Povertà e miseria nel Veneto, in Italia e in Europa

Re: Poartà/povartà e mexeria venete

Messaggioda Berto » gio lug 27, 2017 12:30 pm

???

Ci sono 1 milione di posti di lavoro disponibili, ma agli italiani mancano voglia e competenze
di Stefano Vergine - foto di Gianluca Meduri
2017/07/24

http://espresso.repubblica.it/attualita ... e-1.306640

«Siamo spiacenti, il numero chiamato è inesistente». Questo si sente rispondere da un paio di settimane chi prova a contattare il centro per l’impiego di Petilia Policastro, diecimila abitanti aggrappati ai monti della Sila, in Calabria. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse tragica. Perché questo vecchio edificio grigio e squadrato, che prima fu convento monacale e poi sede del municipio, è oggi il luogo che dovrebbe aiutare gli abitanti locali a trovare impiego nella provincia (Crotone) con il più alto tasso di disoccupazione d’Italia, dove un lavoro ce l’ha ufficialmente solo un cittadino su tre. Missione impossibile da affrontare senza nemmeno un telefono. Non solo perché qui le imprese principali sono una manciata di segherie. Il problema è che a Petilia Policastro il centro per l’impiego è allo sbando. E nel resto del Paese le cose non vanno tanto meglio.

È una mattinata torrida di metà luglio in questo angolo desolato della provincia italiana. Andrea Ruberto, responsabile della struttura, ci accoglie nell’ufficio mostrando i segni dell’incuria. Intonaci che si staccano. Macchie gialle di umidità. In alcuni angoli sta crescendo addirittura il muschio. «Ora ci hanno tagliato il telefono e siamo costretti a usare i nostri cellulari», si sfoga, «ma la situazione è grave già da parecchio. Lo vede questo computer? Me lo sono dovuto portare da casa, perché quello aziendale si è rotto e nessuno lo sostituisce. Per non parlare delle pulizie: le dobbiamo fare noi, la Provincia non ha più soldi per pagare un’impresa. Altro che politiche attive, qui siamo in totale emergenza».


1 MILIONE DI POSTI DISPONIBILI

Le politiche attive del lavoro per anni sono state la parte mancante del Jobs Act. Una serie di misure attraverso cui il disoccupato può migliorare il proprio curriculum, cercare offerte di impiego e, se tutto va bene, tornare sul mercato. Se con la legge voluta dal governo Renzi perdere il posto è infatti diventato un po’ più facile rispetto al passato, lo Stato deve impegnarsi per aiutare chi resta a casa. Guardando i dati sull’occupazione verrebbe da dire che in teoria è tutto giusto, ma se poi il lavoro non c’è, le politiche attive servono a poco.

Il luogo comune si sgretola davanti ai risultati di una ricerca di Face4Job, portale che incrocia domande e offerte di impiego. A fronte di circa 3 milioni di disoccupati ufficiali, al momento in Italia ci sono 1.007.835 di posti disponibili.

E non sono nemmeno tutti, perché lo studio considera solo le proposte pubblicate sui siti aziendali, non per esempio quelle sponsorizzate dalle agenzie interinali. Va detto che buona parte di queste occupazioni arriva dal Nord e dal Centro, mentre al Sud le opportunità scarseggiano. La sostanza però non cambia: il lavoro in Italia ci sarebbe anche, magari non per tutti, ma per guadagnarselo bisogna avere le competenze richieste, oltre che la voglia.

Ecco allora l’utilità delle politiche attive, ufficialmente in vigore da ormai un anno e mezzo sulla falsariga di quanto avviato dodici anni fa in Germania dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, che per dare un taglio ai sussidi a pioggia decise di creare un patto tra lo Stato e il disoccupato. Patto che suona più o meno così: se vuoi l’aiuto economico, caro cittadino, devi venire al centro per l’impiego, seguire i corsi che ti proponiamo, accettare le offerte in linea con le tue caratteristiche. Altrimenti l’assegno te lo puoi scordare. In gergo tecnico si chiama condizionalità.

MODELLO TEDESCO

Anne Jakob, 36 anni, assicura che «è anche grazie a questo se oggi la Germania ha un tasso di occupazione altissimo». La incontriamo a Berlino , a pochi metri dal Checkpoint Charlie, simbolo della divisione della città ai tempi della Guerra Fredda. Riccioli rossi e occhi azzurri, laureata in management dell’amministrazione pubblica, Frau Jakob è una orientatrice del centro per l’impiego di Friedrichshain-Kreuzberg, il distretto più popoloso della capitale tedesca. È insomma una di quelle persone - in Germania sono 25mila, guadagnano tra i 1.700 e i 2.200 euro netti al mese e devono avere almeno una laurea triennale; in Italia non esistono dati ufficiali ma sono molti meno e lo stipendio va da 1.200 a 1.500 euro - che si dedica a rimettere in carreggiata i disoccupati.

«I nostri iscritti sono 38 mila: noi siamo 700 impiegati, tra cui 250 orientatori», spiega Jakob. A Petilia Policastro, tanto per fare un esempio, gli utenti sono 25 mila. La differenza è che i dipendenti sono solo sei e fra questi non c’è nemmeno un orientatore. Risultato? Il patto di servizio, quello che prevede la condizionalità, oggi lo firmano anche i disoccupati italiani. Il problema è che poi da noi quasi nessuno lo fa rispettare.

Per capire perché bisogna scendere dalla Sila e puntare verso il Mar Tirreno. Vibo Valentia è il capoluogo di un’altra provincia italiana con tassi di disoccupazione da record. Quando arriviamo al centro per l’impiego, la sala d’attesa è piena. Sono quasi tutti precari della scuola. Lavorano da settembre a giugno, poi campano con il sussidio fino all’inizio del nuovo anno.

DIPENDENTI SENZA STIPENDIO DA 4 MESI

«Ieri ero qui, a un certo punto Internet si è bloccato e ci hanno chiesto di tornare oggi», dice con un sorriso desolato Giuseppe Fiumara, 40 anni, che da oltre un decennio fa il maestro d’italiano precario nelle elementari del Nord. «Nelle private non voglio andare e altri lavori non mi interessano: io voglio insegnare nelle scuole pubbliche», scandisce, «e spero prima o poi di essere stabilizzato». Non si capisce allora perché Giuseppe - come le altre migliaia di precari della scuola o del turismo - debba passare intere giornate al centro dell’impiego per firmare il patto di servizio. Perché con questo documento l’utente promette di attivarsi per trovare un lavoro. Ma se tutti sanno già che tra qualche mese tornerà in cattedra, perché intasare gli uffici per firmare accordi che nessuno farà rispettare?
Giuseppe Fiumara, insegnante precario...
Giuseppe Fiumara, insegnante precario delle primarie a Milano

Uno sforzo dannoso, oltreché inutile. Tanto più in un luogo come Vibo, dove per mancanza di soldi la situazione è imbarazzante. Linee telefoniche tagliate, collegamento internet a singhiozzo, computer antidiluviani. E dipendenti che non ricevono lo stipendio da quattro mesi.

«Siamo qui ad aiutare i disoccupati e ci lasciano senza paga: è una vergogna, io ho tre figli e il mio è l’unico reddito della famiglia», sbotta Giovanna Marasco, addetta all’accoglienza utenti.

Quello di Vibo Valentia è un caso limite. Una situazione causata dallo stato di dissesto finanziario della Provincia, governata per anni dal centro sinistra. Il punto è però un altro, e coinvolge tutto il sistema delle politiche attive. Chi le decide? Chi controlla il rispetto delle regole? La riforma costituzionale voluta da Renzi prevedeva, oltre all’abolizione definitiva delle Province, l’esclusione delle Regioni da queste decisioni, con la conseguenza che la materia sarebbe diventata di competenza esclusiva dello Stato. Anche per questo è stata creata l’Anpal , l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Visto che però la riforma è stata bocciata con il referendum, oggi le politiche attive sono in balia del caos. Le decisioni sono di competenza congiunta di Stato e Regioni, e i centri per l’impiego sono formalmente ancora sotto il controllo delle Province, di fatto però svuotate di competenze e quattrini.

«In pratica», riassume Romano Benini, direttore del Master universitario in politiche del lavoro alla Link University di Roma, «i dipendenti dei centri per l’impiego non sanno chi li comanda, ogni Regione fa come le pare e nessuna istituzione investe sugli orientatori, figure essenziali per lo sviluppo delle politiche attive». Lo dimostra quanto sta succedendo a Roma. «Qui da noi», racconta sotto anonimato un orientatore della capitale, «la sproporzione fra dipendenti e utenti è talmente grande che non facciamo rispettare la legge. Tutti quelli che percepiscono una forma di sostegno al reddito dovrebbero essere contattati da noi per dei colloqui, oltre che per eventuali corsi formativi, e nel caso non si presentino dovremmo segnalarli all’Inps per fargli tagliare il sussidio. Ma questo non avviene quasi mai perché siamo sommersi dal lavoro burocratico, e io sinceramente sto iniziando a guardarmi in giro per cambiare posto».

QUESTIONE DI SOLDI

I numeri parlano ancora più chiaro. Germania e Italia investono più o meno le stesse cifre per pagare sussidi ai disoccupati (politiche passive) e incentivi per le nuove assunzioni (politiche attive). La differenza sta nella spesa per i cosiddetti “servizi per il lavoro” , cioè il denaro usato per pagare gli orientatori. Qui i tedeschi investono quasi quindici volte più degli italiani.

E i risultati danno ragione a Berlino.

Per fortuna non tutta l’Italia è messa male. Alla periferia est di Milano, zona Giambellino, c’è la sede centrale di uno dei centri per l’impiego più virtuosi. Si chiama Afol Metropolitana e vanta numeri da record: il 23 per cento degli utenti riesce a trovare un nuovo impiego, mentre la media nazionale è ferma all’1,5 per cento. Al primo piano troviamo una decina di operatori impegnati a far firmare patti di servizio. Al secondo piano c’è l’incarnazione di ciò che dovrebbero essere le politiche attive.

Pina e Ilir, entrambi classe ’54, stanno dialogando seduti a una scrivania. Lei è un’orientatrice, lui un ingegnere italo-albanese rimasto senza lavoro. Progettava macchine per l’imballaggio di prodotti alimentari. Due anni e mezzo fa la sua azienda ha chiuso e a lui non è rimasto che il sussidio. Grazie all’aiuto del centro per l’impiego milanese, però, Ilir non ha perso le speranze.

L’Afol gli ha offerto due corsi d’inglese e diversi colloqui individuali. Incontri in cui Ilir è stato aiutato a riscrivere il curriculum, a preparare una lettera motivazionale, a valorizzare le sue esperienze da progettista ma anche quelle da mediatore culturale. «Questo signore ha fatto per anni volontariato aiutando gli stranieri appena arrivati in Italia, e ha sviluppato così capacità che in questo momento sono richieste dal mercato. Ecco, io l’ho aiutato a capire meglio le sue potenzialità, gli ho dato qualche consiglio pratico, poi il resto ovviamente spetterà a lui», dice la dipendente pubblica.

Se a Milano le cose funzionano meglio che in Calabria (e in tante altre zone d’Italia), il merito non è soltanto dei milanesi. Giuseppe Zingale, calabrese trasferitosi al Nord e diventato direttore generale di Afol Metropolitana, spiega che la particolarità di questo centro è la sua natura ibrida: «Pur essendo una struttura pubblica, ci collochiamo in un regime concorrenziale con gli operatori privati, e la partecipazione ai bandi regionali, nazionali ed europei ci consente di reperire risorse utili ad ampliare l’offerta di servizi per i cittadini in difficoltà occupazionale». Conseguenze: a Milano ci sono più orientatori rispetto al resto d’Italia e la condizionalità si applica davvero.

Se quella di Zingale e colleghi punta a diventare la normalità, qualcuno dovrà intervenire al più presto. Il fallimento della riforma costituzionale ha però mantenuto invariato il potere degli enti locali, evitando la creazione di un’unica regia sulle politiche del lavoro. Giuliano Poletti, ministro competente in materia, finora non è riuscito a mettersi d’accordo con le Regioni, che combattono contro il governo centrale per gestire autonomamente i soldi destinati alle politiche attive. Un contrasto che finora ha impedito l’assunzione di 1.000 nuovi dipendenti dei centri per l’impiego, decisione annunciata per la prima volta quasi cinque mesi fa e non ancora realizzata.

GENTILONI PRONTO AL COLPO DI MANO

Secondo una fonte che sta seguendo da vicino la vicenda, il premier Paolo Gentiloni potrebbe decidere di farsi carico direttamente del problema, proponendo alle Regioni un compromesso del genere: a voi la gestione finanziaria, a noi quella sulle politiche attive.

Uno scambio finalizzato a sbloccare la paralisi, ma che potrebbe portare qualche governatore a impugnare la decisione davanti alla Corte Costituzionale.

Di certo per tradurre in pratica una riforma che finora è rimasta solo sulla carta serve soprattutto una cosa: i soldi. Quelli necessari per assumere orientatori, a partire dai 2.500 precari che si trovano in una situazione paradossale. «Dobbiamo aiutare le persone a trovare un lavoro, ma abbiamo paura che l’anno prossimo il lavoro non ce l’avremo nemmeno noi», spiega Alessandra Neri, precaria del centro per l’impiego di Reggio Calabria.

È però solo grazie a queste persone, e all’applicazione della condizionalità, che le politiche attive possono trasformarsi in qualcosa di utile per ridurre il problema della disoccupazione. Lo dimostra il caso della Germania. Un successo che nasconde una trappola politica. Da quando hanno varato le riforme, i socialdemocratici tedeschi non hanno più governato. Che sia questo il vero freno a una svolta sulle politiche del lavoro in Italia?
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Re: Poartà/povartà e mexeria venete

Messaggioda Berto » gio nov 30, 2017 7:11 pm

Meno nascite… Ma perché? | Contropiano
di Claudio Conti

http://contropiano.org/altro/2017/11/28 ... che-098219

La benemerita Istat ha rilasciato il suo ennesimo report sull’andamento (negativo) della popolazione italiana. Da istituto statistico dà i numeri ma si guarda bene – specie dopo la successione di presidenti proni al potere politico degli ultimi anni – dal fornire spiegazioni che aiutino a far luce sulle cause.

E dunque partiamo dai numeri e vediamo di avanzare delle (robuste) ipotesi.

“Nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12 mila in meno rispetto al 2015. Nell’arco di 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità”. Si tratta di un calo di quasi il 20% in un arco di tempo brevissimo. Per trovare andamenti così veloci bisogna probabilmente andare a vedere gli anni di guerra, quando milioni di uomini partivano “per il fronte” e una buona percentuale, poi, non tornava.

L’Istat, rilievi anagrafici alla mano – nota che “Il calo è attribuibile principalmente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono a 373.075 nel 2016 (oltre 107 mila in meno in questo arco temporale). Ciò avviene fondamentalmente per due fattori: le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad avere figli”.

E qui la mano dell’ideologo estensore del report si sovrappone all’ottimo e duro lavoro dei ricercatori. Viene infatti abbozzata obliquamente una possibile “causa”: la “colpa” delle donne italiane in età fertile che sarebbero “poco propense” a fare figli.

La causa sarebbe dunque “culturale”, risiederebbe nella mentalità e nei costumi correnti. Vedremo dopo quanto falsa sia questa “ipotesi comportamentale”.

“La diminuzione delle nascite registrata dal 2008 è da attribuire interamente al calo dei nati all’interno del matrimonio: nel 2016 sono solo 331.681 (oltre 132 mila in meno in soli 8 anni). Questa importante diminuzione è in parte dovuta al contemporaneo forte calo dei matrimoni, che hanno toccato il minimo nel 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (57 mila in meno rispetto al 2008)”. Ci si sposa meno e, anche quando lo si fa, si fanno pochi figli. Il perché resta nell’aria, ancora accostato ai “comportamenti” umani, come se questi fossero slegati da qualsiasi causa materiale.

“Le donne italiane hanno in media 1,26 figli (1,34 nel 2010), le cittadine straniere residenti 1,97 (2,43 nel 2010)”. I numeri sono quelli, indubbiamente, ma accostarli in questo modo crea legami di significato e addirittura “prescrittivi” assai poco innocenti. Le donne straniere fanno più figli e questo dipende probabilmente anche da fattori “culturali”, nel senso che provengono in maggior parte da paesi in cui fare molti figli è un’assicurazione sulla possibilità che qualcuno resti vivo e perpetui la discendenza. Se le donne italiane non fanno altrettanto, però, non può dipendere solo dalla “cultura moderna”…

L’estensore del report ci prova comunque: “L’effetto della modificazione della struttura per età della popolazione femminile è responsabile per quasi i tre quarti della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016. La restante quota dipende invece dalla diminuzione della propensione ad avere figli.” Apprendiamo ancora una volta che l’invecchiamento della popolazione è – per tre quarti! – talmente avanzato che il numero di donne in età riproduttiva è molto più limitato di prima. Ma ancora una volta spunta la “propensione”. Sembra si sentire nelle orecchio un eco degli spot voluti a suo tempo dalla Lorenzin…

E allora proviamo noi ad avanzare qualche ragione decisamente più concreta.

La stessa Istat, infatti, ci informa regolarmente che un numero velocemente crescente di giovani cittadini italiani lascia questo paese. Siamo arrivati al punto che il flusso migratorio italiano verso altri paesi ha superato quello in ingresso, fatto di richiedenti asilo, profughi e “migranti economici”. I nostri emigranti, insomma, sono tutti “economici”.

Questa caratteristica, se fosse riconosciuta dall’anonimo estensore del report, dovrebbe suggerire che le cause della bassa natalità sono da ricercare proprio della sfera economica. La precarietà contrattuale che perseguita soprattutto i giovani (ma sempre più anche gli “anziani”) sconsiglia in genere di metter su famiglia e in primo luogo di generare figli, che vanno cresciuti, vestiti, nutriti, scolarizzati, curati, ecc. I bassi salari connessi alla condizione precaria aggravano il probleMeno nascite… Ma perché?ma, come sa chiunque conosca il prezzo dei pannolini…

Ma cominciano ad esserci anche cause endocrinologiche in molte parti del paese. La fertilità maschile si va riducendo, e sono sempre più numerosi i casi di “giovani adulti” con carenze nella produzione di spermatozoi in salute (attivi, regolari, in quanitità sufficiente, ecc).

Contemporanemente, sempre più donne in età fertile riscontrano problemi di endometriosi.

Unendo i due fenomeni negativi si vede facilmente che si moltiplicano i casi di coppie giovani con problemi riproduttivi serissimi (a uno o entrambi i partner).

Ne consegue che una o due generazioni, già ridotte di numero rispetto alle precedenti, sottoposte alla falcidia dell’emigrazione, dei bassi redditi e delle difficoltà riproduttive, non possono far altro che “produrre” un minore numero di figli.

Forse è il caso di spiegarlo all’anonimo ideologo incaricato di “abbellire” moralisticamente i report dell’Istat. Ci sembra infatti che abbia una “propensione” a scambiare gli effetti per cause. E questo nuoce gravemente alla reputazione di una delle poche “eccellenze italiane” ancora in vita.





Giovani, i nuovi poveri in Italia
Francesca Devescovi

http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/201 ... 6_ueoyJba0

I giovani sono i più colpiti dalla povertà. A dirlo è il recente Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana che restituisce una fotografia preoccupante del nostro Paese: la povertà infatti è un fenomeno più pervasivo e diffuso rispetto agli scorsi anni. Inoltre, come si diceva, il dato allarmante è che le persone più penalizzate non sono solo gli anziani, i pensionati, come nel passato, ma i giovani. E mentre in Europa la povertà giovanile è in declino, in Italia è in aumento (dal 2010 al 2015 si riscontra un incremento del 12,9%).

Nel 2015 (ultimo anno disponibile per questo tipo di dato fornito dall’Eurostat) spicca la presenza di oltre 117 milioni di europei a rischio di povertà (23,3% della popolazione complessiva legalmente presente nell’UE a 27 paesi, al primo gennaio 2016). In Italia, il numero totale di persone nello stesso tipo di condizione è di 17 milioni 469mila (28,8% della popolazione), di questo esercito quasi 2 milioni sono giovani.

Solitamente erano gli anziani, i nuclei con disoccupati e le famiglie numerose ad essere povere ma oggi la Caritas rileva una tendenza inversa proprio all’età: più si abbassa l’età, più aumenta la povertà. Sono i giovani (under 34) a vivere la situazione più critica e più allarmante di quella vissuta un decennio fa dagli ultra-sessantacinquenni. La crisi economica ha colpito tutti ma sono stati i giovani ad essere più penalizzati: oggi i nipoti sono più insicuri e poveri rispetto ai loro nonni e anche i figli lo sono rispetto ai propri genitori. Anche in prospettiva i figli finiranno la loro vita più poveri dei loro padri.

Questa nuova povertà dei giovani pesa di più rispetto a quella degli anziani perché ha maglie più larghe e colpisce un intero ecosistema. Un giovane povero è un giovane che non investe nell’educazione, che non può permettersi uno sport, che non va in vacanza. E’ un giovane che ha scarse possibilità di trovare un lavoro, uscire dalla propria casa di origine e fare famiglia. E’ quello che a livello europeo viene chiamato il fenomeno dei NEET, giovani privi di lavoro e fuori dal circuito educativo: l’Ocse stima che uno su tre vive ai margini della società.

I giovani che lavorano hanno anche un salario più basso rispetto a quello delle generazioni precedenti e anche questo fattore contribuisce ad una penalizzazione nei progetti di vita che oggi sono incerti e con tappe più diradate nel tempo rispetto al passato. La profonda recessione e il lento recupero dopo la crisi finanziaria del 2008 sono le cause primarie di questo fenomeno ma anche i cambiamenti del mercato del lavoro, il calo demografico che sta portando all’invecchiamento della popolazione e la riduzione del nucleo familiare. Questo circolo vizioso vale a livello globale ma l’Italia è uno dei Paesi più colpiti perché in altri Stati, come ad esempio la Svezia, sono state introdotte delle misure specifiche per incoraggiare i giovani allo studio e incrementare opportunità di lavoro di qualità e con salari equi.

L’impatto della povertà giovanile è quindi molto più ampio e il divario intergenerazionale in termini socio-economici penalizza i giovani nel nostro Paese a favore delle persone più anziane, meglio retribuite e con maggiori livelli di protezione sociale. Lo hanno capito anche gli stranieri: non solo i flussi migratori verso il nostro paese stanno diminuendo ma sono tanti gli stranieri che decidono di lasciare il nostro Paese, nel 2015 sono stati 44.000, il triplo rispetto a nove anni prima. Non solo gli stranieri ma anche i giovani che emigrano: nel 2016 73.000 giovani diplomati e laureati hanno abbandonano l’Italia ritenendolo un Paese per vecchi che perde il capitale umano più importante, quello dei giovani.

L’Italia si trova quindi di fronte ad una situazione drammatica: ha tanti anziani da proteggere e pochi giovani sui cui puntare. E i primi sono sempre al centro del dibattito politico e ben rappresentati invece i secondi versano nell’indifferenza più generale.




Mostruosità italiane o italiche
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Re: Poartà/povartà e mexeria venete

Messaggioda Berto » sab dic 02, 2017 9:21 am

L'Italia percepita vale più di quella reale. Cosa c'è nel rapporto Censis
2017/12/01

http://www.ilfoglio.it/societa/2017/12/ ... ale-166710

C'è un'Italia che si rialza, cresce, riprende a correre dopo gli anni della crisi. E poi c'è l'Italia del malumore, che continua ad avvitarsi su se stessa. Un'Italia reale e una percepita. Peccato che il percepito abbia ormai superato la realtà. A dirlo è il rapporto Censis 2017 presentato questa mattina.

“Manifatturiero, filiere italiane nelle catene globali del valore e turismo da record sono i baricentri della ripresa - si legge nel comunicato diffuso dall'Istituto -. Attraverso i consumi torna il primato dello stile di vita: ora gli italiani cercano un benessere soggettivo nella felicità quotidiana”. Purtroppo prosegue, “l'immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una volta e non c'è un'agenda sociale condivisa. Ecco perché risentimento e nostalgia condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro”. Insomma, per dirla con le parole del Censis, “la ripresa c'è e l'industria va, ma cresce l'Italia del rancore”.

Industria e export. Ovviamente non si tratta di un'analisi astratta. A sostegno di questa lettura della società italiana del 2017 ci sono anzitutto i dati. Nel comparto industria, ad esempio, l'unica voce negativa è quella relativa agli investimenti pubblici, scesi del 32,5 per cento in termini reali nell'ultimo anno. A questo fanno da contraltare l'incremento della produzione industriale (+4,1 per cento nel terzo trimestre), ma anche la quota dell'Italia sull'export manifatturiero del mondo che è arrivata al 3,4 per cento con numeri record nei materiali da costruzione in terracotta (23,5 per cento), nel cuoio lavorato (13,2 per cento), nei prodotti da forno (12,2 per cento), nelle calzature (8,1 per cento), nei mobili (6,8 per cento), nei macchinari (6,4 per cento). Aumentano, allo stesso tempo, anche le aziende esportatrici che nel 2016 sono 215.708, circa 10 mila in più rispetto al 2007.

I consumi delle famiglie E ancora, tra il 2013 e il 2016 la spesa per i consumi delle famiglie è cresciuta complessivamente di 42,4 miliardi di euro (+4 per cento in termini reali nei tre anni). Nell'ultimo anno gli italiani hanno speso 80 miliardi di euro per la ristorazione (+5 per cento nel biennio 2014-2016), 29 miliardi per la cultura e il tempo libero (+3,8 per cento), 25,1 miliardi per la cura e il benessere soggettivo (parrucchieri 11,3 miliardi, prodotti cosmetici 11,2 miliardi, trattamenti di bellezza 2,5 miliardi), 25 miliardi per alberghi (+7,2 per cento), 6,4 miliardi per pacchetti vacanze (+10,2 per cento). E tutto questo può essere sintetizzato in un numero: il 78,2 per cento degli italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce.

Positivo è anche il confronto con altri paesi europei. Negli ultimi dieci anni le famiglie italiane hanno destinato ai servizi culturali e ricreativi una spesa crescente: +12,5 per cento nel periodo 2007-2016, contro il -9,6 per cento nel Regno Unito, -8,1 per cento in Germania, -7 per cento in Spagna. Solo in Francia si è registrato un +7,7 per cento che resta comunque distante dal dato italiano.

Ottima anche la performance del turismo: nel 2016 gli arrivi complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni (i visitatori stranieri sono stati il 49 per cento del totale). Rispetto al 2008 l'incremento degli arrivi è stato del 22,4 per cento e dei pernottamenti del 7,8 per cento. Insomma, anche se pensiamo il contrario, il nostro paese resta ancora attrattiva per i turisti.

L'Italia del rancore. Ciò nonostante le note negative non mancano. “Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica - sottolinea il Censis - e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Ecco quindi che l'87,3 per cento degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, esattamente come l'83,5 per cento del ceto medio e il 71,4 per cento di quello benestante. “La paura del declassamento - si legge nel rapporto - è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l'87,3 per cento di loro pensa che sia molto difficile l'ascesa sociale e il 69,3 per cento che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso”.

Il risultato di questo “malessere” è ovviamente una modifica, profonda, del nostro immaginario collettivo che “ha perso forza propulsiva”. Al primo posto ci sono i social network (32,7 per cento), seguiti dal “posto fisso” (29,9 per cento), dallo smartphone (26,9 per cento), dalla cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1 per cento) e dal selfie (21,6 per cento), prima della casa di proprietà (17,9 per cento) e del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9 per cento).

Resta altissima, in questo quadro, la sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni. L'84 per cento degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78 per cento nel governo, il 76 per cento nel Parlamento, il 70 per cento nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60 per cento è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro paese, il 64 per cento è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75 per centro giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. E poco importa che l'economia abbia ripreso a crescere.



Rapporto Censis, l'Italia cresce ma blocco della mobilità sociale crea rancore. Oltre 1,6 milioni di famiglie in povertà assoluta
1 dicembre 2017

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... ta/4012875

Secondo l'istituto di ricerca non si è "distribuito il dividendo sociale della ripresa economica" e "la paura del declassamento" diventa "il nuovo fantasma sociale". Gli immigrati? "Quasi tutti operai, segregazione professionale. Manca una visione strategica". Totale sfiducia verso politica e istituzioni. Intanto calano i reati e un italiano su due acquista in nero

Nonostante la ripresa ci sia, cresce l’Italia del rancore e 1,6 milioni di famiglie vivono in condizioni di povertà assoluta. È la fotografia scattata dal Censis e riassunta nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’analisi dell’istituto di ricerca evidenzia la persistenza di “trascinamenti inerziali da maneggiare con cura: il rimpicciolimento demografico del Paese, la povertà del capitale umano immigrato, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio”. In sintesi: “Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Così “la paura del declassamento” diventa “il nuovo fantasma sociale”.

LA SCALA SOCIALE? DIFFICILE SALIRE
Quasi 9 italiani su dieci appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, così come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Il percorso contrario, invece è ritenuto possibile dal 71,5% del ceto popolare, il 65,4 per cento del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. I dati sono simili tra i giovani: l’87,3 per cento dei Millenials ritiene infatti che sia “molto difficile” l’ascesa sociale, mentre lo scivolamento è uno scenario ritenuto probabile dal 69,3 per cento dei giovani.

POVERTA’ ASSOLUTA
In basso, molto in basso, ci sono già oltre 1,6 milioni le famiglie. Tante nel 2016 erano in condizioni di povertà assoluta, con un boom del +96,7% rispetto al periodo pre-crisi. Gli individui in povertà assoluta sono 4,7 milioni, con un incremento del 165 per cento rispetto al 2007. Il numero dei poveri è raddoppiato al Sud ed è aumentato del 126 per cento nel Centro Italia. Secondo il rapporto, il boom della povertà assoluta rinvia a una molteplicità di ragioni, ma in primo luogo alle difficoltà occupazionali, visto che tra le persone in cerca di lavoro coloro che sono in povertà assoluta sono pari al 23,2 per cento. I dati mostrano un altro trend il cui potenziale sviluppo può avere gravi implicazioni nel futuro: l’etnicizzazione della povertà assoluta. Nel 2016 il 25,7% delle famiglie straniere era in quelle condizioni di povertà assoluta contro il 4,4% delle famiglie italiane, mentre nel 2013 erano rispettivamente il 23,8% e il 5,1%. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59 per cento degli italiani, con una percentuale che sale quando si scende nella scala sociale: la paura dello straniero colpisce infatti poco più del 70 per cento di casalinghe e disoccupati e il 63 per cento degli operai.

LA CLASSE OPERAIA NON PARLA ITALIANO
Sempre in tema di immigrazione, il Censis afferma che la classe operaia non parla più italiano. L’88,5 per cento dei dipendenti stranieri (circa 1,8 milioni di persone) fa l’operaio, mentre tra gli italiani la quota è del 41 per cento. Tra gli stranieri occupati solo il 9,9% lavora come impiegato, contro il 48% degli italiani. La “segregazione professionale”, che costringe gli stranieri in profili prettamente esecutivi, osserva il Censis, emerge anche dal dato sui quadri stranieri, che sono appena 11.618 e rappresentano lo 0,6% del totale dei lavoratori. Una percentuale che scende ancora per i dirigenti: 9.556 contro i 391.585 italiani. “Manca una visione strategica che, al di là dell’emergenza e della prima accoglienza, valuti nel medio-lungo periodo il tema della povertà dei livelli di formazione e di competenze del capitale umano che attraiamo”, dice il rapporto. Ad esempio solo l’11,8% degli immigrati che arrivano in Italia è laureato, contro una media europea del 28,5%.

LAVORO E DONNE – Secondo il Censis, negli ultimi mesi, è anche migliorata la condizione occupazionale delle donne: “Tra il primo semestre 2016 e il primo semestre 2017 il successo nella ricerca di un lavoro ha premiato 133mila donne, con un incremento dell’1,4% delle donne occupate a fine periodo. Il tasso di occupazione sale di quasi un punto, due decimali in più rispetto all’aumento del tasso di occupazione maschile”. Se “nel 1977 il divario tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile era pari a 41,4 punti percentuali”, rileva il Rapporto, nel primo semestre di quest’anno “ci consegna un’immagine ancora non positiva, poiché i punti del divario si sono ridotti notevolmente, ma la distanza da colmare è ancora di ben 18 punti”.

SFIDUCIA NELLA POLITICA
Si confermano pesanti i dati sulla sfiducia verso la politica e le istituzioni: “L’onda di sfiducia – si legge nel Rapporto – che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno”. L’84 per cento degli italiani non crede nei partiti politici, il 78% nel governo e il 76% nel Parlamento. Non se la passano bene anche Regioni e Comuni, viste di cattivo occhio da 7 persone su 10. Il problema principale riguarda la fornitura dei servizi pubblici, giudicata negativamente da tre italiani su quattro: il 52,1 per cento crede che la Pubblica amministrazione abbia “problemi importanti nel suo funzionamento” e il 18 per cento lo ritiene “pessimo”. Mentre il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla. “Non sorprende – scrive il Censis – che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo“. Il “rigetto del ceto dirigente” è chiaro nell'”astioso impoverimento del linguaggio” che evidenzia anche “la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica“.
video di Angela Gennaro

OLTRE 2 MILIONI DI REATI
Nel 2016 i reati denunciati in Italia sono stati 2.487.389, l’8,2% in meno rispetto al 2008. In cima alla graduatoria per numero di reati denunciati si trovano Milano con 237.365 reati (ma in diminuzione del 15,5% rispetto al 2008) e Roma con circa 10mila in meno (in diminuzione del 3,3% nel periodo considerato). Torino si ferma a 136.384 (-11,7%), mentre a Napoli ne vengono denunciati poco più di 136mila, in calo del -4 per cento. Se si considera il «peso» della criminalità sul territorio, cioè l’incidenza dei reati sulla popolazione, al primo posto rimane Milano con 7,4 reati ogni 100 abitanti, seguita da Rimini (7,2), Bologna (6,6) e Torino (6). In particolare, diminuiscono omicidi, rapine e furti, ma crescono i borseggi, i furti in abitazione, le truffe tradizionali e sul web.

VACCINI E SISTEMA SANITARIO
Il Rapporto contiene anche i dati legati a vaccini e fiducia nel Sistema sanitario nazionale. Nel 2016, dice il Censis, l’incremento della copertura antinfluenzale ha subito un rallentamento tra gli adulti passando dal 19,6% del 2009-2010 al 15,1% del 2016-2017, tra i bambini l’antipolio passa dal 96,6% del 2000 al 93,3% del 2016, quella per l’epatite B scende dal 94,1% al 93%. Riguardo alle disfunzioni del sistema sanitario, il Rapporto pone l’accento sulle liste di attesa: nel 2014-2017 si rilevano +60 giorni di attesa per una mammografia, +8 giorni per visite cardiologiche, +6 giorni per una colonscopia e stesso incremento per una risonanza magnetica. “Un’altra disfunzione in evidente peggioramento – osserva il Censis – è la territorialità della qualità dell’offerta”. Circa il 64 per cento dei cittadini è soddisfatto del servizio sanitario della propria regione, quota che scende però al 46,6% nel Sud. Durante l’ultimo anno il servizio sanitario della propria regione è peggiorato secondo il 30,5% degli italiani, con una quota che sale nel Sud al 38,1 per cento.

ACQUISTI IN NERO
Circa un italiano su due ha acquistato in nero un servizio o un prodotto nel 2016: sono infatti 28,5 milioni le persone che dichiarano di aver comprato almeno una volta senza scontrino o fattura. La maggior parte dei pagamenti in nero avviene con idraulici, elettricisti, imbianchini o altri artigiani (35,6%), seguiti da 22,1% di professionisti e strutture sanitarie. Il 20,3 per cento ha invece consumato in nero in bar o pizzerie, il 19,1% presso ristoranti, trattorie o enoteche.



Censis, la ripresa corre ma lascia indietro i giovani, l'ex ceto medio e il Mezzogiorno
di ROSARIA AMATO

http://www.repubblica.it/economia/2017/ ... ews/censis
_un_italia_sempre_piu_frammentata_che_si_aggrappa_ancora_al_mito_del_posto_fisso-182542861

ROMA - L'Italia si risolleva: corre la produzione industriale, con performance che superano anche quella tedesca, volano gli investimenti, almeno quelli privati. E così nel Rapporto Censis 2017 tornano finalmente i consumi, cresciuti del 4% negli ultimi tre anni, e soprattutto il piacere di consumare: si spende di nuovo in cultura, parrucchieri, prodotti cosmetici e trattamenti di bellezza, pacchetti vacanze (il 10,2% in più nel biennio 2014-2016. "Torna il primato del benessere soggettivo": una svolta positiva, ma non del tutto. Si accentua sempre di più il divario tra chi ha compiuto finalmente il balzo in avanti, liberandosi dalle strettoie della crisi, e una maggioranza rabbiosa che è rimasta indietro. "Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore".

E' il primo rapporto senza Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, ideatore e relatore del Rapporto Annuale per 50 anni. Questa cinquantunesima edizione segna l'esordio di Giorgio De Rita, figlio di Giuseppe, segretario generale, che nel suo intervento ha sottolineato l'incapacità del Paese di "immaginare il futuro", un rischio e un limite, che ci riporta a "un futuro appiccicato al presente", in cui resistono pochi miti vecchi, tra i quali svetta quello del posto fisso, e svettano pochi miti nuovi, i social network, che però non riescono a creare un nuovo progetto di società. Più che di fronte a un ciclo nuovo, dunque, siamo di fronte all'esaurirsi di un ciclo vecchio, in cui la rabbia sociale non si tramuta ancora in una frattura che dà anche il via all'inizio di qualcosa di diverso.

Un Paese senza giovani. Il più forte squilibrio di questa ripresa ineguale, denuncia il direttore generale del Censis Massimiliano Valerii, è il "degiovanimento" del Paese: "La riduzione del peso demografico dei giovani è una miccia accesa che sta per accendersi in futuro. Nel momento in cui si inverte quella che non ha più senso chiamare piramide demografica si crea un grave problema per il Paese. Oggi i Millennials tra i 18 e i 34 anni sono 11 milioni rispetto a 50 miloni di elettori, e quindi l’offerta politica non li guarda con sufficiente attenzione, si parla molto di più di pensioni che di disoccupazione giovanile. Il problema dei giovani in Italia è che non contano perché sono pochi".

Ascensore sociale sempre più fermo. Unaparte enorme della popolazione italiana guarda con invidia un ascensore sociale irrimediabilmente rotto: l'87,3% degli appartenenti al cento popolare pensa che sia difficile risalire nella scala sociale, una posizione condivisa dall'87,3% del ceto medio e persino dal 71,4% del ceto benestante. Tutti invece pensano che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti.

Record di immigrati con basso titolo di studio. E in quest'Italia sempre meno coesa, che si guarda in cagnesco, bloccata dalla paura di perdere quel poco o quel molto che ha, cresce un'immigrazione che si candida ogni giorno di più alla marginalizzazione. Nel nostro Paese arrivano gli immigrati più poveri e meno qualificati: a fronte di un dato medio degli extracomunitari con istruzione terziaria in Europa pari al 28,5% (ma con punte del 50,6% nel Regno Unito e del 58,5% in Irlanda), da noi ci si ferma al 14,7%. Nel 2016 su 52.056 nuovi permessi rilasciati dalla Ue a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, appena 1.288 erano per l'Italia, a fronte di 11.675 per i Paesi Bassi.

Lavoro, scompaiono le figure intermedie. E siccome il lavoro in Italia si va sempre più "polarizzando" tra professioni intellettuali e impieghi non qualificati, è sempre più difficile attrarre immigrati perché si assottigliano posizioni mediane come quelle di operai, artigiani e impiegati. In cinque anni operai e artigiani diminuiscono anzi dell'11%, a fronte di una crescita dell'11,4% delle professioni intellettuali ma anche dell'11,9% delle professioni non qualificate. Vince la gig economy: nell'ultimo anno l'incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci, più 11,4%. Mentre si assottigliano in maniera preoccupante i professionisti: 10 punti persi in meno di dieci anni per gli under 40.

Crollo di iscritti ai sindacati confederali. La crisi del lavoro si traduce anche in una crisi dei sindacati tradizionali: tra il 2015 e il 2016 Cgil Cisl e Uil hanno subito una contrazione di 180 mila tessere. Su 11,8 milioni di iscritti alle tre sigle, 6,2 milioni sono costituiti da lavoratori attivi (+0,2%) e 5,2 milioni da pensionati (-3,9%). Secondo il Censis, si manifesta quindi "l'esigenza di una maggiore inclusione da parte dei soggetti di rappresentanza verso categorie e segmenti non tradizionalmente coperti dall'azione sindacale".

Pochi laureati, sempre più in fuga verso l'estero. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati, con il 26,2% della popolazione di 30-34 anni, una situazione aggravata dalla forte spinta verso l'estero, che assorbe una buona quota di giovani qualificati. Infatti nel 2016 i trasferimenti dei cittadini italiani sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010. Quasi il 50% dei laureati italiani si dice pronto a trasferirsi all'estero anche perché, calcola il Censis, la retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea si aggira intorno a 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali ma arriva a 2.200 euro all'estero.

E sempre meno giovani. Gli over 64 intanto hanno superato i 13,5 milioni, il 22,3% della popolazione, mentre le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. Si è ridotto anche l'apporto delle donne straniere, prezioso negli ultimi anni: nel 2010 il numero di nascite per le extracomunitarie era in media di 2,43, ma nel 2016 è sceso a 1,97, mentre per le italiane è di 1,26 figli per donna.

Il Sud abbandonato. La polarizzazione non è solo tra chi gode dei benefici della ripresa, e chi è rimasto indietro, ma anche tra un Nord Italia e una capitale sempre più attrattivi e un Sud che offre sempre meno e che si sta letteralmente desertificando. Tra il 2012 e il 2017 nell'area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9% e quelli dell'hinteland del 7,2%. A Milano l'incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. Si spopolano invece le grandi città del Sud, a cominciare da Napoli, Palermo e Catania, dove affonda anche il Pil. Ma va male anche alle città intermedie come Torino, Genova e Bari.

Nel vuoto di aspirazioni resiste il mito del "posto fisso". Attento da sempre all'"immaginario collettivo", inteso come "l'insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuale e i percorsi esistenziali di ciascuno", punto di partenza indispensabile per "definire un'agenda sociale condivisa", il Censis trova che ormai i vecchi miti appaiano stinti, ma i nuovi siano privi di forza aggregatrice. Infatti per gli under 30 al primo posto ci sono i social network. Per la media degli italiani resiste invece un mito vecchissimo, davvero duro a morire nonostante i colpi bassi delle leggi Fornero e del Jobs Act: il posto fisso, al primo posto per il 38,5%. E a sopresa, il posto fisso si piazza al secondo posto anche per la fascia più giovani, anche se è quasi a pari merito con lo smartphone.
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Re: Poartà/povartà e mexeria venete

Messaggioda Berto » ven dic 08, 2017 6:07 pm

Istat: 18 milioni persone a rischio povertà o esclusione sociale
6 dicembre 2017

http://www.affaritaliani.it/economia/is ... guaglianze

Il 30,0% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando nel 2016 un peggioramento rispetto all'anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Lo rileva l'Istat in un report sul reddito delle famiglie. Aumentano sia l'incidenza di individui a rischio di poverta' (20,6%, dal 19,9%) sia la quota di quanti vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1% da 11,5%), così come quella delle persone che vivono in famiglie a bassa intensita' lavorativa (12,8%, da 11,7%).
Istat: 18 milioni persone a rischio povertà o esclusione sociale - Mezzogiorno area più a rischio

Il Mezzogiorno resta l'area territoriale più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015). Il rischio è minore, sebbene in aumento, nel Nord-ovest (21,0% da 18,5%) e nel Nord-est (17,1% da 15,9%). Nel Centro un quarto della popolazione (25,1%) permane in tale condizione.
Istat: 18 milioni persone a rischio povertà o esclusione sociale - le famiglie con 5 componenti

Le famiglie con cinque o più componenti si confermano le più esposte al rischio di povertà o esclusione sociale (43,7% come nel 2015), ma è per quelle con uno o due componenti che questo indicatore peggiora (per le prime sale al 34,9% dal 31,6%, per le seconde al 25,2% dal 22,4%).
Istat: a 20% popolazione piu' povera va 6,3% reddito totale

Al 20% più povero della popolazione italiana va poco più del 6% del reddito totale. È quanto rivela l'Istat nel report 'Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie' riferito al 2016. Se si fa riferimento alla distribuzione dei redditi individuali equivalenti, senza la componente degli affitti figurativi, si nota che il 20% più povero della popolazione dispone soltanto del 6,3% delle risorse totali (nella situazione ipotetica di perfetta eguaglianza ogni quinto della popolazione disporrebbe di una quota di reddito pari al 20% del totale), mentre all'opposto il quinto piu' ricco possiede quasi il 40% del reddito totale (equivalente).
In altri termini, spiega l'Istat, il reddito totale dei piu' benestanti e' pari a 6,3 volte quello degli individui appartenenti al primo quinto. L'inclusione degli affitti figurativi riduce la distanza fra ricchi e poveri, portando i cittadini più ricchi a percepire nel complesso un reddito pari a 5,3 volte quello degli appartenenti al primo quinto.
Istat: in Italia metà famiglie vive con 2.016 euro al mese

Metà delle famiglie residenti in Italia vive con un reddito di 2.000 euro al mese. E' quanto si evince da un report dell'Istat. Quello medio, e' invece di 2.500 euro ossia 29.988 euro all'anno (+1,8% in termini nominali e +1,7% in termini di potere d'acquisto rispetto al 2014).
I redditi, spiega l'Istat, risentono del "sensibile incremento della fascia alta dei redditi da lavoro autonomo, in ripresa ciclica dopo diversi anni di flessione pronunciata". Quindi, "esclusi gli affitti figurativi, si stima che il rapporto tra il reddito equivalente totale del 20% più ricco e quello del 20% più povero sia aumentato da 5,8 a 6,3". Meta' delle famiglie residenti in Italia invece percepisce un reddito netto non superiore a 24.522 euro l'anno (circa 2.016 euro al mese: +1,4% rispetto al 2014). Il reddito mediano cresce nel Mezzogiorno in misura quasi doppia rispetto a quella registrata a livello nazionale (+2,8% rispetto al 2014), rimanendo pero' su un volume molto inferiore (20.557 euro, circa 1.713 mensili).
L'aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è 19,4%, in lieve calo rispetto al 2014 (-0,25 punti percentuali). Si riduce il carico fiscale sulle prime due classi di reddito (0-15.000, 15.000-25.000 euro) delle famiglie con principale percettore un lavoratore dipendente, per gli effetti della detrazione Irpef di 80 euro.
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Re: Poartà/povartà e mexeria venete

Messaggioda Berto » mer dic 13, 2017 9:50 pm

Eurostat: l'Italia è il paese che ha più poveri in Europa
di Tiziana Di Giovannandrea
12 dicembre 2017

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 420c1.html


I dati sono proprio sconfortanti. Secondo Eurostat l'Italia è il Paese che conta, in valori assoluti, più poveri in Europa. È quanto emerge dalle analisi dall'Ufficio Statitico dell'Unione Europea sul tasso di privazione sociale. Nel 2016 i poveri erano quasi 10,5 milioni. La classifica è stata redatta basandosi su una serie di indicatori che valutano le possibilità economiche e di situazione sociale delle persone.

Le spese prese in considerazione da Eurostat permettono di valutare quando si entra nella categoria di deprivazione materiale e sociale se non ci si può permettere almeno cinque delle spese sotto elencate:

• affrontare spese impreviste;

• una settimana di vacanza annuale fuori casa;

• evitare arretrati (in mutui, affitti, utenze e / o rate di acquisto a rate);

• permettersi un pasto con carne, pollo o pesce o equivalente vegetariano ogni secondo giorno;

• mantenere la propria casa adeguatamente calda;

• una macchina / furgone per uso personale;

• sostituire i mobili logori;

• sostituire i vestiti logori con alcuni nuovi;

• avere due paia di scarpe adeguate;

• spendere una piccola somma di denaro ogni settimana su se stesso ("paghetta");

• avere attività ricreative regolari;

• stare insieme con amici/famiglia per un drink pasto almeno 1 volta al mese;

• possedere una connessione Internet.

Anche secondo i dati resi noti dall'Istat sulle condizioni di vita degli italiani, nel 2016 si registra il record storico sia per le persone a rischio di povertà (20,6%) sia per quelle a rischio di povertà o esclusione sociale (30%).La stima delle famiglie a rischio povertà o esclusione sociale per il 2016 è infatti del 30% e qui ad essere registrato è un peggioramento rispetto all’anno precedente quando la percentuale era del 28,7.

Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali la povertà è un fenomeno complesso che dipende da vari fattori in quanto non deriva solo dalla mancanza di reddito ma anche dalle scarse probabilità di partecipare alla vita economica e sociale del Paese.

Secondo quanto riportato dall’Istat, il rischio di cadere nella condizione di povertà riguarda sia gli individui considerati singolarmente (e si passa dal 19,9% al 20,6%), sia coloro che vivono in famiglie con pochi mezzi (e qui si passa dall’11,5% al 12,1%), sia infine persone che vivono in nuclei a bassa intensità lavorativa. Le aree più esposte al fenomeno sono quelle meridionali ma anche il Centro del Paese non se la passa bene infatti un quarto dei residenti è a rischio povertà.

Per l'Unione Nazionale Consumatori: "Non solo i dati peggiorano rispetto al 2015, ma mai si era registrato un dato così negativo dall'inizio delle serie storiche, iniziate nel 2003" afferma Massimiliano Dona presidente dell'UNC. "Sono dati da Terzo Mondo, non degni di un Paese civile. Non si tratta solo di una priorità sociale e morale, ma anche economica. Fino a che il 30% degli italiani è rischio povertà o esclusione sociale è evidente che i consumi delle famiglie non potranno mai veramente decollare e si resterà intorno all'1 virgola" prosegue Dona. "I dati ci dicono che non basta varare il Rei (Reddito di inclusione sociale, ndr) cercando di tamponare l'emergenza. Bisogna evitare che le file dei poveri assoluti continuino ad ingrossarsi, risolvendo i problemi di chi, pur stando ora sopra la soglia di povertà assoluta o relativa, rischia di finire sotto perché non riesce a pagare le bollette o ad affrontare una spesa imprevista di 800 euro" conclude Dona.
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Re: Povertà e miseria nel Veneto, in Italia e in Europa

Messaggioda Berto » gio dic 14, 2017 7:16 am

I peggiori sono quelli che si servono degli ultimi o dei presunti ultimi per derubare e opprimere tutti gli altri
viewtopic.php?f=141&t=2706

Tra questi i peggiori sono quelli che utilizzano i falsi miti della fraternità italiana (ascoltasi l'obbrobrioso inno d'Italia e vedasi i primati dello stato italiano), poi vi sono quelli della fraternità e della cittadinanza mondiale (i cosidetti progressisti o democratici di sinistra, cattolici-comunisti-radicali).
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Re: Povertà e miseria nel Veneto, in Italia e in Europa

Messaggioda Berto » dom dic 24, 2017 7:00 pm

All'origine della nostra povertà:

LA NATURA CLASSISTA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
di GUGLIELMO PIOMBINI

https://www.miglioverde.eu/la-natura-cl ... e-italiana

In questo libro davvero meritevole di lettura, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi,lo studioso padovano Federico Cartelli disseziona con cura la nostra carta costituzionale, rilevando tutti i suoi caratteri illiberali, statalisti, accentratori. Le sue critiche trovano piena conferma nell’inarrestabile processo di espansione dello Stato avvenuto dal dopoguerra a oggi sotto l’egida di una Costituzione che non ha mai frenato l’aumento della tassazione, della spesa pubblica, del debito pubblico, della burocrazia, dell’alluvione legislativa.

A cosa dovrebbe servire, invece, una Costituzione?
A proteggere coloro che sono senza potere da coloro che esercitano il potere pubblico. Storicamente i ceti operosidella società (il “Terzo Stato”) hanno visto nelle costituzioni uno strumento per difendersi dalla spogliazione dei frutti del proprio lavoro da parte delle classi politico-burocratiche parassitarie. Infatti, come testimonia la storia dei regimi socialisti, quando l’esercizio del potere politico non conosce limiti legali, le nomenklature che controllano le leve fiscali e redistributive dello Stato possono procurarsi ogni genere di privilegio sfruttando in maniera illimitata i produttori di ricchezza.

L’esistenza di uno Stato, democratico o meno che sia, divide sempre la società in due grandi classi: quella dei pagatori di tasse che si guadagnano da vivere producendo beni e servizi richiesti dal mercato, e quella dei consumatori di tasse mantenuti dalle imposte. Nella regolazione dei rapporti fra questi due ceti sociali, come ha operato fino a oggi la Costituzione italiana?
Se escludiamo i primi decenni del “miracolo economico”, quando gli apparati fiscali e burocratici non avevano ancora avuto il tempo di ampliarsi e organizzarsi, la Costituzione ha di fatto ha sempre funzionato a vantaggio della classe che vive di trasferimenti statali, e a svantaggio della classe che opera nel settore privato dell’economia.
Questa tendenza ha avuto un’accelerazione negli ultimi decenni, durante i quali si è avuto un colossale travaso di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel 2001, ha quasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di una ventina d’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di campagne intimidatorie e denigratorie orchestrate dall’alto (“evasori”, “bottegai”, “parassiti”) a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi all’anno, oltre ai 500 miliardi che già pagavano!
Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Grazie dunque alla “Costituzione più bella del mondo” il peso fiscale complessivo sulle imprese ha raggiunto, nel corso degli anni, il 70 per cento degli utili: un livello di depredazione che non ha eguali al mondo.
Questo processo è stato favorito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la cui linea interpretativa sembra infatti congegnata apposta per favorire, sempre e comunque, gli interessi di coloro di coloro che vivono di spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni di incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate o degli stipendi dei dipendenti pubblici, ad esempio, seguono una linea che favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse.

Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

Nell’ordinamento italiano, quindi, non c’è nessuna previsione che possa anche solo rallentare la progressiva invadenza del settore pubblico a danno del settore privato. Le imposte, la spesa pubblica, il debito pubblico e la burocrazia possono solo aumentare, mai diminuire, mentre le misure di segno opposto rischiano sempre la bocciatura per incostituzionalità, dato che danneggerebbero questo o quel “diritto acquisito”. Vitalizi, pensioni retributive e stipendi degli statali sembrano dunque diventati variabili indipendenti dall’economia. Se anche il prodotto interno lordo italiano dovesse dimezzarsi, i ceti produttivi dovranno saldare questi impegni fino all’ultimo euro.
In questo modo l’Italia è diventata un inferno fiscale, uno stato di polizia tributaria nel quale fare attività d’impresa è diventato molto pericoloso. Aprire la partita IVA significa diventare un bersaglio dello Stato, che può saltarti addosso con tutto il suo apparato e un po’ alla volta portarti via la tranquillità personale, i risparmi, l’attività, la casa e nei casi più tragici anche la vita.

Sfogliando le pagine economiche dei quotidiani si possono trovare appaiate quasi ogni giorno due generi di notizie: da un lato nuovi privilegi, aumenti e benefit concessi a questa o quella categoria statale; dall’altra nuove tasse, multe, sanzioni e restrizioni imposte alle categorie private. Le pagine di cronaca riportano frequenti casi di sanzioni stratosferiche a imprenditori, professionisti, artigiani o commercianti per questioni formali della minima importanza, e numerosi casi di totale impunità per i dipendenti statali responsabili di mancanze gravissime o addirittura reati: pare che nemmeno chi venga scoperto commettere furti o rapine sul luogo di lavoro possa essere licenziato. Queste misure discriminatorie hanno determinato una situazione fortemente sbilanciata.

Fino a qualche decennio fa, invece, c’era un certo equilibrio tra le condizioni di impiego nel settore privato e nel settore pubblico. Soprattutto nelle regioni del nord il settore privato garantiva gli stipendi più elevati, tanto che, negli anni Sessanta, un operaio della Fiat guadagnava più di un impiegato pubblico. Oggi una situazione del genere è diventata impensabile. In Italia, come ricordava Oscar Giannino in una recente trasmissione radiofonica, la retribuzione lorda è mediamente di € 33.000 nel settore pubblico e di € 23.400 nel settore privato; in Francia è di € 35.000 nel pubblico e di € 34.000 nel privato; in Gran Bretagna è di € 34.000 nel pubblico e di € 38.000 nel privato. Anche per quanto riguarda le pensioni, in Italia quelle degli statali sono del 72 % più alte rispetto a quelle dei privati, malgrado la crescente esosità dei contributi previdenziali imposti a questi ultimi.

Solo in Italia esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Al vertice della casta statale si trovano circa un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit, e che si sono assicurate un flusso crescente di entrate personali per mezzo di metodi fiscali incivili e vessatori sanciti dalla legge a danno dei lavoratori non garantiti: solve et repete,accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, ecosì via.

Questa persecuzione fiscale delle attività private ha arricchito notevolmente le categorie che vivono di spesa pubblica, ma ha prodotto delle conseguenze rovinose sull’economia del suo complesso. Negli anni ’50 e ’60, quando le tasse erano basse e i controlli fiscali molto blandi, l’economia cresceva a due cifre e gli italiani sono passati dalla miseria al benessere; negli anni ’70 e ’80 le tasse e la spesa pubblica sono aumentate e la crescita è diminuita; negli anni ’90 e 2000 tasse e spese sono ulteriormente aumentate e la crescita si è arrestata; oggi l’imposizione fiscale e la spesa pubblica sono elevatissime, il paese è in recessione perenne e gli italiani si stanno impoverendo.
Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in pieno svolgimento, non ha alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Nella società italiana non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Anche dal punto di vista economico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Quando la tassazione supera un certo livello, l’equilibrio pacifico tra la classe dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse si rompe, e i ceti produttivi diventano le vittime sacrificali delle caste legate allo Stato. Oggi infatti viviamo in uno Stato classista che perseguita e depreda i lavoratori del settore privato, cioè gli unici che di fatto producono ricchezza e sopportano per intero il carico fiscale, per tutelare e mantenere legioni di statali improduttivi supertutelati, pensionati d’oro o baby, membri privilegiati della casta e altri sprechi colossali. Ma quando il numero dei consumatori di tasse diventa troppo alto rispetto a quello dei produttori, la società muore.

In definitiva, è difficile chiamare “Costituzione”, almeno nel senso classico del termine, una carta che tutela solo i membri dell’apparato statale a scapito del resto della popolazione. Fino ad oggi la Costituzione della Repubblica Italiana non è mai stata intesa dei politici, dei magistrati e dei giuristi come uno strumento di protezione della società civile dal potere, ma come base di partenza ideologica per la sua progressiva espansione. Tutto questo non dipende solo da un’interpretazione deformante del testo costituzionale, ma anche dai difetti genetici del dettato costituzionale, così nitidamente messi in luce da Federico Cartelli.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Povertà e miseria nel Veneto, in Italia e in Europa

Messaggioda Berto » mar apr 24, 2018 10:13 pm

Il piccolo Alfie ha vinto la sua battaglia per la vita. Per dieci ore ha respirato senza il ventilatore, sconfessando medici e giudici. Alle 16,30 ci sarà un nuovo verdetto
24/04/2018
Magdi Cristiano Allam

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 8990173348

Cari amici, il piccolo Alfie Evans ha vinto la sua battaglia contro la morte e la ferocia umana che l’avrebbe voluto uccidere tramite soffocamento. Si può credere o non credere nei miracoli, ma resta il fatto che il piccolo Alfie ha sconfitto la certezza scientifica dei medici e ha umiliato la credibilità giuridica della Corte Suprema della Gran Bretagna, sopravvivendo per dieci ore dopo l’esecuzione della condanna a morte inflittagli distaccandolo dal respiratore. Alfie, 23 mesi, colpito da una malattia neurodegenerativa non diagnosticata, ha sconvolto i medici continuando a respirare autonomamente per dieci ore, con il solo ausilio dei due giovani genitori, Tom e Kate, che gli hanno praticato la respirazione bocca a bocca. Dopo dieci ore i medici sono stati costretti a ridare l’ossigeno e a alimentare il piccolo Alfie.
“Ad Alfie è stato assicurato l'ossigeno e l'acqua! È sorprendente. Non importa cosa accadrà, ha già dimostrato che i medici si sbagliano", ha scritto su Facebook la mamma Kate. "Dicevano che stava soffrendo, invece non soffre anche senza respiratore. Gli stessi medici sono rimasti "esterrefatti", ha detto il papà Tom.
Così come è stato costretto a rivedere la sentenza di morte il giudice d'Appello dell'Alta Corte britannica, Anthony Hayden, che ha annunciato una nuova sentenza questo pomeriggio alle 16,30.

Cari amici, dobbiamo tributare un omaggio al Governo italiano che è stato esemplare. Ha concesso la cittadinanza italiana al piccolo Alfie. Ha chiesto il suo immediato trasferimento in Italia. Ha messo a disposizione un aereo attrezzato per il trasferimento. L’Ambasciata d’Italia in Gran Bretagna ha chiesto all'Alder Hey Children's Hospital di Liverpool di fermare l'estubazione, altrimenti i medici saranno denunciati per l'omicidio di un cittadino italiano.
Così come dobbiamo tributare un omaggio a Papa Francesco che si è straordinariamente prodigato per accogliere il piccolo Alfie presso il Bambino Gesù di Roma, che è uno dei migliori ospedali pediatrici al mondo. La Presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, si è personalmente recata con un medico anestesista all’Alder Hey Children’s Hospital subendo l’affronto di non essere stata ricevuta da nessun responsabile: “Sento tutta la mia impotenza. Sono qui e sono a disposizione qualsiasi cosa mi chiedano. L'ospedale sa che sono qui ma mi hanno detto che non mi vogliono ricevere”. La Enoc ha precisato: “Nessuno di noi vuole fare accanimento terapeutico ma un accompagnamento più sereno potrebbe essere fatto”. Qualora si riuscisse a trasferire Alfie nell’Ospedale Bambino Gesú, Alfie avrebbe la certezza di poter beneficiare dell’erogazione di ossigeno e alimentazione, verrebbe tracheostomizzato per evitargli i sondini invasivi con i quali respira e si nutre, e gli sarebbe praticata una Peg per la nutrizione artificiale.



Gino Quarelo
Mi fa piacere se questo bambino riuscisse a soprvvivere. Ma non sono per niente d'accordo che lo stato italiano usi le scarse risorse pubbliche, dei cittadini italiani, dei contribuenti italiani, per dare la cittadinanza e l'assistenza a questo bambino inglese. Le scarse risorse dei contribuenti italiani debbono essere impiegate per assistere i tanti disocupati, malati, poveri, vecchi, disabili e non nati di questo paese dannato che non può permettersi queste prodigalità nei confronti dei cittadini di altri paesi, specialmente se questi paesi sono di gran lunga più ricchi dell'Italia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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