' elezione a causa della sua condanna a morte. Rieletto una seconda volta, la ratifica venne nuovamente negata; per essere infine concessa dopo una terza rielezione: ma stavolta fu lui a non accettare una carica che avrebbe implicato il giuramento di fedeltà alle istituzioni monarchiche. Nel 1870, poco prima di essere arrestato (a opera del prefetto Giacomo Medici che in gioventù era stato mazziniano) promosse nuovi moti insurrezionali a Milano e a Genova: ma, come in passato, non accadde nulla. Si mosse qualcosa in altre città sulla base della cospirazione di gruppi non organizzati da lui: furono comunque altri fiaschi e a Pisa venne giustiziato il caporale Pietro Barsanti, che ancor oggi è ricordato come l' ultimo martire della causa repubblicana.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 1:12 pm

FEDERALISMO E LIBERISMO A 150 ANNI DALLA SCOMPARSA DI CARLO CATTANEO
di GUGLIELMO PIOMBINI
Risorgimento e federalismo

https://www.miglioverde.eu/federalismo- ... o-cattaneo

Carlo Cattaneo rappresenta una delle poche personalità capaci di contestare, in pieno Risorgimento, la dilagante retorica nazionalista e le soluzioni centraliste all’opera di unificazione italiana. Con il suo impegno civile e culturale egli punta a superare gli assetti della Restaurazione attraverso la riscoperta di quei principi di autogoverno municipale che, a partire dal Medioevo, hanno giocato un ruolo importante nella storia europea.
A suo avviso l’unico modo per conciliare unità e libertà è il federalismo di tipo svizzero o americano, dove le diverse lingue e religioni possono convivere in pace e su un piano di eguaglianza.
Il modello negativo è invece quello centralista dell’Europa continentale, incarnato ai suoi occhi soprattutto dalla Francia: «La Francia si chiami repubblica o regno, è composta da 86 monarchie che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac; regni 4 anni o 20; debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo, poco importa; è sempre l’uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi armati» (Scritti politici, I, p. 275). Dalla Rivoluzione francese in poi, ricorda Cattaneo, in più occasioni si è cercato di impiantare in Francia un governo di tipo americano o britannico, ma è sempre risorta l’aspirazione assolutistica impressa nel Seicento dal cardinal Richelieu: «La rivoluzione francese non seppe uscire dalla tradizione e dalla fede nell’onnipotenza dei governanti. Ai mandatari del re successero i mandatari della nazione» (Scritti politici, III, p. 75).
Con argomenti simili Cattaneo polemizza contro l’espansionismo monarchico dei Savoia.
Prima del 1848 Cattaneo, che era fortemente contrario alla propaganda nazionalista dei mazziniani, vedeva per l’Austria una sola possibilità di sopravvivenza: la sua trasformazione da stato unitario a federazione. In seguito nulla avrebbe poi impedito al Lombardo-Veneto, resosi autonomo, di staccarsi da una federazione austriaca così concepita per aderire a una libera federazione di stati italiani. Egli afferma che «Libertà è repubblica, e repubblica è pluralità ossia federazione» (Scritti politici, II, p. 48). Sarebbe stato quindi un grave errore realizzare un’esteriore unità nazionale mediante l’automatica estensione a tutto il paese delle leggi piemontesi, spesso più arretrate. Il codice penale toscano, ad esempio, era di gran lunga più avanzato di quello piemontese; anche gli ordinamenti locali del Lombardo-Veneto, risalenti alla riforma di Maria Teresa d’Austria del 1755, erano molto più rispettosi delle autonomie locali delle leggi comunali piemontesi imposte nel 1859 alla Lombardia e poi al resto d’Italia.
Infatti, come spiega Cattaneo, «I molteplici consigli legislativi, i loro consensi e dissensi e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono condizioni necessarie di libertà. La libertà è una pianta di molte radici … Quando ingenti forze e ingenti ricchezze e onoranze stanno raccolte in pugno d’un autorità centrale, è troppo facile costruire o acquistare la maggioranza d’un unico parlamento. La libertà non è più che un nome; tutto si fa come tra padroni e servi» (Scritti politici, II, p. 281). E sul diritto federale scrive: «Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende. E v’è inoltre in ogni popolo la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli, il quale deve avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità» (Scritti politici, I, p. 403−404)
Contro la pianificazione centralizzata
La teoria del federalismo rappresenta la parte più nota dell’opera di Carlo Cattaneo, ma in realtà essa costituisce il filo conduttore di una vastissima indagine filosofica, economica, storica, e sociologica tutta incentrata sul valore della libertà, che per lo studioso lombardo rappresenta la fonte di ogni progresso, conoscenza, e “incivilimento” dell’umanità. Si tratta di un lavoro enorme, di cui solo oggi s’inizia ad avvertire la profondità, che ha portato alcuni autori a vedere in Cattaneo lo studioso universale, l’ultimo dei grandi enciclopedisti (Carlo Lottieri, Liberali e non, 2013, p. 171).
Vi sono delle pagine, nell’opera di Cattaneo, in cui è possibile riscontrare una somiglianza, spesso davvero sorprendente, con le analisi di pensatori liberali molto successivi nel tempo. La sua teoria sullo sviluppo spontaneo dell’ordine giuridico, ad esempio, presenta analogie con quella di Bruno Leoni e Friedrich von Hayek: «Le leggi più celebri apparvero piuttosto frutti di una certa graduale maturazione d’interessi e di opinioni, che liberi decreti della mente individuale dei legislatori» (Opere, IV, p. 27). Contro ogni pianificazione legislativa, Cattaneo esprime quindi l’idea che il diritto non discenda dall’autorità politica, ma nasca dal basso, dai rapporti individuali che nascono nella società civile. Quando la legge formale si pone in contrasto con l’ordine spontaneo i risultati sono spesso ben diversi da quelli progettati dal legislatore, e il più delle volte disastrosi. Da qui, per Cattaneo come per Hayek, l’insorgere di conseguenze sociali impreviste: «Quanti grandi disegni, quanti progetti d’innovazioni e di restaurazioni di nuove civiltà, di vaste colonie, dopo immenso e doloroso dispendio di tesoro, di pace e di sangue, tornarono in vituperevole nullità, perché ripugnavano al corso obbligato delle nazionali evoluzioni» (Opere, IV, p. 28). E al contrario, spiega Cattaneo, quante volte i “furori della superstizione” e le “macchinazioni della cupidigia” concorsero a fondare un ordine di cose molto migliore di quello che si era voluto!
Contro i catastrofisti maltusiani, convinti che lo sviluppo economico conduca inevitabilmente all’esaurimento delle risorse naturali del pianeta, Cattaneo avanza delle considerazioni molto simili a quelle, elaborate circa un secolo e mezzo dopo, dell’economista e scienziato Julian Simon, secondo cui la mente umana è la vera “ultima risorsa”, mentre le risorse, di per sé, non esistono in natura. Una cosa diventa una risorsa solo quando l’uomo scopre il modo di utilizzarla a proprio vantaggio. «Non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci con un atto d’intelligenza – scrive Cattaneo – Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate o ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza … Il valore che hanno le cose non si rivela da sé; è il senno dell’uomo che le discopre. Gli inglesi e i fiamminghi calpestarono non curanti le stratificazioni di carbon fossile accumulate sotto i loro piedi per tutta la superficie di vaste province, anche alcuni secoli dopo che Marco Polo lo aveva descritto come d’uso antico e popolare presso i cinesi. I peruviani ignoravano l’uso del ferro, che i nostri libri sacri sanno antico più di Noè; ma viceversa conoscevano l’uso del guano, dal quale i nostri navigatori s’avvidero solamente ai nostri giorni, tre secoli dopo che avevano preso vano possesso delle isole che ne son ricoperte» (Opere, V, p. 369).
Il valore dei beni dunque non è qualcosa di oggettivo, che risieda dentro di essi o nell’attività necessaria a procurarli, ma è soggettivo, perché dipende esclusivamente dalle valutazioni individuali. Per questa ragione Cattaneo critica la teoria del valore-lavoro di Adam Smith: «Falso è dunque che il lavoro per sé sia il padre della ricchezza, come pensò Adam Smith e come dopo di lui viene ripetuto dal volgo. La vita del selvaggio è sommamente faticosa, e sommamente povera. La fonte d’ogni progressiva ricchezza è l’intelligenza, che tende con perpetuo sforzo a procacciare a un dato numero di uomini una maggiore quantità di cose utili, o la stessa quantità di cose utili a un numero di uomini sempre maggiore» (Opere, VI, p. 398).
I vantaggi della concorrenza e del libero scambio
Cattaneo riconosce comunque a Smith il merito di aver individuato nell’estensione della divisione del lavoro e degli scambi il motore principale dell’aumento della ricchezza e della prosperità generale: «Non ha senso l’accusa fatta a Smith che la sua dottrina della libera concorrenza non sia nazionale e politica, ma umanitaria e cosmopolitica, come quella che si indirizza a tutte le nazioni. La scienza è una sola. Il diviso lavoro è in economia ciò che in meccanica è il braccio di leva o la macchina a vapore» (Opere, V, p. 204). Il protezionismo e le barriere doganali sono profondamente contro natura perché pretendono di negare i dati di fatto della realtà: che gli uomini hanno talenti diversi tra di loro, e che le condizioni fisiche e climatiche non sono uguali in tutti i luoghi della terra.
Invece di permettere agli individui di mettere a frutto tutte le loto potenzialità, specializzandosi nelle attività in cui eccellono, il protezionismo li costringe a dedicarsi ad occupazioni scarsamente adatte alle circostanze in cui vivono, e che mai avrebbero scelto volontariamente: «Le attitudini ingenite sono soppresse; i favori della natura sono rifiutati; le indoli nazionali sono sommerse nel principio dell’uniformità universale delle nazioni. Queste sono le ultime conseguenze del principio protettivo, che toglie l’uomo dalle vie per cui la natura lo ha fatto, e lo sospinge zoppicone e ansante per vie che non sono le sue. I pesci devono volar per l’aria, e gli uccelli agitarsi nei vortici dei mari» (Opere, V, p. 192).
La battaglia liberoscambista fu quindi sempre al centro della riflessione economica di Cattaneo, dato che in quel fenomeno che oggi viene chiamato globalizzazione vedeva l’unica possibilità per tutti i paesi, specialmente per quelli più piccoli, poveri, arretrati o privi di risorse naturali, di migliorare le proprie condizioni: «Tutte le storie ci attestano come la libertà fu cagione che immense ricchezze si potessero accumulare sopra paludose o aride o alpestri liste di terra, in Fenicia, in Grecia, in Liguria, nella Venezia, nell’Olanda, nella Svizzera. Il primato sui mari appartiene oggidì ad ambo i rami della stirpe anglobritanna, che è quella fra le grandi nazioni che serbò più fedele e costante il culto alla libertà. Le sue ricchezze sono maggiori di quelle degli altri popoli per forza di libertà, cioè per una causa che risiede nella sfera della volontà. Epperò, per nostro conforto, sono accessibili a tutte le nazioni» (Opere, V, p. 392-393).
Grazie al libero scambio – continua Cattaneo – il più piccolo stato può godere la stessa vastità di campo che gode lo stato più grande; al contrario, quando tutto lo spazio è ripartito in recinti, sta peggio e vive più languidamente quel prigioniero che ha il recinto più angusto. Coloro che propongono politiche di chiusura per evitare gli effetti della concorrenza internazionale non si rendono conto di condannare il proprio paese alla stagnazione e al sicuro declino, come la storia ha spesso dimostrato: «Poco invero giovò alla Cina il trincerarsi tra il mare e la muraglia; né, con un numero di sudditi eguale a mezzo il genere umano, sarebbe certo caduta in sì puerile fiacchezza, se la libera concorrenza avesse rinnovato le sue armi, ritemprata la pubblica ragione, accesa la face della scienza libera e viva. E che altro è il principio protettivo del signor List, e la sua economia nazionale, fuorché un’imitazione dell’infelice pensiero che incarcerò dietro una muraglia l’intelligenza cinese?» (Opere, V, p. 171).
Milizie popolari, non militarismo
La libertà degli scambi tende inoltre ad affratellare il genere umano, rendendo ogni popolo interdipendente con tutti gli altri per la soddisfazione dei propri bisogni. Cattaneo dice che il libero commercio è una sorta di “reciproca assicurazione universale”, dato che una carestia di un bene in un certo luogo può essere supplita dalle eccedenze prodotte altrove. L’autarchia e il protezionismo, invece, sfociano inevitabilmente nel militarismo e nelle guerre di conquista, necessarie per procurarsi quelle ricchezze fuori dai confini nazionali non raggiungibili col pacifico commercio.
Ecco perché per Cattaneo, proprio come per Ludwig von Mises cent’anni dopo, il liberalismo è soprattutto la teoria sociale della pace, senza la quale non può esservi cooperazione volontaria tra gli uomini: «Una guerra, in qualunque parte del globo turba il commercio e l’industria di tutte le nazioni. Al contrario la quiete, la prosperità, la cultura d’un popolo torna in mille modi a giovamento di tutti gli altri; le invenzioni della scienza e dell’arte si propagano per tutta la terra, come la stampa, la locomotiva, la bussola, il telegrafo. Perciò tutte le nazioni hanno interesse a proteggere la libertà delle nazioni, e il loro incivilimento è il regno della giustizia su tutta la terra» (Opere, VI, p. 335).
Il liberalismo deve germogliare però dal basso, non calare dall’alto. Per Cattaneo la libertà non deve piovere dai santi del cielo, ma deve scaturire dalle viscere dei popoli, e chi vuole altrimenti è in realtà un nemico della libertà. Contrariamente quindi ai sostenitori di una pax romana, britannica o americana, cioè di un ordine imperiale basato sull’interventismo globale, Cattaneo preferisce guardare al modello militare svizzero, dove una milizia di popolo puramente difensiva prende il posto di un costoso e burocratico esercito permanente.
L’esercito stanziale, infatti, costituisce non solo un pesante onere economico per la società, ma anche un grave pericolo per la libertà, perché risponde a logiche burocratiche e tende ad essere il difensore interno delle oligarchie al potere. In una nazione armata come la Svizzera, dove l’esercito è formato da tutti i cittadini custodi delle proprie armi e periodicamente chiamati ad esercitarsi, ciascuno si sente difensore di casa propria, dei propri beni e della propria famiglia, e non strumento nelle mani di lontane ed estranee gerarchie.
Secondo Cattaneo, quindi, la “condizione suprema della libertà” poteva riassumersi nel motto militi tutti e soldati nessuno. Lo dimostra anche l’esempio della Francia e della Spagna, dove la libertà sanguinosamente conquistata sfugge continuamente di mano a causa delle forze eccessive accumulate in mano ai governi, mentre viceversa nella Svizzera e nell’America, ove ogni singolo popolo armato tiene “le mani sopra la libertà”, dopo averla conquistata non andò più perduta.
La forza di un esercito, infatti, non dipende dal numero dei soldati, ma dall’intima unione di volontà e di interessi tra chi da gli ordini e chi combatte, in modo che chi comanda abbia la medesima volontà e i medesimi interessi di chi obbedisce. È questa la ragione per cui le grandi potenze temono e rispettano la piccola Svizzera, forte del suo esercito popolare. Le “repubblichette svizzere” riescono infatti a difendersi da sole, mentre l’Italia, dotata di un maggior numero di ripari naturali, fortezze e navi, con un esercito che potenzialmente potrebbe essere dieci volte più ampio, non riesce ad avere un esercito efficiente, come dimostrato dall’esito disastroso delle terza guerra d’indipendenza.
Purtroppo tutti i regimi che si sono susseguiti in Italia dall’unificazione in poi hanno seguito logiche opposte a quelle raccomandate da Cattaneo. È questa la ragione per cui lo Stato italiano continua ad essere visto, in ampie aree del nord e del sud del paese, come un’occupante straniero, incapace di riconosce le particolarità, le tradizioni e le autonomie locali. Agli occhi di molti appare come un’entità estranea proprio perché unitaria, accentrata e burocratica, anziché federalista.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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La truffa venetista: "Il Pebiscito del 1866 fu una truffa"

Messaggioda Berto » mar mag 21, 2019 1:24 pm

CAPITOLO VENTIDUESIMO

http://www.storiologia.it/gariba/gar22.htm


Venezia vota la fusione col Piemonte. - I Commissari regi. - L' armistizio Salasco. - Ritorno di D. Manin al potere - Garibaldi a Livorno. - Tentativo d'insurrezione in Lombardia. - Garibaldi a Bologna. - Morte di Pellegrino Rossi. - Fuga di Pio IX - Garibaldi incaricato da Mamiani di comporre un corpo di volontari.

Venezia sola si reggeva. Il più devoto difensore di Carlo Alberto non potrà mai discolparlo del freddo e deliberato abbandono di quella generosa parte d'Italia. Il 3 luglio per non separarsi dalle sue province e dalla Lombardia, Venezia aveva votata l'immediata fusione col Piemonte con i voti dell'Assemblea.
"Obbedendo alla suprema necessità che l'Italia intera sia liberata dallo straniero, ed all'intento principale di continuare la guerra dell' indipendenza con la maggiore efficacia possibile, come Veneziani, in nome e per l'interesse della Provincia di Venezia, e come Italiani, per l'interesse di tutta la nazione, votiamo l'immediata fusione della città e provincia di Venezia negli Stati Sardi con la Lombardia, e alle condizioni stesse della Lombardia, con la quale in ogni caso intendiamo di restare perfettamente incorporati, seguendone i destini politici, unitamente alle altre province Venete." Cosi deliberava il governo provvisorio di Venezia.

Tommaseo aveva parlato con fervore e dignità contro la fusione, dimostrandola ne utile, nè onorevole. Manin subì invece il fatto, ma eletto membro del nuovo ministero, rifiutò qualsiasi carica dicendo:
"Ho dichiarato di essere repubblicano; ho fatto un sacrificio; ma non ho rinnegato un principio. Io non potrei essere ministro di un re, se non per la opposizione. Ora abbiamo bisogno di combattere uniti il nemico comune. A guerra finita, quando si potrà ripigliare da fratelli la questione politica, ci rivedremo".

E l'annessione di Venezia fu accettata e stabilita dalla Camera a Torino con 135 voti contro 134. Questa - si deve notare - era una finzione, perché fu messa in esecuzione dieci giorni dopo che il re di proprio pugno aveva offerto di abbandonare tutta la Venezia all'Austria, accettando la linea dell'Adige per frontiera del nuovo regno.
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