I campi in Libia e l'ipocrisia di "Amnesty" Gian Micalessin - Mer, 13/12/2017
Dopo il rapporto sui migranti in Libia diffuso ieri, Amnesty farebbe meglio a ribattezzarsi Amnesia International
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 73512.htmlIl documento intitolato «Libia, un oscuro intreccio di collusione» è, infatti, un capolavoro di disinformazione frutto di una volontaria amnesia selettiva. Un'autentica patacca umanitaria realizzata documentando con certosina minuzia le condizioni degli ultimi sei mesi, ma omettendo deliberatamente qualsiasi riferimento alle situazioni, assolutamente identiche, perpetuatesi nei centri di detenzione legale e illegale dal 2014 a metà 2017.
Il tutto per dimostrare che quel dramma non è la conseguenza della tratta di uomini gestita dalle organizzazioni criminali, ma bensì delle misure assunte negli ultimi sei mesi dall'Europa, e in primis dall'Italia per arginare gli sbarchi. «Decine di migliaia di persone sono imprigionate a tempo indeterminato in centri di detenzione sovraffollati e sottoposte a violenze ed abusi sistematici.
I governi europei sostiene John Dalhuisen direttore di Amnesty International per l'Europa - non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono attivamente le autorità libiche nell'impedire le partenze e trattenere le persone in Libia. Dunque, sono complici di tali crimini». Vien da chiedersi dove fossero John Dalhuisen e Amnesty dal 2014 al giugno di quest'anno, ovvero nei tre anni e mezzo precedenti le misure di contenimento degli sbarchi. Tre anni e mezzo in cui i migranti sono stati sistematicamente imprigionati e inscatolati in prigioni e depositi per umani dove le donne venivano sistematicamente violentate e gli uomini derubati dei loro averi o costretti a lavorare come schiavi. Una situazione esattamente identica a quella odierna che però né Amnesty, né i grandi media, si prendevano la briga di documentare. Finché i migranti sbarcavano sulle nostre coste i trafficanti incassavano contanti e le navi delle Ong donazioni nessuno sbirciava dietro le quinte dello struggente esodo. Del resto ancora oggi Amnesty si guarda bene dal fare i conti con i cadaveri e dal ricordare che oltre duemila, su 2mila e 800 migranti affogati nel Mediterraneo dall'inizio del 2017, sono morti prima di luglio ovvero prima dell'entrata in azione del nostro governo. Questo significa che l'attività di regolamentazione delle Ong e di contenimento degli sbarchi avviata da luglio ha contribuito non solo a ridimensionare l'esodo, ma anche ad evitare la consueta strage. Una strage che, guarda caso, ha raggiunto i suoi massimi livelli nel 2016 quando grazie all'effetto calamita giocato dalle navi delle Ong sono scomparsi tra i flutti oltre 5000 esseri umani. Ma i loro cadaveri non rientrano nella categoria della «pietas» riconosciuta e documentata da Amnesty. Come non vi rientra la denuncia delle attività criminali dei trafficanti di uomini. E così nella favoletta su misura confezionata da Amnesty gli unici colpevoli si cui puntare il dito restano l'Italia e l'Europa.
Li schiavi dei maomettani arabi, turchi, mussulmaniviewtopic.php?f=149&t=1336 Il genocidio nascosto – Italia Israele Today16 dicembre 2017
Gerardo Verolino
http://www.italiaisraeletoday.it/il-genocidio-nascosto Per tutti quelli che “giustificano” o hanno umana compassione (sic) per i terroristi dell’Isis perché, poveretti, risarcirebbero i torti storici subiti dai loro antenati africani per mano degli empi conquistatori europei, sappiate che c’è stato nella storia qualcosa di molto peggio, e assai più cruento, del colonialismo occidentale. Ed è stato quello perpetrato dagli arabi musulmani (in genere i nordafricani) nei confronti dei neri subsahariani e che è durato ben oltre i quattrocento anni di dominazione europea cominciando nel VII secolo dopo Cristo, protrattasi per oltre tredici, e perdurando, in verità, ancora oggi.
A squarciare il muro del silenzio su uno dei più grandi genocidi della storia che ha visto l’eliminazione fisica di 17 milioni di neri, dopo indicibili torture, sopraffazioni, umiliazioni e sofferenze (i maschi venivano regolarmente evirati, le donne riempivano gli harem) sono stati la pubblicazione di alcuni encomiabili libri. Niente in rapporto alla sterminata pubblicistica sulla tratta dei neri verso le Americhe.
Fra gli altri quello di uno scrittore franco-senegalese Tidiane N’Daye che, in un volume del 1988, “Le génocide voilé” (“Il genocidio nascosto”) racconta di come “i popoli arabi hanno fatto razzie, castrato e ridotto in schiavitù le popolazioni nere senza interruzione per 13 secoli- e aggiungendo che, ancora oggi “in pieno XXI secolo continuano a martirizzare i negri del Maghreb e a sottoporre le donne nere a schiavitù in Medio-Oriente”.
O anche John Azumah, uno studioso di origini ghanesi, che in “The legacy of Arab-Islam in Africa” ricorda che lo schiavismo arabo è una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili e conversioni forzate per rispettare il libro sacro dell’Islam. “Il Maafa, l’olocausto africano non è finito- scrive Antonella Sinopoli una giornalista-blogger-perchè non è generato da motivi economico-commerciali. Ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri” secondo il precetto islamista.
La parola “Abd” in arabo vuol dire schiavo. Declinato al plurale “Abeed” vuol dire neri. Per l’arabo musulmano il nero e lo schiavo sono la stessa cosa.
Nel libro di uno dei più noti storici inglesi dell’Islam, Bernard Lewis,”Razza e colore nell’Islam” che smonta tutte le leggende sull’assenza di discriminazioni razziali nell’islamismo si racconta di come venivano considerati i neri dagli schiavisti arabi. Un autore musulmano, nel nono secolo dopo Cristo, ad esempio, Jahiz, osserva che i neonati neri dell’Iraq “vengono alla luce come qualcosa di intermedio tra il nero e il melmoso, maleodoranti, puzzolenti, con i capelli crespi, le membra difettose, la mente deficiente e passioni depravate”.
Un altro autore, Maqdisi, afferma che “non esiste fra loro il matrimonio, il bambino non conosce il padre e si cibano di carne umana”. E ancora: “La loro natura è quella degli animali selvatici”. Il grande geografo Idrisi ricordando che i neri hanno piedi rugosi e sudore fetido aggiunge che differiscono dagli animali “solo perchè le due mani sono sollevate dal terreno”.
Mentre “la scimmia antropoide ha più capacità di apprendimento di loro”. Per ben millequattrocento anni, gli arabi musulmani, soprattutto dell’Africa del Nord, egiziani e persiani in testa, hanno ridotto in catene quelli al Sud del Nilo quando questi ultimi non sono periti lungo i mille km di marcia a piedi, senza acqua nè cibo, in condizioni atmosferiche proibitive. “Marciano tutto il giorno.
Di notte quando si fermano per dormire-scrive Henry Drummond-gli vengono distribuite poche manciate di sorgo”. Dopo sessanta giorni di marcia neanche meno della metà giunge viva a destinazione. Quando un viaggiatore perde la strada dell’Africa equatoriale, si dice, ad indicarla saranno le migliaia di scheletri dei negri che la pavimentano (mentre nelle vituperate tratte coloniali ordite dagli occidentali verso l’America muore meno del dieci per cento di schiavi). Ma chi sopravvive alle traversate spesso perde la vita a causa, come detto, delle castrazioni. Questa orribile pratica viene usata per garantire la virilità dell’arabo sul nero descritto come in preda a irrefrenabili appetiti sessuali e per soddisfare la pressante richiesta di eunuchi a guardia dell’harem. Quasi nessuno fra i bambini neri sopravviverà alla terribile mutilazione.
Gli storici calcolano che dal VII al XX secolo i neri schiavizzati dagli arabi sono stati circa 17 milioni. A cui vanno aggiunti quelli morti durante il tragitto e si arriva a 75 milioni. Più i trucidati durante le spedizioni e si supera i 100 milioni di morti nel volgere di tredici, quattordici secoli.
Per questo motivo, e per l’annullamento della propria sessualità, non hanno lasciato orme della loro millenaria permanenza nei luoghi della deportazione; mentre i discendenti degli schiavi traghettati in America, oggi circa 70 milioni, si sono sedimentati in quei Paesi, integrandosi, emancipandosi e lasciando tracce significative nelle arti, nello sport, nello spettacolo e persino nella politica se uno di loro è riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti, lo Stato considerato da tutti i suoi nemici come la culla del capitalismo e quindi degli “sfruttatori”.
LONG ISLAND, NY - MAY 17: Cassius Clay, 20 year old heavyweight contender from Louisville, Kentucky poses for the camera on May 17, 1962 in Long Island, New York. (Photo by Stanley Weston/Getty Images)
Quando Cassius Clay, il celebre pugile, cambia il suo nome in Mohamed Alì, in onore del profeta Maometto, probabilmente, ignora, come altri milioni di suoi concittadini, cosa abbia rappresentato l’Islam per il suo popolo: morte, tortura, sopraffazione e perdita dell’identità civile, culturale e religiosa. Quella che lui, col suo provocatorio gesto, ha pensato di rivendicare. Ed invece ha, involontariamente, infangato.