La Sindrome della Regina Rossa di certi venetisettembre 2018
https://www.vicenzareport.it/2018/09/si ... ssa-veneti Vicenza – Nell’indipendentismo veneto la Sindrome della Regina Rossa – ovvero dover correre sempre più velocemente solo per rimanere sul posto – è presente da tempo. Un’analisi pubblicata recentemente ha suscitato molto interesse e consenso, oltre naturalmente a qualche critica sui social network dov’era stata rilanciata. Prenderemo quindi a pretesto una di queste osservazioni per approfondire ulteriormente l’argomento.
Un lettore (R. B.) ammette che le constatazioni fatte sullo stato dell’indipendentismo veneto sono corrette. Che c’è una brace che brucia sotto la cenere. Tuttavia sostiene che c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno, e chi mezzo vuoto. Che l’analisi critica pubblicata, rischia di fare il gioco degli avversari naturali (lui li chiama: gli Unionisti). Poi passa a rammaricarsi del fatto che ad essere eletto in Regione Veneto, nel 2015, sia stato Antonio Guadagnini e non Alessio Morosin, fondatore e guida del movimento «Indipendenza Veneta» (IV).
Prosegue ammettendo che il tradimento del «Patto» (scritto e pubblicato) che ha portato alla creazione di «Stato Veneto» (SV), è moralmente ed eticamente disgustoso, ma asserisce che bisogna prendere atto che oggi solo quest’ultimo (=Guadagnini) può presentarsi alle elezioni regionali del 2020 senza l’impegnativo onere della raccolta firme. Pertanto l’intenzione di presentarsi uniti (SV + IV) resta per lui, e altri come lui, un’idea positiva in quanto si uniscono le forze per ottenere almeno i 200 mila voti del 2015. E conclude: saranno gli elettori indipendentisti a premiare o punire i singoli candidati della lista unita, favorendo quelli che si sono sempre dimostrati affidabili e coerenti.
Questo preteso indipendentista veneto (che per tifoseria valuta “buono” Morosin, e “cattivo” Guadagnini) non vuole prendere atto che le azioni impolitiche di molto secessionismo veneto le hanno create gli stessi supposti separatisti. Non c’è solo Guadagnini che è “cattivo”. A ben riflettere nemmeno l’avvocato Morosin è tanto “buono” se lo si osserva come demolitore e costruttore di partiti pseudo federalisti, autonomisti, indipendentisti è stato abbastanza attivo. Si veda qui.
Molti ritengono che se al posto di Antonio Guadagnini fosse stato lui a consigliere regionale, quasi sicuramente non sarebbe cambiato nulla. Come non è cambiato nulla quando era insediato (dal 1990 al 1995 in quota all’allora Liga Veneta – Lega Nord, a quel tempo autonomista, federalista, poi indipendentista, secessionista e quant’altro affine), e considerato che non sono note azioni o proposte legislative che abbiano sortito effetti in nessuna delle suddette materie.
Di più: come non considerare che allora quel gruppo contava sette consiglieri, più qualche altro “simpatizzante”? R. B. non sembra essere sfiorato dalla considerazione che “moralmente ed eticamente disgustoso” è non solo chi non rispetta i patti, ma anche coloro che turandosi il naso accettano di cooperare con il reo. E la questione dell’esenzione delle firme è appunto la questione assimilabile ai trenta denari di biblica memoria. Infatti, colpevole è chi commette una mancanza, come lo è chi ne è complice e sodale.
Questo preteso indipendentista, “in nome del realismo politico”, scrive: «Non so quale nuovo ‘assetto istituzionale’ auspicare», e ciò delude molti elettori, poiché i catalani come gli scozzesi prima di loro sapevano a priori quale assetto istituzionale gli indipendentisti (una volta eletti) avrebbero realizzato. Non è così per l’indipendentismo veneto. Finora si sono letti opuscoli sull’autodeterminazione (alcuni peraltro ben fatti) che magnificavano, tra l’altro, il fatto che i 20-21 miliardi di euro (in realtà circa 15/16) che il Veneto “perde” con lo Stato italiano, sarebbero meglio impiegati.
Ma la sostanza è che per avere l’avanzo di quei miliardi bisognerebbe mantenere la stessa tassazione. A Indipendenza Veneta trascurano che secondo l’osservatorio “Suicidi per motivazioni economiche” (qui), in Italia, dal 2012 al 2017 sono stati 878 i casi di suicidio legati a motivazioni economiche, mentre 608 sono stati i tentati suicidi. I dati aggiornati al 2° semestre del 2017, hanno visto 56 vittime contro le 47 dei primi 6 mesi dell’anno, per un totale di 103 casi. In sostanza, anziché avere i politici “romani” che sperperano, avremmo i loro omologhi veneti a farlo, sempre a danno dei contribuenti autoctoni? Visto che nessuna proposta di riforma, in questa sola materia, è nota.
Del resto nel suo sito istituzionale IV scrive testualmente: «[…] all’obiettivo dello Stato veneto indipendente possono infatti concorrere indistintamente soggetti idealmente schierati su posizioni differenti e spesso contrapposte. […] IV non tende a definire un modello sociale.», è dunque chiaro che questo movimento non non produrrà nessuna bozza di nuova organizzazione istituzionale. E prosegue: «il movimento dà la possibilità di operare con tutte le energie a disposizione, non per dividere, ma per unire tutte le componenti della società veneta verso il comune obiettivo dell’indipendenza del Veneto». Insomma, in SV + IV si punta tutto sull’elezione alla Regione Veneto, poi si vedrà.
Pensare d’ottenere l’indipendenza per avere un’Italia in miniatura non sembra ai più la soluzione. Dopo di che, proprio l’esperienza Guadagnini dovrebbe convincere che la prefigurazione della soluzione dei problemi dell’autodeterminazione va fatta a priori, perché dopo i politicanti, avendo il potere, troveranno sempre le scappatoie per non cederlo. I fautori della secessione esaltano il referendum per l’autonomia (vinto in Veneto con circa 2,3 milioni di voti); ma questo, appunto, è per l’autonomia. Se politicamente qualcuno lo legge in maniera diversa fa parte delle strumentalizzazioni della politica. Infatti, è da dimostrare che quei milioni di voti sarebbero tutti per la separazione. Proprio perché i veneti sono messi come la Catalogna, è ingenuo se non strumentale ai politicanti, voler far credere di poter cambiare il governo con il consenso del governo. È un ossimoro, appunto!
L’indipendentismo veneto, poi, infarcisce i propri discorsi con il desiderio d’avere una democrazia simile a quella svizzera. Però azioni concrete per ottenere il corretto uso di tali strumenti: referendum, proposte di legge e di delibera d’iniziativa popolare, recall o revoca dei “rappresentanti” prima della fine del loro mandato, ed altro ancora, che a livello locale ci sono (e, ovviamente, sono stati edulcorati dalla partitocrazia) non se ne sono ancora viste. Altri sono i soggetti impegnati a produrre petizioni in questa direzione. Già nel 2013, per esempio, ne hanno depositate alle Regione Veneto (qui) e altrove. Gli Statuti del Comune di Vignola (MO), [vedi Art. 9 – Gli Istituti di Democrazia Diretta, e successivi (qui) o quello della Provincia di Bolzano (qui), solo per non formulare un lungo elenco, ci dicono che è possibile.
Ci sono domande provocatorie – ma non tanto – alle quali SV + IV non sanno o non vogliono rispondere:
Come mai nessun pseudo leader indipendentista veneto si è mai speso per ottenere i corretti strumenti di democrazia diretta a livello di Enti Locali?
Che cos’è la democrazia diretta se non un deterrente per gli abusi del potere?
Perché invece di spendersi in elezioni infruttuose o scarsamente premianti, gli attivisti di queste formazioni non operano per “dare l’assalto” con petizioni ad hoc ai vari Statuti di Comuni, Province e Regione per l’introduzione di corretti istituti di democrazia diretta? Bolzano docet!
La partitocrazia, ovviamente, metterà i bastoni tra le ruote, ma queste azioni non potrebbero avvantaggiarsi della «affezione» dei cittadini-elettori-contribuenti veneti più di quanto non sia ora possibile?
Alcuni osservano semplicemente che non è saggio giocare con le carte truccate dell’avversario (elezioni). Le vicende dell’indipendentismo catalano sono lì a far riflettere. R.B., da “tifoso”, non prende nemmeno in esame che Alessio Morosin è comprensibilmente un ambizioso. E in questo non c’è nulla di male, s’intende. Egli conosce le leggi elettorali italiane, e sa perfettamente che non è facendo il gregario che potrà essere eletto.
Salvo un caso fortuito come quello materializzatosi con Antonio Guadagnini. Di qui il “girovagare” di entrambi dentro e fuori partitini di nessuna potenza elettorale, e scarsa o nulla progettualità istituzionale. Morosin (e i suoi sostenitori), quello di buono che può aver fatto, è da semplice cittadino (la promozione della risoluzione 44/2012 dal titolo: “Il diritto del popolo veneto alla compiuta attuazione della propria autodeterminazione”, presentata il 5 ottobre 2012 da 21 Consiglieri in carica, e approvata il 28 novembre 2012.
Ancora, il 28 aprile 2015 Morosin partecipa a Roma alla discussione della Corte costituzionale per sostenere la L.R. 16/2014 relativa al referendum consultivo sull’indipendenza. Una partecipazione in difesa della legge, ovviamente, che tuttavia sarà cassata dalla suprema corte che dichiara inammissibile l’intervento dell’associazione Indipendenza Veneta. L’unico vantaggio appare quello professionale, laddove un ambizioso avvocato ha avuto modo di esercitare in un così alto Foro.
In questo panorama c’è chi valuta più positive le iniziative politiche dei cittadini organizzati, ma non in forma di movimento politico o partito tradizionale. Viste proprio le esperienze citate di Bolzano, Vignola (Modena) e altrove, sembra che non sia indispensabile sedere nelle istituzioni. Non sono pochi coloro che sostengono che se Morosin (& Co.) ha voglia di fare, può continuare a farlo da “uomo qualunque”. E dunque, perché non si spende e incoraggia i suoi seguaci per ottenere strumenti di democrazia diretta reali ed efficaci? Chi non è d’accordo sul fatto che la democrazia diretta è un deterrente per gli abusi del potere?
Che l’avvocato Morosin possa avere ambizioni a diventare “rappresentante” in Regione o altrove lo si può comprendere. Non per questo in molti sono disposti a concederli la loro approvazione politica. E questo, ovviamente, vale anche per chiunque altro abbia le sue “strategiche” idee, e voglia percorrere la stessa strada politica. Del resto la stessa Catalogna sembra avviarsi ad una diversa autonomia, ed il loquace ed eclettico Luca Zaia su questo si sta impegnando.
Un gran numero di elettori sono convinti del fatto che se le liste degli indipendentisti prendono circa il 2%, è perché non è chiaro il loro progetto istituzionale. Non è poi con un partito che si rivoluziona il “sistema partitocratico”. L’esperienza della Lega Nord, dell’Italia dei Valori, del M5S e altri ancora, è lì a documentarlo. Erano dei “rivoluzionari”, degli antagonisti; sono diventati parte del problema partitocratico. Piuttosto alcuni auspicano altre possibili aggregazioni in sostituzione della forma partito tradizionale. Si prefigura la nascita di «organizzazioni single issue» (per singola questione), in grado di riunire i propri aderenti su obiettivi specifici e destinate a sciogliersi una volta raggiunto lo scopo prefissato.
Gli iscritti sarebbero così affrancati dall’esigenza di assicurare una fedeltà irrazionale ed eterna; e verrebbe meno l’oppressione di una struttura organizzativa votata alla conquista del potere, innanzitutto attraverso il ricorso alla corruzione ed al clientelismo, tipica della partitocrazia. L’esperienza di Bolzano è lì a confermare la praticabilità della proposta. Mentre per le candidature e le elezioni un metodo (del resto in essere anche nella Serenissima Repubblica di Venezia) potrebbe essere quello del ballottaggio. A questo punto c’è chi si chiede se SV + IV sarebbero più coerenti laddove anziché definirsi indipendentisti si qualificassero per quello che appaiono: autonomisti. Ovviamente chi non vuole impegnarsi nell’esercizio della riflessione speculativa è libero di farlo, ma non per questo otterrà l’indipendenza del Veneto.
Enzo Trentin
Gli strateghi dell’indipendenza senza un indirizzoEnzo Trentin
ottobre 2018
https://www.vicenzareport.it/2018/10/st ... -indirizzo Vicenza – Mercoledì 10 ottobre, sui social network) si poteva leggere questo messaggio del professor Carlo Lottieri: «Gli ultimi sondaggi danno i nazionalisti italiani della Lega, in Veneto, intorno al 50%.
C’è da disperarsi? No. I miei amici indipendentisti devono sapere che la volatilità elettorale è altissima e sono tutti giganti di argilla. Non solo: la catastrofe è alle porte e alla fine la realtà detta le sue leggi. Se l’Italia è in bancarotta, i suoi ministri si troveranno presto “sotto processo”. Si tratta quindi, ora, di costruire una proposta realmente alternativa: un progetto fatto di persone, luoghi, media, associazioni e iniziative che possa essere pronto a cogliere la finestra di opportunità. Il gigante parafascista non durerà a lungo: non abbiamo, quindi, tempo da perdere.»
Nel leggerlo mi torna alla mente quanto il drammaturgo russo Ivan Tourgueniev scriveva: «Esiste una tristezza che non è possibile consolare né dissipare, la tristezza della vecchiaia che ha coscienza di se medesima.». Ecco, dal profondo della mia senescenza, ho la tristezza d’aver scritto per anni le stesse cose del mio buon amico Carlo Lottieri, d’essere andato in lungo e in largo a tenere conferenze, a parlare ad un pubblico che sembrava non capire, che cercava la soluzione prêt à porter, immediatamente risolutiva.
Giovanni Dalla Valle, uno psichiatra anglo-veneto che per anni si è speso per la causa della autodeterminazione, in collaborazione con numerosi altri volonterosi, anni or sono ha dato l’avvio a un “Libro bianco” per l’indipendenza del Veneto, che nelle intenzioni doveva essere propedeutico a un progetto istituzionale innovativo. La cosa è rimasta in itinere. Non ha ancora raggiunto il suo completamento. Tra i tanti comparti del predetto nuovo assetto rifondativo c’era quello della Difesa, che qui espongo in riassunto, partendo ovviamente da alcune premesse:
La Costituzione italiana è una dichiarazione di princìpi che non ha nessuna concretezza. Si veda il suo articolo 11, a proposito di Difesa.
Coprire le guerre barattandole come ‘operazioni di pace’ è un modo per aggirare la Costituzione e turlupinare i cittadini che ancora vi credono.
Tutti sappiamo che con la formula ipocrita ‘peacekeeping’ si mascherano operazioni militari di aggressione in altri Paesi. Noi abbiamo più di 30 operazioni militari all’estero che ci costano circa 1.500 milioni l’anno. Solo l’operazione Leonte in Libano può essere considerata una vera missione di pacificazione perché le forze militari italiane si interpongono fra due comunità, hezbollah libanesi e israeliani, che altrimenti si massacrerebbero senza pietà.
Ciò premesso c’è da prendere atto che l’Italia sin dalla sua unità nel 1861 (a seguito di plebisciti farlocchi del 1859-1860-1866) ha sempre condotto guerre d’aggressione, e la truppa delle forze armate è sempre stata composta da coscritti che non potevano dissentire.
Fiorenzo Peloso, un federalista e indipendentista inascoltato, mi ricorda che le forze armate composte da professionisti (carabinieri, bersaglieri, guardia civil, guardia svizzera, guardia di finanza, giannizzeri, lagunari, sommergibilisti, aviatori e militari d’ogni altro generale) sono tutti “soldati”, ossia come dice la parola stessa sono “al soldo”. Chiamarli mercenari può sembrare esagerato o offensivo a seconda dei punti di vista, ma la definizione sul dizionario coincide: “mercenario” è colui che presta la propria opera in cambio di un compenso. Anticamente si chiamava salario. I militari fanno anche un giuramento di obbedienza assoluta agli ordini di una gerarchia di comando, ed è storicamente dimostrato che assecondano esclusivamente i desiderata del potente, o prepotente, di turno. L’essenziale è che costui paghi il soldo ai soldati.
La difesa della legalità e del civile convivere dei cittadini non è la loro priorità assoluta, è semplicemente una doverosa, ma secondaria, espressione statutaria, che essendo secondaria cambia appunto col cambiare del padrone: da repubblica a monarchia, dalla dittatura fascista a quella del proletariato pari sono. Drammaticamente molto spesso sono proprio i difensori dell’ordine i peggiori nemici dei cittadini che “ufficialmente” dovrebbero difendere:
Come fu a Torino nel 1864 in Piazza Castello e San Carlo.
Come fu 15 anni prima a Genova quando i bersaglieri di Lamarmora bombardarono l’ospedale, fucilarono centinaia di inermi cittadini, razziarono e stuprarono impuniti quella “vile e infetta razza di canaglie”, parole testuali usate dal re Savoia per definire i genovesi, mentre si felicitava col Gen. Lamarmora del riuscito massacro per difendere l’ordine pubblico.
Come fu a Bronte nel 1860
Come fu a Pontelandolfo e Casalduni Pontelandolfo_e_Casalduni nel 1861.
Come fu a Gaeta nello stesso anno: Gaeta massacrata da Cialdini, su ordine di Cavour. Nel crollo di una breccia nei bastioni di protezione larga circa 30-40 metri muoiono 316 artiglieri napoletani e 100 civili. Gli artiglieri piemontesi gioiscono per il grave danno arrecato alle difese borboniche e incominciano a gridare “Viva l’Italia” così forte che si sente fin dentro le mura di Gaeta.
Come fu nel 1898 in mezza Italia e soprattutto a Milano, quando il Gen. Bava Beccaris e i suoi soldati difensori dell’ordine pubblico spararono a bruciapelo ai milanesi che, affamati, chiedevano semplicemente del pane.
Fiorenzo Peloso non insiste oltre e conclude menzionando la recentissima dura violenza di Stato della Guardia Civil spagnola, nel 2017, contro la pacifica gente di Barcellona che voleva solo votare (Europa dove sei?) o l’icona del cinese davanti al carro armato in piazza Tienanmen a Pechino nel 1989: uno dei più eclatanti esempi di “difesa dell’ordine pubblico” da parte di soldati, che forti della consueta totale impunità di Stato, hanno compiuto l’ennesima strage di migliaia di cittadini indifesi. La piazza evidentemente è un luogo deputato per le stragi Stato.
Se ci fosse ancora qualcuno che volesse giustificare tali atti “di servizio” compiuti dai soldati per difendere la legalità (non la legittimità che è un’altra cosa) e giustizia, consiglio di trascurare per un po’ la tastiera e fare un viaggio “autentico” in un qualsiasi paese del Centro-Sudamerica, dell’Asia o peggio ancora dell’Africa dove corruzione e violenza sui cittadini da parte dei soldati sono all’ordine del giorno. Poi in tutta onestà intellettuale si potranno fare analisi e valutazioni sul significato di mercenario e di difesa dell’ordine pubblico nel corso dei secoli.
Dopo i processi di Norimberga (dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946) contro i protagonisti dello Stato nazionalsocialista che uccisero milioni di civili innocenti non dovrebbe più essere ammessa la giustificazione: «Non siamo colpevoli! Noi abbiamo solo eseguito gli ordini superiori.» Eppure… Insomma i soldati sono un deterrente necessario all’illegittimità, ma ancor più necessario dovrebbe essere che allo Stato sia impedito di usarli contro la propria gente, proprio perché i soldati per definizione non sono autorizzati a pensare autonomamente.
Come riflessione consiglio una lettera di Don Lorenzo Milani: «L’ubbidienza non è una virtù», dove tra l’altro è scritto: «Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire, e soprattutto domandarvi, come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.»
In Italia ci sono degli ex militari di leva che da anni promuovono una legge d’iniziativa popolare per ottenere riconoscimenti onorifici, anche se non onerosi da parte dello Stato. Sostengono d’aver servito con onore la patria. Ovviamente io non discuto. Forse non conoscono o ignorano Friedrich Dürrenmatt laddove scrisse: «Patria è lo Stato se sta per compiere assassini di massa.» Solo gli alpini, nel 1997, a Reggio Emilia, dove si radunarono in 400 mila, tra pochi applausi e tanti fischi, sfilando davanti al presidente Oscar Luigi Scalfaro, impassibile, ma visibilmente preoccupato, che assiste a una forma di protesta, più in là duramente repressa dalla dirigenza dell’Ana. Quegli alpini ripiegarono un enorme tricolore lungo cinquanta metri proprio davanti al palco sul quale il capo dello Stato seguiva la sfilata nel bicentenario del tricolore. Dopo quell’episodio, guai a riprovarci!
Ai giorni nostri assistiamo all’impennata delle spese militari che non sono da ritenersi del tutto razionali. Si veda qui e qui. Per questo quella parte del “Libro bianco” di cui sopra doveva sembrare promettente agli indipendentisti veneti. In esso sostanzialmente si indicava un servizio militare di militanza simile a quello svizzero.
Si è guardato alla Svizzera che ha il maggior numero di ricoveri antinucleari al mondo. La Svizzera poi ha sempre avuto un esercito di cittadini talmente civile che quando sono esonerati dal servizio militare possono acquistare le loro armi individuali: il fucile, la rivoltella e il relativo munizionamento per conservarlo in casa propria. Non per questo in quelle valli si vive come nel mitico Far West. Di contro va preso atto che è il tiranno colui che vuole l’esclusiva delle armi.
In Svizzera solo pochi sono i militari a tempo pieno. Non è poi insolito che una persona che è dirigente industriale, faccia parte della gerarchia militare. Questo sistema fa sì che siano rare le discordie politiche, essendo il settore pubblico e quello privato, sostanzialmente, nelle stesse mani. Fin dagli anni 1930 in Svizzera il potere è in mano al complesso industriale-militare. Si è dimostrata una forma di “governo” molto efficiente. La Svizzera è rimasta estranea alle grandi guerre poiché l’élite al potere non ne avrebbe tratto alcun vantaggio.
Al contrario, nel 1978 questo Paese era al secondo posto nella graduatoria della prosperità mondiale, e nel settembre 2017, per il nono anno consecutivo, la Svizzera è stato il Paese con l’economia più competitiva al mondo secondo il Forum economico mondiale (WEF). Invariato, rispetto al 2016, il quintetto in testa alla graduatoria, con la sola differenza che gli Stati Uniti guadagnano la seconda posizione a scapito di Singapore. Olanda e Germania restano quarta e quinta. L’Italia si classifica al 44esimo posto.
Se la furia delle guerre mondiali ha risparmiato la Svizzera non lo si deve affatto – come pure tanti credono – alla sua dichiarata neutralità. Quale Hitler se n’è mai preoccupato? No. Se nessuno ha invaso la Svizzera è perché questo Paese ha sempre potuto contare su un efficientissimo deterrente militare; abbinato alla sua propensione a “far affari” (=contrattualismo, sinonimo anche di federalismo) con entrambe le parti in conflitto. Per esempio, gli svizzeri tennero ai nazisti pressappoco questo discorso: «Invadeteci, e ogni svizzero fra i 18 e i 50 anni d’età si nasconderà sulle Alpi per portare un’interminabile guerra d’attrito. D’altro canto, se sarete tanto furbi da non invaderci, saremo lietissimi di fornirvi i migliori prodotti della nostra industria, fra le più avanzate del mondo. A pagamento, s’intende.»
E questo è esattamente ciò che avvenne. Ma non solo gli elvetici fornirono alla Germania hitleriana cannoni antiaerei, generatori di corrente, strumenti di precisione, macchine utensili; non solo permisero ai nazisti di servirsi delle loro ferrovie per far affluire rifornimenti al loro alleato Mussolini; essi chiesero e ottennero altro in cambio. Energia. Carbone dalla Ruhr. Elaborarono una formula pignola, precisa e dettagliata: per ogni tonnellata di materiale bellico in transito, tot quintali di carbone. Tale patto permise alla Svizzera di restare indenne e sopravvivere ai cinque lunghi anni di conflitto. Poiché la Svizzera non ha un grammo di carbone né una goccia di petrolio, e l’energia elettrica non sarebbe bastata. Funzionò. I tedeschi non toccarono la Svizzera. E le fornirono energia sufficiente, non solo a mandare avanti il Paese, ma a farlo prosperare mentre il resto d’Europa cadeva in rovina.
Per un gran numero di “strateghi dell’indipendenza del Veneto”, questo tipo di organizzazione è una garanzia contro i soprusi del potere, e dovrebbe tenere lontani gli autoctoni da un conflitto in Europa; soprattutto se si trattasse di un conflitto nucleare tattico come nei vaticini di qualche stratega d’oltre Atlantico si ipotizza. Una situazione così terribile, che Philippe Grasset situa al punto terminale dell’abolizione del sacro in Occidente, scrivendo: «hanno perduto la percezione del sacrilegio – e la perdita del sacro porta necessariamente la perdita del senso di possibilità della catastrofe, minaccia cosmica che implica il fatto nucleare…”.»