La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:40 pm

La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam
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La miseria dei paesi maomettani deriva principalmente dalla loro idolatria disumana, irragionevole e incivile mentre la ricchezza di Israele e degli ebrei deriva dalla loro religione-cultura ragionevole, umanissima e civile.

Certamente le aree desertiche e semidesertiche sono ambienti difficili e ostili, ma Israele e gli ebrei hanno dimostrato che con il lavoro, l'impegno, l'intelligenza, l'amore per la vita e la propria terra, possono essere trasformate in giardini.


I paesi nazi maomettani non hanno meritato nessun nobel per la scienza e la tecnica:

Premi nobel paesi islamici compreso quello per la pace dato al criminale terrorista Arafat

Bangladesh 1 (pace)
Egitto 4 (2 pace 1 letteratura 1 chimica vissuto in USA)
Iran 1 (pace)
Palestina 1 (pace)
Pakistan 2 (1 pace e 1 fisica vissuto in occidente)
Turchia 2 (1 letteratura e 1 chimica vissuto in USA)
Tunisia 1 (pace interna)
Yemen 1 (pace)


La sola Ungheria ne ha 14, la Svizzera 24, Israele 11 e gli ebrei del Mondo molti di più 165 mentre i maomettani del Mondo 3.

http://www.webalice.it/gangited/Paesi/Ebrei_Nobel.html
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:41 pm

Perché gli ebrei sono cosi’ potenti e i musulmani così impotenti?
2012/04/26

https://myamazighen.wordpress.com/2012/ ... -impotenti

Concordo con l’interessante e lucida l’analisi (non di parte essendo l’autore musulmano) proposta dal direttore pakistano del Centro per la Ricerca e gli Studi sulla Sicurezza, creato nel 2007. L’autore è il Dr Farrukh Saleem, giornalista indipendente a Islamabad.

Ci sono solamente 14 milioni di ebrei nel mondo, di cui sette milioni negli Stati Uniti d’America, cinque milioni in Asia, due milioni in Europa e 100.000 in Africa.
Per ogni ebreo nel mondo ci sono 100 musulmani.
Ma gli ebrei sono cento volte più potenti che tutti i musulmani riuniti.
Vi siete mai chiesti perchè?
Gesù è nato ebreo, Albert Einsten è lo scienziato più influente di tutti i tempi, e la rivista Time ha designato “persona del secolo” Sigmund Freud, padre della psicanalisi che era ebreo. Stesso discorso per Karl Marx, Samuelson Paul e Milton Fridman. Ecco altri ebrei, la cui produzione intellettuale ha arricchito tutta l’umanità. Benjamin Rubin ha donato al mondo l’ago da siringa per le vaccinazioni, Jonas Salk ha messo a punto il primo vaccino antipoliomelitico mentre Sabin ha sviluppato e migliorato lo stesso vaccino, Gertrude Elion ha creato una medicina contro la leucemia, Baruch Blumberg il vaccino contro l’epatite B, Paul Ehrlich ha scoperto un trattamento contro la sifilide, Elie Metchnikoff ha vinto un premio Nobel per la sua ricerca contro le malattie infettive mentre Andrew Schally ha vinto un Nobel per l’endocrinologia. E poi ancora Gregory Pincus, che ha sviluppato la prima pillola contraccetiva, Aaron Bech che ha fondato la terapia Cognitiva e Willem Kolff inventore della prima macchina per la dialisi renale.
Nel corso degli ultimi 150 anni, gli ebrei hanno vinto 180 premi Nobel mentre soltanto 3 di questi premi sono stati vinti da musulmani.
I più importanti magnati della finanza mondiale sono ebrei. Senza contare Ralph Lauren (Polo), Levi Strauss (Levi’s), Howard Schultz (Starbuck’s), Sergey Brin (Google), Michael Dell (Dell Computers), Larry Ellison (Oracle), Donna Karan (DKNY), Robbins Irv (Baskin & Roobings). Richard Levin, presidente dell’Università di Yale, era ebreo. Così come Henry Kissinger, al pari di Alan Greenspan (Presidente della Banca Federale sotto Regan, Bush, Clinton e Bush jr), Joseph Lieberman, senatore USA e Madeline Albright, anziana segretaria di Stato americana.
Quale è stato il filantropo più generoso nella storia del mondo? George Soros, un ebreo, che ha donato oltre 4 miliardi di dollari per l’aiuto nella ricerca scientifica e delle università; il secondo dopo Soros è Walter Annenberg, un altro ebreo, che ha costruito un centinaio di biblioteche donando circa 2 miliardi di dollari.
Ai Giochi Olimpici, Mark Spitz stabilì un record assoluto vincendo sette medaglie d’oro mentre Lenny Krayzelburd è medaglia d’oro olimpica a tre riprese. Spitz, Krayzelburg e Boris Beker sono ebrei.
Sapete che Harrison Ford (ebreo da parte di madre), George Burns, Tony Curtis, Charles Bronson (???), Sandra Bullok, Barbra Streisand, Billy Kristal, Woody Allen, Paul Newman, Peter Selles, Dustin Hoffman, Michael Douglas, Ben Kingsley, Kirk Douglas, William Shatner, Jerry Lewis e Peter Falk sono tutti ebrei?
Allora, perchè gli ebrei sono cosi’ potenti? Risposta: L’educazione.
Washington è la capitale che conta e a Washington la lobby che conta è l’American Israel Public Affairs Commintee (AIPAC). William James Sidis, con un QI di 250 su 300 è il più brillante uomo che esista; indovinate a quale religione appartiene? Allora, perchè gli ebrei sono così potenti? Risposta : L’educazione.
Perchè i musulmani sono così impotenti ? Si stima che vivano sul globo 1.476.233,470 di musulmani : un miliardo in Asia, 400 milioni in Africa, 44 milioni in Europa e sei milioni in America. Un quinto del genere umano è musulmano. Per ogni hindou ci sono due musulmani, per ogni buddista ci sono due musulmani, e per ogni ebreo ci sono cento musulmani.
Mai ci si è mai chiesto perchè i musulmani sono cosi’ impotenti? Ecco perchè: ci sono 57 paesi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), e in tutti gli stati membri esistono 500 università: una università per tre milioni di musulmani. Gli Stati Uniti hanno 5.758 università (1 per 57.000 americani).
Nel 2004, la Shanghai Jiao Tong University ha comparato le performances delle università nel mondo e curiosamente, neanche una università di un paese islamico si trova nella top 500. Secondo i dati raccolti dal PNUD, l’alfabetizzazione nel mondo cristiano è pari al 90% e i 15 Stati a maggioranza cristiana raggiungono il 100%.
Uno stato a maggioranza musulmana ha una media di alfabetizzazione intorno al 40% e non esiste un solo stato musulmano con un tasso di alfabetizzazione pari al 100%. Qualcosa come il 98% degli alfabetizzati nel mondo cristiano finisce le scuole primarie, mentre meno del 50% degli alfabetizzati nel mondo musulmano fanno la stessa cosa.
Perchè i musulmani sono impotenti? Perchè noi non sappiamo produrre e applicare un sapere musulmano. I paesi a maggioranza musulmana hanno 230 scienziati per un milione di musulmani. Negli Stati Uniti sono 4.000 scienziati per milione e in Giappone 5.000 per un milione d’abitanti. Nel mondo arabo, il numero totale dei ricercatori a tempo pieno è di 35.000 e ci sono solo 50 tecnici per un milione di arabi. Inoltre, il mondo arabo dispensa lo 0,2 per cento del suo PIL alla ricerca e allo sviluppo mentre in tutto il mondo cristiano si consacra all’incirca il 5% del PIL.
Conclusione: il mondo musulmano non ha la capacità di produrre conoscenza.
I quotidiani per 1.000 abitanti e il numero dei titoli di libri per milioni sono due indicatori per sapere se la conoscenza è diffusa in una società. In Pakistan, esistono 23 quotidiani per 1.000 pakistani mentre la stessa ratio è di 360 a Singapore. Nel Regno Unito, il numero di libri pubblicati per milioni di abitanti si eleva a 2.000 mentre si attesta a 20 in Egitto!.
Conclusione: il mondo musulmano non si preoccupa di diffondere il sapere.
Le esportazioni di prodotti di alta tecnologia del Pakistan si attesta all’1% del totale delle sue esportazioni. Dati tragici per l’Arabia Saudita, il Kuweit, il Marocco e l’Algeria (tutti a 0,3%) mentre Singapore è al 58%.
Perchè dunque i musulmani sono impotenti? Perchè noi non siamo in grado di produrre conoscenza, diffondere il sapere e incapaci di trovare delle applicazioni alle nostre conoscenze. E l’avvenire appartiene alle società del sapere. Fatto interessante, il PIL annuale di tutti i paesi dell’OCI è meno di 2 mila miliardi di dollari.
L’America, da sola, produce beni e servizi per un valore di 12 mila miliardi di dollari, la Cina 8 miliardi di dollari, il Giappone oltre 3,8 miliardi e la Germania 2,4 miliardi di dollari (a parità di potere d’acquisto). I paesi ricchi di petrolio come l’Arabia Saudita, il Kuwait e il Qatar collettivamente producono dei beni e servizi (con il petrolio in primis) per un valore di 500 miliardi di dollari, mentre la cattolica Spagna produce beni e servizi per un valore di oltre 1.000 miliardi di dollari, la Pologna (cattolica anch’essa) di 489 miliardi di dollari e la buddista Thailandia 545 miliardi di $.
La parte musulmana del PIL, in percentuale al PIL mondiale, si è abbassata rapidamente.
Allora, perchè i musulmani sono cosi’ impotenti? Risposta: la mancanza di educazione. Tutto quello che noi facciamo è pregare Dio tutta la giornata e biasimare tutto il mondo per i nostri fallimenti multipli.
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:41 pm

L’economia di razzia-rapina di Maometto e degli imperi maomettani


Il bottino di guerra nell'Islam
27 Settembre 2015 · Aggiornato 24 Ottobre 2018
https://www.islamicamentando.org/ottava ... i-guerra-2

“Il Bottino” è il titolo della sura 8 del Corano, interamente medinese. Il primo versetto recita chiaramente “Il bottino appartiene ad Allah e al Suo Messaggero” (1:8).
Maometto deteneva dunque fondi pubblici e ne disponeva come meglio credeva; inoltre gli spettava automaticamente il quinto (khums) di ogni razzia di guerra. Secondo i testi autorizzati, coime il Kitāb al-maghāzī (“Libro delle razzie”) di Wāqidī (m. 823), la pratica del khums fu istituita a partire dalla battaglia di Badr nell’anno 624 (2 del calendario musulmano), quando tra i credenti vincitori sorse una disputa per la divisione del bottino; fu allora che discese il versetto citato. Soltanto più tardi si concluse un accordo citato al versetto 8:41: a Maometto spettava il quinto del totale delle finanze pubbliche, mentre il resto andava distribuito in parti uguali tra i membri delle varie spedizioni. Maometto aveva inoltre diritto a una “prima scelta” (safī), anteriore alla divisione generale. A Badr, il profeta di pace Maometto scelse una spasa. In molte occasioni preferì scegliere le schiave più belle e più giovani, come dimostra Sunan Abu Dawud Libro 20, Numero 66:

Qatadah disse, “Quando l’Aposto di Allah (saw) partecipava ad una battaglia vi era per lui una porzione speciale (del bottino) che egli sceglieva a suo piacimento. Safiyah era di quella porzione. Ma quando egli non partecipava di persona in una battaglia, una porzione veniva comunque riservata per lui, ma sulla quale non aveva scelta. [cioé, riceveva quello che veniva scelto per lui]

Si aggiungeva ancora per il Profeta una parte del bottino in qualità di guerriero, la quale triplicava se aveva combattuto montando un cavallo o un cammello.
Nelle sue Tabaqāt, Ibn Sa’d (m. 845) descrive Maometto intento a negoziare aspramente con i beduini perché gli versassero il khums in aggiunta alla parte normale di combattente e perché gli riconoscessero il diritto alla prima scelta.

Come vediamo la divisione del bottino veniva condotta in maniera ingegnosa: il bottino era ripartito in lotti di egual valore, e se per caso esso risultava diversificato, le prede di guerra potevano essere vendute all’asta alle truppe e ai mercanti. Tutta un’attività commerciale si era organizzata attorno al bottino e questo o quel credente ammassò in tal modo ricchezze colossali.

Nel caso di bottino frutto di accordo e non di vittoria, Maometto reclamava l’intero ammontare. Alcune fonti fanno allusione alle terre che gli spettarono per intero a Khaybar e a Fadak. Le fonti concordano ugualmente sul fatto che dopo la presa di Khaybar la situazione finanziaria del Profeta conobbe una significativa trasformazione; la sua accresciuta ricchezza si fece sempre più visibile, soprattutto per la considerevole quantità di mezzi militari (cavalli e armi) impiegati nelle spedizioni.

La questione del bottino e della sua ripartizione rientra nelle diatribe che scossero l’islam degl inizi. Il Corano in una serie di versetti successivi, giustifica il comportamento di Maometto. Secondo le fonti tradizionali egli accordava una parte del bottino ai soli guerrieri, escludendo ogni beduino non impegnato al servizio della “religione di Dio”. Fu solo sotto ‘Umar ibn al-Khattāb, il secondo califfo che regnò dal 134 al 23 dell’egira (dal 634 al 644), che tutti i membri della umma (comunità musulmana) poterono incassare una percentuale calcolata in base alla registrazione e alla ripartizione per tribù.

Tutti i trattati di jihād affrontano il tema del bottino quale problema rilevante e con dovizia di particolari. Autori fondamentali come Ibn Hazm in Spugna o Māwardī in Iraq concordano nel ritenere che i beni degli intedeli sono stati stabiliti per«l’arricchimento della umma». Per Nu’mān (m. 684), «tutto quel che la terra nasconde è stato attribuito da Dio alla sua fazione»; e per Ibn Hazm, «il Signore ha istituito la proprietà degli infedeli sui loro beni unicamente perché essa formi il bottino dei credenti». A partire da un insieme di versetti, si assiste a una teorizzazione completa: la nozione di bottino è sacralizzata poiché è Dio a fissarne il ruolo con un ordine proveniente da lui (59:6-7); essa ha anche una “funzione morale” poiché il bottino spetta agli Emigrati bisognosi che hanno perduto ogni cosa per seguire Maometto a Medina (59:8), per i quali esso rappresenta un contraccambio divino; il bottino è una ricompensa anche quando Dio, dopo aver respinto gli infedeli e «quelli della gente del Libro che avevano dato mano al nemico» senza che «nulla di buono» ottenessero, «vi fece eredi della loro terra e delle loro case e delle ricchezze loro» (33:25-27). Infine, tale nozione serve ad articolare tutta una morale specifica («perche questo fosse un Segno ai credenti, e potesse Egli guidarvi per un retto sentiero»; 48:15 e 19-20). Per converso, Dio rimprovera ai soldati musulmani di aver abbandonato la loro posizione per avventarsi sul bottino e dispularselo, il che ha permesso ai meccani di recuperare il vantaggio in occasione della battaglia di Uhud nell’anno 3/625 (3:152). E’ molto significativo al riguardo che diverse tradizioni profetiche parlino di spedizioni che “sono fallite” perche non hanno fruttato bottino.

I trattati di diritto offrono una classificazione teorica molto precisa, non basata sul Corano e neppure sulla Sīrat (la biogratia di Maometto), le cui informazioni, pur dettagliate, non sono sistematiche. Sotto i primi califfi si distinguono diverse categorie: nafal (pl. anfāl, il primo dei tre termini che designano il bottino nel Corano), cioè un’attribuzione supplementare di bottino, accordata a certi combattenti in aggiunta alla parte loro dovuta; ghanmīa (solo il plurale maghānim si trova nel Corano), cioè il bottino trasportabile ottenuto in seguito a un combattimento armato; fay’ (nel Corano si trova solo il verbo affine afā’a), cioè ogni preda strappata agli infedeli senza combattimento, per esempio terre e abitazioni; infine radkh (assente dal Corano), cioè ogni preda ottenuta sulle spoglie del nemico ucciso. Anche se queste classificazioni possono apparire anacronistiche, la nozione di bottino, nel suo principio, resta molto viva ai nostri giorni. I fondamentalisti la inseriscono nelle loro rivendicazioni perché fa parte della parola di Dio. Così, in cassette diffuse in alcune moschee delle città europee si possono trovare formule di questo genere: «Porci di cristiani! Voi che insultate il Dio Onnipotente pretendendo che abbia una moglie e un figlio, voi che diffamate Dio presentandolo come uno di tre, il vostro duro castigo vi è assicurato! […] Sappiate che, vicini o lontani, giovani o vecchi, preti o monaci, con i vostri atti vi siete condannati a morte e alla perdita dei vostri beni. Il vostro sangue sarà a buon diritto versato dai musulmani e il vostro denaro ci appartiene».

Il jihād contro gli infedeli e i colpevoli di blasfemia si ritrova strettamente legato alla nozione di prede di guerra, viste come legittimo compimento della lotta stessa per il trionfo della Vera Predicazione.

Dizionario del Corano, Amir-Moezzi M. A, pag. 134.


https://www.facebook.com/notes/errico-s ... 2237788395



«Una civiltà in rovina» (a dire il vero l'Islam non è mai stata una civiltà)
domenica 6 luglio 2014

https://www.ilpost.it/2014/07/06/democrazia-paesi-arabi

I paesi arabi hanno fallito miseramente nel creare democrazia, felicità e benessere, scrive l'Economist (e uno dei problemi più grandi riguarda l'islam)
(anche prima dell'Impero Ottomano vi erano altri imperi maomettani e non è che le cose fossero molto diverse, vivevano di razzie-rapina e schiavitù, delle tasse dei dhimmi cristiani ed ebrei)

Negli ultimi cinque secoli quasi tutti i paesi arabi non hanno goduto di molta autonomia. Quasi tutti quelli che affacciano sul Mar Mediterraneo sono stati dominati, in un modo o nell’altro, dall’Impero ottomano. Dopo i turchi sono arrivati gli europei, che per decenni – più di un secolo in alcuni casi – li hanno amministrati come possedimenti coloniali. Nel corso degli ultimi cinquant’anni i paesi arabi hanno finalmente ottenuto l’indipendenza, ma le cose non sono migliorate molto. Ai governi coloniali si sono sostituiti quasi ovunque dittature militari o monarchie più o meno assolute che hanno governato reprimendo il dissenso, con l’aiuto di imponenti apparati di sicurezza e sfruttando divisioni tribali o religiose. Mentre nel resto del mondo i regimi più spietati si aprivano lentamente alla democrazia e l’economia cominciava a crescere sempre più rapidamente, nei paese arabi i dittatori hanno dimostrato una considerevole capacità di rimanere al potere, mentre l’economia ha continuato a languire.

Nel 2011 la cosiddetta “primavera araba”, una serie di rivolte e manifestazioni di piazza che si sono sviluppate in diversi paesi del Nord Africa e Medio Oriente, hanno fatto sperare ai sostenitori dei regimi democratici nella possibilità che qualcosa, nel mondo arabo, potesse cambiare. Tre anni dopo queste speranze non si sono realizzate. Oggi Siria ed Iraq sono Stati falliti divisi da una guerra civile e da profonde divisioni etniche e religiose. La Libia è nell’anarchia più completa, divisa tra moltissime potenti milizie rivali. L’Egitto è ritornato sotto un regime militare, mentre le oligarchie di Algeria, Arabia Saudita e paesi del Golfo sono riuscite a rimanere al potere, sfruttando principalmente i proventi del petrolio e del gas naturale (anche se probabilmente i loro regimi sono più fragili di quanto può sembrare). Tra tutti i paesi arabi, soltanto la Tunisia sembra essersi avviata verso la democrazia e la crescita economica, anche se per diversi mesi nel 2013 una serie di violenze e omicidi politici ha fatto pensare anche qui a un collasso del sistema statale.

A questa complicata situazione è dedicata la copertina del settimanale britannico The Economist di questa settimana, titolata: “La tragedia degli arabi. La civiltà che un tempo guidava il mondo è in rovina, e soltanto gli arabi possono ricostruirla”. Il settimanale cerca di rispondere ad una domanda:

Una delle grandi domande dei nostri tempi è: perché gli arabi hanno fallito in maniera così clamorosa nel creare democrazia, felicità e (a parte per i proventi del petrolio) benessere per i loro 350 milioni di abitanti? Cosa rende le società arabe così vulnerabili ai regimi tirannici e ai fanatici che cercano di distruggerle, insieme a quelli che percepiscono come i loro alleati occidentali? Nessuno pensa che gli arabi in quanto tali non abbiano le abilità necessarie o soffrano di una specie di antipatia patologica per la democrazia. Ma perché gli arabi si sveglino da questo incubo e perché il mondo si senta più sicuro parecchie cose devono cambiare.

Secondo il settimanale uno dei principali problemi è la religione islamica. O, più precisamente, la moderna interpretazione della religione islamica diffusa in numerosi paesi arabi: l’unione di autorità spirituale e temporale e l’assenza di una chiara separazione tra stato e religione hanno impedito lo sviluppo di moderne istituzioni politiche indipendenti. Accanto a questa visione, largamente diffusa nei paesi arabi, alcuni militanti cercano una legittimazione predicando una versione ancora più estrema e fanatica dell’islam. Turchia e Indonesia sono democrazie piuttosto efficienti (a paragone di Egitto e Libia, ad esempio), anche se sono paesi a maggioranza musulmana, segno che il problema causato dall’islam deriva da come la religione viene declinata, piuttosto che dall’islam in sé.

A differenza di Indonesia e Turchia, però, nei paesi arabi non esiste una lunga tradizione statuale: i paesi arabi, come l’Iraq ad esempio, sono entità nuovissime, create disegnando confini astratti dopo la caduta dell’impero ottomano. In questo breve lasso di storia, quasi tutti i paesi arabi hanno fallito nel creare i prerequisiti per una democrazia funzionante, come una pluralità di partiti politici, l’emancipazione delle donne, una stampa libera e un potere giudiziario indipendente.

Secondo l’Economist, accanto alla mancanza di uno stato liberale è mancata anche un’economia libera. Negli ultimi anni gli stati arabi si sono ispirati più all’esperienza dell’Unione Sovietica – che in molti casi aiutava economicamente questi paesi – che a quella dei paesi occidentali. Le economie dei paesi arabi sono nate e cresciute in un clima ostile al libero mercato e favorevole alla regolazione, ai monopoli pubblici, ai sussidi e alla pianificazione centralizzata (in particolare in quei paesi che esportano grandi quantità di petrolio). Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, molte politiche di impronta socialista sono state abbandonate, ma non sono state sostituite da un mercato aperto e concorrenziale. Nell’Egitto di Hosni Mubarak, ad esempio, gli ultimi anni furono caratterizzati da un capitalismo clientelare, in cui prosperavano un pugno di imprese appartenenti a grandi famiglie legate al regime. Nei decenni trascorsi dall’indipendenza, quasi nessuna multinazionale di livello mondiale è nata in un paese arabo e gli abitanti di quei paesi che volevano esercitare i loro talenti erano costretti a emigrare in Europa o negli Stati Uniti.

La stagnazione economica ha prodotto insoddisfazione e una popolazione sempre più numerosa di giovani disoccupati e senza prospettive. Spesso nei paesi oppressi da regimi dittatoriali l’unico luogo dove potersi riunire, discutere e ascoltare discorsi è la moschea. Una generazione di giovani arabi si è radicalizzata ascoltando le prediche nelle moschee e insieme ai propri regimi tirannici ha cominciato a odiare anche i paesi occidentali. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa, questi giovani hanno avuto la coscienza di non essere soli nel Medio Oriente e che in altri paesi le prospettive per i giovani come loro erano molto migliori. Secondo l’Economist la sorpresa non è che sia arrivata la primavera araba, ma che non sia arrivata prima di quando in effetti si è diffusa e sviluppata.

L’esperienza dell’invasione in Iraq del 2003 e le conseguenze che questa ha provocato negli undici anni successivi dimostrano che prosperità e democrazia non possono essere semplicemente esportate con le armi. Ma la soluzione non può nemmeno essere quella di mantenere artificialmente in vita regime autoritari e repressivi: anche se la primavera araba è terminata (del tutto o quasi: in Bahrein si continua a protestare per esempio, anche se a intensità minori rispetto al passato), i motivi che l’hanno causata sono ancora presenti e potrebbero causare una nuova ondata di rivoluzioni. Come è accaduto in Siria e come sta accadendo in Iraq, queste nuove rivoluzioni rischiano di finire in mano ai fanatici, che però finiscono con il «divorare sé stessi», scrive l’Economist.

La maggioranza degli arabi moderati che credono nei valori secolari dovrebbero cercare di guadagnarsi più spazio nelle politiche nazionali. Quando arriverà il momento, dice l’Economist, dovranno battersi per quei valori che un tempo fecero del mondo arabo la parte più avanzata del mondo: si tratta del pluralismo e dalla tolleranza per esempio, ma comprendono anche l’apertura all’educazione e al libero mercato. Oggi questi valori possono sembrare lontani e irraggiungibili, ma per gli arabi possono rappresentare ancora la visione di un futuro migliore.
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:41 pm

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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:42 pm

L’economia di rapina dello Stato islamico
2015/10/10
https://www.ilfoglio.it/esteri/2015/10/ ... mico-88432

Finalmente abbiamo dei dati per capire un po’ meglio: un mese di conti finanziari dello Stato islamico nella regione di Deir Ezzor, in Siria, tra dicembre 2014 e gennaio 2015. A decifrarli è il ricercatore Aymenn Tamimi e il suo studio rivela che il 45 per cento dei ricavi del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi in quella zona arriva dai beni confiscati ai sudditi. E’ la voce più importante nella colonnina dei ricavi, che in totale sono circa 8 milioni di dollari. Lo Stato islamico funziona grazie a una economia di rapina che a lungo termine è destinata a grippare come un camion con la sabbia nel serbatoio: cosa succede quando avranno confiscato tutto e non resterà più nulla? L’elenco delle voci è interessante. La vendita di petrolio porta soltanto una frazione della ricchezza immaginata: circa sessantaseimila dollari al giorno, nella regione più ricca di pozzi petroliferi tra quelle sotto il loro controllo. Segno che lo Stato islamico non riesce a sfruttare i pozzi – e pensare che si stimava ottenesse quattro milioni di dollari al giorno da quel greggio. E’ plausibile che valga lo stesso anche nelle altre regioni.

A Deir Ezzor lo Stato islamico consuma quasi cinque milioni di dollari su otto, il 63 per cento in spese militari, per mantenere la sua macchina da combattimento (in un mese): paghe dei combattenti, logistica, armi. E’ un dato interessante, considerato che in Europa nessuno spende più del 3 per cento del pil per il budget della Difesa. Nella regione di Deir Ezzor un altro dieci per cento se ne va per la polizia dello Stato islamico. Il che lascia in cassa soltanto due milioni per tutto il resto, sanità, trasporti, servizi e burocrazia.

La propaganda dei baghdadisti ostenta banchi dei mercati pieni e sovrabbondanza di merci, ma i dati dell’economia sono un meccanismo che ha meno pietà del più efferato boia mascherato. Gettare gay dai tetti e abbattere colonnati con la dinamite non crea posti di lavoro o ricchezza. Come finzione religiosa lo Stato islamico si può reggere in piedi a lungo grazie al fanatismo dei suoi adepti, come forza militare potrebbe resistere a lungo termine contro eserciti che ancora non si sono presentati all’appuntamento; dal punto di vista dell’economia lo Stato islamico è un predatore che sta mangiando tutte le scorte.
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:42 pm

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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 11:43 pm

Due anni di Primavera e l'economia sprofonda
Alberto Negri
27 gennaio 2013

https://www.ilsole24ore.com/art/notizie ... d=Abn06bOH

La primavera araba in Egitto e nel Maghreb entra sanguinosamente nel terzo anno: le popolazioni sono deluse anche dall'Islam politico mentre l'Occidente scruta preoccupato le ripercussioni delle rivolte. Ma a Zamalek, quartiere borghese del Cairo, ieri sembrava un sabato normale: il mondo affluente che frequenta Davos è impermeabile al sentore pesante e rumoroso della miseria. Noi con ritardo ci accorgiamo adesso che la profondità strategica di questi rivolgimenti si spinge ben oltre la sponda Sud e il Levante: nessuno è al sicuro, neppure quelle monarchie del Golfo corteggiate dalle nostre economie balbettanti.

Il contenimento degli effetti rivoluzionari è illusorio. Le nuove democrazie all'islamica devono tenere conto, a differenza dei regimi autocratici, di una variabile in più: il tempo. L'orologio democratico dà appuntamento da un'elezione all'altra e misura impietosamente le promesse del prima con le realizzazioni del dopo, filtrandole con la lente delle aspettative popolari.

Il primo errore è stato considerare l'abbattimento dei vecchi regimi un risultato: era soltanto l'inizio di un processo. Ma c'è un equivoco più grave. La caduta dei raìs non è stata la fine del conflitto sociale ma l'innesco di una battaglia cruenta tra laici e religiosi, tra musulmani tolleranti e radicali, tra maggioranze e minoranze, tra spinte localiste e centralizzazione.
Il problema di fondo è questo: con la scelta di un nuovo modello viene messo in discussione il concetto stesso di unità nazionale espresso dalla decolonizzazione e consegnato per alcuni decenni alla retorica delle dittature.

Non possiamo scommettere che alcuni stati oggi sulla mappa domani ci saranno ancora. Un quadro ideale per l'ascesa dell'islamismo più estremo che con un messaggio radicale si pone come alternativa all'ideologia importata degli stati-nazione.
Insieme all'Islam, l'economia infiamma l'inverno dello scontento. La Libia vive di rendita petrolifera, non si pagano tasse, la democrazia è solo formale, la gente vota per clan e tribù: il meglio che ci si può aspettare è una sintesi tra l'Islam e l'oro nero incoraggiata dalle monarchie del Golfo, che insieme all'intervento armato hanno alimentato gli islamici.

La politica economica resta quella di prima: tre volte nel 2012 sono stati distribuiti sussidi diretti in denaro alle famiglie e ai "tuwwar", i rivoluzionari. Così faceva anche Gheddafi. Dalla spartizione del petrolio non è improbabile che scaturisca la separazione tra Tripolitania e Cirenaica, dove gli occidentali hanno abbandonato Bengasi. Eppure la Libia paradossalmente è un partner economico affidabile: estrae 1,6 milioni di barili al giorno. Più che uno stato una pompa di benzina su un territorio fuori controllo.

L'Egitto, cuore del mondo arabo, è nella situazione più frustrante. I Fratelli Musulmani e il presidente Mohammed Morsi hanno diviso il paese sulla costituzione, affidando l'interpretazione della sharia, la legge islamica, al centro di studi di Al Azhar e puntando al restringimento delle libertà fondamentali. È stato incapace di affrontare la crisi: calo delle riserve estere, rallentamento del Pil per il crollo del turismo e degli investimenti diretti, disoccupazione alta, il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà. Il 70% degli stipendi, sottolinea un rapporto della Deutsche Bank, vengono da una burocrazia elefantiaca e corrotta che non basta a produrre 700mila nuovi posti di lavoro l'anno, il minimo necessario per galleggiare sull'onda demografica.

Comprensibili ma incongrui gli appelli di Morsi alla moderazione: corre in braccio agli alleati salafiti e spera nel soccorso finanziario di Riad e del Qatar, oltre che del Fondo.
A Tunisi, dove è cominciata la primavera araba, i Fratelli Musulmani di Ennhada, ispirati dal loro esponente storico Rashid Gannouchi, mostrano il doppio volto dell'ambiguità. Gannouchi nelle interviste cita Gramsci e afferma di combattere l'estremismo, in realtà soprattutto fuori dalla capitale è in corso un attacco sistematico alla libertà delle donne e all'Islam più tollerante, con la distruzione dei mausolei sufi.

Il salafismo non è ancora vincente ma trova seguaci in una nuova generazione di militanti provenienti dal sottoproletariato urbano: nessuno ha visto i 600mila posti di lavoro promessi alle elezioni.
Come è accaduto sotto i regimi dei raìs, l'islamizzazione è alimentata dalla crisi economica e sociale che sta mettendo sotto pressione i nuovi governi post-rivoluzionari. Ma sono le divisioni politiche provocate dai partiti musulmani, da noi frettolosamente paragonati ai democratici cristiani europei, che stanno causando i danni maggiori: la democrazia non richiede che cittadini e partiti condividano la stessa ideologia ma non si può scardinare senza conseguenze la fragile compagine degli stati arabi. Il nazionalismo arabo del secolo scorso è stato sconfitto, così come sono state battute le sue idee progressiste, manipolate dalle dittature, ma l'Islam politico di oggi non si è ancora dimostrato capace di sostituirlo.
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » lun dic 31, 2018 10:37 am

Dalla Tunisia al Marocco, i “gilet gialli” arabi in rivolta contro il carovita
Francesca Paci
30 dicembre 2018

https://www.lastampa.it/2018/12/30/blog ... agina.html

All’inizio i gilet gialli hanno piuttosto divertito il mondo arabo, ispirando battute sul “movimento popolare, senza leader né ideologie chiare da cui aspettarsi una primavera francese”. Poi, via via che alla protesta contro il caro benzina si aggiungevano quella contro la disoccupazione, le diseguaglianze sociali e la burocrazia, la jacquerie anti Macron è diventata un modello, lo specchio di un malessere endemico a sud del Mediterraneo, dove negli ultimi 5 anni il costo della vita è cresciuto in antitesi alle condizioni della gente e alle sue ambizioni riformiste. Così, dall’irredentismo tunisino alla Giordania indebitata col Fondo Monetario Internazionale, dall’impoverita borghesia marocchina all’Egitto preda dell’inflazione, i gilet gialli non sono più solo lo spettro populista che si aggira per l’Europa: il Cairo ne ha vietato la vendita fino all’anniversario della rivoluzione del 2011, i libanesi li hanno indossati il 23 dicembre a Beyrouth contro corruzione e tasse, la Tunisia ha adottato l’icona ormai celebre adattandola al vessillo nazionale e le piazze si sono riempite di gilet rossi.

A guidare le nuove mobilitazioni, le prime così diffuse e massicce dal 2011, è la Tunisia, il Paese capostipite delle primavere arabe e l’unico orientatosi davvero alla democrazia. Qui, dopo un 2018 punteggiato di scontri per il pane, la rabbia è esplosa a Natale a Kasserine, dove il presunto suicidio tra le fiamme del reporter precario Zorgui ha rovesciato per le vie di Tebourba, Kairouane, Tunisi, il simulacro di Mohammed Bouazizi più tutta la frustrazione per l’inflazione all’8%, la disoccupazione al 30%, salari da 140 euro al mese e un disagio sociale covato all’ombra dell’emancipazione politica che pure ha portato elezioni libere, una Costituzione avanzata, leggi egualitarie per le donne.

«Il mondo arabo non si è ancora ripreso dal 2011 e dal 2014, segnato dal crollo di quel petrolio che garantiva la stabilità: se i governi regionali reagiranno con la forza anziché con riforme sensate potrebbero vedere rivolte senza eguali» osserva Marwan Muasher del Carnegie Endowment for International Peace.

Gli automatismi sono la bestia nera del mondo arabo. Piazza chiama repressione. La reazione è istintiva perfino nella democratica Tunisia, dove a Sfax, teatro di un altro tentativo di auto-immolazione, la polizia ha appena sequestrato 48 mila gilet gialli e 2 mila rossi messi in circolazione dai sindacati.

L’Egitto, altro polo di forte malcontento, ancorché represso, è andato oltre: 2 settimane fa, dopo l’arresto dell’avvocato alessandrino Mohamad Ramadan per una foto con gilet giallo su Facebook, le autorità hanno proibito la vendita dei temibili gilet per almeno due mesi. Un monito che non calmerà gli animi agitati dal crollo del pound e dal raddoppio del prezzo del gas da cucina (oltre che della benzina, l’acqua e l’elettricità), il terzo rincaro in 3 anni annunciato alla fine del Ramadan per evitare le proteste seguite all’aumento del 250% dei biglietti della metro a maggio.

Il presidente egiziano al Sisi, in cerca di consenso , si appella al Fondo Monetario Internazionale che, in cambio del prestito di 12 miliardi di dollari , chiede la testa dell’economia sussidiata (una media di circa 60 dollari a famiglia dove un operaio ne guadagna 3 al giorno). Una situazione simile a quella della monarchia giordana, vittoriosa in extremis sulle piazze del 2011 con l’aiuto dei petrol-dollari ma alle prese oggi con un debito pubblico di 40 miliardi di dollari da risanare con le ricette draconiane del FMI. Le piazze sono incandescenti da giugno e ai gilet gialli ante litteram si sono aggiunti ora i giovani della classe media bramosi di futuro, lavoro e riforme.

Le proteste si moltiplicano speculari fino in Sudan, dove dal 19 dicembre i dimostranti chiedono le dimissioni del presidente Bashir per il prezzo del pane alle stelle (ci sono già oltre 20 morti) e nel sud della Libia, teatro di rivendicazioni per il lavoro e lo sviluppo. Sullo sfondo c’è sempre un forte disagio sociale, un urlo scomposto oltre cui si fatica a cogliere la regia, qualsiasi regia, sia riconducibile all’opposizione secolare o a quella religiosa.

Anche il Marocco, a lungo faro di stabilità regionale, accusa il colpo di una crisi che mina come mai prima lo status quo. Dopo mesi di agitazioni sporadiche ma reiterate i lavoratori pubblici e privati sono scesi in piazza il 17 dicembre a Rabat per chiedere l’aumento dei salari. A ottobre erano stati i camionisti a incrociare le braccia, con un effetto domino sui prezzi del marcato e sulla rabbia borghese, sfociata nel boicottaggio dei brand più esosi e agevolati dal regime. Re Mohammed VI media come può ma è il bersaglio indiretto di una foia anti-sistema vecchia e nuova: gilet gialli in qualche modo anche qui.


Alta tensione in Tunisia dopo il reporter immolato
27.12.2018

https://ilmanifesto.it/alta-tensione-in ... r-immolato

25 dicembre di scontri a Kasserine, nell’ovest sempre più povero della Tunisia, dopo il gesto estremo di un giornalista precario, Abdel Razzaq Zorgui, 32 anni, che lunedì si è dato fuoco per denunciare il perdurante dramma della disoccupazione giovanile e l’assenza di politiche che allevino la crisi economica della regione. La stessa da cui si propagò nel 2010 la «rivoluzione dei gelsomini», dopo analogo gesto estremo di un venditore ambulante. «Voglio iniziare una rivoluzione – dice Zorgui in un video postato poco prima di uccidersi – per i figli di Kasserine che non hanno di che vivere».
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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » lun dic 31, 2018 10:38 am

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Re: La miseria dei paesi maomettani deriva dall'Islam

Messaggioda Berto » lun dic 31, 2018 10:42 am

Le demenze e le falsità sull'Islam aperto, buono liberale che favorisce lo sviluppo umano e la sua economia

Islam e povertà, benvenuti nel Mali
Gennaio 2006

https://www.varesenews.it/2006/01/islam ... ali/260453

All’alba, prima del mercato che raccoglie i contadini di tutta la regione, la città della moschea di fango più grande del mondo si accende di riflessi di piccole sagome. Sono i «talibè», allievi delle scuole coraniche. Djennè ne conta quasi cento, in gran parte riservate a chi viene da villaggi sperduti seguendo il marabutto, il maestro. Secolare crocevia di spiritualità islamica africana assieme a Timbuctu, porti sud e nord lungo il Niger dei flussi di ricchezza – oro e sale in particolare – verso l’Arabia e l’Europa, ricca di storia e di cultura, la città famosa per le guglie di terra del suo monumento sacro color ocra vive il conflitto tra l’Islam laico e tollerante, intrecciato alla tradizione animista di tutto il Mali e l’aggressività delle sette wahhabbite finanziate dai petrodollari arabi e in cui si predica la jihad. (sopra: Mario Agostinelli)

I piccoli talebani gironzolano chiedendo cibo per sè e per il marabutto con in una mano una scatola di latta per le offerte e nell’altra le tavolette di legno con i versetti in arabo del corano.
Il marabutto ci dice che vorrebbe andare in pellegrinaggio alla Mecca, ma che la sua indigenza non glielo permette.

Islam e povertà vanno di pari passo in Mali : l’85% degli undici milioni di abitanti sono mussulmani e il 69% vive sotto la soglia di miseria. Dal Mali si fugge verso l’Europa cercando un varco nel deserto lungo le rotte secolari dei Tuareg e arrivando nella recinzione delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in Marocco, da dove nei mesi scorsi sono stati riportati nella capitale Bamako 600 disperati. Islam e miseria altrove sono, miscela esplosiva che il radicalismo mussulmano può far detonare. Qui non ancora e forse mai. La religione del Corano è in prevalenza molto aperta e tollerante, erede del misticismo Sufi. Qualcosa come la tradizione araba della grande espansione in Europa e dei governi illuminati di Istanbul-Costantinopoli, gli anni in cui il pellegrinaggio alla Mecca della corte fastosa del principe di Tumbuctu attraverso i paesi conosciuti del Nordafrica aveva creato in tutta Europa la leggenda della città dalle fondamenta d’oro.

In effetti sta crescendo la presenza dei wahhabbiti, tendenza rigorista legata anche economicamente all’Arabia Saudita . Ce ne si accorge dalle scritte arabe sulle moschee (anche se qui praticamente nessuno conosce l’arabo) e dalla quantità di restauri dei meravigliosi edifici di fango sostenuti da organizzazioni saudite o mauritane. Ci si dice che sono 21 solo al nord le nuove moschee costruite coi petrodollari degli wahhabbiti.

Ma la partita aperta con il carattere laico dello stato maliano e con la sua tradizione di apertura e tolleranza è, fortunatamente, quasi disperata. In Mali c’è libertà di stampa, una sola emittente pubblica, ma 42 giornali e 125 radio private. La grande musica che si irradia in tutta Europa e negli Stati Uniti raccoglie le tradizioni popolari, i canti dei griot, e li rigenera con i ritmi blues e rock non solo sotto le tende dei bozo e dei tuareg, ma anche negli stadi dove si svolgono grandi concerti con partecipazione sconvolgente. I religiosi di tutto il mondo qui sono liberi di operare e nei villaggi Dogon i quartieri cristiano mussulmano ebraico e animista convivono come succedeva a Sarajevo. Quando il muezzin chiama alla preghiera solo i pochi wahhabbiti si radunano a parte. E poi c’è la questione delle donne che hanno in Mali una diffusissima organizzazione associativa: mantengono i coloratissimi vestiti locali, lavorano moltissimo, socializzano e non si fanno relegare in casa.

La società democratica del Mali è una realtà sorprendente, viva, diffusa anche nei villaggi più sperduti, che hanno una tradizione storica di partecipazione codificata, estremamente sofisticata. Il Mali poi ha bandito la guerra e ha messo sotto un’unica giurisdizione aperta ben 11 etnie.

Capiamo così la ragione profonda della convocazione del Forum Sociale Mondiale policentrico a Bamako: si tratta dell’indicazione di una via per tutta l’Africa e di un punto di riferimento per la ricostruzione, questa volta dal basso e a cominciare dai popoli, dello «spirito di Bandung» richiamato nella giornata di inaugurazione del Forum, quando nel lontano 1955 i paesi africani e i loro leader democratici davano vita all’utopia dei paesi non allineati, stritolati prima dalla guerra fredda e massacrati poi dalla globalizzazione liberista tuttora in corso.

Sembra che la convocazione del Forum abbia creato molte attese non solo nel ceto medio che legge i giornali, ma anche nei quartieri popolari dove si ascoltano radio pettegole e pirotecniche e si guarda una televisione molto burocratica, ma che tuttavia rilanciano continuamente interviste di locali e di «altermondialisti» bianchi seguiti con estrema simpatia e curiosità. Ce ne si accorge alla enorme coda per ritirare i pass di entrata, dove ci si pigia tutta la mattina per ore con donne e uomini curiosissimi e vestiti a festa per poi sentirsi dire, in perfetto stile africano, che i pass non sono arrivati e che saranno distribuiti al pomeriggio.


Alberto Pento
???
... Qui non ancora e forse mai. La religione del Corano è in prevalenza molto aperta e tollerante, erede del misticismo Sufi. Qualcosa come la tradizione araba della grande espansione in Europa e dei governi illuminati di Istanbul-Costantinopoli, gli anni in cui il pellegrinaggio alla Mecca della corte fastosa del principe di Tumbuctu attraverso i paesi conosciuti del Nordafrica aveva creato in tutta Europa la leggenda della città dalle fondamenta d’oro. ...


I mussulmani cosidetti moderati e l'Islam buono non esistono
viewtopic.php?f=188&t=2808

Quante demenze, specialmente quella di distinguere il Moametto (buono e noviolento) della Mecca da quello (cattivo e violento) di Medina;
L'Islam è sempre stato un ideologismo politico religioso violento e criminale; alla Mecca la violenza era implicitamente sottostante alla presunzione e all'esaltazione fanatica religiosamente idolatra di Moametto.
Alla Mecca Maometto era un rompicoglioni che voleva imporre la sua visiona politico-religiosa e il suo potere personale ai cristiani, agli zoroastriani, agli ebrei, e a tutti gli altri che vi abitavano; avrebbero dovuto giustiziarlo anziché esiliarlo a Medina dove Maometto ha potuto organizzare la sua banda di predoni assassini, tenuti insieme dal fanatismo religioso della sua idolatria e ritornare alla Mecca per imporsi con la violenza.
La spiritualità vera non ha nulla a che fare con le religioni, i loro idoli e le loro interpretazioni del divino, i loro riti, le loro cerimonie e preghiere, specialmente per ideologie religiose e politiche come quella del nazismo maomettano.
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