Petroio, petrojo o ojo de pria

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Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:22 pm

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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:22 pm

???

Lei non conosce la storia del petrolio. Il primo ad essere estratto è stato nel Texas dove si è sviluppata la tecnologia dell'estrazione moderna e della sua raffinazione; poi in Russia. Nei paesi "arabi" vi era petrolio ma mancava la tecnologia per estrarlo e lavoralo e mancava la "civiltà industriale e urbana" per utilizzarlo, così gli arabi hanno chiamato gli americani con la loro professionalità, tecnologia e mercato e con loro hanno costituito le società petrolifere per estrarre, raffinare, stoccare e commerciare il petrolio e i soiu derivati. Senza l'occidente industrializzato, urbano e tecnicamente avanzato i paesi arabi non avrebbero ricavato alcunché dai loro giacimenti petroliferi; se hanno potuto ricavarne enormi ricchezze al punto che molti di loro vivono senza quasi lavorare è grazie all'occidente che con la sua scienza lo estrae e che con la sua "civiltà tecnologica" lo consuma.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:23 pm

I musulmani ci devono anche il valore del petrolio

http://islamicamentando.altervista.org/ ... -musulmani

La parola “petrolio” non compare in nessuna sura del Corano ed in nessun hadit della Sunna del Profeta.
Il petrolio era conosciuto da tempi remoti. Gli arabi lo consideravano una cosa da evitare perché sporca la sabbia e danneggia gli zoccoli dei cammelli.
Poi attorno al 1880 due signori di nome Nikolaus August Otto e Rudolf Diesel, di nazionalità tedesca e di cultura tanto occidentale che più occidentale non si può, inventarono il motore a combustione interna e dettero al petrolio un improvviso valore che mai aveva avuto prima.

Quindi, quando il “musulmano medio” parla del petrolio come di una cosa oggetto di ingiusta depredazione da parte dell’Occidente si dimentica, per ignoranza o malafede, che il mondo arabo deve il suo attuale principale mezzo di creazione della ricchezza ad un’invenzione occidentale. Più in generale, l’Occidente possiede la più grande concentrazione di conoscenze scientifiche, tecnologiche, culturali e forse anche morali nel mondo da parecchi secoli. Tutte cose delle quali il mondo arabo è solo tributario. Il “musulmano medio” usa Internet per dire le sue bugie, e non lo potrebbe fare senza il progresso impresso al mondo dalla cultura occidentale che esso molto spesso dimostra di odiare.

Aggiungiamo un’ulteriore considerazione. Dal tempo della valorizzazione del petrolio e dell’inizio delle estrazioni in terre arabe il mondo arabo ha beneficiato per oltre un secolo di un immenso e costante flusso di denaro che in altre mani avrebbe prodotto ben altro di ciò che ha prodotto laggiù: nessuno sviluppo economico, nessuna giustizia sociale, nessun centro di scienza e tecnologia, nessun brevetto ma quasi esclusivamente miseria, ignoranza, fanatismo, guerre e sfrenato lusso per pochi privilegiati nei quali si continua a credere solo perché vengono bevute le panzane religiose di cui sono monopolisti e le altre propagande circa la cattiveria di un Occidente che, invece, gli ha dato le sole forme di progresso che conoscono.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:24 pm

Petrolio, dietro le tensioni Arabia Saudita-Iran il crollo dei prezzi. Ecco le conseguenze per i grandi produttori

Teheran si prepara a riprendere le esportazioni mentre Ryad ha chiuso il 2015 con un deficit record a causa del calo dei ricavi. Sullo sfondo i contrasti all'interno dell'Opec, che ha tenuto alta la produzione per mettere fuori gioco la produzione di shale oil degli Usa, e la crisi di Russia, Brasile e Venezuela. L'Isis invece ha diversificato fin dall'inizio le fonti di entrate
di Felice Meoli | 3 gennaio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01 ... ri/2346955


Le scintille di inizio anno tra Arabia Saudita e Iran non sono (solo) l’ultimo capitolo dello scontro secolare tra le due anime dell’Islam. Ma anche il risultato di tensioni più recenti che toccano gli interessi economici delle due potenze: quelli legati alla produzione e all’esportazione del petrolio. I cui prezzi nei giorni scorsi hanno raggiunto i minimi dal 2004, dopo aver perso circa il 70% dal giugno 2014. Una rivoluzione che, intrecciata con le novità tecnologiche sul fronte dell’estrazione, sta mettendo in ginocchio molti grandi produttori – dal Sudamerica alla Russia – e ha affossato anche i conti 2015 della monarchia saudita. Mentre Teheran, che da decenni non poteva vendere oro nero all’estero, dopo l’accordo sul nucleare firmato con la comunità internazionale si prepara a riavviare le estrazioni su larga scala e a registrare ingenti ricavi aggiuntivi. E l’Isis? Lo Stato islamico ha ampiamente diversificato le proprie fonti di entrate, per cui risente relativamente del crollo delle quotazioni del petrolio.

Il barile potrebbe scendere fino a quota 15 dollari - Diciotto mesi fa, Brent e Wti superavano i 100 dollari al barile. Oggi si attestano in area 35 dollari. E secondo alcuni analisti, tra cui il responsabile della ricerca sulle commodity di Goldman Sachs Jeffrey Currie, l’eccesso di offerta continuerà anche nel 2016, con la possibilità di vedere un barile di greggio a 20 dollari. Una sensazione confermata dai dati provenienti dal New York Mercantile Exchange e dallo Us Depository Trust & Clearing Corporation, che segnalano acquisti in massa da parte degli investitori di opzioni di vendita nella fascia compresa tra i 30 e i 20 dollari al barile per il prossimo dicembre. E addirittura fino a un livello di 15 dollari. Il clima mite di questo inverno ha contribuito a ridurre la domanda di greggio, ma la sovrapproduzione appare un vero e proprio obiettivo dei Paesi produttori e in particolare dell’Opec, l’organizzazione che rappresenta il 35% dell’offerta globale.

L’Opec spaccata tra falchi e colombe non controlla più la produzione – Dopo aver rinunciato ad avere un prezzo target, durante l’ultimo vertice di Vienna l’Opec ha abdicato alle quote produttive dei singoli Paesi e anche a un tetto di produzione collettivo: una decisione che deriva dalla spaccatura tra i “falchi” capitanati dall’Arabia Saudita, che spingevano per il rialzo della produzione, e le “colombe” come Algeria e Venezuela che avevano invece chiesto un taglio per adeguarsi alla riduzione della domanda. L’obiettivo, non troppo nascosto, è mettere fuori gioco la produzione di shale oil degli Stati Uniti, cioè l’estrazione di idrocarburi non convenzionali, più costosa (tra i 45 e i 55 dollari al barile) di quella tradizionale. Una novità che ha spinto Washington, sempre a dicembre, a una decisione storica: l’eliminazione del bando alle esportazioni, introdotto 40 anni fa per favorire l’indipendenza energetica del Paese.

Negli Usa già nove gruppi in bancarotta e altri a rischio sotto il peso dei debiti – Gli effetti combinati di questa situazione si stanno facendo sentire. Il boom dello shale oil e i tassi di interesse vicini allo zero hanno favorito nel recente passato l’accumulo di debito da parte delle compagnie petrolifere, che hanno inoltre emesso obbligazioni ad alto rendimento (tecnicamente “high-yield”, ma anche “junk“, spazzatura, in quanto poco sicure), coperte da contratti di hedging con prezzi prefissati anche a 90 dollari, per finanziare le nuove trivellazioni. Il petrolio a sconto, unito al recente rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve (il primo dal 2006), oggi mette a rischio questo impianto. Standard & Poor’s ha calcolato a fine novembre che oltre il 50% dei junk bond energetici sono “distressed”, ovvero a rischio default. Complessivamente, negli Stati Uniti circa 180 miliardi di dollari di debito sono a rischio default, il livello più alto dal 2009, e la maggior parte fa riferimento proprio al settore Oil & Gas. Secondo quanto riportato dalla Federal Reserve di Dallas, sono almeno nove le compagnie energetiche che nel quarto trimestre del 2015 sono andate in bancarotta, per un debito complessivo di oltre 2 miliardi di dollari, con una perdita di 70mila posti di lavoro dall’ottobre del 2014. Per Jeffrey Gundlach, fondatore della società di investimenti DoubleLine Capital e “Re dei Bond” secondo la rivista americana Barron’s, i downgrade dei titoli emessi dalle compagnie energetiche stanno già accelerando e proseguiranno con ulteriori default se i prezzi del greggio non ritorneranno sopra quota 50 dollari.

Arabia Saudita e Oman per la prima volta fanno i conti con l’austerity - Ma la strategia dell’Opec non è senza conseguenze né per gli stessi Paesi di quello che molti analisti considerano già un ex cartello, né per gli altri. Inedita la condizione dell’Arabia Saudita, che ha presentato per il 2015 un disavanzo di 98 miliardi di dollari (circa il 15% del Pil) a fronte di entrate petrolifere in calo del 23%, e si appresta a varare un articolato piano di austerity che prevede il taglio dei sussidi energetici, il rincaro del prezzo della benzina, delle bollette elettriche e dell’acqua, valutando inoltre l’introduzione dell’Iva e l’aumento delle accise su bevande e tabacco. Notizie simili provengono anche dall’Alaska e dall’Oman: lo Stato americano sta studiando la reintroduzione delle imposte sui redditi, dopo 35 anni di esenzione per i residenti, mentre il Sultanato ha già annunciato tagli alla spesa pubblica del 15,6 per cento.

Con il calo dei ricavi si aggrava la crisi di Venezuela e Brasile – Situazione critica per il Venezuela, il cui ministro del Petrolio ha chiesto la convocazione di un vertice tra i Paesi Opec e non Opec in gennaio per discutere nuovamente di azioni che possano dare impulso al prezzo del greggio, a cui è legata a filo doppio la fragile economia di Caracas. Il presidente Nicolas Maduro, che ha appena incassato la prima sconfitta elettorale del partito di governo da diciassette anni a questa parte, è alle prese con un’inflazione che nel 2015 ha raggiunto il 150%, con stime per l’anno in corso che puntano al 200 per cento. Sempre in Sudamerica, il Brasile sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Il 2015 si è chiuso in forte recessione (-3,2%), con disoccupazione e inflazione crescenti, moneta svalutata del 35%, una richiesta parlamentare di impeachment per il presidente Dilma Rousseff e lo scandalo corruzione di Petrobras che si trascina ormai da oltre un anno. Il crollo del prezzo del petrolio ha colpito chirurgicamente lo Stato di Rio de Janeiro aggravando una crisi già profonda, alle porte dei prossimi giochi olimpici. La sanità ha già sofferto di numerosi tagli, gli stipendi non vengono pagati da mesi e i pazienti negli ospedali vengono rispediti a casa. E siccome Rio è responsabile del 67% della produzione di greggio (oltre al 40% di gas), per recuperare all’incirca 500 milioni di dollari è stata lanciata una flat tax da 0,69 dollari per ogni barile prodotto. Condizione simile per la Nigeria: il greggio vale il 75% delle entrate statali e quasi il 90% delle esportazioni del Paese. Anche qui si registrano impiegati pubblici senza stipendio e paradossalmente, per il maggior esportatore africano di petrolio, nonché uno dei maggiori del mondo, blackout energetici e mancanza di carburante per la popolazione.

L’asse Russia-Iraq-Iran e la strategia di Teheran - Ma da un punto di vista geopolitico i riflettori sono puntati su quanto sta accadendo in Russia, Iraq e Iran. Mosca, che a novembre ha visto il proprio Prodotto interno lordo contrarsi del 4% anno su anno, fa affidamento per quasi la metà delle sue entrate statali su petrolio e gas. Colpita anche dalle sanzioni economiche, la Federazione, che ha accusato l’Arabia Saudita di destabilizzare il mercato, dovrebbe aver chiuso il 2015 con una contrazione del Pil del 3,8%, con un budget che fissava il prezzo del barile a 50 dollari. Sono solidi i rapporti del presidente Vladimir Putin con Baghdad e Teheran, due protagonisti della cosiddetta Mezzaluna Sciita. Per finanziare la guerra allo Stato Islamico l’Iraq nel 2015 ha spinto sull’acceleratore dell’estrazione del greggio, ma l’atteso surplus di ricavi è stato assorbito dal calo dei prezzi. Ma ora anche l’Iran punta forte sulla produzione dell’oro nero. Il Paese, detentore della quarta riserva mondiale di petrolio, dopo l’accordo dello scorso luglio nel 2016 dovrebbe veder superate le sanzioni ed è pronto a produrre nel giro di una settimana fino a 500mila barili al giorno, per arrivare a quota 1 milione dopo un mese. Questa strategia, accompagnata dalle dichiarazioni di Mehdi Assadli, delegato iraniano all’Opec, che ha svelato un costo di produzione per barile da parte di Teheran inferiore ai 10 dollari al barile, potrebbe incrementare ulteriormente le pressioni sui prezzi e condurre a un muro contro muro ribassista proprio con Ryad.

Lo Stato islamico ha già diversificato - Meno esposto degli altri, al crollo dei prezzi del greggio, sembrerebbe invece lo Stato Islamico. A giugno, con il barile a 60 dollari, l’Is vendeva sul mercato nero a 30 dollari a barile. Ai prezzi odierni, che oscillano intorno ai 35 dollari, lo Stato Islamico vende intorno ai 20 dollari, registrando dunque un calo meno che proporzionale rispetto ai mercati ufficiali. E se fino allo scorso ottobre il commercio dell’oro nero rappresentava la sola fonte di entrate, anche a seguito degli attacchi alle infrastrutture da parte delle potenze occidentali e alla difficoltà di ripristino e manutenzione degli impianti l’Is (o Daesh) ha già provveduto a diversificare le proprie attività. La società di consulenza Ihs ne segnala infatti altre in grande sviluppo: in primis la confisca di terre e proprietà e le estorsioni nei territori sotto controllo (che raccolgono circa il 50% del totale delle entrate), oltre al traffico di droga e reperti archeologici, attività criminali come rapine in banca e riscatti a seguito di sequestri di persona, piccoli business legati a trasporti, elettricità e attività immobiliari e infine donazioni e sovvenzioni. Per non parlare del fatto che in un documento risalente a gennaio 2015, reso noto da Reuters, il consiglio degli ulema che risponde direttamente al sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi dà il via libera al traffico di organi dei prigionieri. Il volume d’affari complessivo di tutte queste attività è stimato attorno agli 80 milioni di dollari al mese, mentre il petrolio varrebbe oggi, percentualmente, meno della metà delle entrate totali.
di Felice Meoli | 3 gennaio 2016



Arabia Saudita, 3 moschee sunnite attaccate in Iraq. Riad sospende tutti i voli con l'Iran
Fratello sceicco ucciso condanna attacco a sedi diplomatiche saudite e chiede le spoglie per sepoltura ad Awamiya. Anche Bahrein e Sudan rompono relazioni con Teheran. L'inviato dell'Onu de Mistura andrà nelle due capitali per disinnescare la tensione
04 gennaio 2016

http://www.repubblica.it/esteri/2016/01 ... -130594751

Un poliziotto fra i calcinacci di una delle moschee colpite a Hilla, in Iraq (afp)
BAGHDAD - Tre moschee sunnite sono state attaccate nella provincia irachena di Babil, dopo che sabato uno sceicco sciita è stato ucciso nel corso di una esecuzione di massa in Arabia Saudita. Uomini armati con indosso uniformi militari, ha raccontato, hanno lanciato esplosivi contro una moschea a Hilla, mentre miliziani hanno fatto esplodere ordigni in due edifici religiosi islamici nel villaggio di Sinjar e a Iskandriyah. Le forze di sicurezza irachene sono intervenute e hanno aumentato le misure di sicurezza, nel timore di rappresaglie tra le comunità sciite e sunnite dell'area. Dopo l'esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr, le autorità e i politici sciiti iracheni hanno condannato con forza e accusato Riad di voler alimentare le tensioni settarie nella regione.
L'Arabia Saudita ha sospeso tutti i voli da e verso l'Iran, mentre il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha affermato che al-Nimr, era un terrorista coinvolto in attacchi e che Riad dovrebbe essere elogiata per l'esecuzione, non criticata.
Gli Usa sperano in un accordo. Gli Stati Uniti si aspettano di riunire tutte le parte in conflitto per proseguire i negoziati sulla Siria, in un vertice in programma il 25 gennaio a Ginevra, nonostante le recenti tensioni tra Arabia Saudita e Iran innescata dall'uccisione del religioso sciita Nimr al-Nimr. Lo ha dichiarato il Dipartimento di Stato americano. "Noi ancora speriamo e ci aspettiamo che gli incontri tra i gruppi di opposizione e il regime accadono in questo mese", ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby.
Fratello al-Nimr: "Restituiteci il corpo". Intanto il fratello dello sceicco sciita Nimr al Nimr, giustiziato da Riad, ha "condannato" gli attacchi compiuti per rappresaglia all'esecuzione contro l'ambasciata e il consolato del Regno Saudita in Iran. In un tweet, Mohammed Al Nimr ha scritto: "Apprezziamo i sentimenti di cordoglio espressi per il martire, ma rifiutiamo e condanniamo gli attacchi contro ambasciate e consolati del regno in Iran o altrove. Noi amiamo il nostro Paese". Mohammed al Nimr ha inoltre deplorato il fatto che il fratello sia stato tumulato "in un cimitero sconosciuto" ed ha lanciato un appello alle autorità locali affinché i resti del "martire" siano restituiti alle famiglie per essere inumati ad Awamiya, suo villaggio natale nell'est dell'Arabia Saudita.

Un morto in scontro nella città di al-Nimr. Un civile è morto e un bambino è rimasto ferito questa notte, quando un gruppo di sconosciuti ha aperto il fuoco contro la polizia ad Awamiya, il villaggio natale dello sceicco Nimr al-Nimr. Gli agenti sono ancora alla ricerca dei responsabili dell'attacco, definito un "atto di terrorismo".
Iraq: attaccate 3 moschee sunnite

Riad, Bahrein e Sudan rompono relazioni con Iran. Dopo l'esecuzione di massa di 47 persone l'Arabia Saudita ha rotto le relazioni diplomatiche con l'Iran. Riad ha accusato l'Iran di incitare alla rivolta interconfessionale i musulmani nella regione. In una sorta di effetto domino, anche il Bahrein, governato da una famiglia sunnita ma dove la maggioranza della popolazione è sciita, ha rotto le relazioni diplomatiche con Teheran e poco dopo anche il Sudan ha fatto la stessa scelta. Più prudenti dell'Arabia Saudita e del Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, petro-monarchia sunnita del Golfo come le altre due, hanno richiamato l'ambasciatore a Teheran e ridotto lo status della propria rappresentanza diplomatica in Iran.

Interviene l'Onu. L'inviato dell'Onu per la Siria Staffan de Mistura andrà a Riad e poi a Teheran per disinnescare la tensione tra le due capitali. Per mettere pace fra Arabia Saudita e Iran è intervenuta la Russia che si è offerta come mediatrice, mentre Germania e Francia invitano i due governi al dialogo. La Ue richiama i due Paesi alla responsabilità per evitare un'escalation di tensione in una situazione molto volatile. Ma i rapporti restano tesi. "Sembra che l'Arabia Saudita leghi la sua sopravvivenza alla continuazione di tensioni e conflitti, e provi a risolvere i suoi problemi interni creandone nella regione", ha commentato il portavoce del ministro degli Esteri iraniano Jaberi Ansari, rispondendo alla decisione di Riad di chiudere i rapporti diplomatici con Teheran.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:25 pm

Iran-Arabia alla guerra del petrolio: maxi sconti di Riad per l'Europa
L'Arabia Saudita taglia il prezzo del greggio destinato in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Cerca così di anticipare il ritorno sul mercato di Teheran, che punta ad esser di nuovo importante partner energetico del Vecchio continente
06 gennaio 2016

http://www.repubblica.it/economia/2016/ ... -130699624

MILANO - L'Arabia Saudita apre il catalogo della scontistica per i partner europei del petrolio, nel tentativo di mettere fuori gioco l'Iran, con il quale va in atto in questi giorni una durissima battaglia diplomatica, e non solo. Una mossa simile a quella adottata verso gli Stati Uniti, per mettere in quel caso all'angolo i produttori di shale: da mesi ormai l'Opec, il cartello dei Paesi produttori di greggio nel quale Riad gioca un ruolo da leader, non ha tagliato la produzione nonostante il prezzo calante del barile, sapendo che a questi livelli non è possibile per gli americani mantenere attivi i loro pozzi, a meno di estrarre in forte perdita. Nel confronto con Teheran, si tratta di una giocata d'anticipo rispetto al ritorno dell'Iran sul mercato, una volta che saranno definitivamente sospese le sanzioni internazionali.
Come si legge in un resoconto del Wall Street Journal, Italia e Spagna erano tra i principali partner petroliferi dell'Iran, con un'importazione di greggio che pesava rispettivamente per il 13 e il 16% del fabbisogno nazionale. Tutto questo prima delle sanzioni del 2012. Ma le compagnie petrolifere si sono già riposizionate per riprendere i rapporti con l'Iran e lo stesso Paese mediorientale ha dichiarato che farà di tutto per tornare a esportare i livelli antecedenti l'embargo. Riad sta cercando di anticipare quel momento, tagliando sul piano economico i rapporti dell'Iran con il mondo occidentale dopo aver ottenuto dal mondo sunnita l'isolamento diplomatico di Teheran.
La compagnia petrolifera statale Saudi Aramco non ha citato il livello di tensione con l'Iran nell'annunciare il taglio dei prezzi per i clienti europei. Ogni mese, la Aramco aggiorna il listino sulla base di domanda, offerta e altri elementi che possono modificare il prezzo. Martedì ha spiegato che avrebbe ampliato lo sconto per il suo light crude di 60 centesimi di dollaro al barile verso il Nord Europa e di 20 verso il Mediterraneo, per le consegne di febbraio. Dall'Iran la mossa è stata letta proprio come uno scudo verso il rientro sul ring di Teheran, visto che le sanzioni europee potrebbero cessare proprio dal prossimo mese. Di contro, l'Arabia ha incrementato di 0,6 dollari il prezzo verso l'Asia e mantenuto inalterato quello sugli Usa.


Iran e Arabia, nemici-gemelli: vogliono il dominio dell'islam
I due regimi puntano entrambi alla resa finale dell'Occidente. Applicano la sharia e fomentano il terrorismo internazionale
Fiamma Nirenstein - Mer, 06/01/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 10424.html

Fiamma NirensteinSecondo Amnesty International, l'Iran solo nei primi sei mesi del 2015 ha eseguito le condanne a morte di circa 700 persone, quasi tre esecuzioni al giorno, e circa 700 è il numero delle persone che, invece, in un anno, sono state messi a morte in Arabia Saudita.
No, nessuno dei due dati rincuora, i numeri sono impressionanti.
Ma non è banale metterli in luce in tempi in cui gli iraniani vengono sempre rappresentati con diplomatica grazia, e adesso che lo scontro sciita-sunnita è venuto alla luce drammaticamente quando i sauditi, provocatoriamente, hanno messo a morte il predicatore sciita attivista e forse terrorista Nimr al Nimr, e gli iraniani hanno reagito come tigri ferite. La sequenza degli eventi è nota: le proteste degli sciiti ovunque, l'assalto all'ambasciata saudita a Teheran (e, certo, non per mano di una folla incontrollata), la rottura da parte del Sudan e del Bahrain lunedì, poi la condanna dell'università islamica di Al-Azhar al Cairo della «interferenza» negli affari interni sauditi, e poi l'annuncio della chiusura dei cieli e dei commerci sauditi e dei suoi alleati e poi e poi... la shia e la sunna si scontrano con ondate degne di essere cavalcate da un grande campione di surfing, e invece solo un'impotente stupore occidentale contempla quello che Eliezer "Geizi" Tsafrir, ex consigliere israeliano del primo ministro per gli affari arabi e ufficiale del Mossad definisce «l'ebollizione del conflitto sunnita-sciita».
Per noi, un conflitto senza ragioni o torti, che inizia 1400 anni fa quando due sette musulmane si contrappongono sulla successione a Maometto, uno scontro che ci ricorda come in Medio Oriente alcuni problemi sono semplicemente privi di risposta.Il califfo e l'ayatollah per quanto ci riguarda sono quanto a ideologia, simmetrici: hanno in comune la convinzione che il destino del mondo è il sacrosanto dominio dell'islam, e ciascuno crede nel suo islam. Hanno stili diversi, affabili ambedue finché serve allo scopo, credenti solo in Allah e convinti che l'Occidente alla fine dovrà arrendersi. Anche la Russia che adesso si offre come mediatore viene valutata su questo metro, come gli Usa di Obama, quale che sia la gentilezza mostrata nelle trattative e negli accordi. Sunniti e sciiti sono stati scatenati dal mare in tempesta delle primavere arabe, quando si scuotevano tribù appunto sunnite, sciite, curde, alawite, druse, yazide, beduine, cristiane...In parole semplici, il conflitto sunniti-sciiti innescato allora (come, mi permetto di ricordare, spiego nei dettagli del mio nuovo libro Il califfo e l'ayatollah) si è tradotto in un esercito sunnita con la punta di invasati detta Isis, e nella bomba sciita, oltre che nella disperazione dell'immenso popolo arabo che vaga terrorizzato o prende la strada della fuga verso l'Occidente. Il terrorismo, ad opera delle due parti, è diventato il maggior problema bellico del nostro tempo.
E l'Arabia Saudita ha grandi responsabilità nella propulsione di quello wahabita, che ha portato fino all'11 di settembre, e oggi ripudia il suo passato combattendo l'Isis, mentre l'Iran, secondo il dettato imperialista di Khomeini, è lo sponsor degli hezbollah, organizzatore di stragi di ebrei e di attentati antiamericani e antieuropei.È da quando gli americani hanno spinto avanti gli sciiti in Iraq che il mondo sunnita capitanato dal reame saudita fibrilla: per mesi ha osservato, fino al picco dell'accordo sul nucleare, la rivincita della minoranza sciita che nei secoli ha tanto sofferto. Mentre una trafila di imprenditori porta milioni con la fine delle sanzioni, ha sperimentato i missili balistici proibiti che possono portare anche testate nucleari. E gli Usa hanno rimandato anche le sanzioni promesse su questo aspetto. Libano, Siria, Iraq, Yemen sono ormai in gran parte nelle mani degli ayatollah. Eppure Obama ha scelto come sua «legacy» proprio un Medio Oriente quieto sulla scia del suo accordo.
L'Arabia Saudita ha visto come il suo compagno di accordi petroliferi e militari si avvicinava al suo peggiore nemico. I re sauditi non vedono più convenienza nel conformismo occidentalista: lo dice l'alleanza multinazionale di cui si è messa a capo e la campagna bellica in Yemen. Problemi dinastici e petroliferi attizzano il conflitto. Per l'Occidente il punto sembra essere intanto una lucida considerazione della disinvoltura con cui le parti (che applicano la sharia senza remissione ignorando ciò che per noi è «diritti umani») intendono la politica estera, le sue alleanze, i suoi trattati: scontro senza regole per il predominio.



I sauditi rischiano di fallire, per questo cercano la guerra

http://blog.ilgiornale.it/foa/2016/01/0 ... ogni-costo

E’ fuor di dubbio che sia di Riad la responsabilità della gravissima crisi con l’Iran. Quando si annuncia l’esecuzione in un sol giorno di 47 persone, diverse delle quali sciite, tra cui un imam reo soltanto di aver promosso una manifestazione di protesta quando aveva 19 anni, non sono necessarie analisi sofisticate per capire che si tratta di una provocazione deliberata. Ma a quali fini?
Facciamo un passo indietro. L’Arabia saudita è da sempre in cima alla lista nera dei Paesi che violano i diritti umani, ma ha sempre beneficiato di uno statuto speciale da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dei loro alleati. La ragione la conosciamo tutti: è il principale produttore di petrolio al mondo. Ed è più che valida per indurre Washington a chiudere per quarant’anni entrambi gli occhi.
Negli ultimi due anni, però, il quadro è cambiato. Lo sfruttamento del cosiddetto shale oil, l’olio di scisto, di cui l’America è ricca, ha reso meno importante il regime saudita. I prezzi del greggio hanno iniziato a scendere e Riad ha reagito tentando il tutto per tutto: siccome i giacimenti di shale oil sono redditizi solo oltre un certo prezzo al barile, il regime saudita anziché tentare di contrastare la caduta dei prezzi con il taglio della produzione, come sarebbe stato logico, ha percorso la via inversa: l’ha aumentata nella speranza di far fallire i produttori americani. Scommessa in buona parte persa per ragioni mai esplicitate ufficialmente ma che sono facilmente intuibili: quello dell’olio di scisto, sebbene molto inquinante, ha un valore strategico per il governo degli Stati Uniti che ha fatto e farà di tutto per non vanificarlo.
A tremare finanziariamente, invece, ora è proprio Riad, dove quest’anno è esploso il deficit pubblico e che vede compromessa a medio termine la propria stabilità economica. Un gigante che appariva incrollabile ora scopre di essere strutturalmente fragile e teme per il proprio avvenire.
L’Iran cosa c’entra? C’entra, c’entra. Perché i sauditi sono sunniti e loro sciiti in un dissenso paragonabile, per intenderci, a quello che a lungo ha opposto cattolici e protestanti in Europa. Ma soprattutto perché l’Iran proprio quest’anno è stato sdoganato dagli Stati Uniti, grazie allo storico accordo sul nucleare.
Quegli Usa che, però, assieme ai sauditi, ai turchi e agli Emirati fino a ieri hanno armato e finanziato l’Isis nel tentativo di rovesciare Assad ovvero il leader di un Paese da sempre amico proprio di Teheran. La fine delle sanzioni ha peraltro spinto ulteriormente al ribasso il prezzo del petrolio, accentuando le difficoltà dell’Arabia Saudita. Aggiungete il fatto che Riad ha speso cifre enormi in armamenti e la criticità della situazione apparirà evidente.
Riad sta fallendo su tutti i fronti. L’offensiva lanciata nello Yemen contro gruppi sciiti vicini a Teheran e che ha provocato una guerra terribile ignorata dall’Occidente, non ha dato i risultati sperati. Da quando Putin ha cominciato a bombardare massicciamente, l’Isis ha perso terreno e tutti hanno capito che Assad resterà al potere ancora a lungo. E’ così svanito il sogno dei sauditi di creare uno Stato Islamico a nord (nell’area tra Siria e Iraq), che avrebbe dovuto chiudere a tenaglia l’Iran. La Russia appare più forte, l’America, in un anno elettorale, più debole mentre il prezzo del petrolio continua calare.
I governanti della Casa Regnante non brillano certo per acume strategico: per quanto ricchi restano dai capi tribali imbevuti di fanatismo religioso. Il timore è che abbiano scelto la via peggiore per tentare di uscire dai guai: quella di approfittare della propria supremazia militare per provocare una guerra con l’Iran che faccia salire il prezzo del petrolio e che si concluda con il dominio sunnita anche a Teheran e, di conseguenza, a Bagdad. Un delirio, che pone l’Occidente di fronte alle proprie responsabilità storiche. Un delirio da fermare ad ogni costo.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:26 pm

L’ideologia ambientalista e medievale che alimenta il circo mediatico sul petrolio
Radici di una cultura inespressa permeata di ecologismo esasperato che ha come corollario il “no” all’industrializzazione

di Pietro Ichino | 08 Aprile 2016

http://www.ilfoglio.it/economia/2016/04 ... e_c492.htm

Archiviato lo scivolone del ministro dello Sviluppo troppo loquace con il proprio partner su questioni istituzionali, resta alto il polverone contro il ministro per i Rapporti col Parlamento, per l’emendamento alla legge di Stabilità 2015 oggetto delle conversazioni intempestive della sua ex collega. Leggetelo, per favore (www.pietroichino.it/?p=39693). Dice questo: quando il governo, nel rispetto della legge, abbia deciso di autorizzare l’estrazione di petrolio o gas da un determinato sito, al governo stesso compete di autorizzare la costruzione delle infrastrutture necessarie per il trasporto del prodotto fino all’immissione nella rete di distribuzione, o al luogo di stoccaggio e poi alla raffineria, superando gli eventuali veti delle amministrazioni locali (l’anno dopo si è aggiunta la necessità del parere preventivo della regione interessata). Certo, quando presentò quell’emendamento, il governo aveva in mente soprattutto lo sblocco dell’attività estrattiva nel sito di Tempa Rossa, in Basilicata, che era in attesa dal 1989. Ma questa stessa norma – di cui si sono dotati tutti i paesi dell’occidente industrializzato – era destinata a servire in una serie indeterminata di altri casi analoghi. In sostanza, è una norma anti sindrome Nimby, cioè mirata a superare i veti meramente localistici. Quanto alla concessionaria interessata al giacimento di Tempa Rossa, la Total, essa era in attesa da molti anni di poter incominciare a far funzionare uno stabilimento sul quale aveva già investito un miliardo e mezzo. La questione dell’emendamento incriminato non ha niente a che vedere né con reati o irregolarità che la magistratura lucana ha contestato a dirigenti di quella stessa compagnia per appalti collaterali rispetto all’attività principale, né con reati o irregolarità contestati a dirigenti dell’Eni per un altro giacimento, quello di Val d’Agri, dove l’attività estrattiva è invece in corso da oltre quindici anni. La realtà è che dietro la campagna che si è scatenata contro questo emendamento c’è una cultura inespressa (ma molto diffusa) permeata di un ecologismo esasperato, che ha come corollario il “no” all’industrializzazione e in particolare alle imprese multinazionali, viste come intrinsecamente pericolose non solo per l’ambiente, ma per la democrazia stessa.

È la cultura che vede con sospetto il fatto che la concessione di Tempa Rossa sia stata data alla “straniera” Total. Non importa che questa sia un’impresa europea, che gli oneri di protezione ambientale a essa imposti fin dal 2004 siano doppi rispetto a quelli imposti all’Eni in Val d’Agri, che su ogni metro cubo di gas estratto – e direttamente immesso nella nostra rete di gasdotti – essa pagherà le dovute royalties destinate per l’85 per cento alla regione lucana: la sola idea che emerge dai talk-show è che inevitabilmente la multinazionale spolperà il territorio lucano e lascerà alle sue spalle macerie, perché solo questo sanno fare le multinazionali. Questa cultura, di per sé ostativa allo sviluppo del mezzogiorno, sul terreno della politica energetica costituisce un problema per l’intero paese. Tra i suoi corollari non c’è, infatti, solo il no alle centrali a carbone, perché sono troppo inquinanti; il no alle centrali atomiche perché c’è il rischio di fughe radioattive; il no alla produzione di energia eolica, perché torri e pale deturpano il paesaggio; il no a petrolieri e petroliere, perché i primi sono tutti farabutti e le seconde ogni tanto fanno naufragio devastando mare e coste; il no alle centrali idroelettriche perché i bacini che le alimentano sommergono intere valli; il no allo shale oil (petrolio estratto da scisti), perché si rovinano le rocce sotterranee; e conseguentemente il no ai rigassificatori; il no agli inceneritori dei rifiuti, perché solo in Germania sono capaci di farli funzionare senza inquinamento e qui siamo in Italia; il no al metanodotto, perché serve per acquistare gas da Putin, inoltre può avere delle perdite e comunque rovina la spiaggia dove riemerge dal mare (copyright del presidente della Puglia, Michele Emiliano); il no all’estrazione del gas dal fondo del mare – anche se molto oltre l’orizzonte visibile dalla costa; anche se tutti gli altri paesi maggiori si avvalgono di questa risorsa a tutte le latitudini e longitudini; anche se questo consentirebbe di avere in giro meno petroliere, meno centrali a carbone, meno pale eoliche, e di acquistare meno gas da Putin e meno energia dalle centrali atomiche francesi – perché non siamo sicuri che le trivelle non possano inquinare le acque. Ora c’è anche il no all’estrazione degli idrocarburi in terraferma.

Strano paese, il nostro: gli stessi politici che contestano al governo di non occuparsi abbastanza del sud ora sono in prima fila nel rimproverargli di voler sbloccare, dopo oltre vent’anni di paralisi, l’avvio in Basilicata di uno stabilimento destinato a ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero, a dar vita a centinaia di posti di lavoro qualificato e a fruttare alla regione stessa e ai comuni interessati abbondanti royalty utilizzabili – se le si sa e le si vuole utilizzare così – per investimenti ulteriori. Gli stessi che, in nome dell’ecologia, contestano praticamente tutte le altre forme di produzione di energia tranne la fotovoltaica, ora contestano un impianto capace di una produzione giornaliera, direttamente in casa nostra e secondo le tecnologie più moderne, di circa 50 mila barili di petrolio e 230 mila metri cubi di gas naturale, destinati questi ultimi a essere immessi direttamente nella nostra rete di gasdotti con impatto ambientale zero.

Tutto questo è molto coerente con l’idea del ritorno alla “economia del chilometro zero”, nella quale non occorre far funzionare fabbriche che consumano molta energia – con persone che arrivano in auto o in treno – per produrre cose su scala industriale, che dunque vanno poi spedite in varie parti del mondo, magari in aereo, e che a loro volta consumeranno energia. Sì, dunque, soltanto alla cosiddetta “economia curtense”, quella artigiana e agricola che si sviluppa per intero intorno alla corte del castello. Quelli che la pensano così, però, per lo più non hanno messo bene a fuoco che tutto questo comporterebbe sostanzialmente un ritorno al Medioevo.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:26 pm

Sul sottosviluppo dei paesi islamici
19 marzo 2017
http://islamicamentando.altervista.org/ ... i-islamici

Di fronte ai rapidi processi innovativi dell’attuale economia mondiale e alla prevista riduzione dei redditi dell’economia petrolifera, sussiste il rischio che il progresso dei già sottosviluppati paesi islamici veda un ulteriore rallentamento e di conseguenza la possibilità che cresca il senso di frustrazione.

I paesi islamici seguono nella classifica di sviluppo molti paesi dell’Asia orientale e del Sud-Est asiatico, nonostante alcuni di loro abbiano avviato già da tempo l’opportunità di un processo di modernizzazione (a partire dalla colonizzazione occidentale, dal confronto con la scienza, la filosofia e l’economia europea, con la tecnologia e la democrazia).

Il sottosviluppo non dipende quindi dalla mancanza di capitali ma dal cosiddetto human factor: dagli uomini, dalle concezioni e dagli ideali che li animano, dal loro livello d’istruzione e senso di responsabilità. Tutte queste strutture e processi sono a loro volta il prodotto del fondamento culturale-religioso della società: la rielaborazione delle istanze occidentali – di derivazione cristiana ma ormai secolarizzate – appartenenti alla mentalità scientifica e alla sua modalità di azione, intendendo con ciò la loro integrazione all’interno del proprio modello valoriale, non è stata ancora attuata in modo soddisfacente nella maggioranza dei paesi islamici, a differenza di quanto è accaduto nelle società dell’Asia orientale.

Ne consegue che – paradossalmente – l’avanzamento tecnologico aumenti il problema invece di diminuirlo, poiché esso non richiede più semplicemente abilità meccaniche, come accadeva agli inizi dello sviluppo tecnologico, bensì un’apertura mentale e capacità di adattamento alle situazioni, creatività e spinta innovativa – tutto questo non si può comprare con i petrodollari e non si può ricevere con gli aiuti per lo sviluppo ma si può ottenere solo a questo prezzo: la concessione della libertà intellettuale.

La vita in una “modernità dimezzata”, nella quale sono accolte le innovazioni tecnologiche ma non altrettanto le conquiste socio-politiche, è un’acrobazia destinata a durare poco.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:28 pm

LICEO SCIENTIFICO PARITARIO SANT’ANNA

CORSO DI STORIA
PROF. MARCELLO CROCE

LA PARTE CHE SEGUE SI INSERISCE NEL PROGRAMMA DI STORIA DELLE CLASSI QUINTE ED E’ DEDICATA A UN FATTORE CHE NEL CORSO DEL XX SECOLO E’ POSTO AL CENTRO DELLE STRATEGIE POLITICHE E MILITARI DELLE GRANDI POTENZE: IL PETROLIO

FORMAZIONE PETROLIO E CARBONE

COMBUSTIBILI FOSSILI
Il petrolio e il carbone sono chiamati “combustibili fossili” perché si crede si siano formati dai residui di piante cresciute molti secoli fa. Sembra che il materiale organico delle piante sepolte, non più a contatto con l’ossigeno atmosferico che avrebbe permesso la normale decomposizione, si trasformasse in idrocarburi. La grande pressione e le temperature elevate sotto la superficie terrestre, nel corso di molti millenni, sono probabilmente i fattori essenziali che hanno contribuito alla formazione del petrolio e del carbone.


Collocazione geologica del petrolio e sua estrazione


Formazione del petrolio (teoria)

Il petrolio si forma sotto la superficie terrestre per decomposizione di organismi marini e di piante che crescono sui fondali oceanici, oppure, in misura minore, di organismi terrestri, poi trasportati in mare dai corsi d'acqua. I resti della decomposizione si mescolano con le sabbie finissime e con il limo del fondo del mare, in zone non caratterizzate da forti correnti, formando sedimenti ricchi di materiali organici.

Il fenomeno ebbe inizio molti milioni di anni fa, quando esisteva un'abbondante fauna marina, e continua ancora oggi. I sedimenti depositati sul fondo degli oceani, accrescendo il loro spessore e dunque il loro peso, sprofondano nel fondale marino; a mano a mano che altri sedimenti si accumulano, la pressione su quelli sottostanti aumenta considerevolmente e la temperatura si alza di diverse centinaia di gradi. Il fango e la sabbia si induriscono trasformandosi in argillite e arenaria, il carbonio precipita, le conchiglie si induriscono trasformandosi in calcare, mentre i resti degli organismi morti si trasformano in sostanze più semplici composte da carbonio e idrogeno, gli idrocarburi appunto, costituendo il petrolio greggio e il gas naturale.

Il petrolio ha densità minore dell'acqua salmastra che riempie gli interstizi dell'argillite, della sabbia e delle rocce di carbonati che costituiscono la crosta terrestre: tende dunque a risalire verso la superficie, passando dai microscopici pori dei più grossi sedimenti sovrastanti. Frequentemente il petrolio e il gas naturale incontrano uno strato di argillite impermeabile o di roccia più compatta, che impedisce la salita: rimangono dunque bloccati e danno origine a un giacimento che viene detto "trappola". Generalmente, la maggiore quantità del petrolio che si forma non incontra impedimenti, e risale lentamente verso la superficie terrestre o il fondale marino, creando giacimenti superficiali; questi giacimenti comprendono anche laghi bituminosi, e gas naturale che sbocca spontaneamente dalla superficie terrestre.



STORIA DEL PETROLIO

1. Il petrolio nell’Ottocento
Nella metà dell'800 il petrolio non aveva grande valore commerciale, il suo utilizzo era limitato alla fabbricazione di medicinali e farmaci. Negli Stati Uniti, e ovunque, il petrolio veniva estratto dalle pozze oleose superficiali in cui affioravano sorgenti sotterranee. Le persone, spesso in condizioni di miseria o di disagio sociale, lo raccoglievano semplicemente immergendo spugne e stracci.

L'intuizione di George Bissell nel 1853. Durante un viaggio in Pennsylvania George Bissell, un uomo d'affari americano, si soffermò ad osservare le persone chinate a estrarre petrolio nelle pozze superficiali.



Rimase colpito dalla particolare infiammabilità del petrolio, una caratteristica ideale per il mercato crescente dell'illuminazione. La crescita urbana e demografica nelle principali città europee e americane rendevano necessarie una quantità sempre maggiore di lampade o lampioni e il tradizionale grasso animale o vegetale o gli oli estratti dal carbone non erano più sufficienti a soddisfare la domanda per l'illuminazione urbana. Il costoso gas di città permetteva l'illuminazione soltanto per le zone urbane centrali delle città lasciando al buio tutto le zone periferiche. Dominare il mercato dell'illuminazione nel '800 era pertanto il sogno economico per qualsiasi capitalista del tempo.
Bissell propose di utilizzare il petrolio come materia prima a basso costo per illuminare le strade e le fabbriche. L'introduzione petrolio avrebbe destabilizzato lo status quo nel mercato dell'illuminazione regalando grandi profitti alle imprese innovatrici. Per completare il quadro, Bissel propose anche la possibilità secondaria di offrire il petrolio nel mercato dei lubrificanti per le macchine industriali. Il progetto di affari trovò subito l'appoggio del banchiere James Townsend e di un folto gruppo di imprenditori. L'arrivo dei fondi era però ostacolato da un fattore critico: l'affascinante intuizione di Bissell necessitava d'una verifica di fattibilità scientifica accreditata.

Il "rapporto Silliman". Venne interpellato un autorevole scienziato dell'epoca, il professor Benjamin Silliman per analizzare le proprietà del petrolio come illuminante e lubrificante. La ricerca sul "Rock Oil" (olio di pietra) fu riconsegnata dallo scienziato nell'aprile del 1855. Silliman non solo garantì le ottime capacità dell'olio minerale come lubrificante o illuminante ma lo elogiò anche dal punto di vista economico acquistando in prima persona le azioni della compagnia fondata da Bissel e Townsend, la Pennsylvania Rock Oil Company. Con il rapporto di Silliman la fiducia degli investitori e dei finanziatori toccò al massimo storico e la raccolta di fondi per avviare l'estrazione del petrolio non fu più un problema per Bissel e Townsend. Il primo grande passo era stato fatto ma l'avventura del petrolio non era ancora iniziata. Altri grandi problemi di natura tecnica si stavano affacciando come nubi minacciose sui piani di investimento della Pennsylvania Rock Oil Company. Era comunque stata scritta un'importante pagina nella storia del capitalismo moderno.

2. Primi pozzi petroliferi
L'estrazione del petrolio nel 1859.

I primi pozzi petroliferi.
Con il rapporto di Silliman gli investitori iniziarono seriamente a credere nell'impresa. Restava però un problema fondamentale da risolvere. Per far decollare l'olio di pietra nel ricco e vasto mercato dell'illuminazione era necessario estrarlo in grandi quantità e a costi contenuti.
Il sistema tradizionale di estrazione del petrolio nell'ottocento era basato sul vecchio sistema degli stracci ed inoltre era limitato allo sfruttamento dele sole pozze superficiali di petrolio a cielo aperto. Un metodo primitivo e a basso costo che riusciva a soddisfare a malapena la domanda di petrolio per fini medicinali e che difficilmente poteva essere preso in considerazione nel progetto di Bissell.
Venne valutata l'ipotesi di scavare sulle sorgenti di petrolio in superficie ma la produzione addizionale di petrolio che ne conseguiva era troppo bassa per compensare gli elevati costi degli scavi. Dinnanzi a questo problema l'intero progetto di Bissell subì una lunga fase di stallo durata un intero anno. Con il passare del tempo iniziava a ridursi sempre più la fiducia degli investitori.
Anche in questa occasione l'intuito di un uomo arrivò dove tutti gli altri si fermavano.
George Bissell propose l'uso della perforazione mediante trivelle, accantonando del tutto il metodo dello scavo in superficie. La sua proposta non era campata in aria ed era frutto del suo acuto spirito di osservazione. Bissell osservò come in Cina venisse utilizzata da secoli la tecnica della perforazione per estrarre sale dalle cave di salgemma anche a migliaia di metri di profondità. In particolar modo Bissell osservò come un sottoprodotto dell'attività di estrazione del sale fosse proprio l'olio minerale utilizzato dai cinesi per fabbricare prodotti farmaceutici. L'idea di Bissell era pertanto logica e semplice: estrarre petrolio tramite la tecnica di perforazione utilizzata in Cina.
Propose il suo progetto agli investitori e non mancarono derisioni e scetticismo. Il banchiere James Townsend di New Haven gli diede però ascolto finanziando la prima attività di trivellazione del petrolio della storia nel territorio della Pennsylvania. Fu incaricato a coordinare i lavori Edwin L. Drake, tuttofare e uomo di fiducia di Townsend.
Dopo alcune scelte sbagliate, Drake decise di avviare la perforazione nella località di Titusville nei pressi di una nota sorgente di petrolio in superficie. Era la primavera del 1858.
Dopo oltre un anno di trivellazioni finanziate da Townsend la squadra di Drake non aveva però ottenuto alcun risultato concreto e gli investitori iniziarono ad uscire dal progetto. Lo stesso Townsend decise la sospensione delle attività di perforazione nell'agosto del 1859.
In quel lontano mese di agosto accade però qualcosa che cambiò la storia. Poco prima di ricevere la comunicazione della sospensione dei lavori la trivella raggiunse un crepaccio a ventuno metri di profondità. Il giorno dopo iniziò a fuoriuscire un liquido scuro. Drake diede l'ordine di pomparlo dal sottosuolo mediante una semplice pompa a mano estraendo in questo modo grandi quantità di petrolio. Era il 27 agosto 1859.
La notizia sorprese gli investitori nel momento in cui nessuno ormai sperava più nel buon esito dell'attività di trivellazione. Esplose un entusiasmo contagioso e tutti organizzarono in fretta una grande corsa al petrolio per accaparrare i terreni di Titusville e avviare l'attività di estrazione tramite l'innovativo metodo della perforazione di profondità. Lo stesso Bissell acquistò molti terreni nei pressi di Titusville.
In poco tempo la località di Titusville si trasformò in un grande campo di pozzi petroliferi. Era appena iniziata l'epoca del petrolio.

3. L'impero del petrolio di Rockefeller
I primi passi verso il potere
Il 27 agosto 1859 ebbe inizio la "grande corsa al petrolio". Le tecniche di perforazione sperimentate a Titusville avevano dato il risultato sperato di estrarre petrolio in profondità a costi competitivi. Come spesso accade in questi casi, i capitalisti pionieri che dominarono la scena nella fase iniziale furono rapidamente sostituiti da altri personaggi. Tra questi nuovi capitalisti si distinse rapidamente John D. Rockefeller.
Il suo nome è diventato il simbolo storico del capitalismo di fine ottocento e dell'animal spirit che spingeva i self-made man all'investimento e all'imprenditoria nel grande sconfinato territorio americano. La guerra di secessione era finita da poco lasciando un paese da ricostruire a cui si aggiungevano le grandi praterie dell'ovest da conquistare e "civilizzare".
Come molti capitalisti-imprenditori dell'epoca, Rockefeller, poco più che ventenne, fondò una società commerciale il cui core business era alquanto vago. Si commerciava di tutto purché avesse un prezzo di vendita. La società era a capo di Rockefeller e del socio Maurice Clark ed operava nel territorio di Cleveland nei mercati della carne e del frumento. Il boom del petrolio del 1859 li coinvolse nel mercato nascente. Rockefeller e Clark avviarono alcune piccole industrie di raffinazione di petrolio lungo la ferrovia di Cleveland. Il trasporto su rotaia era l'unico modo per trasportare il petrolio dai luoghi di estrazione ai grandi mercati dell'est e la città di Cleveland si trovava in una favorevole posizione geo-economica.
I profitti elevati provenienti dalla raffinazione convinsero Rockefeller a dedicare la sua attenzione esclusivamente al settore del petrolio. In breve, liquidò il suo socio acquistando l'intera proprietà dell'azienda per mettersi in grado di manovrare una politica commerciale ambiziosa e aggressiva. Nel settore della raffinazione operavano diverse società in forte concorrenza tra loro e Rockefeller ambiva apertamente al controllo monopolistico dell'intero mercato. Lo stesso "Rockefeller" definì il contesto come "il grande gioco".
Era un particolare momento del capitalismo in cui l'entusiasmo negli affari e la corsa al profitto dominavano su ogni altro aspetto. Le aziende erano guidate da uomini che si sfidavano in affari come in aspre guerre personali senza esclusioni di colpi.
Il "colpaccio" di Rockefeller
L'entusiasmo nella corsa al petrolio portò rapidamente ad una situazione di sovraproduzione petrolifera e il prezzo del petrolio si dimezzò causando perdite economiche sia ai produttori/estrattori di petrolio sia anche alle aziende di raffinazione che lo preparavano per essere immesso sui mercati di sbocco.
Il tipico panico che segue una fase di grande entusiasmo portò molti investitori a svendere le proprie industrie. Rockefeller comprese l'importanza del momento, un'occasione unica per acquistare le industrie di raffinazione concorrenti. Nel 1870 fondò la società per azioni Standard Oil Company riuscendo ad ottenere nuova liquidità dalla vendita delle azioni e acquistare le aziende concorrenti in svendita. Nel suo gioco mantenne comunque il capitale di controllo della Standard Oil Company.
Nel pieno della depressione Rockefeller ebbe il coraggio di andare contro tendenza realizzando una serie di grandi fusioni industriali allo scopo di raggiungere la leadership nella raffinazione del petrolio. Ci riuscì. La Standard Oil Company era diventata in breve tempo l'industria di raffinazione più forte del mercato americano.


4. La guerra del petrolio del 1872
L'integrazione verticale della produzione
Il "grande gioco" della Standard Oil di Rockefeller aveva spazzato via gran parte della concorrenza nel settore della raffinazione del petrolio in molti Stati dell'Unione americana. La sua abilità nel saper sfruttare una momentanea fase d'incertezza del settore gli permise di acquistare e assorbire a basso costo le strutture di raffinazione della concorrenza. Ciò nonostante nel suo impero nascente restava l'anello debole della produzione di greggio. Rockefeller non aveva possedimenti nel settore estrattivo primario, il settore era composto da una miriade di piccoli produttori di greggio male organizzati e spesso rissosi.
Nel 1872 Rockefeller ideò il progetto di riunire tutte le raffinerie in un unico grande compratore coinvolgendo anche le industrie concorrenti. Nacque la South Improvement Company. Il suo scopo era di accentrare la domanda di petrolio in un unico acquirente di greggio, detto "operatore unico", per spingere verso il basso il prezzo delle trattative con i piccoli produttori di petrolio, in breve si mirava ad una pura strategia di monopolio.
La rivolta dei piccoli produttori di greggio
Inevitabilmente i produttori di petrolio si ribellarono al progetto trovando l'immediato appoggio della grande stampa dell'epoca che iniziò a dipingere Rockefeller come un imprenditore monopolista e privo di etica e in preda al delirio di potere. L'opinione pubblica si schierò di conseguenza dalla parte dei piccoli produttori e si diffuse nel paese un grande dibattito sul trust e sul monopolio.
La "guerra del petrolio" dei piccoli produttori giunse fino alla serrata prolungata della produzione di greggio lasciando letteralmente a secco le raffinerie di Rockefeller e della concorrenza. Il gesto segnò la definitiva vittoria dei piccoli produttori di petrolio. Dopo solo due mesi di vita il consorzio South Improvement Company venne sciolto.
Il piano tattico di Rockefeller finalizzato a controllare il prezzo di acquisto del petrolio era fallito.
In realtà era fallita soltanto la sua prima mossa che mirava a sfruttare a proprio vantaggio la concorrenza del settore primario. Restava un'altra carta da giocare, l'integrazione verticale del settore estrattivo. In breve Rockefeller decise di estendere il business della Standard Oil anche nella produzione di greggio acquistando i principali giacimenti petroliferi americani. In questo modo poteva eliminare del tutto il problema dei piccoli produttori e gestire in prima persona il flusso di petrolio da raffinare.
Al termine del 1870 l'impero del petrolio di Rockefeller copriva quasi completamente il mercato americano ed il suo "gioco" mirato a cancellare la concorrenza era ormai chiaro a tutti e non poteva più essere nascosto.


5. Il trust di Rockefeller
L'idea del capitalismo senza regole nacque negli Stati Uniti proprio nella seconda metà dell'ottocento. L'aspirazione monopolistica di Rockefeller rappresenterà per decenni le ambizioni di migliaia di uomini d'affari fino a diventare l'icona stessa del capitalismo del secolo successivo. In quegli anni, però, le politiche monopolistiche erano duramente represse come una violazione dei principi base della concorrenza di mercato. Il monopolio della Standard Oil di Rockefeller era chiaro sia alla stampa sia anche all'opinione pubblica ma nessun tribunale riuscì a dimostrarlo se non dopo molti anni.
Il "trust" della Standard Oil non era facile da individuare. La Standard Oil non era proprietaria delle quote delle società controllate, erano gli azionisti della Standard Oil a detenerle. Peraltro, i titoli delle azioni delle società controllate erano posseduti in amministrazione fiduciaria da persone "presta-nome" vicine agli azionisti della Standard Oil. Nessuno poteva quindi dimostrare la relazione tra la Standard Oil e le società "concorrenti". Questo "gioco" era chiaro a tutti, compresi i vignettisti dell'epoca, ma difficile da dimostrare in tribunale. Le politiche commerciali "armonizzate" (o meglio colluse) tra le società del greggio americano erano motivate come semplici "rapporti di amicizia" tra dirigenti. Può sembrare strano ma ci vollero molti anni per dirimere questa matassa.
Nel 1890 il governo degli Stati Uniti emanò una legislazione anti-trust con lo Sherman Act in cui dichiarava illegale qualsiasi accordo collusivo tra imprese. La Standard Oil fu costretta a ufficializzare i rapporti assumendo il nome di "Standard Oil of New Jersey". Il suo potere era ormai alla luce del giorno ma non venne comunque intaccato. Nell'ultimo decennio del '800 l'impero di Rockefeller copriva quasi il 90% della raffinazione del greggio con una fitta rete informativa su tutto il territorio degli Stati Uniti d'America. Rockefeller iniziò a guardare oltre i confini americani per espandersi anche nella vecchia Europa.

6. Il mercato russo nel '800
L'ascesa della Standard Oil negli Stati Uniti aveva chiuso il mercato americano agli investitori stranieri ma, nello stesso tempo, rappresentava un esempio da imitare nel mondo. Soprattutto in Russia il successo commerciale-tecnologico statunitense venne imitato utilizzando logiche commerciali altrettanto forti e spietate.
Il petrolio di Baku
Nella Russa zarista dell'ottocento erano stati localizzati grandi giacimenti petroliferi nella zona di Baku fin dagli inizi del secolo. Il processo di estrazione antiquato non ha però mai consentito un decollo commerciale della produzione di greggio russo fino all'arrivo dei Nobel e dei Rothschild. I fratelli svedesi Nobel furono i primi a trasformare il potenziale russo in business mondiale applicando processi e programmazioni di stampo industriale. Nel 1876 il petrolio russo della Nobel brothers, sotto la guida di Ludwig Nobel, iniziò a rifornire il mercato interno dell'illuminazione nelle fredde città russe. Per colmare le grandi distanze del continente russo utilizzarono le prime petroliere della storia tagliando enormemente i costi di trasporto del greggio. In soli dieci anni, nel 1885, la Nobel Brothers riuscì a raggiungere una produzione annuale di nove milioni di barili, pari a un terzo della produzione americana.
La ferrovia che cambiò il mercato mondiale del petrolio
Il clima invernale rigido nel mar Baltico impedivano ogni forma di trasporto durante le stagioni fredde limitando le mire espansionistiche dei Nobel sui mercati esteri. Per superare questa barriera naturale la Russia autorizzò la costruzione di una ferrovia da Baku verso i porti del mar Nero. Una nuova via commerciale "a sud" per consentire una commercializzazione del petrolio russo durante l'intero corso dell'anno. La realizzazione dell'opera richiese forti finaziamenti dall'estero e fu completata dalla ricca famiglia ebrea dei Rothschild che fece in questo modo la sua comparsa sui mercati russi tramite la fondazione della Caspian and Black Sea Petroleum (Bnito). La città portuale di Batum divenne così uno dei porti più importanti del mondo nelle mani dei Rothschild e dei Nobel.
Il petrolio russo iniziava la sua conquista dei mercati mondiali e la Standard Oil cominciò a guardare con preoccupazione verso i mercati orientali ed europei. Il "grande gioco" mondiale era appena iniziato.

7. La nascita del mercato mondiale del greggio
L'apertura della via di Batum consentì alle società russe dei Nobel e dei Rothschild di espandere le proprie esportazioni verso i mercati dell'Europa. Il "grande gioco" del petrolio aveva raggiunto una scala mondiale e l'americana Standard Oil iniziò a comprendere il rischio di perdere il monopolio sul mercato mondiale del greggio. Per contrastare la nascente concorrenza russa la Standard Oil tentò inutilmente la strada dell'accordo consociativo con le nascenti società russe per realizzare un trust mondiale. Tutte le proposte nascondevano però la strategia di "scalare" le società. Una strategia intuita dai concorrenti russi, altrettanto scaltri degli americani nell'adottare politiche finanziarie senza scrupoli.
Il petrolio russo alla conquista dell'Europa
La produzione russa di greggio aveva quasi raggiunto i livelli di quella americana. La Nobel Brothers adottò una politica aggressiva di prezzo per conquistare i mercati di sbocco in Europa. La Standard Oil reagì duramente a questa politica tramite il dumping, ossia la vendita del greggio americano sui mercati europei a prezzi inferiori dei costi di produzione e di trasporto al fine di far fallire i concorrenti russi e riconquistare il mercato mondiale. Il potere finanziario della Standard Oil consentiva non solo di coprire i costi ma anche di realizzare vere e proprie campagne diffamatorie sulla presunta "cattiva qualità" del petrolio russo. Il terreno di scontro tra la Standard, i Nobel ed i Rothschild fu la Gran Bretagna dove, quasi contemporaneamente, le tre società aprirono le proprie filiali commerciali. Il potere finanziario della Standard Oil era però troppo forte per essere contrastato a lungo e le imprese russe iniziarono a guardare verso i mercati orientali per trovare altre fonti di entrata economica.


8. Il Canale di Suez
La politica commerciale di Marcus Samuel
La politica di dumping nei prezzi sottocosto della Standard Oil sui mercati europei costrinse i concorrenti russi a ricercare altre fonti di entrata per affrontare una concorrenza che oggi definiremmo sleale. Sia i Rothschild sia i Nobel guardarono con attenzione ai lontani mercati di sbocco dell'estremo oriente. I Rothschild trovarono un'intesa con Marcus Samuel, un abile commerciante londinese che da decenni aveva instaurato fiorenti rapporti commerciali con l'estremo oriente grazie all'apertura del Canale di Suez. L'uso del Canale era stato però proibito alle petroliere per ragioni di sicurezza e il transito era stato già negato anche alla stessa Standard Oil. La via delle Indie per il petrolio sembrava pertanto chiusa per tutte le compagnie.
L'apertura del Canale di Suez alle petroliere inglesi di Marcus Samuel
L'accordo tra Samuel e i Rothschild riuscì ad aprire le porte del canale alle sole petroliere inglesi. Da un lato la ricca famiglia inglese dei Rothschild erano titolari di una grande quantità di azioni del Canale di Suez, dall'altro il governo inglese comprese immediatamente il vantaggio economico della decisione. La presenza di Marcus Samuel nell'impresa garantiva una forte presenza commerciale inglese. Nel 1892 le petroliere di Samuel solcarono il canale per commerciare il petrolio russo nei lontani mercati dell'estremo oriente. Una curiosità, tutte le petroliere di Samuel portavano il nome di una conchiglia in onore al padre di Samuel che seppe sfruttare la rotta commerciale con l'oriente per importare prodotti esotici e conchiglie rivendute a prezzi elevati sui mercati occidentali. Marcus Samuel vide moltiplicare in breve tempo le sue fortune commerciali con l'oriente divenendo uno degli uomini d'affari più importanti nell'Europa di fine ottocento. La Standard Oil era rimasta completamente all'oscuro del piano commerciale di Samuel e si ritrovò del tutto spiazzata sui mercati orientali. Il trasporto del petrolio americano era realizzato ancora tramite i barili, un sistema di trasporto diventato del tutto obsoleto rispetto alla grande distribuzione organizzata da Marcus Samuel. Il "grande gioco" si era spostato sui mercati dell'estremo oriente e la guerra commerciale era tutt'altro che finita.

9. I mercati orientali del greggio alla fine del '800
L'apertura del Canale di Suez alle petroliere inglesi di Marcus Samuel consentì al petrolio russo di conquistare i lontani mercati dell'estremo oriente. La via commerciale tracciata da Samuel poneva il petrolio russo in una posizione competitiva rispetto a quello americano.
L'importanza dei mercati di sbocco orientali
Il porto russo di Batum, mediante l'uso del Canale di Suez, distava da Singapore ben 5.000 chilometri in meno rispetto al porto americano di Filadelfia. I mercati asiatici, pur essendo marginali rispetto a quelli europei o americani, garantivano alle compagnie russe un'importante fonte di entrata economica per poter affrontare la feroce concorrenza della Standard Oil sui mercati europei.
La scalata della Royal Dutch
La Standard Oil era rimasta completamente all'oscuro del piano di Samuel e si ritrovò impreparata ad affrontare l'apertura del Canale di Suez alle sole petroliere inglesi. La reazione commerciale fu immediata ma senza alcun successo. Cercò di acquisire la società Royal Dutch, una società olandese operante nell'estrazione del petrolio nelle Indie orientali olandesi dove esistevano interessanti riserve di greggio nel territorio di Sumatra. La vicinanza dei pozzi petroliferi ai mercati di sbocco avrebbe permesso una dura concorrenza alle compagnie russe anche sui mercati orientali.
La "scalata" finanziaria tentata dalla Standard Oil, però, non gli consentì di conquistare il controllo della Royal Dutch poiché la società olandese associò il controllo della società soltanto al possesso di speciali azioni privilegiate. La Royal Dutch godeva del pieno appoggio del governo olandese ed era malvista una sua conquista da parte degli americani.
Il mondo però stava per cambiare ancora sotto la spinta dell'innovazione tecnologica. Da un lato la diffusione dell'elettricità rendeva obsoleto il vecchio sistema di illuminazione delle città tramite il gas o il petrolio, dall'altro avevano fatto la prima comparsa le automobili con motore a scoppio. Tutto doveva essere rimesso in discussione e l'evoluzione dei fatti favorì le compagnie americane.

10. La nascita del mercato dell'automobile
Alla fine dell'ottocento la spinta dell'innovazione tecnologica mutò gli equilibri petroliferi mondiali. La nascente rete elettrica ridusse il fatturato delle industrie petrolifere fornitrici del gas di città. La precedente rete urbana di illuminazione era basata sull'utilizzo del gas o del petrolio. L’avvento dell’elettricità si presentò come uno spettro del fallimento per molte compagnie petrolifere. Nello stesso periodo storico si diffusero rapidamente le automobili come mezzo di locomozione privato alternativo alle carrozze. Il motore a combustione interna delle automobili impiegava come carburante la benzina, un sottoprodotto della lavorazione del petrolio fino allora di importanza secondaria. Questo sconosciuto sottoprodotto della raffinazione del petrolio era usato come solvente o per alimentare piccoli fornelli, con l’arrivo delle automobili fece l'ingresso sui mercati mondiali acquisendo un crescente valore aggiunto. La domanda della benzina permise alle raffinerie petrolifere di compensare il calo della domanda nel mercato urbano dell'illuminazione.
L'ascesa economica degli Stati Uniti. Il mercato delle automobili nacque contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti ma furono soltanto questi ultimi ad assistere a una rapida crescita del mercato. L'introduzione della catena di montaggio di Henry Ford, proprietario fondatore dell'omonima casa automobilistica americana, inaugurò il ciclo di produzione su scala dell'automobile. La crescente scala produttiva ridusse i costi unitari di produzione e pertanto anche il prezzo finale di vendita dell’automobile. In pochi anni l'automobile tutti i cittadini americani poterono acquistare un’utilitaria e l’automobile divenne il bene di consumo di massa per eccellenza. Due leggende americane si incontrano. A beneficiarne, indirettamente, furono le compagnie petrolifere americane, tra cui l’ormai celebre Standard Oil di Rockefeller, principale produttore e distributore dei prodotti di raffineria negli Stati Uniti d'America. In Europa l'introduzione della catena di montaggio tardò per parecchi anni e il mercato dell'automobile restò appannaggio soltanto per le élite e per i consumatori benestanti. Questa lentezza penalizzò le compagnie petrolifere europee ed asiatiche rispetto a quelle operanti nel territorio americano.
Il mercato dei carburanti non si limitò soltanto alle automobili. Dopo oltre cento anni il motore a vapore delle navi, dei treni e delle caldaie fu sostituito con il motore a gasolio contribuendo a dare un'ulteriore spinta alla domanda mondiale dei carburanti.
La corsa verso gli Stati Uniti. Le innovazioni tecnologiche di fine ottocento trasformarono gli Stati Uniti nel principale mercato di sbocco dei prodotti petroliferi mondiali. Le compagnie europee ed i finanzieri di ogni parte del mondo iniziarono a valutare la localizzazione degli impianti d’estrazione e raffinazione del petrolio direttamente negli Stati Uniti per avvicinare il punto di produzione al punto di consumo ed evitare il peso del costo di trasporto del prodotto finito.
Il grande gioco del petrolio era appena iniziato.

11. La fine della Standard Oil
La grande compagnia petrolifera fondata Rockefeller, la Standard Oil, non ha mai goduto della simpatia dei cittadini e della stampa americana. Il rapido sviluppo economico negli Stati Uniti stava modificando bruscamente il tessuto industriale micro-concorrenziale americano soppiantato dalla nascita dei grandi monopoli o trust in quasi tutti i settori economici. Agli inizi del novecento il capitalismo americano stava perdendo la connotazione famigliare-pionieristica dell'emporio azienda per assumere quella moderna del gigantismo industriale. L'opinione pubblica americana visse questa fase storica con la tipica paura per il cambiamento ed i giornali dell'epoca non fecero altro che enfatizzare i mali del nuovo capitalismo auspicando il ritorno all'epoca concorrenziale americana. Il trust del petrolio era quello che meglio dipingeva la situazione. La politica commerciale aggressiva e senza scrupoli della Standard Oil non era poi così diversa dai trust nel settore industriale. Era il segno di un mondo che stava cambiando in fretta senza dare modo alle generazioni americane di adattarsi. Per questi motivi l’antitrust divenne un obiettivo particolarmente sentito dalla classe politica americana.
La fine della grande Standard Oil. Nel 1906 il presidente Roosevelt denunciò la Standard Oil per cospirazione contro il libero commercio americano e nel 1909 la corte federale sentenziò lo smembramento obbligatorio della compagnia di Rockefeller. Il grande impero commerciale venne scorporato tramite un piano presentato nel 1911 dagli stessi vertici della Standard Oil. Dalla divisione della società nacquero le compagnie petrolifere che ancora oggi riempiono di benzina i serbatoi di mezzo mondo come la Exxon (Esso), la Mobil, la Chevron, la Amoco e la Comoco.
I legami della Standard Oil sopravvissero però allo smembramento. La divisione eliminò il legame di dipendenza tra le compagnie territoriali e la holding ma non riuscì a mutare la politica industriale di ogni singola impresa. Le compagnie petrolifere nate dalla chiusura della holding Standard Oil continuarono a praticare le vecchie politiche e denominazioni commerciali vendendo nei rispettivi mercati territoriali americani e senza interferire negli affari delle ex società del gruppo. Lo spettro della Standard Oil di Rockefeller sopravvisse nei dirigenti delle nuove compagnie che continuarono a sentirsi “cugini” piuttosto che concorrenti. Il valore azionario delle compagnie raddoppiò immediatamente.
Alla fine prevalse la logica di Rockefeller. Di fatto, lo smembramento della Standard Oil ebbe come risultato un rapido e ulteriore arricchimento patrimoniale degli azionisti di maggioranza. Rockefeller uscì vincitore anche dalla sua ultima battaglia ed entrò a pieno diritto nella storia del capitalismo mondiale e nella leggenda americana.

12. Il mercato del greggio in Europa
Alla fine dell'ottocento il mercato del petrolio in Europa accusò lo shock della diffusione della rete elettrica per l'illuminazione delle strade. L'invenzione di Edison mise lentamente fuori mercato il cherosene e l'illuminazione tramite gas o prodotti petroliferi. Rispetto ai mercati americani il mercato dell'automobile rimase un privilegio per pochi consumatori abbienti. Mancò pertanto quella spinta sulla domanda di petrolio che si presentò negli USA per effetto della rivoluzione introdotta da Henry Ford con la produzione su scala delle automobili.
La Shell e la Royal Dutch controllavano gran parte del petrolio russo e asiatico. La concorrenza tra le due compagnie non favoriva nessuno. I vertici delle due compagnie si accorsero del problema ma non riuscirono a trovare facilmente un accordo per la fusione. A capo della Shell ritroviamo Marcus Samuel mentre ai vertici della Royal Dutch si era insediato Henry Deterding come direttore della compagnia. Samuel e Deterding erano leader carismatici nelle rispettive compagnie, nessuno dei due avrebbe rinunciato facilmente al proprio prestigio interno. L'accordo era però inevitabile per affrontare la sfida mondiale con l'americana Standard Oil. Nel 1902 nacque la Shell Transport Royal Dutch, conosciuta come British Dutch. La Shell e la Royal Dutch si trasformarono in holding delle società consociate. Henry Deterding assunse la guida del grande gruppo europeo mentre Samuel ricoprì la figura di presedente.
La guerra commerciale tra Shell/Royal Dutch e Standard Oil. La Standard Oil cercò immediatamente di acquistare il gruppo anglo-olandese ma la cessione non era tra i piani di Deterding. Tra i due colossi del petrolio si aprì una lunga guerra commerciale sui mercati mondiali. L'americana Standard Oil iniziò a praticare prezzi più bassi sui mercati europei per ridurre il margine di profitto della Royal Dutch/Shell. Henry Deterding rispose acquisendo stabilimenti petroliferi sul territorio americano dove la Standard Oil continuava a praticare prezzi di vendita più alti. Lo scontro si spostò anche sul mercato cinese dell'olio illuminante dove la Royal Dutch/Shell riuscì a battere sul tempo la Standard Oil.

13. La rivoluzione russa
La rivoluzione e il crollo del mercato russo. Nei primi anni del novecento l'impero zarista era ormai sull'orlo del definitivo crollo. Il malcontento popolare era alimentato anche da una politica governativa inadeguata ed eccessivamente imperativa. La rivoluzione bolscevica sarebbe stata la logica conseguenza di questi errori. Durante le agitazioni di protesta che portarono alla rivoluzione furono distrutti gran parte dei pozzi petroliferi, divenuti simbolo delle cattive condizioni di vita dei lavoratori russi. La produzione petrolifera era l'anello critico del sistema, gli scioperi degli operai nell'industria petrolifera russa miravano indirettamente a far tracollare il paese nella crisi economica per indebolire il governo dittatoriale dello Zar. Nel 1912 la famiglia dei Rothschild fu costretta dalla crisi a vendere tutti gli stabilimenti russi alla Royal Dutch/Shell. La produzione petrolifera russo continuò comunque a calare. Lo scoppio della prima guerra mondiale segnò il definitivo declino dell'industria petrolifera negli stabilimenti russi di Baku. Tra i fomentatori rivoluzionari che contribuirono alle lunghe manifestazioni e scioperi degli operai dell'industria petrolifera russa si annovera anche il nome del giovane Stalin.

14. Medio Oriente
Una studio di alcuni geologi indicava nelle vaste aree della Persia un grande potenziale petrolifero. Le riserve petrolifere nel Medio Oriente erano comunque note fin dall'antichità, quelle in superficie erano utilizzate per attività edili o medicinali.
Agli inizi del novecento fu lo stesso governo persiano a sollecitare l'attenzione delle società petrolifere occidentali offrendo loro le concessioni di ricerca e prospezione. L'investimento era a elevato rischio. Il Medio Oriente era considerato un terreno di conquista dalla Russia e dalla Gran Bretagna. Qualsiasi attività di ricerca petrolifera straniera avrebbe fatto sorgere la pressione di una delle due grandi potenze dell'ottocento. Ai delicati equilibri dello scacchiere politico internazionale si aggiungeva le difficoltà ad operare in un clima fatto di tumulti e proteste popolari degli integralisti religiosi contro l'eccessiva presenza straniera sui territori arabi.
La risposta arrivò nel 1903 da uno speculatore inglese, William Knox D'arcy, abituato ad operare con una rete di intermediari qualificati a trattare affari ad alto rischio. La crisi del governo zarista e il suo impegno bellico nella guerra contro il Giappone ridusse l'attenzione del governo russo nell'area persiana. Per precauzione D'Arcy fece comunque escludere dalla concessione petrolifera le aree settentrionali della Persia confinanti con la Russia. Il governo inglese sostenne l'iniziativa privata di D'Arcy finanziando l'acquisto e la negoziazione della concessione con lo scià Mu-zaffar al-Din.
Le prime prospezioni operate da D'Arcy nei pressi di Baghdad non ebbero successo. Il governo britannico non accettò di rinnovare il finanziamento dell'impresa ma, al contempo, non gradiva l'ipotesi che le prospezioni fossero continuate dalle imprese russe. La soluzione arrivò tramite il coinvolgimento di una società petrolifera scozzese, la Burmah Oil, che rilevò l'impresa di D'Arcy fornendo capitali e mezzi necessari per continuare la ricerca delle riserve petrolifere sui territori persiani.
Le continue proteste popolari provocarono la caduta dello Scià e le grandi potenze si accordarono per una pacifica divisione della Persia in sfere d'influenza geopolitica.
Nel 1908 venne scoperto il primo grande giacimento petrolifero sul territorio persiano, si trovava a Masjid-i-Suleiman. Il consorzio della Burmah Oil si trasformò in Anglo-Persian Oil Company (APOC) che si aprì all'azionariato pubblico riscuotendo grande successo e ottenne la protezione ufficiale del governo britannico. La APOC si trasformò nel lungo braccio del governo britannico sulle ricche riserve petrolifere del Medio Oriente.

https://it.wikipedia.org/wiki/Anglo-Iranian_Oil_Company

15. Petrolio come affare di Stato

Nei primi anni del novecento il petrolio diventa una materia strategica. Dalle disponibilità di petrolio di un paese dipendeva la capacità militare di affrontare la guerra e la resistenza agli attacchi esterni. Qualsiasi flotta militare sarebbe stata inutilizzabile senza carburante. Divenne pertanto un affare di Stato da proteggere o conquistare con l'intervento militare se necessario.
Fu comunque un passaggio graduale. Il primo Stato a conferire importanza strategico-militare al petrolio fu la Gran Bretagna. Nel 1912 i venti di guerra iniziavano a spirare sull'Europa. L'espansionismo tedesco sui mari precedentemente dominati dagli inglesi destò preoccupazione. Il governo britannico decise un piano di rapido ammodernamento della flotta britannica dotandole di motori a nafta. L'intera flotta fu riconvertita da carbone a petrolio in soli due anni.
Tutte le flotte delle altre potenze militari erano ancora basate sull'utilizzo del carbone. L'utilizzo del petrolio come carburante nautico conferiva alle navi inglesi della Royal Navy una maggiore velocità di manovra e di spostamento. La decisione del governo inglese si dimostrò vincente nelle future battaglie navali durante la prima guerra mondiale.
Le ragioni dell'adozione del petrolio per le flotte navali aveva origini anche dal punto di vista strategico. Le riserve di carbone inglesi erano insufficienti per rifornire la flotta di sua Maestà in caso di conflitti bellici prolungati. L'Inghilterra avrebbe comunque dovuto cercare una materia prima energetica all'esterno dei propri confini geografici. La via del petrolio era quella più sicura. Gli inglesi occupavano già le riserve in Medio oriente.
La prima azienda petrolifera sotto il controllo diretto dello Stato. L'approvvigionamento di petrolio era pertanto diventato un affare di Stato di vitale importanza per il Regno Unito che, per garantirsi la disponibilità delle riserve petrolifere, decise di trasformare la società petrolifera Anglo Persian Oil Company in azienda controllata a maggioranza assoluta dallo Stato. Il governo inglese acquistò il 51% delle azioni della APOC diventando l'azionista di maggioranza assoluta.
In questo modo il governo britannico si assicurò l'approvvigionamento petrolifero senza sottostare alle leggi di mercato e agli interessi puramente capitalistici degli investitori americani. La nuova gestione dell'azienda petrolifera pubblica doveva invece seguire logiche politico-strategiche al servizio del governo inglese.
La APOC beneficiò del potente apparato politico-diplomatico inglese. Gli interessi del governo inglese, i servizi segreti e l'industria petrolifera internazionale si erano inesorabilmente intrecciati. Ancora oggi, dopo ben cento anni di storia, assistiamo agli scacchieri internazionali fortemente dipendenti dal petrolio e basati sulle stesse logiche nate nel primo novecento.


16. La prima guerra mondiale

La decisione inglese di ammodernare la flotta inglese dotandola di motori nafta fu vincente. La Royal Navy ottenne un grande vantaggio in velocità di spostamento rispetto a quelle tedesche. La presenza militare inglese in Medio oriente garantiva un flusso continuo nell'approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito poteva contare sulla presenza militare inglese nel protettorato britannico del Kuwait.
Non fu un caso che le posizioni inglesi e russe trovarono una rapida convergenza politica durante la prima guerra mondiale. La Russia e l'Inghilterra controllavano militarmente le regioni mediorientali divenute riserve strategiche di carburante. Una guerra reciproca sul territorio mediorientale avrebbe danneggiato irreversibilmente anche gli altri fronti bellici in Europa. Un motivo in più per stare dalla stessa parte e Russia e Inghilterra parteciparono come alleati alla prima guerra mondiale.
Lo scoppio della guerra interruppe la collaborazione anglo-tedesca in Mesopotamia realizzata con la Turkish Petroleum Company. La compagnia petrolifera anglo-tedesca nacque nel 1912 per gestire lo sfruttamento dei giacimenti di Mosul e Baghdad.
Nel novembre del 1914 le forze militari britanniche stanziate in Kuwait invasero i territorio meridionali dell'Iraq ottomano. In pochi giorni conquistarono Bassora. La conquista inglese dei territori mesopotamici occupati dai turchi ottomani era ostacolata dalla resistenza delle popolazioni arabe e curde a nord e di quelle sciite a sud. In particolar modo nell'Iraq meridionale le popolazioni sciite avevano inizialmente appoggiato l'invasione inglese contro l'occupazione turca per poi rivoltarsi contro la stessa occupazione inglese in una vera e propria jihad. Il rapporto col mondo arabo era però complesso. Nel 1916 le forze aeronavali inglesi favorirono la rivolta araba alla Mecca e a Taif contro l'occupazione turca. Per dare organizzazione alla rivolta araba venne indviduato un leader in grado di unire le tribù arabe. Era il giovane Feisal. Il governo inglese gli affiancò l'archeologo inglese Lawrence d'Arabia, profondo conoscitore del mondo arabo e pedina importante del servizio segreto britannico. La rivolta araba aprì la strada alle truppe inglesi lungo le piste del deserto che si sarebbero presentate come proibitive per qualsiasi esercito regolare. Nel 1919 la conquista inglese dei territori mesopotamici si completò con l'ingresso delle truppe inglesi a Damasco.
Le riserve petrolifere mediorientali decisero il conflitto a favore degli alleati. Le industrie petrolifere russe di Baku erano ormai al limite della capacità produttiva a causa delle continue proteste degli operai. L'ingresso in guerra diede il colpo di grazia a questi impianti. Il blocco navale allo stretto dei Dardanelli aveva interrotto gli scambi marittimi con il resto del mondo. Le armate tedesche posero gli impianti di Baku tra i primi obiettivi strategici da occupare o distruggere. Così avvenne.
Allo stesso modo la Germania cercò di conquistare le aree petrolifere mediorientali stringendo l'alleanza in guerra con la Turchia. Le truppe dell'impero ottomano attaccarono a più riprese i pozzi petroliferi occupati dalle truppe inglesi in medioriente, senza mai riportare alcun successo.
La guerra tedesca dei sottomarini. Col prolungarsi del conflitto le vie di comunicazioni del petrolio furono la vera prima guerra mondiale. Il controllo dell'approvvigionamento petrolifero consentiva l'immobilismo delle armate e delle flotte sempre più dipendenti a carri e macchinari alimentati a nafta. La lunga guerra di trincea avrebbe premiato la nazione in grado di resistere più a lungo. La flotta tedesca mise in azione un'intera flotta di sottomarini per intercettare le navi cisterna alleate. Nel 1917 la guerra tedesca alle rotte commerciali petrolifere provocò ufficialmente l'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto. In realtà la guerra tedesca alle rotte petrolifere aveva dato risultati sperati. Le truppe alleate erano in seria difficoltà per la scarsità del petrolio. L'ingresso degli Stati Uniti era pertanto un'ufficializzazione dell'appoggio politico dato degli americani anche negli anni precedenti.
La guerra del petrolio ebbe un ruolo decisivo sull'esito del conflitto mondiale. La prima guerra mondiale si concluse nel 1918 con la vittoria delle forze alleate su quelle tedesche.


17. Giacimenti come trofeo di guerra

La fine della prima guerra mondiale disegnò nuovi equilibri geopolitici. La Germania e la Turchia, uscite sconfitte dal conflitto, persero completamente ogni diritto sui giacimenti petroliferi mesopotamici. Scomparve anche la Russia come antagonista dello scacchiere petrolifero in Medio oriente. La rivoluzione bolscevica aveva destabilizzato il governo russo e la sua capacità nel controbilanciare l'espansionismo inglese.
Le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale si divisero il mondo con un'ottica ancora coloniale. Le zone aride del medioriente, un tempo importante crocevie dei commerci con le indie, divennero strategicamente importanti per le riserve petrolifere.
La Gran Bretagna ottenne il pieno controllo dei ricchi giacimenti mediorientali. Il governo inglese riunì tre ex province del decaduto impero ottomano e diede vita allo stato dell'Iraq. Le tre province era completamente diseguali tra loro, sunniti, sciiti, yazidi, ebrei e curdi, gruppi etnici e religiosi diversi che non formarono mai una comune identità nazionale. La guida dell'Iraq fu affidata nuovamente al principe Hashemita Feisel. Era necessario garantire un governo filobritannico che garantisse la stabilità politica nel paese necessaria per proteggere la "via del petrolio" ed i traffici commerciali verso l'Inghilterra. Feisel sembrava la persona adatta per gli interessi inglesi. Il controllo diretto dell'Iraq da parte di un governo inglese avrebbe comportato grandi rivolte popolari. Il territorio iracheno era sotto il controllo degli sceicchi arabi, in continua lotta tra loro ma accomunati dal sentimento nazionalista arabo verso l'invasore straniero. Il governo di Feisel, divenuto re dell'Iraq nel 1921, privilegiò l'ascesa dei sunniti alle cariche pubbliche. La maggioranza della popolazione di origine sciita restò fuori da ogni coinvolgimento di governo. Il nord del paese era caratterizzato dalle continue rivolte della popolazione curda. Con il regno di Feisel l'Iraq si trasformò in un vero e proprio protettorato britannico. Le imprese britanniche si assicurarono sia le concessioni sia lo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi mesopotamici.
La spartizione delle concessioni petrolifere in Medio Oriente tra Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Le nazioni vincitrici della prima guerra mondiale chiesero e ottennero la partecipazione allo sfruttamento del petrolio iracheno. Nel 1928 le concessioni di sfruttamento vennero spartite tra la Royal Dutch, l'Anglo Persian, la francese Compagnie Française des Pétroles e l'americana Near East Development Company. Il coinvolgimento americano allo sfruttamento delle riserve petrolifere mediorientali era un atto dovuto. Da un lato rappresentava il prezzo per l'intervento americano nella prima guerra mondiale a fianco degli inglesi. Dall'altro rafforzava la posizione occidentale nel controllo dell'area mediorientale politicamente instabile e ostile alla presenza straniera. L'arrivo dei capitali americani avrebbe infine accelerato le attività di ricerca e prospezione.
Nel 1930 l'Iraq di Feisel ottenne l'indipendenza formale dall'Inghilterra ed entrò come paese indipendente nella Società delle Nazioni. Si trattava di una pura formalità. Le riserve petrolifere del paese erano già sotto il controllo diretto delle società anglo-americane.


18. La seconda guerra mondiale

La presenza britannica nell'area mediorientale e quella russo dei giacimenti nel Caucaso furono tra le prime preoccupazioni del terzo Reich di Hitler. L'indipendenza dal petrolio straniero era uno dei principali punti del programma quadriennale di Hitler nel 1936. Furono investite grandi risorse e mezzi nella produzione dei carburanti sintetici e nell'idrogenazione. Il programma consentì alla Germania di rifornire i mezzi militari durante l'invasione della Francia e della Polonia senza dover dipendere dall'importazione di petrolio dalla Russia o dal Medio Oriente britannico.
La guerra alla Russia fu un avvenimento quasi inspiegabile. Nel 1939 la Germania e la Russia avevano stretto il patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, prima dell'inizio del secondo conflitto mondiale, che metteva al sicuro la Germania dal dover sostenere l'impegno militare su due fronti opposti. In questo modo le due potenze si spartivano pacificamente i territori polacchi. Eppure fu proprio Hitler nel 1940 a organizzare l'invasione della Russia. Tra i motivi che giustificarono la guerra ci fu anche il petrolio del Caucaso. Le truppe tedesche miravano al controllo dei giacimenti di Baku per sostenere i rifornimenti alle proprie armate. Dalle zone del Caucaso le truppe tedesche avrebbero potuto ricongiungersi con le altre armate italo-tedesche di Rommel in Africa settentrionale e invadere l'area mediorientale britannica. Un progetto ostacolato dalla forte resistenza russa e delle truppe britanniche stanziate in Africa costantemente rifornite di petrolio dalle retrovie merdiorientali.
Il controllo del petrolio era al centro degli obiettivi strategico-militari anche del Giappone. Il Giappone dipendeva esclusivamente dall'importazione di petrolio dagli Stati Uniti e dalle Indie Olandesi. Durante l'invasione dei territori cinesi le truppe nipponiche si posero come obiettivo strategico la conquista dei giacimenti petroliferi delle Indie Olandesi. Un piano ostacolato dal governo americano che minacciava l'intervento militare statunitense in caso di aggressione all'Indocina. A tale scopo la flotta militare americana era stata spostata e concentrata nell'avamposto più a occidente degli Stati Uniti, a Pearl Harbor. Il governo americano temeva il ritiro delle truppe inglesi dall'estremo oriente. Un ipotesi che avrebbe consentito al Giappone di avanzare fino alla completa occupazione militare delle risorse petrolifere asiatiche.
Già negli anni '30 il governo giapponese aveva emanato una serie di leggi per imporre sul mercato interno il controllo diretto del petrolio. Venne imposto alle compagnie petrolifere straniere il mantenimento di ingenti scorte e la totale dipendenza dal governo nipponico per la determinazione dei prezzi di vendita finali. Le compagnie angloamericane protestarono presso i rispettivi governi e il governo britannico propose l'attuazione dell'embargo petrolifero ma gli Stati Uniti decisero di non seguire una linea e preferirono mantenere un dialogo diplomatico con Tokyo. Pertanto gli Stati Uniti continuarono a vendere petrolio al Giappone anche durante l'invasione nipponica della Cina. In cambio veniva chiesto espressamente al Giappone di non invadere l'Indocina.
L'invasione giapponese dell'Indocina nel 1941. Soltanto con l'invasione nipponica dell'Indocina nel luglio del 1941 gli Usa, la Gran Bretagna e il governo olandese in esilio decisero l'embargo petrolifero.Il Giappone perse di colpo l'intera fornitura di petrolio. Le trattative diplomatiche tra Usa e Giappone per giungere alla riapertura degli scambi commerciali furono vane. Il giorno 8 dicembre 1941 i vertici militari nipponici attuarono il piano dell'attacco a sorpresa a Pearl Harbour mettendo fuori uso la flotta americana.
La conquista dell'Indocina era il nodo strategico per estendere il controllo giapponese anche sulle Indie Olandesi, ricche di giacimenti petroliferi. Il Giappone giocò la carta del tutto per tutto.
L'entrata in guerra degli Stati Uniti rovescerà le sorti del conflitto anche in Europa dove le forze russe e britanniche, costantemente rifornite di petrolio dalle retrovie, avevano finora ostacolato con successo l'avanzata italo-tedesca in Russia e in Africa settentrionale.
Il nuovo ordine mondiale. La fine della guerra vide la definitiva uscita dalla scena del Giappone e della Germania. I paesi vincitori della guerra imposero un "nuovo ordine" mondiale. Le compagnie petrolifere americane si estesero nei grandi bacini petroliferi mediorientali dove, per l'occasione, veniva escluso l'accesso ai francesi della Compagnie des Pétroles. La crescita della domanda di petrolio negli USA spinse il governo di Washington ad appoggiare appieno l'interesse delle compagnie petrolifere americane. In breve tempo le Sette Sorelle, principali compagnie petrolifere angloamericane, controllarono oltre l'80% della produzione e della raffinazione mondiale del petrolio. I paesi europei, completamente distrutti dalla seconda guerra mondiale, divennero sempre più dipendenti dal petrolio mediorientale e dalle compagnie petrolifere americane che ne gestivano gli scambi commerciali internazionali.


fine prima parte
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Petroio, petrojo o ojo de pria

Messaggioda Berto » mer giu 14, 2017 9:33 pm

seconda parte


19. Le Sette Sorelle

Al termine della seconda guerra mondiale il "Nuovo Ordine Mondiale" venne rifondato sugli interessi delle nazioni vincitrici, in particolar modo di quelle dell'asse anglo-americano. Per il governo di Washington divenne irrinunciabile poter contare anche sulle riserve petrolifere in Medio Oriente. La produzione nazionale di greggio era insufficiente per tenere il passo con l'affermarsi della società dei consumi americana. Un ragionamento simile fu seguito dal governo inglese. La presenza militare anglo-americana in Arabia Saudita, conseguente alla sconfitta tedesca, giocò un ruolo di grande rilevanza economica in quel mondo distrutto quasi completamente dal conflitto mondiale. Già nel 1949 le sette più grandi società petrolifere americane e inglese, conosciute anche come "Sette Sorelle", poterono vantare il controllo di oltre i 3/4 della produzione e della raffinazione del greggio dell'emisfero orientale. Ai paesi produttori di petrolio veniva riconosciuto il pagamento dei diritti di concessione dei giacimenti e una royalty fissata in percentuale sul prezzo di listino. Le compagnie petrolifere anglo-americane poterono invece gestire liberamente il prezzo di vendita e la produzione di petrolio dall'estrazione alla raffinazione. I profitti delle Sette Sorelle erano 3 o 4 volte superiori rispetto a quanto versato dalle compagnie stesse alle casse dei paesi produttori.
La riconversione dell'Europa dal carbone al petrolio
L'inverno particolarmente rigido del 1946 e la grave scarsità di carbone in Europa influenzarono la stesura stessa del Piano Marshall (European Recovery Program). La ricostruzione delle economie nell'Europa occidentale si basò essenzialmente sulla trasformazione delle economie dal carbone al petrolio. I motivi erano semplici. Il petrolio poteva essere fornito dalle compagnie anglo-americane operanti in Medio Oriente. Servire il nascente mercato europeo con il petrolio mediorientale garantiva alle compagnie petrolifere anglo-americane un vantaggio logistico notevole nel minore costo di trasporto del greggio dal luogo di produzione (Medioriente) al luogo di consumo (Europa). Il disordine politico causato dal prolungato conflitto mondiale consentiva un grande potere negoziale alle potenze vincitrici del conflitto, a cui spettava il compito di disegnare le nuove regole della cooperazione internazionale come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Le proteste mediorientali

Nei primi anni '50 i paesi produttori di petrolio uscirono dalla loro fase di disordine politico post-coloniale e bellico. Una nuova spinta nazionalista spinse i governi produttori di petroli alla rivendicazione dei diritti sullo sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio. La disparità iniziò a generare attriti tra i governi sauditi e le compagnie. L'accordo economico venne trovato nel 1950, ai paesi produttori sarebbe spettato il 50% dei profitti in modo paritario a quelli delle società petrolifere. Per questa ragione l'accordo, già sperimentato in Venezuela nel 1943, prese il nome di "accordo fifty-fifty". Prezzo di listino e prezzo di vendita tornarono ad essere uguali. La politica petrolifera americana riuscì così a salvaguardare i rapporti politici con i paesi produttori e consolidare la presenza delle proprie compagnie petrolifere in Medio Oriente. Il petrolio aveva perso la sua natura di bene commerciale privato per entrare in quella più delicata di bene strategico e geopolitico.

20. La crisi petrolifera iraniana degli anni '50

Nell'immediato dopoguerra il governo britannico adottò la formula del "fifty-fifty" per dividere i profitti delle compagnie petrolifere britanniche con i paesi produttori di petrolio al fine di evitare le crescenti proteste locali. La formula non riuscì però a sedare la richiesta di nazionalizzazione del settore petrolifero da parte delle opposizioni iraniane. A capo di questo movimento si trovava Mohammed Mossadegh, presidente della commissione petroli al parlamento iraniano, in completo disaccordo con la posizione del primo ministro Alì Razmara e dello scià Reza Palhevi. Lo scontro istituzionale in Iran si acuì nel 1951 con l'assassinio di Razmara per mano dei nazionalisti e l'ascesa al governo di Mossadegh. Tra le prime decisioni del nuovo governo ci fu la nazionalizzazione del settore petrolifero iraniano, un atto che segnava la fine per la compagnia britannica Anglo Iranian posta definitivamente fuori legge. Nacque per volontà di Mossadegh la National Iranian Oil Company.
La reazione inglese. Il governo britannico non rispose immediatamente con l'intervento militare diretto a causa del contesto storico generale degli anni '50. Molte ex colonie, tra cui la vicina India, stavano premendo o avevano già ottenuto l'indipendenza dall'impero britannico. L'impero coloniale della corona inglese si stava rapidamente sgretolando e un intervento militare in Iran avrebbe potuto accelerare questo processo. L'intervento avrebbe avuto effetti disastrosi anche sull'opinione pubblica inglese. Un altro importante motivo alla base del non-intervento era di natura geopolitica, l'intervento militare poteva legittimare un'invasione militare sovietica da nord. L'impero britannico usciva indebolito dalla seconda guerra mondiale e non era più in grado di controllare le ex colonie. Un aspetto che favorì l'ascesa degli Stati Uniti. Ci si limitò pertanto ad un embargo petrolifero all'Iran e al controllo del porto di Abadan per evitare gli scambi petroliferi con l'estero.
Dopo un primo tentativo dello scià di Persia di rimuovere Mossadegh e una serie di colpi di stato da parte delle opposte fazioni politiche, si giunge all'accusa di tradimento per Mossadegh che fu processato e condannato dal tribunale iraniano. Era evidente l'appoggio esterno della CIA americana. Un epilogo che sancì la vittoria delle compagnie petrolifere angloamericane con l'appoggio filo-occidentale dello scià Palhevi. Le aspirazioni nazionaliste locali in Iran furono messe brutalmente a tacere in nome dell'interesse petrolifero occidentale. La Anglo Iranian tornò a gestire le fasi della lavorazione e della commercializzazione del greggio iraniano.
Lo strapotere delle Sette Sorelle. L'atto di forza dei servizi segreti era però sotto gli occhi di tutti e i media occidentali non risparmiarono di evidenziare lo strapotere delle compagnie petrolifere, le famose Sette Sorelle, negli affari esteri dei governi occidentali. Il controllo delle riserve petrolifere iraniane era salvo. Il ritorno delle compagnie petrolifere angloamericane in Iran accrebbe il risentimento dei nazionalisti iraniani verso l'occidente.
Un errore dell'occidente. In fin dei conti Mossadegh era una figura nazionalista moderata in grado di dialogare e negoziare con l'occidente. Era un abile negoziatore che mise in seria difficoltà gli interlocutori occidentali e le compagnie petrolifere. Lo "smacco" ordito dalla CIA ai nazionalisti iraniani, l'accusa e la rimozione di Mossadegh con il conseguente annullamento della nazionalizzazione del settore petrolifero iraniano, porterà negli anni a venire alla rivoluzione integralista di Komehini e accrebbe la rabbia verso l'occidente.
Petrolio. La guerra dei sei giorni
La crisi di Suez nel 1956 aveva provocato un'umilante sconfitta diplomatica per Francia e Inghilterra. Lo Stato di Israele, pur dovendo ritirarsi dai territori conquistati di Gaza e del Sinai, mantenne il diritto di transito delle navi israeliane sullo stretto di Titan attraverso cui il Golfo di Aqaba comunica con il Mar Rosso. La concessione era una via di approvvigionamento petrolfiero fondamentale per Israle attraverso il porto israeliano di Eliat. Lo stetto di Tiran era però un territorio egiziano occupato dallo Stato d'Israle fin dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948 e da cui le truppe israeliane non si erano mai ritirate nonostante le richieste delle Nazioni Unite. Lo stesso porto di Eliat rimase sotto il controllo diretto di Israele per tutti gli anni '50 e '60.
La chiusura del Golfo di Aqaba. Nel 1967 il leader egiziano Nasser proclamò la chiusura del Golfo di Aqaba alle navi israeliane. Nasser osservava come la concessione di quel diritto di transito fosse stata ottenuta a seguito dell'aggressione israeliana del 1956 condannata dalle Nazioni Uniti. Era una richiesta legittima ma anche una chiara provocazione per indurre lo Stato di Israele verso un nuovo conflitto. Nasser sperava nell'unione panaraba che, almeno in parte, si realizzò. Alcuni paesi arabi (Siria, Giordania, Iraq) si mobilitarono dalla parte dell'Egitto.
La guerra preventiva di Israele. Il 9 giugno 1967, dopo due settimane dalla decisione di Nasser, le truppe israeliane realizzarono un attacco preventivo bombardando a tappeto gli aeroporti militari egiziani e iniziando l'invasione dei territori giordani, siriani ed egiziani. I paesi arabi dell'Arabia Saudita, Iraq, Kuwait e Iraq decisero l'embargo petrolifero immediato verso Stati Uniti, Germania Occ. e Gran Bretagna.
In pochi giorni le truppe israeliane conquistarono il Sinai, il fronte Giordano e Gerusalemme. Le Nazioni Unite, su espressa richiesta dell'Unione Sovietica, riuscirono a imporre rapidamente un armistizio tra Israele, Egitto e Giordania ponendo fine alla "guerra dei sei giorni". Israele usciva vincitore indiscusso del conflitto.
L'arma del petrolio non riuscì a scattare per diversi motivi. Da un lato la rapida guerra preventiva di Israele aveva reso impossibile ogni forma di reazione circoscrivendo le conseguenze dell'embargo petrolifero al minimo, dall'altro il mondo arabo si presentò disunito nell'attuare l'embargo stesso. L'Iran dello Scià Palhevi e la Libia del re Idris erano completamente allineate dalla parte delle potenze occidentali e non parteciparono all'embargo petrolifero riducendone fortemente la portata. La stessa Arabia Saudita si mostrò scettica nei confronti del progetto panarabo di Nasser.



estratto da www.ecoage.com

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Strategic Geography and the Changing Middle East: Concepts, Definitions, and Parameters

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Relative distances under sail and steam propulsion. Under sail power all of South America below the Brazilian Cape was much closer to Liverpool than to New York, while under steam propulsion it was nearly equidistant to both.
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Principal sailing and steamship routes.
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British Empire (1900-14): Coal power
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World oil (1914-19).
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Annual oil production of the ten leading producers (1939).

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Drang nach Osten (1941 and 1942).
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German drive for victory (summer 1942).

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Sea lines of communication: Oil (thousands of barrels per day) (1957).
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Sea lines of communication: Oil (thousands of barrels per day) (1975).



Tratto da Geoffrey Kemp and Robert Harkavy

From Strategic Geography and the Changing Middle East
© 1997 Brookings Press
Reprinted with the Permission of the Brrokings Institute Press
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