1848 en Ouropa, ara tałega, ara venetaviewtopic.php?f=148&t=2344http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... na-ipg.jpgSCRITO NEL 1969 DA GIGIO ZANON
VENEZIA, L’ITALIA E L’EUROPA 1848-49
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Nel 1830 gli austriaci concessero a Venezia la condizione di porto franco, grazie alla quale il suo commercio di transito acquistò un grande impulso e i suoi cittadini poterono importare beni di consumo o materie prime non gravati da dazi. Il cristallo di Murano, il principale prodotto di Venezia, cominciò a trovare sbocchi in tutt’Europa. Rialto, pur non essendo più uno dei grandi mercati del mondo, prosperava commerciando le materie prime del Veneto: cereali, pelli, legname, pesce secco e salato. Turisti ricchi provenienti da tutta Italia e da tutt’Europa cominciarono ad affollarsi a Venezia; nel 1843, un anno abbastanza normale, Venezia ospitò 112.644 visitatori. Le strette calli furono illuminate da luci a gas e la municipalità fece sforzi considerevoli per riparare i danni e contrastare il deperimento della città. Soprattutto, nel 1846 fu realizzato il grande ponte ferroviario che attraversa la laguna.
Sembrava che infine Venezia avrebbe superato la sua arretratezza e il suo isolamento e che sarebbe entrata a far parte delle città moderne d’Europa. La forza principale che dava impulso a questa rinascita della città non era la tradizionale e illuminante di Venezia, la nobiltà, ma piuttosto la borghesia agiata, che dava vita alla Camera di commercio di mercanti, banchieri e uomini d’affari come i membri della famiglia Papadopoli, Giuseppe Reali, i fratelli Pigazzi, Angelo e Valentino Cornelio, Jacopo Treves, erano estremamente ricchi. Essi non erano di per sé antiaustriaci. Reali, il vicepresidente della Camera di commercio, per esempio, prima della rivoluzione aveva chiesto di essere ammesso a far parte della nobiltà austriaca. Tutti, però, erano ansiosi di assistere a un rapido sviluppo materiale della loro città. Come Reali disse alla Camera di commercio nel 1847: « Il Commercio ha creato questa Città, e il Commercio deve ritornarla al suo antico splendore ».
Dopo il 1835 queste aspirazioni vennero a trovarsi sempre più in conflitto col governo austriaco della città. Gli austriaci avevano, è vero, concesso a Venezia la condizione di porto franco, ma la qualità della loro amministrazione declinò in misura notevole dopo la morte dell’imperatore Francesco I, sostituito dal ben intenzionato ma incapace Ferdinando. Ai due lati del nuovo imperatore, Metternich e Kolowrat iniziarono il loro lungo duello che sarebbe sfociato nella rivoluzione. Le decisioni venivano differite o non venivano mai prese, e la Camera di commercio di Venezia si sarebbe in seguito riferita al governo centrale di Vienna come al « sepolcro delle petizioni e delle rappresentanze ».
Questa situazione, com’è ovvio, non li trasformò automaticamente in rivoluzionari. Purtroppo per gli austriaci, però, la propaganda a favore di un’alternativa economica e politica al loro sistema divenne sempre più attraente e guadagnò sempre più terreno nell’Italia del tempo. Gli intellettuali italiani, e in particolare quelli milanesi (anch’essi soggetti al governo austriaco), cominciarono a scrivere sui vantaggi enormi che sarebbero risultati per ogni parte d’Italia dalla riduzione o dall’abbandono delle barriere doganali, dall’unificazione del sistema di pesi e misure, dalla creazione di un mercato nazionale e da un collegamento delle comunicazioni in tutta la penisola. Un tale programma era inaccettabile per gli austriaci, intenzionati a mantenere la Lombardia e il Veneto isolati dal resto d’Italia e a scoraggiare ogni segno di nazionalismo italiano. Al tempo stesso crebbe il sostegno a favore della creazione di una federazione di Stati italiani presieduta dal Papa.
Con la pubblicazione, nel 1843, del Primato civile e morale degli Italiani di Gioberti, il movimento cattolico liberale, con la sua chiara intonazione nazionalistica e politica, divenne sempre più popolare, soprattutto in Piemonte e negli Stati dell’Italia centrale.
I « negozianti » veneziani, uomini prudenti, non sposarono immediatamente la causa nazionale italiana, ma alcuni membri di un altro strato della borghesia veneziana, i ceti professionali, erano pronti ad andare un po’ oltre. Anche i professionisti — avvocati, medici, notai ecc. — avevano i loro motivi di lagnanza contro l’Austria. Il rigore della censura costituiva un freno per la loro attività intellettuale, la mancanza di istituti rappresentativi li privava di ogni possibilità di carriera La politica, e agli avvocati veniva negato dalla legge austriaca il diritto di rappresentare i loro clienti in tribunale. La politica austriaca riuscì solo a produrre un profondo senso di irritazione e di frustrazione negli ambienti colti veneziani.
Negli anni quaranta, Daniele Manin emerse come il membro più deciso di questo gruppo. La maggior parte della letteratura commemorativa ha presentato Manin con toni che ricordano la sua statua in Campo Manin: massiccio, autorevole, imponente. Vai forse la pena di ricordare che, prima della rivoluzione, non aveva avuto un particolare successo nella sua professione di avvocato, essendo afflitto da salute precaria e soggetto a crisi di malinconia e di mancanza di fiducia in se stesso. In una delle note su se stesso da lui lasciate scriveva: « Io amo il riposo: amo il 1 sonno e l’oziose piume: più della metà della mia vita ho passata nel poltrire a tepido I letto: così spero poter fare anche per tempo avvenire ». Spronato dall’ambizione e dall’idealismo a superare questa naturale indolenza, Manin presentò in pubblico un’immagine del tutto opposta. Basso di statura, ma in possesso di una bella voce di oratore, la sua precisione mentale e la sua intensa energia in momenti di crisi furono le sue risorse più grandi.
Per la maggior parte del decennio che precedette la rivoluzione, i membri progressisti della Camera di commercio veneziana e gli avvocati radicali come Manin costituirono un gruppo isolato nella società veneziana.
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Dalla primavera del 1847 in avanti, il movimento nazionale raccolse lentamente forza a Venezia, prima fra la borghesia professionale e commerciale, e poi fra le classi popolari della città. Daniele Manin, per la sua schiettezza, chiarezza di pensiero e abilità organizzativa, ne divenne ben presto il capo riconosciuto.
L’agitazione rimase confinata in principio in campo economico, ma in autunno Manin prese lo spunto da Carlo Cattaneo, a Milano, e lanciò una « lotta legale » per ottenere i diritti politici a favore dei cittadini dell’Italia settentrionale soggetta al governo austriaco. In questa lotta si unì a lui la seconda figura, per importanza, della Rivoluzione veneziana, Nicolò Tommaseo. Tommaseo era uno fra i fautori più appassionati del cattolicesimo liberale ed era uno studioso di enorme erudizione ed energia. Prima del 1848 era stato costretto a trascorrere molti anni in esilio a Parigi; al suo ritorno si stabilì a Venezia, dove visse la vita di un asceta. Irritabile, arrogante e insofferente con coloro che erano meno capaci di lui, Tommaseo fu nondimeno un alleato di grandissima importanza per Manin. Alla fine di dicembre Tommaseo presentò all’Ateneo Veneto un brillante attacco alla censura, ricordando agli austriaci una promessa che avevano fatto nel 1815: quello di consentire a ogni cittadino di indicare al governo i suoi errori.
Manin fece seguire all’intervento di Tommaseo due petizioni, la seconda delle quali segnò l’apice della « lotta legale » a Venezia. In essa Manin chiedeva che il Regno lombardo-veneto fosse « veramente nazionale e indipendente »che le sue finanze quelle del resto delle’esercito e la marina fossero completamente italiani e restassero in Italia; che venisse concessa la libertà di parola, che gli ebrei venissero emancipati, che si procedesse a una riforma del diritto, e molte altre cose.
Tommaseo, a sua volta, redasse una petizione all’alto cero, che accuso di aver « reso a Cesare assai più di quel che è di Cesare. Il 18 gennaio 1848 stava apportando gli ultimi ritocchi a questa petizione, quando egli e Manin furono improvvisamente arrestati.
Nel resto d’Italia la situazione si era fatta sempre più tesa. Nell’autunno del 1847 le truppe austriache occuparono Ferrara, che faceva parte degli Stati pontifici, e alla fine dell’anno Vienna concluse un’alleanza difensiva e offensiva con i sovrani reazionari di Parma e di Modena. A Milano i nazionalisti dettero inizio a una campagna contro il fumo in segno di protesta contro il monopolio di Stato austriaco sul tabacco. Il «Times » commentò: « Un popolo che non è secondo a nessuno nel consumo di quest’erba sacrificò prontamente al patriottismo ciò che rifiutava alla 15 pulizia e al buon gusto ». Le truppe austriache risposero passeggiando boriosamente per le strade e fumando ostentamente. Il 3 gennaio 1848 la tensione sfociò in scontri: tre milanesi furono uccisi e più di sessanta feriti. In febbraio gli austriaci imposero al Lombardo-Veneto la legge marziale.
Il controllo militare austriaco sembrava nondimeno solidissimo. Gli austriaci avevano più di 13.000 uomini a Milano e altri 8.000 a Venezia. Gli italiani erano disarmati e Radetzky era ansioso di impartir loro una lezione. In gennaio disse alle sue truppe: « Sul vostro impavido valore s’infrangeranno le invidie del fanatismo e la smania insana d’innovazioni, come fragil schifo contro dura roccia ».
Egli aveva fatto i conti senza quell’ondata eccezionale di sollevazioni rivoluzionarie che si abbatte sulle capitali europee nei primi mesi dei tumulti provinciali dell’Italia settentrionale in una rivoluzione nazionale.
Palermo dette il là in gennaio: Ferdinando fu costretto a concedere lo statuto del regtno delle Due Sicilie, e gli altri sovrani italiani si affrettarono a seguirne l’esempio. Questi sviluppi allarmarono gli austriaci, ma la loro importanza fu ben presto oscurata da un evento di gran lunga più significativo: lo scoppio della rivoluzione a Parigi nel febbraio. Luigi Filippo perse il trono, fu proclamata la Seconda Repubblica francese e il mondo dell’Europa sorta dalla Restaurazione fu frantumato una volta per tutte. Poi, meno di un mese dopo, scoppiarono disordini anche nella capitale dell’Impero. Il 13 marzo studenti, operai, artigiani e disoccupati di Vienna si accalcarono allo Hofburg, dove la guarnigione apri il fuoco contro i dimostranti disarmati. Quella sera, quando i saccheggi si diffusero nei sobborghi, la fazione contraria a Metternich trionfò a Corte e il giorno seguente l’artefice dell’Europa della Restaurazione annunciò le sue dimissioni. Due giorni dopo, di fronte alla crescente pressione, Ferdinando concesse un statuto a tutto l’Impero.
A Venezia la protesta era continuata a cresere nonostante l’arresto di Manin e Tommaseo (e anche a causa di esso), le classi lavoratrici veneziane corsero ad abbracciare la causa nazionalistica. I due clan popolari rivali, i Nicolotti e i Castellani, risolsero le loro divergenze e la polizia riferì che stavano fraternizzando come “italiani”.Soltanto gli spiriti più audaci cominciarono a pensare a una rivoluzione, ma e notizie provenienti da Palermo e da Parigi sembravano rendere tutto possibile. Poi, il 17 marzo, arrivò da Trieste un piroscafo che portò notizie di sommosse nelle strade di Vienna e della caduta di Metternich. Una folla enorme si raccolse in Piazza San Marco per chiedere la liberazione di Manin e di Tommaseo. Il tentennante governatore della città, conte Palffy, prese la fatidica decisione di rilasciarli, e nell’atmosfera convulsa del liberazione non di Daniele bensì di Ludovico aiii che era stato l’ultimo Doge della Repubblica.
Gli eventi nella città erano all’apice. Mentre ancora era in carcere, Manin aveva deciso che, una volta tornato in libertà, avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per provocare una rivoluzione e proclamare una repubblica per Venezia e per il Veneto.
Egli sperava che la Repubblica Veneziana diventasse uno degli stati di un’Italia federale e unita.Quando confidò queste idee ai suoi amici più stretti, raccolse in risposta solo manifestazioni di scetticismo. Tommaseo gli disse che non era ancora il tempo per discorsi del genere. I ricchi mercanti della Camera di commercio non erano certamente rivoluzionari ed erano favorevoli a demandare i negoziati con gli austriaci alla congregazione municipale (che era composta in gran parte da nobili veneziani conservatori).
Il 17 e il 18 marzo, mentre Manin era a casa sua, in campo S.Paternian, scoppiaron scontri in Piazza San Marco. La mattina del 18, lavoratori del clan dei Nicolotti e studenti di Padova cominciarono a disselciare la piazza e scagliare le pietre sui soldati.
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