DAL NEW YORK TIMES ALLA LEONARDO FACCO EDITORE: NUOVO LIBRO DI HOPPEdi GUGLIELMO PIOMBINI
https://www.miglioverde.eu/dal-new-york ... EFkokCtldIAbbasso lo Stato e la Democrazia. Scritti sui sistemi istituzionali moderni e il libertarismo (198 pagine, € 13.00) è una raccolta di alcuni fra i migliori saggi di Hans-Hermann Hoppe appena pubblicata dalla Leonardo Facco Editore in collaborazione con goWare. Il libro unisce insieme, in una nuova veste editoriale, i saggi di Hoppe contenuti in due pubblicazioni esaurite nella loro precedente edizione: Abbasso la democrazia (2000) e Contro lo Stato democratico (2015).
I temi del libro sono quelli che hanno fatto di Hoppe uno dei più originali esponenti dell’attuale pensiero libertario: la difesa filosofica della proprietà privata, l’elogio della decentralizzazione politica e della secessione, la distinzione tra il libero scambio delle merci e la libera circolazione delle persone, la superiorità dell’anarco-capitalismo sul liberalismo classico, la critica alla democrazia moderna.
Di recente Hoppe è salito alla ribalta per essere stato citato con particolare rilievo in un editoriale del New York Times. Il 22 ottobre 2018, in un articolo non privo di incomprensioni e forzature intitolato “Trump, i populisti e l’ascesa della globalizzazione di destra”, Quinn Slobodian ha affermato che «Il presidente e l’estrema destra vogliono conservare il libero movimento delle merci e dei capitali, ma non quello delle persone», e ha chiamato in causa Hans-Hermann Hoppe e gli anarco-capitalisti come ideologi dell’attuale globalizzazione capitalistica “di destra”.
Slobodian, un professore di storia dalle idee progressiste, nostalgico dei no-global e critico della globalizzazione “neo-liberale”, ha scritto che «molti appartenenti alla destra alternativa, incluso il principale pensatore anarco-capitalista Hans-Hermann Hoppe credono che l’omogeneità culturale sia una precondizione per l’ordine socioeconomico. Mr. Hoppe immagina la dissoluzione dell’attuale mappa degli stati del mondo in migliaia di piccole unità della dimensione di Hong Kong, Andorra e Monaco, senza governi rappresentativi e gestite solo attraverso contratti privati. Come Hong-Kong e Singapore, queste zone non sarebbero isolate ma iper-connesse, nodi dei flussi finanziari e commerciali governati non dalla democrazia (che cesserebbe di esistere), ma dal potere del mercato in cui le dispute sono risolte dall’arbitrato privato. Non esisterebbero più diritti umani oltre ai diritti privati codificati nei contratti e fatti rispettare da forze di sicurezza private … Il principio sarebbe: separati, ma globali». La formula alla quale si ispira la destra politica attuale, conclude Slobodian, è dunque quella teorizzata da Hoppe: «Sì alla libera finanza e al libero mercato. No alla libera immigrazione, alla democrazia, al multilateralismo e all’eguaglianza».
La descrizione astiosa e in parte distorta che Slobodian fa delle idee di Hoppe conferma, ancora una volta, la capacità di quest’ultimo di mettere in discussione gli assunti del pensiero politicamente corretto. Anche nel suo recente intervento a Bodrum, in occasione della riunione annuale dell’associazione Property and Freedom Society da lui fondata, Hoppe ha criticato in maniera brillante le tesi hobbesiane contenute nel best-seller di Steven Pinker Il declino della violenza, secondo cui l’affermazione dei moderni Stati centralizzati avrebbe progressivamente portato alla riduzione della violenza umana rispetto alle epoche passate.
La tesi di Pinker, osserva Hoppe, è infondata teoricamente (dato che il monopolio è sempre più costoso ed inefficiente della concorrenza, e questo vale anche per la protezione e la giustizia) ed empiricamente, dato che una corretta lettura delle statistiche disponibili sembra contraddire le conclusioni dell’acclamato psicologo di Harvard.
Abbasso lo Stato e la democrazia è dunque un libro indispensabile per conoscere le idee di uno dei più originali pensatori del nostro tempo, e non deve mancare nella biblioteca personale di ogni appassionato di filosofia politica e scienze sociali. Può essere prenotato presso la Libreria del Ponte di Bologna, oppure ordinato, anche in formato digitale, presso le maggiori librerie online.
INDICE DEL LIBRO
Scritti di Hans-Hermann Hoppe
Dall’Aristocrazia alla Monarchia alla Democrazia
Cosa deve essere fatto
La giustizia dell’efficienza economica
Contro la centralizzazione
Piccolo è bello e efficiente: gli argomenti a favore della secessione
Abbasso la democrazia!
Libertà di accogliere, diritto di escludere
Il futuro del liberalismo. Argomenti per un nuovo radicalismo
COMMENTI
Il pensiero politico di Hans Hoppe tra diritti individuali e strategie libertarie, di Carlo Lottieri
La fisiologia della protezione, di Novello Papafava
Monarchia e democrazia in Hoppe, di David Gordon
La riflessioni di Hans Hoppe sui sistemi istituzionali, di Luca Fusari
La privatopia di Hans Hoppe, di Raimondo Cubeddu
“La libertà di immigrare non esiste”di Marco Valerio Lo Prete
2015/08/31
https://www.ilfoglio.it/articoli/2015/0 ... iste-87075Roma. Il ministro dell’Interno inglese, Theresa May, ha detto di voler tornare alla “libertà di movimento” come originariamente intesa dal progetto della costruzione europea, prima cioè di una sequela di correzioni giurisprudenziali. “Libertà di muoversi per lavorare, non libertà di attraversare i confini per cercare un lavoro o per accedere a benefici welfaristici”, ha scritto sul Sunday Times.
Sollevando un polverone di polemiche più o meno appropriate anche in Italia, visto che il Regno Unito è già fuori dagli accordi di Schengen, e già accoglie più del doppio di immigrati di quanto non faccia il nostro paese pure quando investito da flussi straordinari. A non scandalizzarsi di certo per la posizione della May sarebbe probabilmente Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco, addottorato in Germania con Jürgen Habermas, poi trasferitosi nel 1986 in America e folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard (1926-1995).
Cosa c’entri uno dei principali pensatori anarco-capitalisti viventi con le restrizioni ai flussi migratori tornerà a spiegarlo lo stesso Hoppe tra una decina di giorni, durante il seminario annuale della sua Property and Freedom Society che si terrà in Turchia, paese dove lo studioso oggi vive. D’altronde le sue tesi, in America, già animano da anni un dibattito accademico e politico sull’immigrazione che non ha eguali in Europa. È il dibattito sugli “open borders”, come lo abbiamo descritto su queste colonne, con al centro la tesi – sostenuta da svariati economisti libertari e liberisti – per cui gli stati dovrebbero sbarazzarsi delle frontiere. In questo modo si avvantaggerebbero al meglio dello spostamento di milioni di persone in fuga da guerra o povertà, e incentiverebbero pure un effetto propulsivo della crescita mondiale.
Perché il pil del pianeta ne uscirebbe raddoppiato nel giro di due decenni, prevedono questi studiosi ragionando sull’aumento dei consumi e della forza lavoro, sulla crescita esponenziale di libertà di spostamento e d’innovazione. Esercitare l’immaginazione su un’ipotesi radicale, come appunto è l’abbattimento delle frontiere, non è inutile. Il confronto, che in America si muove spesso sulla base di statistiche accurate e previsioni econometriche, attira anche studiosi mainstream come il decano di economia dell’immigrazione di Harvard George Borjas, intervenuto sull’ultimo numero del Journal of Economic Literature per criticare i fautori dei “confini liberi”. Un dibattito, insomma, che spinge almeno gli analisti a uscire da certi schemi un po’ moralistici che immobilizzano la ragione.
Come collocare, in questo contesto, le posizioni restrittive di Hans-Hermann Hoppe? È necessario partire dalla sua opera principale, “Democracy: The God that Failed”, meritoriamente tradotta in Italia da Alberto Mingardi (direttore dell’Istituto Bruno Leoni) e pubblicata nel 2005 da Liberilibri. Interventi successivi e recenti dello stesso Hoppe hanno continuato a rimandare al nocciolo duro della sua analisi, secondo cui staremmo attraversando una fase di “decivilizzazione”. Caratterizzata da “consumo dei capitali, previdenza e orizzonte di pianificazione sempre più ristretti e un progressivo brutalizzarsi della vita sociale”. Lo studioso, fautore in via di principio dello smantellamento totale dello stato, individua nel regime monarchico – con “lo Stato posseduto a titolo privato” – l’opzione second best. Nel regime monarchico, infatti, “la struttura d’incentivi cui il sovrano è soggetto è tale che è suo interesse comportarsi in modo relativamente previdente e adottare solo politiche fiscali e militari moderate”. Ma lo Stato monarchico è stato rottamato dallo spirito democratico-repubblicano, palesatosi assieme alla Rivoluzione francese e al suo esportatore Napoleone. Alla fine comunque è la Prima guerra mondiale, secondo Hoppe, “il momento in cui la proprietà privata dello Stato venne completamente sostituita dalla proprietà pubblica dello Stato, e da cui è sgorgata una tendenza verso crescenti gradi di preferenza temporale collettiva, crescita del governo e un relativo processo di decivilizzazione”. Il governante democratico non è incentivato a dedicarsi alla conservazione e all’accrescimento del capitale di un paese, piuttosto fa di tutto per difendersi dalla concorrenza di chi vuole gestire le leve del potere al suo posto. Da qui l’enfasi dei governi democratici sulla redistribuzione della ricchezza (privata) e il sopravvento del diritto pubblico (su quello privato). La democrazia, secondo Hoppe, diventa una gara dei governanti per assegnare o promettere privilegi a dei gruppi, “la redistribuzione avrà di norma effetti egualitari e non elitisti”, ergo “la struttura della società verrà progressivamente deformata”. Come opporsi a tale deriva? Delegittimando agli occhi dell’opinione pubblica la democrazia, ricordando che perfino la monarchia è più funzionale, e fomentando la secessione di piccoli stati. E se il Dio della democrazia ha fallito, sostiene Hoppe, in particolare le politiche migratorie sono lì a dimostrarlo. Vediamo perché.
“Le cose cambiano in maniera radicale e il processo di civilizzazione deraglia permanentemente quando le violazioni dei diritti di proprietà prendono la forma dell’interferenza governativa”, scrive Hoppe. “La tassazione, il prelievo di ricchezza da parte dello stato e le regolamentazioni imposte da esso – a differenza della sua controparte criminale – sono considerate legittime, e alla vittima dell’interferenza da parte dello stato, a differenza della vittima di un crimine, non viene riconosciuto il diritto a difendersi fisicamente e a proteggere la sua proprietà”. Secondo Hoppe questa china ha inizio nel 1918.
Hoppe si dice convinto dell’“argomentazione classica” a favore della “libera immigrazione”: “A parità di condizioni, le attività commerciali e industriali tendono a trasferirsi dove i salari sono bassi, mentre la forza lavoro tende a trasferirsi dove i salari sono più elevati. In tal modo si produce una tendenza all’uniformazione dei salari (a parità di tipo di lavoro) e alla allocazione ottimale del capitale. (…) Si aggiunga che tradizionalmente i sindacati – e oggi anche gli ambientalisti – si oppongono alla libera immigrazione: già di per sé questo fattore dovrebbe rappresentare un buon argomento a favore di una politica di libera immigrazione”. Almeno tre sono però le obiezioni che fanno ricredere Hoppe che perciò prende le distanze dagli analisti pro “open borders”.
Innanzitutto il concetto di “ricchezza” e “benessere” è soggettivo, ergo un aumento del pil globale non può diventare l’argomento passepartout per liberalizzare i flussi di persone: “Giacché qualcuno potrebbe preferire avere un tenore di vita più basso in cambio di una maggiore distanza tra sé e il prossimo, piuttosto che godere di un livello di vita più elevato al prezzo di una maggiore prossimità agli altri”.
La seconda obiezione risponde a quanti notano una naturale sintonia tra il sostenere la libertà degli scambi economici e la libertà totale degli spostamenti di persone. Risponde Hoppe: “Non vi è nessuna analogia tra libero scambio e libera immigrazione, e restrizioni al commercio e all’immigrazione. I fenomeni del commercio e dell’immigrazione sono diversi sotto un profilo fondamentale, e i sostantivi ‘libertà’ e ‘restrizione’ declinati con ciascuno dei due termini assumono significati radicalmente diversi: gli individui possono spostarsi e migrare, i beni e i servizi no”. In altre parole, “mentre un soggetto può migrare da un luogo all’altro senza che nessun altro lo voglia, merci e servizi non possono essere inviati da una parte all’altra senza che chi spedisce e chi riceve siano d’accordo”.
Si arriva così alla terza obiezione, quella più radicale. Riguarda la “proprietà” dei territori su cui le migrazioni hanno luogo. In una società “anarco-capitalista”, come la vorrebbe Hoppe, “tutta la terra è di proprietà di individui privati, comprese tutte le strade, i fiumi, gli aeroporti, i porti e via dicendo”. In tale situazione “non vi è distinzione netta tra ‘locali’ (ossia cittadini del posto) e stranieri”; l’immigrazione è possibile solo quando c’è il consenso dei legittimi proprietari della terra. In presenza di un simile ordinamento sociale, “non esiste libertà d’immigrazione o un diritto di ingresso in capo all’immigrante”. Le politiche migratorie cambiano “quando il governo è di proprietà pubblica”. Se il governante democratico assomiglia a un “curatore temporaneo” che vuole massimizzare “denaro e potere”, “in accordo con l’egualitarismo intrinseco della democrazia, dovuto al fatto che ogni individuo dispone del voto, il governante tenderà a perseguire politiche migratorie di chiaro stampo egualitario, ossia non discriminatorie”. Quando si tratta di immigrazione, dunque, poco importa che entrino nel paese “vagabondi o produttori” – scrive Hoppe – anzi, “vagabondi e individui improduttivi potrebbero essere i residenti e i cittadini preferiti, in quanto si tratta di categorie che creano il maggior numero dei cosiddetti problemi ‘sociali’ e i governanti democratici prosperano proprio grazie all’esistenza di tali presunti problemi”. Il filosofo sostiene che “il risultato di questa politica di non-discriminazione consiste in un’integrazione forzata, ossia nell’obbligare a una convivenza forzata, con masse di immigrati di più basso livello, i proprietari del paese che, se avessero potuto scegliere, avrebbero mostrato una maggiore oculatezza e avrebbero scelto dei vicini alquanto diversi”. Per tornare al parallelo con lo scambio delle merci, “libero commercio” si riferisce a scambi che avvengono soltanto su sollecitazione di privati e aziende; “libera immigrazione non significa immigrazione su invito di singoli e imprese, ma invasione non voluta e integrazione forzata”. Altro che “immigrazione libera”, quella che si realizza in America e in Europa occidentale, secondo Hoppe, è “integrazione forzata bella e buona, e l’integrazione forzata è il prevedibile esito della regola democratica di concedere un voto a chiunque”.
La soluzione è “contrattuale” o non è
Per correggere questa tendenza, Hoppe propone misure correttive e preventive di tipo contrattuale. Le prime consistono nell’estendere la proprietà privata quanto più possibile, per ridurre il “costo della protezione” che spetta allo stato garantire. Il muro al confine tra Messico e Stati Uniti, secondo il pensatore, costa molto perché dalla parte americana ci sono ampi territori pubblici. Affidandoli ai privati, che s’intesterebbero la gestione dei flussi, si risparmierebbe. Le misure preventive equivalgono ad assicurarsi che ogni immigrato sia munito di “un invito valido da parte di un proprietario residente”; il soggetto che riceve l’immigrato si assume le responsabilità per le azioni compiute dal suo ospite, e l’immigrato sarà escluso dai servizi finanziati dal settore pubblico finché non diventerà cittadino. Un altro scenario, fantascientifico ma non troppo, che interroga anche l’Europa.
Il dio che ha fallito: la (pseudo) demokràziaEFFEDIEFFE.com
03 Novembre 2011
http://www.effedieffe.com/index.php?opt ... mid=100021 Se c’è una cosa che tutte le tecnocrazie ed oligarchie paventano, è un referendum. L’eurocrazia ne ha motivo, visto che ogni volta che si è osato chiedere un parere ai cittadini di una qulaunque nazione sulla loro amata costruzione europea, si sono sentiti subissare da un risonante no!
No a Maastricht, no alla pseudo-costituzione di Lisbona, no all’ampliamento... Se ne sono infischiate ed hanno proceduto a completare la loro costruzione a forza di fatti compiuti. L’euro, moneta comune senza uno Stato politico comune, ne è l’esempio più lampante.
Lo sapevano, gli eurocrati, che avrebbero così provocato una serie di devastanti crisi «asimmetriche» (così le chiamava Padoa Schioppa) ma loro auspicavano queste crisi, prevedendo che i politici degli Stati portati alla rovina sarebbero andati in ginocchio a implorarli di salvare la situazione, cedendo loro gli ultimi brandelli di sovranità, perchè governassero al loro posto: Europa federale, la chiamano i congiurati e la invocano i loro complici interni agli Stati.
Ed ecco che proprio il politicante Papandreu, screditato governante dello Stato più indebolito, più dipendente dal buon volere delle tecnocrazie e dei banchieri, più (credevano) asservito, getta sulla bilancia la spada di Brenno dell’appello al popolo. Sgomento, proteste, «certe cose non si fanno», ho sentito persino un economista dire a Radio 24, che la Grecia «non ha il diritto» di indire un referendum che ha effetti anche sugli Stati vicini, fra cui l’Italia; ma forse è questa interdipndenza forzata dagli incroci bancari a non avere diritto di esistere.
Banchieri ed economisti sono in ambasce, perchè è stata gettata nella bilancia una entità che non sono abituati a contare nelle loro partite doppie, un’entità che esula dall’economia: la sovranità popolare. Fatto singolare ma istruttivo, anche i politici eletti si stracciano le vesti: segno che ormai si vivono non come rappresentanti del popolo ma come funzionari, professionisti e parassiti della politica, in una parola: come oligarchi, sia pur di livello inferiore (valvassini) del sistema.
Basta ricordare come i politici nostrani, italici, abbiano tradito la volontà popolare espressa nei referendum del 1992-94; il popolo aveva detto sì al maggioritario, e si trovò il Mattarellum, un sistema elettorale pseudo-maggioritario e realmente proporzionale, un inghippo il cui unico scopo era garantire la sopravvivenza dei partitini e del loro personale professionale-politico. Resto convinto che la aggravata corruzione del popolo italiano (e dei suoi politici) sia la conseguenza di quel tradimento e di quella slealtà primaria.
Papandreu, indicendo il referendum, ha posto i cittadini greci non più davanti al fatto compiuto, ma davanti alle loro responsabilità.
Questa è appunto la democrazia non finta, non viscida, non fatta di feste democratiche e di notti bianche pop e rock: responsabilità. Il duro principio della democrazia – a contrario della mistica democratistica e dei demagoghi – non è che il popolo è infallibile, perchè non sbaglia mai. Al contrario. Dice semplicemente che il popolo è sovrano, ossia che spetta a lui decidere su questioni che sono essenzialmente discutibili, e che lo riguardano direttamente. La scelta politica non è mai fra una soluzione buona e una soluzione cattiva, perchè se no sarebbe facile scegliere, e non ci sarebbe dibattito. La scelta politica vera, duramente reale, è fra due soluzioni che – entrambe – hanno dei pro e dei contro, dei vantaggi e degli svantaggi. Discutibili, appunto; decida il popolo.
Nel caso del popolo greco, il referendum verterà su due domande:
1) volete restare nella UE, con l’euro come moneta, e pagare i debiti fino all’ultima goccia di sangue, oppure
2) uscire dall’euro e dall’Europa? In un caso e nell’altro, si tratta di accettare sacrifici estremi, sacrifici da tempo di guerra, anni di miseria. Dica il popolo quali sacrifici – che comunque farà – gli danno una prospettiva, una luce al fondo del tunnel.
Il popolo greco – come quello italiano – non è abituato alle responsabilità. Ha vissuto di pasti gratis economici, di posti statali, sopra i suoi mezzi, e di evasione fiscale (ci sono più Porsche in Grecia di quanti contribuenti dichiaranti oltre i 50 mila euro l’anno, la sola città di Larisssa, 250 mila abitanti nella misera Tessaglia, ha più Porsche pro-capite di quante ne abbia New York). Ora, questi regali della demokratia sono finiti. Ora comincia il duro mestiere della democrazia diretta, dell’assunzione di responsabilità.
Il dibattito pubblico che in Grecia occuperà la piazza e i media nei prossimi due mesi, consentirà al pubblico di chiarirsi le idee sulle scelte alternative a cui è chiamato, sui pro e i contro, sui vantaggi e sui danni collaterali dell’una e dell’altra; diverrà chiaro al pubblico che non si tratta di una scelta fra la festa perpetua e i posti statali in cui imbucarsi contro i sacrifici imposti dalla Germania, bensì fra due diverse stritture di cinghia.
Un dibattito vero, finalmente, non come i dibattiti finti che affollano le nostre TV e i talk-show. Non come essere chiamati a pronunciarsi sulle nozze fra omosessuali o sui diritti dei trans. Un dibattito per adulti. La democrazia diretta è infatti un sistema per adulti e che rende adulti, mentre la democrazia delegata – troppo delegata ai politici di professione che si concepiscono come un’oligarchia in carriera – è stata una culla di infantilismo politico, di irresponsabilità... e di spesa pubblica indecente.
Lo sostiene Han Herman Hoppe, un tedesco, sociologo-economista dell’Istituto Von Mises, che ha pubblicato (in America) un saggio dal titolo significativo: Democracy, the God that failed, e dal sottotitolo anche più istruttivo: L’economia e la politica in monarchia, democrazia e nell’ordine naturale. (Democracy: The God That Failed)
Orribile a dirsi, Hoppe parte dall’asserzione politicamente scorrettissima che la proprietà, la famiglia e la gerarchia sono valori della civiltà, che sono stati svalutati, quando non criminalizzati, dalla democrazia rappresentativa derivata dalla demagogia giacobina. Vige oggi, anzi trionfa, la preferenza per l’immediato delle maggioranze infantilizzate; mentre i padri di famiglia e i proprietari – i soli che sono disposti a sacrificare l’immediato per investire e risparmiare in vista del futuro, dei figli, del mantenimento della proprietà – sono marginalizzati e colpevolizzati. L’estrema caricatura del principio un uomo, un voto, ossia il voto dato ai diciottenni che vale quanto il voto di un padre di quattro figli è una iniquità morale, dato che quest’ultimo ha quattro volte più interesse alla buona, oculata, previdente conduzione della cosa pubblica. Se l’Italia fosse quella che proclama la costituzione, «una repubblica fondata sul lavoro», riserverebbe il diritto di voto a chi un lavoro ce l’ha, o almeno lo cerca.
Hopper si spinge fino a preferire (turatevi le orecchie) il sistema monarchico: il re essendo il primo proprietario e il primo dei pater familias, interessato alla durata della sua famiglia nei secoli, meglio esprime la parte adulta della società, quella che sacrifica l’immediato in vista del futuro. I monarchi non hanno alcun interesse a succhiare e a consumare il capitale pubblico. Non a caso, dal secolo undicesimo fino al 1800, le monarchie hanno prelevato mediamente l’8% della ricchezza nazionale.
Come si è arrivati ai prelievi fiscali del 50 e più per cento delle dilapidanti democrazie, presunti governi del popolo? Con la delega. Dovunque nel mondo d’oggi, nelle banche come nelle imprese, nelle tecnocrazie e nel personale politico, agiscono non i proprietari e i padri di famiglia, ma gestori, manager, amministratori (non a caso detti ) delegati.
Tutti questi gestori non-proprietari vogliono guadagnare il massimo nel più breve termine, proprio a causa della condizione relativamente instabile di gerente. Ciò è stato scandalosamente evidente nei banchieri e gestori di fondi che giocano col denaro altrui, e si pagano bonus colossali distruggendo l’economia con le loro tattiche di brevissimo termine; ma è vero anche per gli eurocrati, e ancor più per i politici eletti nel sistema di democrazia delegata.
In conclusione, i dirigenti attuali condividono la preferenza per l’immediato delle parti basse, maggioritarie e infantilizzate, della società, ossia della maggioranza elettorale. Alle folle, o alle lobby, che pretendono voglio tutto e subito, i politici danno dei regali, per mantenersene il favore. Lo fanno tanto più spensieratamente, in quanto il denaro che gestiscono non è il loro. Assicurano il finanziamento di questi regali con imposte che colpiscono minoranze (tale è l’imposta sul reddito delle persone fisiche) con imposte apparentemente indolori (l’IVA), ma soprattutto con l’indebitamento pubblico tramite folle emissione di BOT, perchè così indebitano le generazioni future, che non possono ancora protestare.
Quando poi la crisi del debito diventa insostenibile, ricorrono alla patrimoniale, ossia all’esproprio dei piccoli proprietari e dei padri di famiglia che risparmiano in vista del futuro. Magari tagliano le spese sociali, ma non però le spese per le notti bianche pop, o per le loro autoblu.
Il caso patente del giorno è il ministro della Difesa La Russa che, con questi chiari di luna, ha ordinato 19 Maserati blindate per altrettanti generali (nel Paese badogliano, i generali sono tanti, e trattati coi guanti). O il ministro Tremonti e il ministro Bossi che, il giorno del crollo di tutto, erano alla Sagra della Zucca in un paesino del Nord.
Come rimediare? Il ritorno alla monarchia è un’idea che non è ancora matura. Il secondo metodo migliore, e praticabile da subito, è invece la democrazia diretta. Hopper cita il lavoro di due eminenti svizzeri, i professori Feld e Kirchgassner (2008), il quale dimostra che la democrazia diretta svizzera – il referendum fiscale e finanziario, il voto di iniziativa popolare, il cosiddetto referendum di veto – permette di ridurre il livello delle spese e delle imposte del 30%, e il livello del debito pubblico del 50%.
Come noto (ma forse non abbastanza) in Svizzera i cittadini votano frequentemente a tutti i livelli, municipale, cantonale, federale, per approvare o rifiutare spese pubbliche rilevanti; se le cifre sono grosse, tali referendum sono addirittura obbligatori (in Italia per contro è vietato il referendum in materia fiscale). Così, per esempio, i cittadini di Zurigo hanno bocciato per due volte il progetto del loro sindaco di dotare la città di una metropolitana: troppo caro, meglio restare al tramway. Ogni decisione di indebitamento dei rappresentanti del popolo viene sottoposta a referendum, il che invariabilmente ha il risultato di ridurre l’indebitamento stesso. In Svizzera, con raccolta di firme, i cittadini possono contestare una decisione del governo locale o federale chiamando il popolo ad esprimersi: l’iniziativa popolare ha fatto sì che per ben tre volte gli svizzeri abbiano rifiutato l’introduzione dell’IVA, che infine è stata adottata, ma con un tasso modestissimo.
Perchè ogni volta che sono chiamati a dare il loro parere i cittadini frenano le spese e l’indebitamento? Facile: perchè i soldi da spendere sono i loro, mentre i politici di professione, i tecnocrati, i funzionari, i sindacalisti e i banchieri giocano col denaro altrui. Il referendum, la democrazia diretta, stimola negli svizzeri il loro status di risparmiatori, di piccoli proprietari, di classe media: in una parola, di adulti.
Quando si chiede direttamente ai cittadini, la democrazia è portata al suo cuore pulsante: l’esercizio della responsabilità.
Perciò ben venga il referendum dei greci. Non è affatto certo che sceglieranno la soluzione più facile (ammesso che esista) nè la preferenza per l’immediato. È singolare invece la grandine di critiche e rabbiose derisioni che gli altri politici greci, e i commentatori dei grandi giornali ellenici, hanno lanciato su Papandreu per questa scelta: è un trucco per guadagnare tempo, un trucco per evitare elezioni anticipate perchè sa che il suo partito verrebbe cancellato, è troppo poco serio per fare cose serie... È la rabbia di chi teme di essere svegliato e di doversi scoprire adulto, capace di scelte dolorose, e forse ancor più di trovarsi espropriato della delega fasulla della professione politica, o dello status di opinion leader.
È la democrazia diretta, bellezza. Non si scherza più, non si tratta di arraffare pasti gratis; fuori i pagliacci dall’arena, fuori i bambini viziati.
Ma forse sto sognando. Apprendo che in tedesco l’espressione che noi mal traduciamo Confederazione Elvetica, in tedesco si legge Schweizerische Eidgenossenschaft. Che letteralmente significa: Associazione di comproprietari (Genossenschaft) uniti da un giuramento (Eid) di difendersi in comune.
Naturalmente, oggi una democrazia di comproprietari giurati sarebbe bollata come oligarchia, dagli oligarchi delegati e da quelli che la delega se la sono presa in Europa, nelle banche, dovunque. Eppure qualcosa mi dice che la democrazia ateniese, quella vera e antica dell’agorà, era qualcosa di molto più simile alla Eidgenossenschaft elvetica che alla demokràtia astratta, formale e truffaldina di oggi.
L’Europa muore se rottama comunità e nazioni, dice il libertario Hoppe2016/08/09
https://www.ilfoglio.it/politica/2016/0 ... ppe-102618 Roma. “Tutti i principali partiti politici dell’Europa occidentale, quale che sia il loro nome o la loro piattaforma programmatica, sono oggi devoti alla stessa idea fondamentale di socialismo democratico – ha detto Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco, in una lunga intervista al settimanale polacco Najwyzszy Czas! – Questi partiti politici utilizzano cioè le consultazioni elettorali per legittimare una sola prassi: tassare le persone produttive a beneficio delle persone improduttive. Impongono balzelli alle persone, che hanno guadagnato il proprio reddito o accumulato la propria ricchezza producendo beni e servizi acquistati liberamente da altre persone, e poi redistribuiscono il bottino confiscato a loro stessi, allo stato democratico che controllano o sperano di controllare e ai loro alleati, sostenitori o potenziali elettori. I partiti al potere si rifiutano di chiamare questa politica con il suo vero nome: essa consiste nel punire le classi produttive e nel premiare quelle improduttive. Effettivamente non suona bene. Perciò pescano nel sentimento popolare di invidia e dichiarano di tassare i pochi ‘ricchi’ per sostenere i molti ‘poveri’. In realtà con questa politica rendono più povero un numero crescente di persone produttive e accrescono il numero di persone improduttive relativamente più ricche”.
Hoppe, addottorato in Germania con Jürgen Habermas, si è trasferito nel 1986 negli Stati Uniti, dove è stato folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard (1926-1995), e in questo suo recente intervento concentra le proprie critiche sulla situazione “economica e morale” del continente europeo. “L’Unione europea è il primo passo verso la creazione di un Super-Stato europeo”, “fin dall’inizio, e nonostante i proclami altisonanti che promettevano il contrario, l’Ue non è mai stata una questione di libero scambio e libera competizione. Per raggiungere questi obiettivi, infatti, non hai bisogno di decine di migliaia di pagine di leggi e regolamenti! Piuttosto il fine principale dell’Unione europea, in questo con il sostegno degli Stati Uniti, è sempre stato l’indebolimento della Germania nel suo ruolo di locomotiva economica del continente”. Il filosofo libertario, a proposito del ruolo di Berlino, è schierato con quelli che sono chiamati “falchi” dell’ortodossia ordoliberale: no alla mutualizzazione dei rischi, no a un tetto all’export made in Deutschland, no alla politica monetaria ultra espansiva. Meno mainstream il suo riferimento alle tre forme di “perversione” di cui soffre il Vecchio continente. Primo, il desiderio di “armomizzare tutto”, dal fisco alle leggi, per ridurre il tasso di concorrenza. Secondo, la replica delle politiche parassitarie nazionali a livello comunitario, con il tentativo di far pesare sui paesi più forti le manchevolezze dei paesi mediterranei. In terzo luogo: “Per superare la resistenza che cresce in vari paesi di fronte al progressivo trasferimento di sovranità verso Bruxelles, l’Ue ha avviato una crociata per erodere, e alla fine smantellare, tutte le identità nazionali e tutte le forme di coesione sociale e culturale. L’idea di nazione, così come quella di differenti identità nazionali o regionali, viene ridicolizzata. Il multiculturalismo invece è acclamato come indiscutibilmente ‘buono’”, dice l’autore del saggio “Democrazia: il dio che ha fallito” (pubblicato in italiano da Liberilibri).
Allo stesso tempo l’Ue promuove “privilegi legali e protezioni speciali per chiunque, eccetto che per i nativi europei, gli uomini eterosessuali e in particolare quelli sposati con famiglia (tutti dipinti come storici ‘oppressori’ che devono fornire una qualche compensazione alle loro altrettanto storiche ‘vittime’), chiamando eufemisticamente tutto ciò ‘politiche anti discriminazione’, e finendo per minare il naturale ordine sociale”. Secondo Hoppe, gli Stati Uniti si sono incamminati sulla stessa strada, anche se al momento in quel paese sono in numero maggiore i difensori del libero mercato e sono meno pervasive le maglie del diritto che tutto regola. Che fare, dunque? Innanzitutto riconoscere il vero volto dell’Unione europea. Dopodiché, “i cittadini devono sviluppare una visione chiara dell’alternativa possibile all’attuale palude: non un Super-Stato europeo e nemmeno una federazione, ma un’Europa fatta di migliaia di Lichtenstein e di cantoni svizzeri, uniti grazie al libero commercio, in concorrenza tra di loro nel tentativo di offrire le condizioni più attraenti per le persone produttive che vorranno restarvi”. In conclusione, cari europei, “non riponenete la vostra fiducia nella democrazia, ma nemmeno nella dittatura. Piuttosto, sperate in un decentramento politico radicale, non solo nelle lontane India o Cina, ma ovunque”.