La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 9:25 am

La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio
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Quello delle religioni non è Dio ma una sua interpretazione idolatra
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:24 am

Dio non può essere altro che aldilà di ogni mistero e altro da ogni possibile definizione che faccia riferimento a cose, animali, persone e quindi oltre ogni religione e ogni suo idolo.
viewtopic.php?f=24&t=1940


Dio non è né buono né cattivo, né padre né madre, non è misericordioso, non è umano, non è animale, non è cosa, non è un pastore, un re, un imperatore, un signore, un padrone;
Dio non è la sua creazione e nessuna delle sue creature anche se la creazione proviene da Dio stesso e non dal nulla ma dal tutto che è Dio;
la creazione e le sue creature sono parte di Dio ma non sono Dio;
Dio non ha creato il mondo e l'uomo come un re conquista un regno e un imperatore un impero;
Dio non ha creato il mondo per glorificare se stesso e l'uomo perché sia il suo servo e schiavo;
Dio non è in alcun modo aggettivabile, qualificabile, interpretabile, determinabile, definibile con i parametri umani;
le attribuzioni postive umane, cosmiche, astronomiche, proprie delle creature, del creato o creazione come l'ordine, l'intelligenza, la perfezione, l'equilibrio, la proporzione, la giustizia, la bellezza, la bontà, ... non sono attribuzioni di Dio, non sono attribuibili anche a Dio;
Dio è completamente altro, non coincidente con la sua creazione, con il creato o cosmo, trascendente ma non distaccato in quanto Dio è lo spirito/forza/energia/causa/entità che anima, vivifica e alimenta la creazione che è in Dio come Dio è nella creazione senza esaurirsi, confinarsi in essa;
Dio non è nemmeno persona (dotata di coscienza, pensiero, che agisce per volontà e non per necessità ?);
qualsiasi immagine, idea, concetto, interpretazione si facciano gli uomini di Dio, non potrà mai coincidere con Dio;
la dualità appartiene alle creature, al creato e alla creazione: la perfezione e l'imperfezione, l'ordine e il disordine, il bene e il male, la materia e lo spirito, il corpo e la mente, la fisica e la metafisica, ... sono gli estremi ed opposti, i contoni, i limiti, ... entro i quali si svolge la vita;
l'estasi mistica dell'uomo è un'esperienza tutta interna al creato/creazione e non è esperienza di Dio, trascende-trasfigura-intensifica ed estende solo l'esperienza sensibile ordinaria, quotidiana, normale dell'uomo e non trasfonde affatto l'uomo in Dio;
nessuna pratica religiosa, mistica, esoterica, ... può consentire, dare, ... al credente-praticante-iniziato l'esperienza di Dio; le creature non possono sperimentare Dio ma solo vivere se stesse e in questo vivere sperimentano quanto a loro spetta/è dato di Dio che le ha create e che già è il loro come dotazione naturale del Creatore;

...


Dio
https://it.wikipedia.org/wiki/Dio

Assoluto
https://it.wikipedia.org/wiki/Assoluto
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:25 am

Anche nel caso del panenteismo, dopo la premessa che condivido,
si riscontra-verifica la tendenza idolatra di indagare, definire, determinare, qualificare, attribuzionare Dio, quando invece si dovrebbe occuparsi soltanto di indagare la creazione più che il Creatore.



???
Panenteismo
https://it.wikipedia.org/wiki/Panenteismo
Il panenteismo (dal greco πᾶν "tutto", ἐν "in", θεός "Dio") è la posizione teologica che sostiene che Dio sia immanente nell'universo, ma che allo stesso tempo lo trascenda. Si distingue dal panteismo, che sostiene che Dio coincida invece con l'universo materiale. Nel panenteismo Dio è visto come il creatore e/o la forza animatrice dell'universo, che pervade il cosmo e di cui tutte le cose sono costituite. Questo concetto di Dio è strettamente associato con quello del Logos proposto dal filosofo greco Eraclito nel V secolo a.C..
Il panenteismo, così come sopra definito in modo ampio, è compatibile con un gran numero di credenze religiose e con il misticismo, un tipo di esperienza umana diffusa in tutti i tempi e in tutte le religioni. Molte religioni insegnano che Dio non è il "Dio orologiaio" di Cartesio e degli illuministi né che si palesi solo attraverso i miracoli. Al contrario, Dio non sarebbe solo necessario per la creazione dell'universo, ma in ogni istante ci sarebbe bisogno della sua presenza perché esso "continui ad esistere". Questa posizione sembra essere descritta con linguaggio antropomorfico già in un testo della tradizione ebraica pre-cristiana, tuttora utilizzato nella liturgia di molte confessioni religiose:

« Nascondi il tuo volto e il terrore li assale; togli loro il respiro ed essi muoiono, tornano ad essere polvere! »
(Bibbia, Libro dei Salmi, 104, 29)


Così pure per gli Indù:
« Se non compissi la mia opera [precedentemente descritta come una azione instancabile] i mondi sprofonderebbero. Sarei io la causa della confusione universale e annienterei le creature »
(Bhagavadgita, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi, 1991, III, 24)

Per i Cristiani:
Ancora più esplicite sono le affermazioni di San Paolo nell'Areopago. Secondo Paolo, Dio "non è lontano da ciascuno di noi" e "in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" At 17, 27-28.

Anche sul piano strettamente filosofico e teologico la necessità di formalizzare una forma di presenza di Dio nell'universo è ben presente sin dall'antichità, allo scopo di ovviare alle caratteristiche parmenidee dell'essere, incompatibili con la molteplicità degli esseri che costituiscono l'universo. Il neoplatonismo è in qualche modo panenteistico: Plotino sosteneva l'esistenza di un Dio trascendente e ineffabile (l'Uno), di cui tutte le realtà sarebbero delle emanazioni. Dall'Uno emanerebbero l'Intelletto Divino, l'Anima Mundi e il Mondo. Perfino nel tomismo, Dio compare fra i principi d'essere, gli ingredienti costitutivi di ogni sostanza finita.


Vi è però una differenza sostanziale fra forme di panenteismo accettabili dalla maggior parte delle religioni e il panenteismo radicale descritto nel seguito. Per un accordo, infatti, occorrerebbe mantenere una distanza ontologica tra il creato e il Non-creato: Dio è dentro la creazione, ma la creazione non è "parte di Dio".
Ad esempio:
« Una concezione dell'"essere dentro" del non divino in Dio sarebbe errata e non sostenibile nella fede cristiana, se negasse contemporaneamente l'essere distinto del non divino da Dio (non soltanto di Dio dal non divino) »
(Herbert Vorgrimler, Nuovo dizionario teologico, Bologna 2004, p. 493)

Il termine "panenteismo" fu coniato nel 1828 dal filosofo tedesco Karl Krause (1781–1832), che cercava di trovare un punto di equilibrio fra monoteismo e panteismo. Krause era un filosofo idealista, allievo di Schelling, Fichte ed Hegel. La sua concezione di Dio fu molto influenzata dalla Filosofia della Natura di Schelling e a sua volta influenzò i trascendentalisti come Ralph Waldo Emerson.

Il termine venne ripreso da Max Scheler, che nell'ultimo periodo, influenzato da Schelling, utilizzò tale termine per definire la propria tesi del Dio diveniente (werdender Gott), tanto che l'espressione "panenteismo evoluzionistico" è comunemente usata per definire fra gli interpreti la posizione dell'ultimo Scheler.
Nel testo La posizione dell'uomo nel cosmo (1927) c'è l'esigenza di rivalutare la sacralità della natura senza rinunciare per questo a una dimensione trascendente di Dio (il Deus absconditus), e inoltre di pensare l'evoluzione cosmica e il divenire di Dio non come contrapposti, ma come complementari. In tal modo il Dio diveniente costringe a ripensare anche il concetto di rivelazione del divino, prevedendo una rivelazione continua e inesauribile: la rivelazione non è data tutta in una volta, perché questo significherebbe che ciò che viene dopo sarebbe solo ripetizione.

Al centro della rivelazione non c'è più la tesi della creatio ex nihilo, ma quella di una creatio continua.
Sempre partendo dal presupposto di una parziale coincidenza fra divenire di Dio e processo cosmico, la tesi di Scheler apre le porte alla teologia del "Dio del futuro":

"Allo spirito non può essere assegnato alcun potere creativo positivo. Di fronte a queste conseguenze crolla anche la tesi di una «creazione dal nulla»: se il principio di tutte le cose vuole realizzare la sua Deitas, allora dovrebbe liberare l'impulso primordiale generativo del mondo, [...] dovrebbe per così dire farsi carico del processo cosmico in modo da poter realizzare la propria essenza in e attraverso questo processo: [...] si realizzerà come esistenza divina solo nella misura in cui, con l'aiuto dell'uomo, realizzerà l'eterna Deitas nell’impulso primordiale della storia cosmica e nell'uomo stesso. E solo nella misura in cui il mondo stesso diverrà il corpo-vivente dello spirito eterno e dell’impulso primordiale, solo allora questo processo potrà avvicinarsi al suo fine: quello dell'autorealizzazione della divinità. [...] Detto in altri termini: l'obiettivo e il fine del divenire infinito è rappresentato dalla reciproca compenetrazione di uno spirito inizialmente impotente e di un impulso primordiale inizialmente demoniaco e cieco. Ecco che allora l'equivoco del teismo tradizionale consiste essenzialmente nello scambiare ciò [il Dio onnipotente dell'Antico Testamento] che in realtà è solo il punto finale di arrivo con il punto di partenza".
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:28 am

Teista, Ateo, Idolo, Idołatra, Aidoło
Idolatria e spiritualità naturale e universale
viewtopic.php?f=24&t=2036


Libertà, spiritualità e religione, scienza, caso e fede
viewtopic.php?f=141&t=2657
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Spiritualità e religiosità non sono la stessa cosa
viewtopic.php?f=24&t=2454

La spiritualità è una dote naturale innata, istintiva, comune a tutte le creature ed è quel filo sottile che ti lega all'Universo intero, al tutto, al Creatore e all'intera creazione, al divino, a D-o, è la vita che pulsa nel cuore di ogni essere vivente. La religiosità a volte viene confusa con la spiritualità ma in realtà è la spiritualità deformata o conformata dalla religione. La religione è la manipolazione, l'impostazione ideologica di questa spiritualità innata con tutte le sue implicazione rituali, cerimoniali, mitiche, mitologiche su cui si innesta l'esistenza e la storia personale, sociale, pubblica, istituzionale e generalmente impone la sua interpretazione del divino che diviene l'idolo di quella religione; infatti ogni religione è una forma di idolatria. Spesso la religione è una costrizione, una restrizione, una soffocazione, una limitazione, una deformazione della spiritualità naturale e universale. La spiritualità naturale ti dona l'estasi contemplativa mentre la religione può portarti all'ossessione fanatica che può sfociare nell'omicidio-suicidio o martirio religioso.


Fede naturale e fede religiosa
viewtopic.php?f=201&t=2742
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:28 am

Una religione così non è una buona religione ma un male dello spirito
viewtopic.php?f=199&t=2590
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 4008956413


La grande presunzione degli idolatri cristiani
viewtopic.php?f=199&t=2625


L'assurda, irragionevole e idolatra eresia cristiana
viewtopic.php?f=199&t=2589
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:29 am

Umanizzazione e incarnazione di Dio
posting.php?mode=post&f=24
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 7003387674


Dio è in tutte le cose, in tutte le creature e in ogni luogo da sempre, a prescindere dalle religioni e dai loro idoli e non si può vedere ma solo vagamente intuire.
E non occorre affatto vederlo nelle cose e nelle creature affinché queste abbiano un valore o un disvalore, poiché le cose e le persone hanno valore di per sé se portano del bene e disvalore se portano del male

Ciò che si può vedere sono soltanto le interpretazioni idolatre di Dio o idoli.

Quando vedo gli uomini non vedo Dio ma solo l'umanità, non vedo figli di Dio ma delle creature di Dio tra le tante del Creato o Universo e non sempre da considerare buoni fratelli e amici,

quando vedo Cristo non vedo il figlio di Dio ma solo un uomo, un ebreo con le sue fisime religiose fanatiche e idolatre,

quando vedo dei bambini non vedo Dio ma solo i figli degli uomini,

quando vedo dei malati e dei sofferenti non vedo Dio ma uomini che soffrono affetti da qualche male curabile o mortale,

quando vedo dei poveri non vedo Dio ma solo umanità misera e non per questo necessariamente sempre buona e vittima,
anche quando vedo dei ricchi non vedo Dio, tanto meno il Diavolo, ma solo umanità ricca e non per questo sempre malvagia e carnefice,

quando vedo il Papa cattolico romano non vedo il vicario di Dio ma un presuntuoso idolatra seguace del fanatico idolatra ebreo chiamato Gesù Cristo; qualcuno che nella sua presunzione e arroganza non mi rispetta e viola i miei diritti umani, naturali-civili e politici,

quando vedo un maomettano non vedo un un uomo di grande umanità e di profonda spiritualità ma solo il fanatico seguace dell'idolatra Maometto e del suo idolo dell'orrore e del terrore, portatore di morte più che difensore della vita e dell'umanità universale; qualcuno che può farmi del male e uccidermi,

quando vedo un ebreo il più delle volte vedo un buon uomo, un uomo di buona volontà, sempre impegnato e che cerca di migliorarsi, dal cuore grande, dalla acuta sensibilità, di grande e ragionevole spiritualità; che lotta da uomo universale per la sua dignità, la sua libertà, la sua terra e la sua vita; un uomo che non viola i miei diritti umani e che non mi può fare del male tanto meno uccidermi,

quando vedo Dio non vedo un distributore automatico o un bagarino di cittadinanze.

Bergoglio ti ricordo che l'ebreo Gesù aveva la sua naturale cittadinanza ebraica ed era suddito di Roma che aveva invaso la sua terra; l'ebreo Gesù non distribuiva cittadinanze, né quella ebraica, né quella romana.
Nemmeno Dio il creatore, distribuisce le cittadinanze a suo capriccio ma lo fa in modo naturale, nel rispetto della preistoria, della storia, delle etnie, delle culture, delle lingue, ogni popolo la sua terra e ogni comunità la sua città ed il suo paese, così è da sempre; ti ricordo anche che non esiste la cittadinanza mondiale e che gli uomini quando nascono hanno tutti la loro cittadinanza naturale quella originaria del popolo a cui appartengono e che caso mai possono cambiare cittadinanaza o acquisirne un'altra in modo naturale attraverso l'adozione, il matrimonio, meriti speciali o dopo qualche anno di permanenza nei paesi altrui dimostrando amore e rispetto per quel paese e le sue genti.

Io non amo il mio prossimo perché ci vedo Dio o un idolo ma perché è il mio prossimo e ci vedo l'umanità e me stesso;
però amo solo quelli che mi fanno del bene e non quelli che mi fanno del male e che possono e vogliono derubarmi, opprimermi e magari uccidermi;

io non aiuto il mio prossimo perché ci vedo Dio o un idolo ma perché è il mio prossimo e ci trovo l'umanità e me stesso;
però li aiuto solo se posso e se l'aiutarli non arreca danno e pregiudizio alla mia gente e a me stesso;
e sopratutto non trascuro la mia famiglia, la mia gente e me stesso per aiutare altri; il mio dovere umano e civile va innanzi tutto verso la mia gente, la mia famiglia e me stesso.
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:29 am

Religione e religiosità come ossessione, come grave malattia, grave disturbo della mente e dell'anima o psico-emotivo
viewtopic.php?f=141&t=2527


Cosa ci sarà mai di spirituale in questa gente, in questo culto politico-religioso dell'orrore e del terrore, nel loro pregare idolatra e ossessivo?

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... lamica.jpg


Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Khan-1.jpg



Ma quali sono i valori spirituali e umani dell'Islam?
viewtopic.php?f=188&t=2580

Criminali e irresponsabili difensori dell'Islam o nazismo maomettano
viewtopic.php?f=188&t=2263

Il Papa bugiardo e l'infernale alleanza con l'Islam
viewtopic.php?f=188&t=2378

Dementi idolatri islamici della jihad nazista mussulmana
viewtopic.php?f=188&t=2537

Hitler, Stalin e Maometto: chi è stato il peggior criminale?
viewtopic.php?f=188&t=2659

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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:32 am

Anche Ratzingher confonde Dio con gli idoli e il sacro delle religioni e si contraddice sull'Islam, sul rispetto degli idoli altrui e sulla malvagità-pericolosità-disumanità del credo maomettano e di Maometto



Benedetto XVI: "Islam spaventato da un Occidente che esclude Dio"
Monito del pontefice durante la messa celebrata a Monaco di Baviera
"Senza timore di Dio e senza rispetto del sacro non c'è tolleranza ma cinismo"
(10 settembre 2006)

http://www.repubblica.it/2006/09/sezion ... xvi-4.html

L'Islam, così come le popolazioni dell'Africa e dell'Asia, si spaventano di fronte ad un Occidente che esclude totalmente Dio dalla visione dell uomo. La vera minaccia per la loro identità, mette in guardia papa Benedetto XVI, non viene vista nella fede cristiana, ma nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della liberta ed eleva l'utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca.
Nell'omelia pronunciata alla grande messa di Monaco di Baviera il pontefice è tornato sul tema del rispetto della libertà religiosa che l'anno scorso aveva scatenato la bufera delle vignette blasfeme contro Maometto.
Papa Ratzinger ha quindi condannato il cinismo, affermando che "non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno - ha aggiunto - comprende il timor di Dio, il rispetto di ciò che per altri è cosa sacra".
Durante la messa il pontefice ha insistito quindi sul rispetto di ciò che altre religioni ritengono sacro. "Ma ciò - ha sottolineato Benedetto XVI - presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.


L'islam usa la spada non la ragione. Così Ratzinger ci aveva avvertiti
La lectio magistralis tenuta dall'allora Pontefice nel 2006 aveva squarciato il velo sulla vera natura del Corano Benedetto XVI fu accusato dalla stampa di islamofobia, ma dieci anni dopo le sue parole appaiono profetiche
Joseph Ratzinger - Mer, 27/07/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 89766.html

Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis «Fede, ragione e università - Ricordi e riflessioni». L'orazione è stata tenuta da papa Benedetto XVI il 12 settembre 2006 all'università di Regensburg (Ratisbona) durante il suo viaggio apostolico in Baviera. Un discorso profetico nel quale il Pontefice toccava i temi del rapporto tra il cristianesimo e l'islam, parlando anche di jihad. Citando un teologo e la sua analisi di un dialogo tra un dignitario persiano e l'imperatore bizantino del XII-XIII secolo, si parla dell'«irrazionalità» della guerra di religione propugnata da Maometto. La lezione provocò molto clamore e scatenò dure polemiche nei confronti di Ratzinger, ma aprì uno squarcio sulla natura dei rapporti tra le due religioni e sulla vera essenza del Corano.

Un documento che risulta ancora più attuale ed efficace.

Illustri Signori, gentili Signore!

È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'Università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era nel 1959 ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari.

(...)

L'Università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del «tutto» dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra Università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva. Di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'Università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le «tre Leggi»: Antico Testamento, Nuovo Testamento e Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento piuttosto marginale nella struttura del dialogo che, nel contesto del tema «fede e ragione», mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (controversia) edito dal professor Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2,256 si legge: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il «Libro» e gli «increduli», egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». L'imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. «Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (logos) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte».

L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. Theodore Khoury commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.

Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: «In principio era il verbo», ovvero il logos. È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola: una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di San Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr At 16,6-10), questa visione può essere interpretata come una «condensazione» della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo.

(...)

Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento - la «Settanta», realizzata in Alessandria - è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: non agire «con il logos» è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore «sorpassa» la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è logike latreia, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.

Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo: una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.

La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. (...) Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il «sola Scriptura» invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. (...)Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'Università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'Università. In sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle «critiche» di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali.

(...)

Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina «scientifica», del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del «da dove» e del «verso dove», gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla «scienza» e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la «coscienza» soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo constatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione, patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco, un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l'opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le convinzioni dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'Universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare, alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno». L'Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza: è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'Università.

Regensburg, 12 settembre 2006
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 10:37 am

Le caste che si credono illuminate, superiori, elittarie, divine, semidei o vicari di Dio o Dio
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Le loro menzogne e ignoranza, la loro peresunzione e arroganza, le loro irresponsabilità, le loro miserie e crimini, i loro idoli e ideologie.

L'arte del governare, dell'amministrare, dell'informare di tutte queste caste sta nel manipolare la verità e nella menzogna.
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Re: La manipolazione umana, religiosa e idolatra di Dio

Messaggioda Berto » mer mar 28, 2018 11:00 am

Le assurdità idolatre su Dio di San Tommaso stando alle citazioni di Chesterton:
Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia
che senso mai avrebbe un frase così che oltretutto inizia con una sostantivazione blasfema (Dio) e idolatra (l'immagine di Dio), e tralascio di commentare il resto


Gilbert Keith Chesterton, a volte citato come G.K. Chesterton (Londra, 29 maggio 1874 – Beaconsfield, 14 giugno 1936), è stato uno scrittore, giornalista, aforista e intellettuale inglese.
https://it.wikipedia.org/wiki/Gilbert_Keith_Chesterton
Quando gli fu commissionato di scrivere un libro su san Tommaso d'Aquino, mandò la segretaria a scegliere una pila di libri su san Tommaso in biblioteca, aprì il primo in cima alla pila, lo scorse con il dito, lo chiuse e procedette a dettare un libro su san Tommaso. Scrisse questo libro in contemporanea ad altri, per cui, mentre dettava gli altri libri alla Collins che li dattilografava, ogni tanto intercalava e chiedeva: "Vogliamo fare un po' di Tommy?", riferendosi alla biografia del Santo Aquinate. Il riconosciuto studioso tomistico Étienne Gilson ne disse: "Lo considero senza possibilità di paragone il miglior libro mai scritto su san Tommaso. Nulla di meno del genio può rendere ragione di un tale risultato...". Oltre alla filosofia del santo della Scolastica, presenta ragionamenti di Chesterton e caustici aforismi:
« Non va bene dire a un ateo che è un ateo, o attribuire a chi nega l'immortalità l'infamia di negarla, o pensare che si possa costringere un avversario ad ammettere di aver torto dimostrandogli che ha torto in base ai principi di qualcun altro, e non ai suoi. [...] È questo il senso di una massima attribuita al grande san Luigi, re di Francia, che le persone superficiali citano come un esempio di fanatismo; il senso è che con un infedele si deve o discutere come un vero filosofo sa fare, oppure "infilargli in corpo una spada più profondamente che si può." »




???

La filosofia araba e la cultura cristiana occidentale nel XIII secolo
https://www.culturacattolica.it/cultura ... /medievale

I rapporti in campo filosofico tra Islam e Occidente

...
Le affermazioni di Chesterton si capiscono se si tiene presente che l'aristotelismo, con il suo realismo, il pieno recupero e la valorizzazione della dimensione corporea e sensibile della realtà e della conoscenza risultava decisamente in linea con il valore attribuito alla corporeità dal cristianesimo in virtù dell'Incarnazione. Ciò significava che S. Tommaso aveva un motivo per leggere e apprezzare Aristotele che era del tutto estraneo alla cultura mussulmana.
Per questo motivo Chesterton afferma che "fu un miracolo squisitamente cristiano a far resuscitare il grande pagano", precisando che "c'era davvero una nuova ragione per considerare i sensi, le sensazioni del corpo e le esperienze dell'uomo comune, con un rispetto che avrebbe sbalordito il grande Aristotele, e che nel mondo antico nessuno avrebbe lontanamente capito. […] Dal momento che l'Incarnazione era diventata l'idea centrale della nostra civiltà, era inevitabile che vi fosse un ritorno al materialismo, nel senso del profondo valore della materia e della creazione del corpo. Una volta risorto Cristo, era inevitabile che risorgesse Aristotele" (Ibidem, pp. 97).
In altre parole "sarebbe […] falso sostenere che l'Aquinate traesse la sua prima ispirazione da Aristotele. […] San Tommaso diventava più cristiano, e non semplicemente più aristotelico, quando ribadiva che Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia" (Ibidem, pp. 23-24) ???.
...


??? In altre parole "sarebbe […] falso sostenere che l'Aquinate traesse la sua prima ispirazione da Aristotele. […] San Tommaso diventava più cristiano, e non semplicemente più aristotelico, quando ribadiva che Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia" (Ibidem, pp. 23-24) ???.

??? Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia"???






In un periodo come quello che stiamo attraversando parlare di Islam e rapporti tra Occidente ed Islam è diventato quasi un obbligo, come se la presenza della civiltà (?) islamica, con tutto ciò che comporta la sua ricchezza (?) e la sua differenza, fosse emersa solo oggi. La realtà storica è ben diversa e basterebbe un rapido sguardo alla storia per rendersene conto.

Il rapporto con l'Islam è stata una costante del mondo europeo cristiano (oggi dobbiamo dire occidentale, dal momento che a differenza del Medioevo cristianità e occidente non sono più identificabili); rapporto fatto di scontri, ma anche di scambi culturali (?), che hanno profondamente segnato entrambe le civiltà. In particolare, qui vorrei soffermarmi su quello scambio culturale che nel Medioevo, in epoca di Crociate, permise all'occidente cristiano di recuperare, proprio attraverso gli arabi (?), la filosofia di Aristotele, così decisiva per l'intero sviluppo culturale dell'Europa (?). Ritengo che soffermarmi su tale episodio sia utile perché, superando una lettura superficiale, che riduca l'evento ad un semplice passaggio, come se il pensiero aristotelico fosse qualcosa di simile ad un pacco, consente di capire meglio, chiarendo alcuni aspetti delle due civiltà, la possibilità dei rapporti con l'Islam oggi, senza censurarne problemi e difficoltà.
Una lettura superficiale, in quanto coglie una verità che è solo parziale, è quella di Montgomery Watt, che oggi si sente spesso ripetere, magari con toni e modalità diversi, nel tentativo di sottolineare una certa dipendenza dell'occidente dalla cultura islamica (?), soprattutto con l'intento di mostrare come l'Islam non solo non possa essere considerato inferiore alla civiltà occidentale, ma in qualche modo vada ritenuto superiore (?).

Tesi che può essere così sintetizzata dalle parole dello stesso Montgomery Watt: "Poiché l'Europa reagiva contro l'Islam, sminuì l'influenza dei Saraceni e esagerò la sua dipendenza dall'eredità greca e romana. Così oggi è dovere primario di noi Europei occidentali, che ci avviciniamo all'epoca di un mondo unificato, correggere questa falsa enfasi e riconoscere in pieno il nostro debito nei riguardi del mondo arabo e islamico". (Montgomery Watt, The influence of Islam on Medieval Europe, London, 1972, trad. it. L'Islam e l'Europa medievale, Oscar Mondadori, Milano, 1991).

Che si debba riconoscere un debito nei riguardo del mondo islamico è vero (?), anche se sarebbe più preciso dire del mondo arabo (?), comunque tale affermazione va guadagnata in tutto il suo significato storico contestualizzandola e verificandone la portata.
La parzialità di tale posizione consiste nel fatto che non sempre vengono colti alcuni aspetti che risultano di fondamentale importanza per capire "come" e "che cosa" l'occidente cristiano deve al mondo arabo mussulmano del XIII secolo.
Questi aspetti possono essere così sintetizzati:
???
l'intero percorso che ha portato Aristotele in Occidente;
l'originalità con cui il pensiero dello Stagirita fu assimilato dalla filosofia cristiana, soprattutto attraverso la persona di S. Tommaso;
il diverso sviluppo che l'aristotelismo, e con esso il pensiero filosofico, ebbero in occidente e nel mondo islamico.

1. Come arrivò Aristotele in Occidente

In primo luogo, se si afferma correttamente che furono gli arabi a portare Aristotele in Europa, si dimentica troppo spesso di precisare come gli stessi arabi entrarono in possesso della cultura ellenistica filosofica e scientifica. In realtà il movimento che portò Aristotele in Europa fu di tipo circolare secondo l'immagine usata da Gilson. Occorre cioè ricordare, chiudendo il cerchio, che furono i cristiani orientali in particolare siriani, incaricati dai mussulmani, a tradurre in arabo l'intero patrimonio culturale ellenistico, sforzandosi di ripensarlo in maniera adeguata. L'origine del movimento che fece giungere Aristotele in Occidente è quindi da vedersi in una filosofia araba cristiana e non mussulmana.

Uno dei motivi per cui il dominio mussulmano in Medio Oriente fu inizialmente rispettoso e tollerante delle comunità locali (dopo il X secolo le cose cambiarono) fu il riconoscimento di una civiltà superiore da cui potere attingere il sapere: "I freschi dominatori arabo-mussulmani non soltanto imposero e determinarono un nuovo regime o sistema imperiale - il califfato -, ma lo fecero nei confronti di civiltà che sentirono da subito superiori e da cui si disposero, senza mai recedere dal mutato quadro dell'Islam, a imparare a ricevere e adottare ciò che di meglio era stato da esse prodotto e custodito, però facendolo orgogliosamente rifluire nella lingua araba" (Luca Montecchi, L'incontro storico tra Islam e Occidente, in AAVV, L'Islam: una realtà da conoscere, Marietti, Genova 2001, p. 43).

Non si capirebbe in nessun modo la ricchezza della cultura araba mussulmana medievale se non si tenesse conto del fatto che l'apice raggiunto dalla civiltà mussulmana intorno al 950 è stato, infatti, "possibile per l'avvenuta assimilazione delle culture anteriori, soprattutto quella ellenistica, e in parte anche quella siriaca, persiana.

Coloro che hanno trasmesso l'ellenismo al mondo arabo, permettendo lo straordinario sviluppo della cultura e della scienza araba (?), non sono stati in primo luogo i mussulmani, bensì i cristiani". (Samir Khalil Samir, Il dialogo tra Cristianesimo e Islam: un'esperienza dal Medio Oriente, in AAVV, L'Islam: una realtà da conoscere, Marietti, Genova 2001, pp.52-53). Un rapido sguardo alla storia della medicina di quel periodo lo dimostra (medicina in cui diventerà successivamente riferimento fondamentale per tutto l'Occidente il nome del mussulmano Avicenna): "Fino all'XI secolo la medicina araba si è evoluta grazie ai cristiani arabi. I più grandi nomi della medicina, per quattro secoli dopo l'avvento dell'Islam, non sono mussulmani, ma in maggioranza cristiani" (Ibidem, p.53). Lo stesso vale per la filosofia: "Il movimento filosofico arabo durante l'XI secolo passò lentamente dai cristiani (che ne avevano il monopolio) ai mussulmani" (Ibidem, p. 55). Se si vuole quindi fino in fondo capire l'apporto e il merito della filosofia araba mussulmana, che nel XIII secolo rifluì in Occidente, introducendo quella parte fondamentale del pensiero di Aristotele sconosciuta (precisamente la metafisica, la fisica e la psicologia, visto che la logica era almeno in parte già conosciuta), occorre tenere presente che "furono gli uomini del popolo cristiano a creare la grande stagione della cultura islamica.
Furono essi a portare la cultura greca dentro l'Islam, a determinare una nuova rinascita ellenica all'interno dell'Islam" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 30).

2. L'originalità con cui il pensiero dello Stagirita fu assimilato dalla filosofia cristiana
In secondo luogo, se è vero che la metafisica e l'ontologia aristotelica furono conosciute attraverso le traduzioni e i commenti degli arabi, i cui nomi più significativi a riguardo risultano sicuramente quelli di Avicenna e soprattutto di Averroè, non bisogna dimenticare che l'aristotelismo cristiano non coincise con l'avicennismo o l'averroismo.
Non si trattò quindi di un semplice passaggio, in cui i pensatori cristiani si sarebbero limitati a ricevere Aristotele così come la filosofia araba lo aveva assimilato e ripensato, ma piuttosto di un confronto critico che, non rifiutando a priori quanto proveniva dal mondo islamico, lo vagliò e lo rielaborò personalmente, non senza difficoltà ed incomprensioni iniziali. Si verificò una rilettura assolutamente originale che, attingendo sicuramente dal lavoro dei filosofi arabi, riuscì, soprattutto grazie alla persona di S. Tommaso, a produrre una filosofia nuova, in grado da un lato di recuperare aspetti dell'aristotelismo originario, e dall'altro di introdurre, in maniera coerente, elementi propri della tradizione agostiniana, quindi platonica.
Il confronto critico non fu dei più semplici, infatti l'averroismo presentava aspetti che difficilmente si conciliavano con la fede cristiana (del resto neanche con l'Islam e per questo fu rifiutato dagli stessi mussulmani), ad esempio la negazione dell'immortalità dell'anima, conseguenza della teoria dell'intelletto unico di Averroè.
A questo si deve aggiungere probabilmente anche un certo timore nei confronti dell'Islam, come evidenzia Chesterton: "Il panico intorno al pericolo aristotelico, che traversò i luoghi alti della Chiesa, era probabilmente un vento arido del deserto. In realtà era carico di paura di Maometto più che di paura di Aristotele" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 67). Solo forse grazie al genio e alla figura di S. Tommaso si evitò di identificare l'aristotelismo con l'averroismo. Se, come dice Chesterton, fu "perché il suo personale cattolicesimo era così convincente" che "al suo impersonale aristotelismo fu concesso il beneficio del dubbio", fu però per il modo nuovo di guardare ad Aristotele, introdotto dall'Aquinate, che fu possibile l'assimilazione del pensiero dello Stagirita, superando l'averroismo e le sue difficoltà.

Ma in cosa consisteva questo nuovo modo di guardare ad Aristotele proprio di S. Tommaso?
Innanzitutto, una maggiore fedeltà al testo aristotelico garantita da un metodo di lavoro che risultava più sistematico di quello usato dai filosofi arabi. Avicenna, infatti, non commentava direttamente il testo aristotelico, ma ne presentava parafrasi, dove finivano per confondersi elementi platonici e spunti personali, facendo così risultare difficile scorgere quanto di puramente aristotelico fosse presente, come egli stesso ammette: "Non ho omesso nulla di ciò che è di qualche valore nei libri degli Antichi. Se qualche elemento non si trova nel luogo usuale o nel solito contesto, ciò significa che l'ho posto nel luogo che ho stimato convenirgli di più." Averroè, invece, era solito commentare il testo di Aristotele, tanto che S. Tommaso lo chiamava il Commentatore e per Dante era l'autore del "gran commento".
Tuttavia, nell'operazione di commentare, S. Tommaso, che come Averroè partiva dal testo Aristotelico, aveva elaborato un metodo in cui, a differenza dello stesso Averroè, si sforzava di capire il significato del testo all'interno del pensiero dello Stagirita. Ciò gli consentiva una maggiore criticità. A questo riguardo risultano illuminanti le parole di Cornelio Fabro: "Non v'è dubbio che l'originalità dell'innovazione dottrinale di S. Tommaso ha per principale causa la conoscenza e l'assimilazione degli scritti di Aristotele.
Infatti a differenza di Alberto Magno, che come Avicenna fa la parafrasi, san Tommaso adotta, con Averroè, il metodo letterale. La prima preoccupazione nei commenti tomisti è di cogliere il senso diretto della littera del filosofo che a quell'epoca, per via delle traduzioni varie, incomplete e spesso discordanti, non era impresa facile; S. Tommaso ha cura poi di mostrare la struttura che ha il periodo nel capitolo, il capitolo nel libro e il libro nel complesso dell'opera intera e del corpus aristotelicum, con intento critico che nessun commentatore cercò ed ebbe prima di lui. […] Perciò S. Tommaso può rimproverare ad Averroè, sulla base dell'analisi del contesto, di non avere afferrato il metodo del filosofo: "Eius expositio non est conveniens, quia non coniungit totum ad unam intentionem" (De substantiis separatis, c.13; edizione a cura di Perrier, c. 12, n. 77, p. 174)" (Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso, Edizioni Ares, 1997 Milano, p. 68). Ed è tale criticità a consentire allo stesso Aquinate di scoprire la vera origine del Liber de causis, erroneamente attribuita ad Aristotele: "Speciale merito san Tommaso si guadagnò per avere individuato l'origine del celebrato opuscolo De causis" (Ibidem, p. 73).
Tuttavia, l'originalità, con cui S. Tommaso guardava ad Aristotele, aveva, oltre alla maggiore precisione e criticità, una causa ancora più radicale. S. Tommaso guardava con estremo interesse ad Aristotele perché il pensiero dello Stagirita era visto come una modalità nuova di leggere più a fondo la stessa esperienza di fede cristiana vissuta. Fu quindi il desiderio di approfondire la propria esperienza cristiana a muovere l'Aquinate verso Aristotele. L'aristotelismo, perciò, non è tanto da vedersi come qualche cosa che si va ad aggiungere estrinsecamente alla riflessione teologica e filosofica cristiana, attaccandosi in qualche modo ad essa, quanto come uno sviluppo coerente di essa: "Il movimento tomistico in metafisica […] fu un'espansione e una liberazione, fu decisamente uno sviluppo della teologia cristiana dall'interno: decisamente non fu un contrarsi della teologia cristiana sotto la spinta di influenze pagane e nemmeno umane. […] Non si può capire la grandezza del tredicesimo secolo, se non si comprende che fu una grande crescita di cose nuove prodotte da una cosa viva. […] In una parola, san Tommaso rese più cristiana la cristianità rendendola più aristotelica" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 28).

Le affermazioni di Chesterton si capiscono se si tiene presente che l'aristotelismo, con il suo realismo, il pieno recupero e la valorizzazione della dimensione corporea e sensibile della realtà e della conoscenza risultava decisamente in linea con il valore attribuito alla corporeità dal cristianesimo in virtù dell'Incarnazione. Ciò significava che S. Tommaso aveva un motivo per leggere e apprezzare Aristotele che era del tutto estraneo alla cultura mussulmana.
Per questo motivo Chesterton afferma che "fu un miracolo squisitamente cristiano a far resuscitare il grande pagano", precisando che "c'era davvero una nuova ragione per considerare i sensi, le sensazioni del corpo e le esperienze dell'uomo comune, con un rispetto che avrebbe sbalordito il grande Aristotele, e che nel mondo antico nessuno avrebbe lontanamente capito. […] Dal momento che l'Incarnazione era diventata l'idea centrale della nostra civiltà, era inevitabile che vi fosse un ritorno al materialismo, nel senso del profondo valore della materia e della creazione del corpo. Una volta risorto Cristo, era inevitabile che risorgesse Aristotele" (Ibidem, pp. 97). In altre parole "sarebbe […] falso sostenere che l'Aquinate traesse la sua prima ispirazione da Aristotele. […] San Tommaso diventava più cristiano, e non semplicemente più aristotelico, quando ribadiva che Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia" (Ibidem, pp. 23-24) ???.

3. Differente sviluppo dell'aristotelismo e della filosofia

Come terzo ed ultimo punto su cui intendo soffermarmi affinché sia più chiaro nelle sue linee essenziali ciò che avvenne nel XIII secolo e quali furono le sue conseguenze, di cui si possono vedere alcuni effetti ancora oggi, vorrei fare alcune considerazioni sul diverso sviluppo che ebbe l'aristotelismo e con esso la filosofia nel mondo occidentale cristiano e nel mondo arabo mussulmano (??? gli sciti e i persiani, gli ottomani e i berberi non sono arabi).
Se è vero che gli arabi furono il tramite attraverso il quale i pensatori occidentali poterono entrare in contatto con Aristotele, è anche vero che l'aristotelismo, e la filosofia con esso ebbero fortune ben diverse. Nell'occidente cristiano, infatti, superate le difficoltà iniziali, Aristotele divenne punto di partenza fondamentale per l'elaborazione della filosofia cristiana. La sintesi tomista in particolare nel corso dei secoli assumerà un ruolo di primo piano all'interno della Chiesa. Sebbene non possa essere identificata con la filosofia della Chiesa, perché sarebbe improprio affermare che ne esista una, sicuramente rimane ancora oggi una delle correnti di pensiero che è riuscita meglio a conciliare la ragione e la sua capacità conoscitiva con la fede e i suoi fondamentali contenuti. Per questo motivo viene indicata dallo stesso Magistero come modello da imitare: "Nella sua riflessione [S. Tommaso], infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione" (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 78). Anche nella filosofia moderna si deve riconoscere come il pensiero è stato elaborato a partire da Aristotele, o meglio da quella sintesi che i pensatori cristiani ne avevano fatto e anche quando cercherà di allontanarsene sarà sempre una critica ad essa: "la filosofia occidentale come tale è la critica della metafisica cristiana" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 39).

Diverso sicuramente risulta lo sviluppo del pensiero filosofico all'interno del mondo arabo mussulmano. Qui non si verificò quella sintesi armonica tra ragione e fede, operata da S. Tommaso in Occidente e alla lunga finì per prevalere un atteggiamento in cui il Corano divenne l'unico punto di riferimento autorevole. A questo si deve aggiungere che il testo sacro mussulmano, a differenza delle Sacre Scritture cristiane non lasciava spazio all'interpretazione e pertanto la stessa fede poteva essere difficilmente pensata criticamente. Si finì così per mettere sempre più in secondo piano la riflessione filosofica, se non addirittura per abbandonarla del tutto: "la grande civiltà araba terminò nella Cristianità (???).
Gli eredi di Avicenna e di Averroè sono nell'Occidente cristiano, non nel mondo islamico (???). I cristiani portarono nel mondo islamico la sorgente greca, ma essa si esaurì dopo un periodo di splendore: l'Islam si rivelò incompatibile con la filosofia (???). La scelta fu di fermarsi al Corano, bloccando la dinamica del pensiero" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 30).

Il mancato sviluppo del pensiero aristotelico e più in generale filosofico deriva quindi dall'incapacità di superare il contrasto tra il Corano e il sapere filosofico, incapacità che viene espressa da Chesterton con la sua consueta ironia in questi termini: "dei filosofi maomettani possiamo dire in generale che quanti divennero dei bravi filosofi divennero cattivi mussulmani" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, pp. 67-68)

Quali furono le principali cause che determinarono di fatto questa incapacità di conciliare ragione e fede, filosofia e teologia, all'interno del mondo mussulmano? La figura di Averroè a questo riguardo è significativa perché forse nessuno meglio di lui rappresenta il duplice tentativo fallito di affermare la possibilità di interpretare il Corano da un lato e di conciliare l'ambito teologico con quello filosofico, la ragione con la fede dall'altro. Per quanto riguarda l'interpretazione del Corano bisogna tenere presente una differenza radicale che si è originata nel corso dei secoli rispetto al modo di interpretare la Bibbia da parte del cristiano.

Per il mussulmano il Corano è "dettato" da Dio, e almeno a partire dal XI secolo, ciò ha eliminato ogni possibilità di interpretazione. A differenza la Bibbia, che è sempre stato concepito come un testo ispirato, in cui l'ispirazione è mediata dall'uomo, ha sempre lasciato spazio all'interpretazione, alla possibilità di scostarsi dalla lettera per cogliere attraverso l'uso della ragione il significato allegorico. A volte questo è risultato storicamente difficile, ma sempre possibile in linea di principio.
"Per il mussulmano, il Corano non è rivelato, o ispirato come la Bibbia per i cristiani, ma è disceso su Maometto. Il Corano storico è la trascrizione letterale del Corano che si trova presso Dio e che è "disceso" e ha preso la forma del Corano storico; non è una creazione di Maometto. […] La conseguenza teologica di questo dogma è gravissima: se il Corano è una "discesa", allora non c'è più la possibilità di interpretare. Io posso fare la critica biblica - ed essa viene fatta non già dall'Illuminismo, ma a cominciare dai Padri della Chiesa -, perché questo testo è rivelato da Dio in modo umano, perché l'Incarnazione già si compie nella Bibbia. […] Un testo simile non mi lascia alcuno spazio di interpretazione critica o storica, neppure per quegli aspetti che più palesemente sono legati agli usi e costumi di un contesto storico e particolare ormai superato.

Questo è il punto: qual è il ruolo della ragione nell'interpretare il testo? Su questo argomento, Averroè ha scritto un famoso trattato, tradotto almeno due volte in italiano, Il trattato decisivo sull'armonia tra la ragione e la legge rivelata. È davvero un libro splendido, straordinario: ciò che Averroè cerca di dire è che abbiamo diritto di interpretare il Corano, anzi abbiamo il dovere di interpretarlo, e non solo di commentarlo. Tuttavia ad un certo punto si è deciso che l'interpretazione non è possibile, che anche solo cercare di capire che significa per noi è come ripensarlo. Questa è la tragedia del mondo islamico: nessuno sa veramente chi l'abbia deciso, ma per tutti è così, dal X-XI secolo in poi la "porta dello sforzo personale" dell'interpretazione è chiusa e nessuno riesce più ad aprirla" (Samir Khalil Samir, Origini e natura dell'Islam, in AAVV, Islam: una realtà da conoscere, Marietti, 2001 Genova, pp. 28-30.)
Il tentativo di Averroè di distinguere diversi piani di lettura del Corano, a seconda delle diverse categorie di spiriti e di uomini, quello filosofico, quello teologico, quello della fede rimase non solo inascoltato, ma anche osteggiato tanto che lo stesso Averroè fu esiliato e riammesso nella comunità islamica solo poco prima di morire. Inoltre tale prospettiva, quella di distinguere diversi metodi di leggere il Corano rispetto ai diversi tipi di uomini (filosofo, teologo, semplice credente), non era esente da una certa ambiguità di fondo. Infatti, se si verificavano contrasti tra l'ambito filosofico ed il mondo del semplice credente Averroè poteva rispondere: "lasciamo il filosofo parlare da filosofo ed il semplice credente parlare da credente", ma si dà il caso che Averroè fosse nella condizione di essere contemporaneamente entrambe le cose e allora? La filosofia doveva considerarsi qualcosa di superiore alla Rivelazione stessa? Si poteva fare a meno della fede una volta raggiunto il livello filosofico? Averroè da mussulmano non avrebbe mai potuto accettare tale soluzione. Quindi quando Averroè cercava di conciliare quanto indagato e colto dalla ragione con il contenuto della Rivelazione, trovando grosse difficoltà ad ipotizzare che il contenuto di quest'ultima, anche quando sembrava contraddire la ragione stessa, fosse diversamente spiegabile che in modo letterale, non aveva altra strada che affermare, non senza una certa ambiguità, che ragione e fede erano come due strade parallele. Affermazione che conteneva una certa ambiguità, tanto che erroneamente, perché non fu mai sostenuto da Averroè, gli interpreti cristiani la identificarono con la tesi che sosteneva l'esistenza di una doppia verità.

Ben diversa è la posizione di S. Tommaso che, recuperando quanto nei secoli a lui immediatamente precedenti aveva rischiato di andare perduto, riaffermò con decisione la possibilità di interpretare anche in modo allegorico le Sacre Scritture, aiutandosi in tale lavoro anche con quanto emerso a partire dall'indagine della ragione stessa: "Sul tema dell'ispirazione delle Sacre Scritture, fu il primo a mettere in rilievo il fatto evidente, dimenticato da quattro furiosi secoli di battaglie settarie, che il significato delle Sacre Scritture è tutt'altro che evidente; e che spesso dobbiamo interpretarlo alla luce di altre verità. Se un'interpretazione letterale è veramente e apertamente contraddetta da un fatto ovvio, ebbene allora dovremo necessariamente concluderne che l'interpretazione letterale dev'essere una falsa interpretazione" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 70). Ciò era sostenibile da S. Tommaso perché egli era convinto che tra ragione e fede dovesse esserci un pieno accordo. Pieno accordo che non significa che il contenuto della Rivelazione non superi quanto la stessa ragione con le sue sole forze può raggiungere, ma che non può contraddire quanto la ragione stessa con le sue forze è riuscita a cogliere in modo corretto: "Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i princìpi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codeste verità […] è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei princìpi che la ragione conosce per natura" (S. Tommaso, Summa contra Gentiles, I, 7). Tale pieno accordo nella concezione di S. Tommaso trova il suo fondamento ultimo nella comune origine divina delle due diverse conoscenze, quella per fede e quella razionale: "La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono contraddirsi" (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 43).
È questo modo di risolvere il problema del rapporto tra ragione e fede che ha consentito all'occidente di sviluppare un pensiero filosofico con una propria autonomia, che non necessariamente ha significato indipendenza e autosufficienza della filosofia (affermate solo a partire dalla modernità), ma semplicemente che la ragione ha un proprio ambito di indagine in cui muoversi secondo princìpi e procedimenti propri. Ciò non si è verificato nel mondo islamico dove l'autonomia della ragione non è stata riconosciuta. Significativo a questo riguardo prendere, a titolo assolutamente esemplificativo, cioè senza in alcun modo pretendere di esaurire l'argomento, il problema dei diritti dell'uomo. Perché infatti, la cultura islamica fatica a recepire alcuni dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dall'Occidente, sebbene lungo un itinerario a volte tortuoso e difficile? Semplicemente perché nella loro cultura è di fatto privo di valore parlare di diritti dell'uomo, perché questi richiedono che sia stato individuato uno statuto ontologico proprio della natura umana, a partire dal quale ricavare per via razionale una legge naturale. Richiedono cioè che sia possibile una filosofia morale. Mentre tale percorso è stato fatto proprio dal mondo cristiano a partire da S. Tommaso, per il quale è possibile indagare razionalmente l'uomo per conoscere tutta una serie di leggi morali, che sono proprie della dimensione umana, ciò non è avvenuto nel mondo islamico dove non è contemplata, o comunque fortemente ostacolata dagli ambienti religiosi, la possibilità di una fondazione filosofica della morale. Pertanto, "in ambito cristiano la legge morale naturale è considerata espressione della legge divina, quindi la legge divina si manifesta attraverso due canali: la legge positiva - ad esempio i dieci comandamenti, che sono rivelati - e la legge morale naturale, cioè la coscienza che parla all'interno dell'uomo, i cui dettami l'uomo può conoscere con la propria ragione, con la propria esperienza" (Andrea Pacini, L'Islam e i diritti, in AAVV, Islam: una realtà da conoscere, Marietti, Genova 2001, pp. 80-81). Invece "all'interno dell'Islam, sebbene nei primi secoli, quando più forte era la speculazione filosofica, vi è stato un dibattito a questo proposito, poi tale concetto non si è imposto e si è privilegiata in maniera unilaterale la dimensione del diritto divino rivelato" (Ibidem, p. 81). Così il mondo occidentale, grazie al riconoscimento di S. Tommaso dell'assoluto valore della ragione e della sua autonomia, è riuscito, non senza difficoltà, a riconoscere un livello universale dei diritti. Il mondo islamico, invece, non riconoscendo lo stesso valore alla ragione, si è così di fatto precluso, almeno fino ad ora, e lo dimostrano le numerose polemiche e riserve con cui è stata accettata e non da tutti i paesi islamici la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo del 1948, la possibilità di parlare di diritti universali dell'uomo. Non solo, ma di fatto nei paesi islamici, anche in quelli così detti moderati, si vive contraddicendo palesemente alcuni dei principali diritti riconosciuti internazionalmente dal 1948. Basti ricordare, per citarne solo alcuni, la disuguaglianza a livello giuridico e sociale tra l'uomo e la donna, l'assenza di libertà di coscienza, per cui non è possibile al mussulmano convertirsi ad altra religione senza essere punito (pena di morte nei paesi più intransigenti, morte civica nei paesi moderati), l'assenza o le forti limitazioni in fatto di libertà religiosa. Diritti che non vengono riconosciuti o che vengono sistematicamente ignorati e calpestati perché il diritto divino rivelato, ricavabile dal Corano e dalla Sunna, secondo scuole giuridiche che differiscono tra loro per maggiore o minore fedeltà alla lettera, è l'unico esistente e non li prevede o addirittura ne chiede la loro violazione.
Questo diverso sviluppo del pensiero filosofico tra mondo occidentale (cristiano nelle sue origini) e mondo islamico, trova, oltre al diverso modo di rapportarsi ai testi Sacri e quindi ai testi classici, un ulteriore motivo di spiegazione nel diverso modo di concepire Dio e il rapporto tra Dio e le creature.
"Nell'Islam nulla conta l'uomo, sia pure il suo Profeta, di fronte all'assoluta sovranità eterna di Dio, al quale egli deve darsi, abbandonarsi. Assoluta è la distanza abissale fra Dio e uomo. Dio è il Signore, l'uomo lo schiavo. In questa religione Dio è liberissimo ed arbitrario. Accanto a questa adogmaticità assoluta, vi sono soltanto semplici istruzioni normative e organizzative per questo mondo" (cfr. C. Baffioni, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, p.5). È a partire proprio da questa concezione di Dio infatti, che Al-Ghazzali nel XII secolo scrive, con l'intento di confutare l'altro grande aristotelico mussulmano Avicenna, un'opera dal significativo titolo La distruzione dei filosofi. Egli cioè nega la possibilità stessa di argomentare intorno alla realtà, perché non esiste legge naturale, in quanto la realtà è regolata, costantemente, dal volere divino stesso che è totalmente arbitrario. Soprattutto è impossibile riconoscere nessi di causa-effetto nella realtà e tanto meno tra realtà creata ed creatore: "Non è necessario, secondo noi, che nelle cose che abitualmente accadono, si cerchi un rapporto ed un legame tra ciò che si crede essere la causa e ciò che si crede essere l'effetto" (Cit. in Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 431). Risulta del tutto impossibile pertanto pensare a Dio, parlare di Dio, se non come l'autore, che continua a rimanere celato, del comando, che viene rivelato nel Corano. Risulta di fatto impossibile una metafisica. Critica, quella di Al-Ghazzali, che ebbe i suoi effetti allora, se come rileva Gilson, ebbe come risultato "quello di fare emigrare la filosofia mussulmana in Spagna", ma che di fatto continua a rimanere latente e a costituire una grossa obiezione alla possibilità stessa di qualsiasi tentativo di filosofia (intesa come metafisica) tutt'oggi.
Le cose sono andate diversamente se si guarda alla tradizione cristiana. Ancora una volta la concezione cristiana stessa di Dio e il modo di concepire il rapporto tra creatore e creatura possono essere viste come fattore che facilitò la piena assimilazione del pensiero Aristotelico. Infatti, qui il rapporto tra Dio e l'uomo, tra Dio e la realtà, non è più immaginato come qualcosa di assolutamente distante. Anzi, l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, la realtà, che è opera della creazione, di Dio (significativo il fatto che nel Corano non esistano racconti della creazione) è segno di Dio. Quindi la ragione può e, in un certo senso deve, se vuole essere conforme alla sua natura, risalire dalla creatura al Creatore. S. Tommaso nell'appropriarsi del metodo filosofico di Aristotele trovò uno strumento validissimo per indagare la realtà sensibile, mostrandone la propria insufficienza e la necessità di ammettere l'esistenza di Altro che potesse rendere ragione della stessa realtà di cui faceva esperienza: "L'esistenza esiste; ma non è abbastanza autosufficiente; e non diventerebbe tale semplicemente col continuare ad esistere. Lo stesso senso primario che ci dice che è essere, ci dice che non è essere perfetto; imperfetto non solo nel popolare senso polemico che contiene peccato o dolore; ma imperfetto come essere; meno attuato dell'attuazione che esso implica. Per esempio, il suo essere è spesso solo divenire; cominciare ad essere o finire di essere; implica una cosa più costante e completa della quale non offre in se stesso nessun esempio. È questo il significato della basilare affermazione medievale: "Tutto ciò che si muove è mosso da altro"; che, nel linguaggio chiaro e sottile di San Tommaso, implicitamente sta a significare più del semplice deistico "qualcuno ha caricato la pendola" col quale probabilmente viene spesso confuso. Chiunque rifletta profondamente vedrà che il moto ha in sé una fondamentale incompletezza che tende a qualcosa di più completo" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 145).




ARISTOTELE E LA SCIENZA
Andrea Cometti

Ma è proprio vero che la Fisica di Aristotele ha ritardato la nascita della scienza? Per quale scopo esistono l'uomo la vita il mondo: il paradigma scientista dominante vorrebbe farci credere si tratti di domande prive di senso di Francesco Lamendola

Ma è proprio vero che la «Fisica» di Aristotele ha ritardato la nascita della scienza?
di Francesco Lamendola
Già pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 17/01/2009 e del 29/10/2016
Del 12 Novembre 2017


http://www.accademianuovaitalia.it/inde ... la-scienza



È opinione corrente, non solo presso il vasto pubblico ma anche presso gran parte dei cosiddetti specialisti, che l'affermazione della «Fisica» di Aristotele, non solo nella cultura del mondo antico, ma anche lungo tutto il Medioevo, abbia costituito un fattore oggettivo di ritardo nella nascita della scienza.

Ma è un'accusa pertinente? E, soprattutto, è formulata in termini filosoficamente corretti?

Vediamo.

Si afferma, da quanti sostengono la tesi suddetta, che la vittoria - anzi, il "trionfo" - di Aristotele, e più ancora, dei suoi pedanti e ottusi seguaci, ha significato la "sconfitta" dell'unico sistema di fisica elaborato dal pensiero greco che avrebbe potuto mettere la scienza nella direzione che, duemila anni dopo, sarebbe stata imboccata da Galilei, da Francesco Bacone, da Cartesio e, poi, da Newton: ossia - sempre a parere di costoro - lungo la linea di sviluppo che avrebbe accompagnato la scienza nella giusta direzione, quella che nel XX secolo è culminata con Einstein e con la scoperta delle particelle subatomiche, rivoluzionando le nostre idee sulla fisica «classica».

Potremmo discutere a lungo - ma non sarebbe questa la sede adatta - se davvero la fisica einsteniana e la fisica quantistica indirizzino la scienza lungo la linea indicata da Galilei e dalla cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo; o se non suggeriscano, al contrario, non solo una profonda revisione del modello di universo da quest'ultima proposto, ma anche dei suoi inevitabili corollari epistemologici e, in genere, filosofici.

Quello su cui ci preme riflettere, per adesso, è verificare la plausibilità dell'accusa mossa ad Aristotele, di aver ritardato non solo il progresso, ma addirittura la nascita della scienza; o se, invece, egli non abbia ritardato piuttosto la nascita e lo sviluppo di un particolare modello di scienza, che, nel panorama delle culture umane, costituisce praticamente un unicum: materialista, ateista, meccanicista, quantitativo.

Tale, infatti, è - per la maggior parte - la scienza occidentale moderna: non la scienza in quanto tale, ma solo quella occidentale; e non quella professata dall'umanità per migliaia d'anni, né quella che si affaccia oggi all'orizzonte del panorama culturale (dato che viviamo già nell'era post-moderna, anche in questo campo), ma solo quella "moderna", ossia quella nata agli inizi del XVII secolo e terminata alle soglie del XX.

Per fare una simile verifica, torniamo - innanzitutto - a Democrito.

Democrito di Abdera distingue, innanzitutto, fra conoscenza sensibile e conoscenza razionale: la prima, oscura, che ci dà solo la superficie delle cose; l'altra, genuina, capace di penetrare nella verità dell'essere.

Poi, egli afferma che alla base del sistema della natura vi è l'atomo, realtà originaria e irriducibile: e vi giunge deducendo l'atomismo (le cui basi sono nella teoria eleatica), per via teorica, dalla distinzione della realtà in essere e non-essere: l'essere corrisponde al pieno, ossia alla materia; il non essere corrisponde al vuoto, ossia allo spazio.

Dunque, tutta la realtà è fatta di pieno e di vuoto, di materia e di spazio; la materia, a sua volta, è costituita da un insieme di atomi, ossia di particelle elementari, semplici e non ulteriormente suddivisibili.

La deduzione razionale dell'atomismo consiste nel fatto che, per Democrito, se si spinge all'infinito l'idea della divisibilità della materia, bisogna giungere per forza al concetto di una particella elementare indivisibile, altrimenti il fondamento della realtà sarebbe il nulla, il che è manifestamente impossibile.

Gli atomi, per Democrito, non si distinguono fra loro per le caratteristiche qualitative, dato che sono tutti composti di materia, ma solo per quelle quantitative, come la forma e la grandezza. Dalla loro unione e separazione dipende la generazione e la dissoluzione delle cose.

Gli atomi sono in continuo movimento, ma il non si tratta di un movimento armonioso, bensì assolutamente caotico: essi volteggiano in tutte le direzioni, si urtano, si allontanano e così via, all'infinito: perché infinito è lo spazio in cui si muovono; e infinito, dunque, è l'universo (concetto che verrà ripreso da Epicuro e dal latino Lucrezio).

Eterno il movimento, eterna la sostanza di cui sono fatti gli atomi: ne consegue che la concezione della realtà di Democrito è materialistica (nulla esiste fuori della materia se non lo spazio vuoto, che è non-essere); ateistica (salvo un omaggio formale, non si sa quanto sincero, all'esistenza degli dei: ma l'universo esiste senza alcun bisogno di loro o del loro intervento); meccanicistica (le cose sono originate da cause efficienti perfettamente naturali e prive di scopo) e quantitativa (gli atomi si distinguono solo per caratteristiche di quantità).

È anche una concezione razionalistica e causalistica, perché presuppone che ogni cosa abbia un sistema ben preciso di cause che la produce; ma attenzione: poiché gli atomi si muovono a caso e poiché nessuna Intelligenza e nessuna Provvidenza presiedono al sistema della natura, con altrettanta verità si può dire che la filosofia di Democrito sia casualistica: per dirla con Dante (nel IV Canto dell'«Inferno»): «Democrito, che il mondo a caso pone».

Pertanto, paradossalmente, si può dire che, per il filosofo di Abdera, tutto ciò che esiste è, al tempo stesso, frutto del caso e frutto, anche, di una rigorosa e ben precisa necessità.

Bene.

Ora, si dice e si ripete che Democrito è importantissimo per la storia della scienza perché la sua teoria atomistica sarebbe stata ripresa, moltissimi secoli dopo, dalla scienza moderna, comprese le sue implicazioni relative al caso e alla necessità (si veda il celebre libro di Jacques Monod, «Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna»).

In particolare, si rivendica a Democrito il «merito» di aver svincolato il pensiero scientifico dal finalismo, sostituendo alla domanda: «A che scopo avvengono i fenomeni?», l'altra: «Per quale causa avvengono i fenomeni?».

Ma poi sarebbe arrivato il nefasto influsso di Aristotele, che avrebbe seppellito per due millenni le promettenti intuizioni di Democrito, e avrebbe messo le pastoie alla nascita della scienza moderna. Questa, almeno, è l'idea corrente e oggi dominante, messa in giro dalla Vulgata scientifica e anche filosofica.

Già, perché si è pensato bene di dar ragione a Democrito e torto ad Aristotele proprio a partire dal momento in cui la filosofia ha rinunciato a svolgere il suo tradizionale ruolo di guida nel panorama del pensiero umano e ha «scoperto» di essere un sapere di seconda scelta, avendo a che fare con concetti e ragionamenti e non con le cose stesse, come invece la scienza. A partire da quel momento, ossia a partire dal XVII secolo, la filosofia si è adattata a sopravvivere, cercando di imitare i metodi e le finalità della sua giovane ma strapotente cugina, la scienza; anzi: quel particolare tipo di scienza materialistica, ateistica, meccanicistica e quantitativa, già preconizzata da Democrito e insediatasi sul trono del sapere, acclamata e riverita, in virtù degli straordinari successi che le sue applicazioni pratiche hanno consentito all'uomo moderno.

Ecco dunque una prima, singolare coincidenza: la filosofia dà «ragione» alla concezione scientifica di Democrito e dà torto a quella di Aristotele a partire dal momento in cui, entrata in uno stato di profonda crisi e di profondo dubbio circa se stessa, si persuade che l'unica maniera, per essa, di sopravvivere, è quello di fare propria la prospettiva di un'altra forma di sapere, quella della scienza materialista e meccanicista, rinunciando alla propria specificità e al proprio tradizionale ruolo di garante e suprema coordinatrice delle singole forme di sapere.

E la seconda coincidenza è questa: che il trionfo della concezione filosofica di Democrito, benché giunto a 2.000 anni di distanza dalle formulazioni del maestro, avviene proprio mentre il pensiero moderno giunge a far sue, per altre vie, le idee di Democrito sull'anima e sulla conoscenza. Cioè, solo quando si afferma definitivamente l'idea che l'anima sia di natura materiale (e, dunque, peritura e transeunte) e che la conoscenza debba distinguere fra le qualità proprie degli oggetti e quelle ad essi attribuite dal soggetto (idea che sarà ripresa da Galilei e poi da Locke, con la celebre distinzione fra qualità "primarie" e "secondarie") il pensiero moderno è pronto ad accogliere anche la visione materialistica, ateistica, ecc. della natura (ma già Berkeley mostrerà che le qualità sono tutte secondarie: tutte, cioè, dipendenti dal soggetto conoscente).

In altre parole: il pensiero dà ragione alla concezione di Democrito circa un universo antifinalistico e antiprovvidenzialistico solo quando elabora e adotta definitivamente l'idea di un soggetto che concepisce sé stesso solo in termini quantitativi. Era dunque necessario un occhio fatto di pura materia e originato dall'incontro casuale di atomi per vedere nel mondo null'altro che un caotico movimento di atomi materiali, e nulla più.

Certo, Democrito, con la dottrina delle qualità oggettive (quelle che poi sarebbero state chiamate "primarie") intendeva salvare, contro il soggettivismo sofistico, l'esistenza di una dimensione oggettiva e del mondo, e della conoscenza; ma, di fatto, egli ha aperto la porta a quella preponderanza del soggetto rispetto all'oggetto, che, passando per Kant, sarebbe culminata nella follia solipsistica di Hegel.

È evidente, infatti, che se si postula la ragione del soggetto come unica forma di conoscenza della realtà, e poi si postula che essa, come ogni altra cosa, non è che il frutto di uno scontro casuale di atomi (e sia pure sottoposti a una indefettibile finalità), null'altro si può pensare della realtà in quanto tale, se non che essa è un meccanismo cieco ed inesorabile, che a caso procede e incessantemente crea e distrugge ogni cosa, senza uno scopo e senza una ragione.

Si tratta, a dispetto delle sue conclamate istanze razionalistiche, di una filosofia circolare e sostanzialmente autoreferenziale: si dice che tutto è materia che si muove secondo proprie leggi; si proclama che la ragione è in grado di individuarne la natura e il funzionamento; ma si proclama anche che la ragione che pensa e l'occhio che vede altro non sono che frammenti di tale realtà esclusivamente materiale ed esclusivamente meccanica: dunque, si finisce per trovare proprio quel che si era posto fin da principio, né si sarebbe mai potuta trovare qualche cosa di diverso, date le premesse.

E ora passiamo ad Aristotele.

Dunque, per i moderni paladini di Democrito, lo Stagirita aveva torto perché indugiava in domande sostanzialmente prive di senso, come quella circa il fine o scopo verso cui si muovono gli oggetti; mentre avrebbe dovuto domandarsi, piuttosto, in base a quali leggi essi si muovono.

Senonché, essi qui commettono una confusione - più o meno deliberata - fra il metodo della filosofia e quello della scienza quantitativa: non si accorgono che la filosofia ha tutto il diritto di domandare «perché» avvengono i fenomeni: è la sua natura, la sua ragion d'essere. Quanto alla scienza, se essa ha smesso di porsi tale domanda, è perché si è ridotto ad essere una scienza puramente descrittiva e, in seconda istanza, operativa, prolungandosi nella tecnologia: ma questa è, appunto, una opzione storicamente determinata di un certo paradigma scientifico, quello affermatosi con Galilei al principio del XVII secolo e oggi, in base a più segni, in procinto di tramontare.

Qual era dunque l'idea di scienza propria di Aristotele?

Per Aristotele, l'oggetto della fisica - che viene subito dopo la metafisica nel rango delle scienze teoretiche - è l'essere in movimento (suddiviso a sua volta in movimento sostanziale, qualitativo, quantitativo, locale).

Egli ritiene che i quattro elementi fondamentali dell'universo (terra, acqua, aria e fuoco) , in base al loro peso, siano attratti verso altrettanti luoghi maturali. Da ciò si origina una strutta dell'universo caratterizzata dalla perfezione e dalla finitezza (i suoi limiti sono segnati dal cielo delle stelle fisse). Lo spazio, poi, non può essere realmente vuoto, perché esso è sempre il luogo naturale di qualcosa, ossia di uno dei quattro elementi fondamentali.

Contro gli atomisti, che avevano affermato l'impossibilità del movimento in uno spazio «pieno», Aristotele sostiene, al contrario, che il movimento nel vuoto sia impossibile. Quanto al tempo, esso non è il mutamento delle cose, bensì la misura del loro divenire; e, poiché il concetto di misura implica quello di una mente capace di misurare, perviene alla conclusione che soltanto l'esistenza dell'anima consente di parlare di uno scorrere del tempo.

Il mondo, dunque, per Aristotele, è perfetto, finito ed eterno: dunque non ha cominciato ad esistere, come aveva sostenuto Platone nel «Timeo»; e non finirà mai.

Scrivono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero (in «Protagonisti e testi della Filosofia» (Milano, Paravia, vol. A, tomo 1, p.296):

«L'importanza storico-culturale della "Fisica" aristotelica è notevole. Da essa emerge infatti una immagine globale del mondo che influenzerà per secoli la scienza occidentale. La vittoria di Aristotele e il trionfo della sua 'mentalità' hanno tuttavia come storico prezzo: 1) la sconfitta di Democrito, cioè del maggior sistema scientifico greco; 2) il ritardo della nascita della scienza.

La contrapposizione fra Democrito e Aristotele o meglio fra Democrito e la linea platonico-aristotelica, è netta e riguarda taluni punti essenziali della fisica. Per esempio, Democrito crede nel movimento degli atomi nel vuoto, arrivando ad intuire il basilare principio d'inerzia. Aristotele porta contro quest'ultimo una serie di argomenti da cui dovrà dissociarsi a fatica la dinamica scientifica moderna. Democrito crede che il movimento sia una proprietà strutturale della materia, Aristotele lo fa dipendere da qualche cosa che esiste fuori della materia Democrito, sulla scia dei naturalisti precedenti, da Talete ad Anassagora, ritiene che cielo e terra siano costituiti dalla stessa materia, proponendo quindi l'idea di un cosmo unitario ed omogeneo; Aristotele, rifacendosi ai pitagorici e a Platone, nonché alla mentalità comune, torna alla bipartizione gerarchica fra mondo celeste e mondo sublunare, immaginandoli costituiti di sostanze diverse, infrangendo così quell'unità dell'universo che in seguito la fisica moderna dovrà di nuovo ricostruire.

Democrito crede in un universo "aperto", costituito da una molteplicità di mondi, Aristotele crede ad un universo "chiuso", limitato ad un solo mondo. Democrito cerca di ridurre le differenze qualitative dei fenomeni a differenze quantitative, ponendo le basi di una matematizzazione della fisica. Aristotele mete da parte questo tentativo, arenandosi in una fisica qualitativa che elimina il fondamento teorico di un'applicazione della matematica alla fisica (e su questo punto Aristotele compie un grave passo indietro anche rispetto a Platone). Tutte queste differenze si originano o confluiscono poi in quella che è la maggior diversità metodologico-filosofica dei due autori. Democrito si propone di spiegare il mondo mediante le sole cause naturali e meccaniche, Aristotele fa del ricorso ala cause finali una delle caratteristiche chiave della sua indagine fisica, poggiante sul principio che "la natura non fa niente senza scopo" e "tende sempre all'ottimo".

Come si può notare da questi esempi, alcuni dei grandi motivi che distanziano Aristotele da Democrito sono gli stessi che separano Aristotele dalla scienza moderna, che infatti, riprendendo e sviluppando molte intuizioni democritee, dovrà ingaggiare contro Aristotele, o meglio contro i suoi dogmatici seguaci, una lotta secolare.»

Se non altro, da questo brano di prosa appare evidente che al vecchio "ipse dixit" aristotelico si è sostituito ora, nel moderno paradigma scientifico, l'"ipse dixit" della scienza medesima. Ed è significativo che a far ciò siano, in primo luogo, i filosofi e gli storici della filosofia.

Strano che essi non si siano accorti che, per quanto le idee di Aristotele potessero essere meno esatte di quelle di Democrito rispetto a singole acquisizioni cui è pervenuta la scienza moderna (le quali, peraltro, sono in continua e rapidissima evoluzione, per cui bisognerebbe forse aspettare a intonare il canto di vittoria per l'atomismo e il meccanicismo democriteo), quello che conta per la storia del pensiero è la visione d'insieme di Aristotele.

Pertanto, è a dir poco improprio sostenere che, siccome nel mondo fisico si sono verificate aporie e contraddizioni relativamente al sistema di Aristotele, da ciò consegue che si possa intendere il modello fisico di Aristotele astraendo dal suo modello metafisico; poiché la sua visione dell'universo è molto più unitaria e omogenea di quanto forse non credano gli Autori sopra citati.

Nessuna difficoltà, dunque, a riconoscere che la teoria dell'impossibilità del movimento nello spazio vuoto contraddice il primo principio della meccanica moderna, quello d'inerzia; tuttavia è più importante, a nostro avviso, il fatto che la concezione aristotelica dell'universo in quanto tale, e non di single parti di esso, sia finalistica.

D'altra parte, non tutta la concezione scientifica di Aristotele è da considerarsi obsoleta e velleitaria: ad esempio, particolarmente notevole è la sua intuizione secondo la quale tutte le cose sono nello spazio, ma non l'universo, perché l'universo non è contenuto da alcunché, ma è esso ciò che contiene ogni altra cosa. Perfino Abbagnano e Fornero devono riconoscere che questa dottrina presenta forti analogie con il modello di universo proposto dalla fisica einsteniana.

Dal punto di vista della filosofia, comunque, non è affatto stupido porsi la domanda: per quale scopo o funzione esistono l'uomo, la vita, il mondo. Il paradigma scientista oggi dominante vorrebbe farci credere che si tratti di domande prive di senso o, comunque, di domande alle quali è impossibile rispondere: ma ciò è vero solo se si assolutizza il generale quadro di riferimento della scienza materialista e ateista.

Ma se, invece, si accetta come ipotesi di lavoro una scienza che non chiuda la porta su ciò che non è puramente ed esclusivamente materiale e che, pertanto, ponga a se stessa (a se stessa, non alla realtà) dei limiti ben precisi, e quindi riconosca anche la perfetta liceità di una indagine sul mondo che adotti anche altri punti di vista, non solo quantitativi e non solo razionalisti, a cominciare da una filosofia che non sia la brutta copia della scienza materialista, descrittiva e quantitativa: ecco, allora, che l'intera impostazione speculativa di Aristotele tornerà ad apparirci tutt'altro che antiscientifica, bensì consapevole che esistono altre realtà e altre forme di conoscenza, al di sopra di quelle di un Logos puramente strumentale e calcolante.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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