L'orenda Costitusion Tałiana

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Messaggioda Berto » mar ott 11, 2016 7:19 am

L'orenda Costitusion Tałiana
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » mar ott 11, 2016 7:20 am

La Costituzione Italiana sancisce l'espropriazione della sovranità dei cittadini o popolare, da parte di una casta di eletti selezionata dai partiti, senza alcun vincolo di mandato.
La chiamano democrazia rapprentativa e indiretta ed è la seconda fonte del male italiano dopo il suo portato storico risorgimentale fallimentare con i suoi falsi miti unitari.


Il confronto va fatto con i paesi variamente democratici e federali dell'occidente:
Svizzera (la più democratica), Austria, Germania, paesi scandinavi, Olanda, Inghilterra, USA e Canada
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » mar ott 11, 2016 7:20 am

COSTITUZIONE ITALIANA, LA SPARTIZIONE DELLO STATO VOLUTA DAI PARTITI
ENZO TRENTIN

Dalla storia si può imparare a non commettere nel futuro gli stessi errori. Noi siamo quel che siamo proprio perché abbiamo vissuto determinate esperienze dalle quali siamo usciti più forti e temperati. Eppure il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna. Lo scrittore statunitense Ambrose Bierce a proposito della storia scrisse: «È il resoconto per lo più falso di eventi per lo più irrilevanti provocati da sovrani per lo più mascalzoni e da soldati per lo più folli».

La Repubblica italiana nasce sulle ceneri della II Guerra Mondiale e secondo gli americani (i veri vincitori) avrebbe dovuto essere una repubblica federale. Infatti, la Germania dell’Ovest lo fu. Nel 1945 l’intera Europa era un cumulo di macerie dove si aggiravano torme di esseri umani smarriti e affamati. Gli USA vararono il Piano Marshall (European Recovery Plan). Fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo che l’avevano spianata con i bombardamenti. Esso terminò nel 1951, come originariamente previsto.

È indispensabile tenere a mente questo scenario per comprendere il clima in cui nacque la Costituzione “più bella del mondo”. Tsz! È un tema che abbiamo sviluppato più volte, e per questo stavolta vogliamo chiamare in campo Sergio Salvi [L’Italia non esiste – © 1996, Camunia editrice srl, Firenze] che così riassume i lavori della Costituente: purtroppo, i costituenti erano, almeno per un terzo, avvocati, esperti di diritto, o comunque laureati in legge. Fu come invitarli a nozze. Si dedicarono con lena inesausta ad azzeccare ogni garbuglio preventivo possibile.

A proposito delle Regioni Salvi scrive: discussioni sottili si intrecciarono, con sottile eleganza, su quale «potestà legislativa» le «regioni» dovessero possedere: «potestà legislativa primaria o esclusiva» (che però sapeva troppo di federalismo), oppure «potestà legislativa delegata o integrativa» (che avrebbe fatto loro alzare un po’ meno la cresta), oppure soltanto «potestà legislativa concorrente» (che le avrebbe imbalsamate nel ruolo di «filiali» o «succursali» locali dello Stato)? Alla fine prevalse, per tutte le regioni ordinarie l’ultima formula: e il sogno di un’autonomia reale svanì durante la rincorsa verso la ricetta meno compromettente per l’unità dello Stato. La limitatezza delle attribuzioni e delle competenze legislative (quale risulta dall’articolo 117 della Costituzione) e il controllo onnipotente da parte del governo (articolo 127) fecero dello «Stato regionale» una variante impercettibile dello «Stato accentrato».

L’asino cadde quando si dovette compilare l’elenco delle regioni: di quelle ordinarie, da sistemare alla svelta senza troppa fatica, ma che non si sapeva ancora quali e quante fossero. Nessun problema sorse infatti a proposito delle regioni cui andava riconosciuta una autonomia speciale imposta dalle circostanze e talvolta conseguente alla sconfitta bellica (anche se mascherata da «co-vittoria» al fianco dell’alleato dell’ultimo istante) di: Valle d’Aosta, Sicilia e Sardegna. Fu deciso semplicemente di munire quelle tra di esse che ancora non li possedevano, di Statuti speciali da approvare in seguito con leggi costituzionali ad hoc.

A proposito del Sud-Tirolo, l’abilissimo Alcide De Gasperi escogitò un trucco col quale eluse, almeno in parte, l’accordo appena concluso con Karl Gruber. Fabbricò un «mostro» (le leggi le emanava allora il governo e non certo l’Assemblea Costituente) tenendo unita la provincia di Trento, a maggioranza italiana, con quella di Bolzano (cui aggiunse, per fortuna, alcuni Comuni trentini di lingua tedesca), ottenendo così la «regione autonoma a Statuto speciale» Trentino-Alto Adige, […] Per il resto, però, buio pesto. Nessuno sapeva niente delle «regioni a Statuto ordinario» da istituire. La formazione quasi soltanto giuridica dei costituenti ne faceva degli autentici incompetenti in materie fondamentali quali la storia, la geografia, la linguistica e l’economia, così necessarie per un’identificazione corretta. Purtroppo, il «paese» (cioè i «paesi») era in mano a questi volenterosi incompetenti che avevano deciso lo Stato regionale senza sapere nemmeno quali fossero i soggetti del loro ostentato regionalismo. È questo il paradosso più paradossale della storia paradossale di uno Stato paradossale. […] L’ignoranza dei costituenti, quale emerse dai dibattiti, regnò sovrana.

Nel progetto di Costituzione presentato il 31 gennaio 1947, comparvero ex novo, rispetto al ritaglio statistico, le regioni del Salento e del Molise, mentre la regione statistica dell’Emilia venne divisa in due: Emilia-Romagna (in sostanza, le vecchie legazioni pontificie, rivolte all’Adriatico) e «Emiliano-lunense» (in sostanza, i vecchi «ducati», con la Lunigiana, di dialetto affine, che assicurava uno sbocco sul Tirreno). Queste proposte vennero comunque bocciate.

I comunisti e i socialisti aderirono, stremati da tanti discorsi inconcludenti, alla ipotesi opportunista della Dc. Venne cosi approvato a maggioranza un ordine del giorno perentorio: «L’Assemblea Costituente delibera che […] siano costituite le Regioni storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche». L’errore di Maestri [Nel 1861, Pietro Maestri, incaricato di redigere l’Annuario Statistico ufficiale del neonato e ancora smilzo Regno d’Italia, ritenne opportuno raggruppare per «compartimenti topografici» i dati raccolti.] venne paradossalmente riconosciuto come verità dai costituenti, a corto di opinioni e ormai anche di pazienza, nonostante Pietro Maestri avesse posto le mani avanti incolpando delle sue scelte (riconosciute da lui stesso arbitrarie) l’«arretratezza degli studi». Si presero insomma per «regioni storico-tradizionali» alcuni raggruppamenti di province spesso privi di ogni storia comune, di qualsiasi omogeneità di fondo e risalenti appena a settantacinque anni Prima. […]

La Costituzione, approvata dall’assemblea il 22 dicembre 1947, venne promulgata dal capo dello Stato cinque giorni dopo [grandi furono le perplessità del Presidente della repubblica Enrico De Nicola, prima di porre la sua firma in calce al documento. Ndr] ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Il risultato fu che nacquero, sulla carta costituzionale, diciannove regioni molte delle quali prive di ogni fondamento: e tutte prive di ogni reale autonomia. L’articolo 5 della Costituzione, nel recitare che «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» è come se avesse detto di riconoscere tutte le vergini in quanto madri: a condizione che restassero vergini guardandosi bene dal partorire. Il 26 febbraio 1948 vennero, con legge costituzionale, approvati gli Statuti speciali della Valle d’Aosta, della Sardegna e del Trentino-Alto Adige, regioni con le quali non si poteva, in ragione degli accordi e dei trattati internazionali, scherzare poi troppo. La Sicilia era già stata accontentata nel 1946. Il Friuli-Venezia Giulia rimase in lista in attesa degli eventi. Tutte le regioni a Statuto ordinario rimasero invece sulla carta, appunto, costituzionale. […]

La realtà fu che alla cattiva volontà, al disinteresse o meglio agli interessi della Dc, faceva da sponda la burocrazia dello Stato, passata in toto dalla monarchia costituzionale al fascismo negli anni Venti e rimasta al suo posto durante il passaggio dal fascismo alla repubblica, approfittando di «amnistie» concesse dalla repubblica con tale frequenza e liberalità da risultare pleonastiche. […]

Un’inchiesta (1995) curata dalla Lega delle autonomie locali ne dà, a distanza di decenni, una conferma sconvolgente. Soltanto il 7,3 per cento dei cittadini italiani interpellati in proposito, ha dichiarato di sentirsi «soprattutto cittadino della sua regione», contro il 44,9 per cento (e non è davvero molto) che si sente «soprattutto italiano», il 33,5 per cento «europeo» e il 13,7 per cento «cittadino del suo comune». La regione è dunque, per gli «italiani», una «regione straniera». Perché i romagnoli finiti con i loro Comuni nelle Marche o in Toscana dovrebbero sentirsi cittadini di queste regioni anziché della Romagna (sia pure aggregata all’Emilia)? Perché i lombardi della provincia di Novara, annessi con la forza dal Regno di Sardegna nel 1738-48, dovrebbero sentirsi piemontesi? Domande di questo tipo potrebbero essere almeno un centinaio. […]

Insomma, i partiti di maggioranza e opposizione erano tornati a spartirsi lo Stato italiano e le sue istituzioni senza eccessivi pregiudizi (si consolidò in questo modo la «partitocrazia»). Guardando poi alla storia delle Regioni a statuto speciale si può dire che, in tutte le periferie dello Stato italiano dotate di una identità spiccata, la lotta per la conservazione (e, se possibile, lo sviluppo) della propria identità, durante tutti gli anni della repubblica, non sia mai cessata.

Ma torniamo all’Assemblea Costituente. Il 25 giugno 1946, l’Assemblea aprì i suoi lavori. Fu deciso di istituire una commissione di 75 membri per preparare il progetto della nuova Costituzione, da discutere poi tutti insieme. Il 25 luglio, la commissione decise di dividersi in due sottocommissioni, una delle quali (la seconda) fu incaricata di studiare l’organizzazione costituzionale dello Stato. In essa, su 36 membri, soltanto due (Emilio Lussu e Oliviero Zuccarini) erano federalisti: tutti gli altri apparivano autonomisti e regionalisti generici. L’ipotesi federalista venne subito accantonata dai suoi stessi sostenitori in quanto realisticamente impraticabile.

Abbiamo ritenuto importante questo sommario excursus storico, perché tra gli indipendentisti – non solo veneti – esistono persone in buona fede che sono tuttavia portatori di un pensiero debole. Le loro gracili tesi – al posto della secessione – vogliono la chimerica conquista elettorale della Regione (Ente amministrativo italiano), per poi da lì dichiarare l’indipendenza, e successivamente addivenire ad un’Assemblea costituente. Orbene:

Chi sarebbero i costituenti con un’adeguata cultura federalista; considerato che molti straparlano di volere un ordinamento simile a quello svizzero?
Quali sarebbero le attribuzioni e le competenze legislative dei soggetti federati? Comuni, Province o Cantoni, federazione?
Ad indipendenza ottenuta, il nucleo del potere burocratico rimarrà nelle mani delle stesse persone che lo gestiscono attualmente, com’è avvenuto nel passaggio tra fascismo e repubblica?
Cosa produsse di sostanziale, a suo tempo, il «Parlamento del Nord» (sedicente federalista), insediato a Mantova il 24 luglio 1995, voluto dalla Lega Nord? E che potere ebbe, dopo che a Venezia – il 15 settembre 1996 – fu proclamata l’indipendenza della Repubblica Federale Padana?
Quale sarebbe, domani, la dimensione economico-strutturale specifica?
Quale identità culturale e perfino spirituale avrebbe questo nuovo soggetto istituzionale?
Di quali appoggi o quanto meno simpatie internazionali può beneficiare il nuovo soggetto istituzionale sedicente indipendente, ma che deve ancora definire la sua architettura istituzionale, ed ottenere su di esso l’indispensabile consenso popolare?
Di domande pertinenti ce ne sarebbero molte altre, ma non vogliamo girare troppo crudelmente il coltello nella piaga.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » dom ott 16, 2016 10:17 am

???

Travaglio direbbe No a tutte le Costituzioni d'Europa
Pubblicato: 15/10/2016
http://www.huffingtonpost.it/giovanni-g ... 89332.html

Il dibattito sul referendum costituzionale è un grande momento, non c'è dubbio. È un po' come quando gioca la nazionale di calcio... Tutti diventiamo commissari tecnici. E non è detto che i dilettanti siano meno attenti, e severi, dei professionisti.

Anzi, quanto a severità, c'è addirittura qualcuno che non teme confronti: è il direttore de il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che quasi quotidianamente lancia intemerate contro il testo della riforma e i suoi sostenitori.

Tutto si può dire di Travaglio, tranne che non sia uno documentato. E, infatti, prima di tutto si è messo a tavolino scrivendo un libro dal titolo piuttosto eloquente: "Perché No". Un volume nel quale sfoggia competenze in materia, a 360 gradi, spaziando dal costituzionalismo americano fino all'organizzazione interna del Bundesrat tedesco (non credo ci sia bisogno di spiegare cos'è, sarebbe come tradurre "off-side" quando giocano gli azzurri!).

Nel libro, Travaglio con il suo stile, se mi si perdona il neologismo, "brizzante" - vale a dire, brillante e sprezzante - fa letteralmente a pezzi la riforma elencando, nell'ambito di una vera e propria requisitoria, ben 35 motivi per cui chi l'ha scritta andrebbe rinchiuso in un ospedale psichiatrico, anziché lasciato in libertà.
Mentre lo leggevo, mi sono ricordato del commento di Gaetano Salvemini alla Costituzione del 1948, quando l'illustre storico, professore a Harvard, scriveva a Ernesto Rossi: "Ho letto il progetto della nuova Costituzione. È una vera alluvione di scempiaggini. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare primo o poi quel mostro di bestialità...".

"Urca"! E proprio mentre facevo questo accostamento, mi si è accesa una lampadina: ma la prosa corrosiva di Travaglio non sarà sprecata per questa legge Costituzionale, i cui padri non sono certo i Costituenti contro cui si scagliava appunto Salvemini?

E sono quindi giunto alla conclusione che è proprio così: Travaglio è sprecato per questa riforma... Le sue riflessioni critiche vanno valorizzate oltre queste "piccinerie" nostrane. E così ho fatto... Le ho applicate alle Costituzioni che ci sono in giro nel mondo e, ovviamente, anche alla nostra.

E funziona! Così, c'è da auspicare che la diffusione del suo libro induca finalmente Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti ad avviare un serio processo riformatore per ovviare a tutti i difetti che, se si applicasse, Travaglio sicuramente riuscirebbe a stanare. Prendiamo ad esempio la Germania: altro che il nuovo articolo 70 della nostra riforma con 500 parole, a fronte delle due righe di oggi. Lì i corrispondenti articoli ne hanno la bellezza di quattro-cinque volte di più. Verrebbe da dire, Merkel bocciata! E che dire della Francia, il cui Senato non è eletto direttamente dai cittadini, ma dagli amministratori locali... Chissà che pastette e magagne... Anche Hollande, bocciato! E poi, dappertutto, le seconde Camere (molte delle quali manco elette direttamente dai cittadini) hanno molti meno componenti della corrispondente Camera politica (60, 80, 100 a fronte di quattro-cinquecento)... Che squilibrio! E che violazione del principio di eguaglianza (Punto 13 della requisitoria finale, nel libro di Travaglio). Tutti bocciati! E il Regno Unito? In cui da secoli i cittadini sono convinti di eleggere - di fatto, come direbbe sempre Travaglio - il "capo" del governo? Cari amici d'Oltremanica, ma che linguaggio "fascistoide" (mi riferisco al punto 10 della requisitoria fatta, nel volume, dal suo solerte autore).

Ma c'è di più... State attenti, Calamandrei, Togliatti, Mortati, Moro ed Einaudi... Non ce n'è per nessuno, nemmeno per la Costituzione del '48. E sì, perché il 138 lo avete scritto male, come oggi la norma sull'elezione del presidente della Repubblica, perché - arriviamo al punto 27 - se fossero sufficienti i 3/5 dei votanti per eleggere il capo dello Stato, significa che con il quorum minimo di partecipazione, basterebbero 220 parlamentari su 730 a nominarlo (molto meno di oggi). Beccati, quindi, i novelli costituenti. E così si eliminano le garanzie.

Ma, attenzione, anche i vecchi Costituenti hanno fatto i furbetti. Prendete proprio il referendum costituzionale. Senza prevedere il quorum, può essere approvato anche da due soli cittadini che vanno a votare Sì... Calamandrei & Company, pure loro bocciati! Siete fortunati che all'epoca Travaglio non era operativo. Ma il massimo del rigore argomentativo, la summa della severità che non guarda in faccia nessuno, Travaglio la raggiunge sulla proposta che il suo stesso giornale ha fatto: un modello bicamerale con Camera formata da 430 deputati e Senato di 100 senatori, direttamente eletti (anche il progetto Berlusconi lo voleva direttamente eletto).

C'è un piccolo problema: anche così, c'è uno squilibrio di composizione - la Camera quattro volte più grande - e di violazione del principio di eguaglianza! Il Senato diventa ininfluente quando il parlamento è in seduta comune (come per eleggere il Presidente della Repubblica). Ma Travaglio non guarda in faccia nessuno, nemmeno il suo giornale, nemmeno se stesso... Per lui non ci sarebbe nemmeno bisogno di una legge sul conflitto di interesse... Lo risolve da solo. Travaglio come Salvemini. E speriamo che, per una volta tanto, il Direttore non si offenda del paragone.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:07 am

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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:08 am

Il regime partitocratico o la partitocrazia
https://it.wikipedia.org/wiki/Partitocrazia

La partitocrazia è un regime politico in cui il potere e la vita politica dello Stato stesso ruotano attorno ai partiti, i quali si sostituiscono agli organi previsti dalla Costituzione.
Il termine fu coniato dal giornalista Roberto Lucifero[1] e reso noto dal giurista Giuseppe Maranini, che intitolò Governo parlamentare e partitocrazia la sua prolusione nella lezione inaugurale dell'Università di Firenze del 1949[2]. Secondo Paolo Armaroli, "nella sua Storia del potere in Italia Giuseppe Maranini osserva che ai tempi dello Statuto albertino la forma di governo fu pseudoparlamentare perché contrassegnata dall'assemblearismo, vale a dire dalla dittatura d'assemblea".
Fu poi introdotto definitivamente nel dibattito politico italiano a partire dagli anni sessanta, in polemica con il consolidamento del sistema partitico nell'Italia del secondo dopoguerra. Secondo Giorgio Rebuffa "sotto la retorica della centralità e della sovranità del Parlamento si celò, dissimulato, e non visibile agli elettori, soprattutto, una forma atipica di party government. Come del resto sottolinearono ai tempi della cosiddetta solidarietà nazionale studiosi del calibro di Vezio Crisafulli e di Antonio La Pergola".
Negli ultimi anni con il termine partitocrazia si è spesso inteso il controllo dei settori dell'apparato pubblico (come sanità, istruzione, amministrazione pubblica, giustizia) da parte dei partiti politici, che ne fanno utilizzo per la raccolta clientelare del consenso invece che come servizio alla società civile.



La Corte Costituzionale è la cupola mafiosa partitocratica

Pannella: la corte e' come la cupola
Di Corriere della Sera - 12 gennaio 1995

http://www.radioradicale.it/exagora/pan ... -la-cupola

Le reazioni alla bocciatura della consultazione popolare sulla legge elettorale. Andreatta: si allontanano le elezioni.

SOMMARIO: Riporta l’aspro, negativo commento di Marco Pannella alla notizia che la Consulta ha bocciato alcuni dei referendum proposti dalla Lista Pannella e dalla stessa Lega. Pannella conferma i suoi giudizi sulla Corte Costitutionale come vera “cupola mafiosa” del regime, e ammonisce che dopo questa sentenza il “regime” partitocratico potrà durare altri venti anni. Il leader referendario formula critiche anche a Oscar Luigi Scalfaro. L’articolo registra anche i commenti (negativi anche se più formalmente cauti) di Silvio Berlusconi e di Fini, e quelli, invece, positivi, di alcuni esponenti popolari, progressisti, verdi, ecc.

Roma - Non si arrende neanche stavolta Marco Pannella. Neanche davanti al giudizio drastico della Consulta che manda a morte i “suoi” referendum elettorali. “Da domani si ricomincia con la raccolta delle firme, noi non abbassiamo la guardia difronte agli scippatori di regime”, annuncia il leader sconfitto dei Riformatori prima ancora di conoscere ieri sera l’esito e le motivazioni dei quindici saggi raccolti per tre giorni a palazzo del Marescialli. E il Marco furioso torna a lanciare accuse pesanti nei confronti del capo dello Stato che, a suo giudizio, non sarebbe intervenuto per impedire il “sequestro” dei referendum da parte della Consulta. Anche se nel giorno della disfatta annunciata Pannella vede accolto dalla Corte costituzionale il quesito sull’automaticità delle trattenute sindacali.

“La Corte si è mossa come una grande cupola di mafiosità partitocratica. E’ soltanto una sentenza politica”, insorge l’ex leader radicale appena apprese le ragioni del rigetto dei suoi referendum sulla legge elettorale per Camera e Senato. “I giudici della Consulta - aggiunge - hanno agito come un gruppo di fuoco per cercare di salvare fino in fondo il regime e le sue nequizie”.

Per Pannella i giudici della Consulta hanno scritto “una pagina vergognosa” con il loro atto di arroganza. “Il sistema così com’è adesso - incalza durissimo il nostro - grazie a questa sentenza politica si protrarrà per altri vent’anni. Mi auguro soltanto che i cittadini sappiano reagire a questo golpe proprio per impedire il tentativo di protrarre un regime putrefatto e traditore della Costituzione”.

Le ultime parole di fuoco di Pannella sono riservate a Oscar Luigi Scalfaro, suo vecchio amico, e proprio in queste ore alle prese forse con la più grave crisi di governo della Repubblica. “Non c’è fondamento giuridico - spiega - per questa sentenza. Allora, il presidente Scalfaro ha fatto male a non intervenire quando, invece, è intervenuto in troppi campi, dicendo alto che la Corte avrebbe dovuto decidere secondo Costituzione”.

E a dar man forte alle proteste del gran capo dei Riformatori arriva, sia pure con parole più caute, il presidente del Consiglio dimissionario. Rileva pungente Silvio Berlusconi: “Il voto popolare è il fondamento ultimo della vita democratica. Le sentenze della Corte costituzionale in materia di referendum esigono naturalmente di essere ponderate, giudicate con rispetto per l’alta funzione dell’organo che le ha pronunciate. Restano ferme - prosegue il Cavaliere - una seria preoccupazione ed una forte perplessità per ogni atto che tenda a privare l’elettorato, in tutti i casi controversi e opinabili, del suo primario e solenne diritto di esprimere la propria funzione sovrana”.

Ma se il presidente del Consiglio si mostra perplesso, un altro partner di Pannella nel governo dimissionario, Gianfranco Fini, non usa certo le mezze parole. “E’ una vergogna la bocciatura dei referendum elettorali - commenta duro il segretario di Alleanza nazionale - una bocciatura che, soprattutto, non si spiega dopo che erano stati accettati quelli di Segni”, insiste Fini. Per poi concludere: “Per dare una valutazione che non sia solo uno slogan politico occorre comunque aspettare le motivazioni della Corte. Occorre capire perché furono ammessi quelli di Segni, sicuramente più lontani dallo spirito della Costituzione, che prevede referendum solo abrogativi, rispetto a quelli di Pannella. Ecco dove sta la vergogna”. Di altro tono, ovviamente soddisfatte, sono le reazioni dei Popolari di Rocco Buttiglione, del pattista Mario Segni, di Alleanza democratica, dei Verdi e di alcuni costituzionalisti (Elia, Paladin, Amadei e Barile). “Prendo atto delle decisioni della Corte in materia elettorale, che giudico corrette. Del resto sarebbe stata una forzatura ammettere quesiti referendari che, se accolti, avrebbero reso inapplicabile il procedimento elettorale”, osserva il presidente dei senatori del Ppi, Nicola Mancino. E il suo collega alla Camera, Beniamino Andreatta, va anche oltre il giudizio di merito sulla sentenza: “La decisione della Corte sembra precludere la possibilità di elezioni immediate perché una consultazione politica ora significherebbe il rinvio di un anno del referendum Mammì”.

Anche Mario Segni rileva: “La sentenza della Corte dimostra che il referendum non è più lo strumento idoneo per una riforma istituzionale: la rivoluzione referendaria è finita il 18 aprile ‘93”. Con buona pace di Marco Pannella che oggi annuncerà nuovi referendum a dispetto di tutti i suoi nemici vecchi e nuovi.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:24 am

La casta
https://it.wikipedia.org/wiki/La_casta
Così i politici italiani sono diventati intoccabili è un libro-inchiesta uscito il 2 maggio 2007 e scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, due giornalisti del Corriere della Sera.
Il libro, che riporta sprechi e privilegi ingiustificati dei partiti politici italiani, ha ottenuto un successo notevole superando, a dicembre 2007, il tetto di 1,2 milioni di copie vendute. A fine 2008 è uscita la versione aggiornata del best-seller, non una ristampa, col sottotitolo "... e continuano ancora a esserlo" e con l'aggiunta di un capitolo extra.
La casta è strutturata in diversi capitoli che, partendo da inchieste, reportage e documenti ufficiali, sviluppano una riflessione su quella che viene definita "la caricatura obesa e ingorda della politica". Per difendersi dalle accuse di demagogia e di qualunquismo gli autori spesso citano, accanto ai vari scandali, esempi positivi all'estero e, le rare volte che capita, in Italia. Spesso gli autori alternano alle notizie propri commenti pungenti e ironici.


Mani Pulite
https://it.wikipedia.org/wiki/Mani_pulite
L'espressione Mani pulite indica una serie d'inchieste giudiziarie condotte negli anni novanta. Queste rivelarono un sistema fraudolento che coinvolgeva la politica e l'imprenditoria: l'impatto mediatico e il clima di sdegno della popolazione che seguirono furono così grandi che tali inchieste ebbero come effetto quello di decretare la fine della Prima Repubblica. Partiti come la DC si sciolsero mentre altri come il PDS furono fortemente ridimensionati.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:26 am

???
Il regime partitocratico è ormai giunto al capolinea
di ENZO TRENTIN

https://www.miglioverde.eu/il-regime-pa ... -capolinea
Cosa ci sarà durante la transizione e cosa accadrà dopo non è possibile prevederlo. Infatti è possibile rispondere alla domanda «perché sta accadendo questa crisi?» ma certamente non è possibile rispondere alla domanda «cosa ci sarà dopo?».
La crisi del regime partit ocratico consegue all’esaurimento della funzione socializzante del sistema politico nato con la fondazione della Repubblica. Sono decenni che il regime affronta crisi istituzionali e sempre ha saputo trovare l’antidoto. L’ultima crisi ha comportato la nascita della cosiddetta II Repubblica come risposta dell’establishment all’inchiesta giudiziaria denominata “mani pulite” e al processo per istituire un nuovo ordine internazionale conseguente alla caduta dell’impero sovietico.
Il governo Monti ha svelato, invece, l’incapacità del sistema politico nazionale di trovare una soluzione alla crisi politica in atto, perciò sosteniamo che il regime partitocratico è giunto al capolinea. Il governo in atto non è stato investito dal consenso dei cittadini ma dal consenso di un Parlamento di nominati, come era accaduto ai precedenti governi Prodi e Berlusconi due frutti del “porcellum”.
Lorella Presotto, membro assai attivo della Confederazione Civica nazionale (ennesimo soggetto politico alternativo che si propone di partecipare alla elezioni politiche del 2013 come elemento riformatore) ci ricorda che lo Stato Tedesco rifiuta la cessione di sovranità e vuole rafforzare la propria democrazia. Stessa cosa ha affermato l’Ungheria, che ha creato apposite commissioni per controllare la legittimità degli atti dell’UE, scatenando le furie di quest’ultima. La Romania rifiuta di pagare il “presunto debito”. La Serbia ha deciso di instaurare un proprio regime monetario. La Grecia è ormai quasi data fuori del tutto dall’Europa, purtroppo con gravi danni perpetrati dalla stessa Europa. La Gran Bretagna si chiama fuori dall’Europa. L’Irlanda sta meditando se uscirne. La Spagna è teatro costante di rivolte popolari. La Repubblica Ceca non ha aderito agli ultimi Trattati europei. Insomma questa Unione europea è un colabrodo che non soddisfa.
Tutti i popoli ormai si sono resi conto che l’Unione Europea non è unione di popoli ma unione delle lobby finanziarie speculative. Gli organismi europei non eletti, sono dei veri e propri Kapò nazisti che vogliono ridurre gli Stati europei a veri e propri lager.
Una prova di ciò?
A Vicenza per il 15 settembre è prevista una marcia con partenza da Verona il giorno 13, che si concluderà con un Sit–In davanti alla Caserma “Generale Chinotto” sede della «EUROGENFOR» definita la nuova Gestapo, perché può agire nella più completa immunità giudiziaria, come previsto dal Trattato di Velsen prontamente approvato (praticamente senza discussione) il 14 maggio 2010.
Dopo il Senato, anche la Camera approva la ratifica del Fiscal compact. Nella stessa seduta è stata approvata anche l’adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm). Sicuramente molti non conoscono cosa significa questa decisione. Ma in poche parole dimentichiamoci i nostri diritti sociali, perché da oggi siamo schiavi di un potere oligarchico; servo delle banche e dei poteri forti.
Ancora una volta tutto è passato sotto silenzio generale dei mass media tradizionali e poi ci vogliono far credere che siamo liberi e le dittature sono altrove. Insomma, abbiamo un Parlamento che si è fregiato negli scorsi decenni di essere portatore di democrazia, e che è oggi rappresentato da una Casta di soggetti ignobili e traditori dei più alti ideali umani: la libertà, la democrazia, la solidarietà.
Il Presidente Giorgio Napolitano ha formalizzato il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, sulla trattativa Stato-Mafia. Niente meno!
Intanto, è di questi giorni l’infuriare della polemica dovuta ad una gaffe di Mario Monti (il professore si autodescrive come una sorta di “uomo della provvidenza”. Sigh!). Costui pretenderebbe che anche gli altri assumessero un modus operandi simile a quello italiano dove la democrazia parlamentare è una farsa “devoluta” ai poteri forti da un lato, e alla euro-burocrazia dall’altro.
Intanto il dibattito negli Stati Uniti sul ripristino della legge Glass-Steagall ha ricevuto una spinta importante il 24 luglio, quando l’ex capo di Citigroup Sanford Weill ha chiesto lo “spacchettamento” delle grandi banche. «Quello che dovremmo fare probabilmente è separare le banche d’affari dalle banche ordinarie, far sì che le banche si occupino dei depositi, dei crediti commerciali e dei mutui, che le banche facciano qualcosa con cui non mettano a rischio i dollari dei contribuenti, che non siano troppo grandi per fallire» Weill ha dichiarato al programma “Squawk Box” di CNBC.
Acutamente il periodico EIR osserva che: «È come se Bruto rimpiangesse di aver ucciso Cesare.» Fu proprio Sandy Weill a imporre l’abrogazione della legge Glass-Steagall, con la creazione nel 1998 di Citigroup con la fusione tra Citicorp, una banca commerciale, e Travelers Group, un conglomerato finanziario. Il suo “fait accompli” costrinse il Congresso ad abrogare formalmente la legge Glass-Steagall dopo che molti dei suoi aspetti erano già stati smantellati, come riconosce tra gli altri il rapporto della Commissione Angelides sulle origini della crisi.
Nel giro di pochi minuti i commenti di Weill sono stati ripresi da tutti i principali mass media, col New York Times che faceva notare che Weill aveva “essenzialmente” chiesto il ripristino della legge Glass-Steagall. Il Times sottolinea che la tardiva conversione di Weill a Glass-Steagall «è un’ammissione ricca di ironia», notando che «tra gli oggetti di sua proprietà c’è una enorme targa di legno massiccio con un elenco dei suoi successi. Uno di questi è “il distruttore di Glass-Steagall”.» Il Financial Times del 26 luglio, in un articolo con cui si congratula con Weill per le sue dichiarazioni, sottotitola: «Meglio ripristinare Glass-Steagall che una Volcker Rule debole». «Secondo la classifica delle conversioni» dice l’articolo, «il cambiamento d’idea di Mr. Weill equivale a quello di San Paolo sulla via di Damasco.»
Durante la sua intervista a CNBC, Weill ha dichiarato che se gli Stati Uniti vogliono restare i leader finanziari mondiali, le grosse banche dovranno essere separate, il che, ha detto, le renderà più profittevoli di quanto non siano attualmente. «Il sistema bancario è davvero molto importante», ha dichiarato. «Ritengo che il problema che è sorto sia dovuto ad un’eccessiva concentrazione di investimenti nel sistema bancario, troppa leva, con pochissima trasparenza e troppe cose in bilancio che non contavano veramente. E ritengo che molte di queste cose debbano cambiare.» […] «Nonostante i problemi, non c’è davvero altro paese al mondo che possa essere un leader in questo. Quindi, spetta agli Stati Uniti essere ancora il leader. E se dobbiamo essere i leader, dovremo avere un sistema finanziario che ci aiuti ad essere i leader, come non sta accadendo adesso». Le banche d’affari dovranno essere «completamente separate» dalle banche commerciali. Weill ha insistito su questo, dicendo che «possono investire i propri soldi come vogliono» ma «torneranno ad essere entità a parte, come lo erano 25 anni fa.»
Alle esternazioni di Weill ha fatto seguito un attacco diretto sul Financial Times contro Lord Turner, capo del Financial Services Authority (FSA), la City di Londra, in un editoriale non firmato del 25 luglio (quindi attribuibile al direttore). Il Financial Times critica il fatto che Turner «abbia mostrato poco interesse nella separazione tra banche d’affari e banche commerciali auspicata dal nostro giornale.»
L’attacco contro Turner colpisce il candidato della City di Londra a prossimo governatore della Banca d’Inghilterra dopo Mervyn King, che si è battuto per ottenere maggiori poteri di supervisione per la banca centrale a scapito della FSA a partire dall’anno prossimo. In questa battaglia la City ha perfino usato strumentalmente lo scandalo Libor contro il successore prescelto da King, Paul Tucker, per aprire la strada a Turner. Il punto di vista «ben poco rivoluzionario» di quest’ultimo è stato ridicolizzato dal Financial Times, che scrive che «su questioni di cultura e attuazione delle leggi, sarebbe stato ottimo sentire un appello di Lord Turner per un approccio più deciso. È assurdo che nessuna persona di alto livello sia stata indagata per gli scandali emersi dalla crisi.»
La svolta globale a favore di Glass-Steagall è riverberata anche in Germania. Il settimanale Der Spiegel ha fatto anch’esso la sua svolta di Damasco pubblicando un articolo del direttore intitolato “Separate le banche”. E perfino il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble è saltato su questo treno. In un’intervista a Welt am Sonntag il 29 luglio, Schaeuble dichiara di «non voler escludere del tutto la proposta della separazione bancaria. Se si dimostra che l’Europa ha urgenza di una misura simile, la Germania non si opporrà.»
In questo quadro di estrema instabilità (sorvoliamo volutamente le crisi mediorientali foriere di ulteriori conflitti, Siria in testa) molti soggetti politici pensano a concorrere alle elezioni politiche del 2013, e per che cosa? Per – eventualmente – assidere in Parlamento e fare le riforme? E quali? Ci siamo dimenticati il fallimento di ben tre bicamerali negli ultimi 30 anni circa? Vogliamo ignorare la sempre più marcata cessione dei poteri di questo Parlamento alla NATO/OTAN, all’UE, ai banchieri internazionali?
Dall’altro lato c’è tutto un mondo indipendentista in ebollizione che perora la via “democratica, legale e nonviolenta” per ottenere l’autogoverno di questo o quel territorio, questo o quel popolo. Ma sul rispetto di quali istituzioni? Considerato che delle istituzioni attuali la partitocrazia ha fatto strame? E per quale forma di autogoverno, ancora non è ben chiaro, fatti salvi alcuni timidi accenni a voler imitare le istituzioni della Confederazione elvetica, ma di non far assolutamente nulla per esigere la corretta applicazione di quegli strumenti di democrazia diretta (esercitabili in Svizzera) che già sono presenti nel quadro legislativo italiota, ma che sono stati edulcorati e depotenziati da una burocrazia connivente con la partitocrazia.
Eppure, i più responsabili tra gli indipendentisti dovrebbero approfittare di questo periodo di transizione per prefigurare al meglio i loro progetti sul tipo d’autogoverno per cui chiedono il consenso all’opinione pubblica, perché la politica è la nobile amministrazione delle polis, ereditata dai padri della Magna Grecia, non il mero esercizio del potere.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:37 am

Le democrazie mafiose di Panfilo Gentile
Le pagine profetiche di un grande politologo che già negli anni sessanta aveva visto dove avrebbe portato la partitocrazia
di Riccardo Paradisi
http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=641

Che cosa hanno in comune Giuseppe Maranini, Luigi Sturzo e Panfilo Gentile? Che nesso unisce cioè un docente di diritto costituzionale, il fondatore del Partito popolare e un liberale conservatore, polemista di rango del Mondo di Panunzio e del Corriere della Sera? Che cosa lega questi tre nomi apparentemente così sconnessi l’uno dall’altro a parte una comune ma molto generica matrice liberale? Sicuramente il fatto di essere stati tra i principali attori intellettuali della critica alla partitocrazia nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra. Una critica generalmente sottaciuta, rimossa dal dibattito pubblico del Paese, anatemizzata come qualunquista o addirittura antidemocratica. Accusa assurda se si pensa che Maranini, Sturzo, Gentile provengono tutti dal campo dichiaratamente antifascista, ma che rivela la cattiva coscienza di un sistema che rifiuta di guardare in faccia la sua malattia.
Giuseppe Maranini che del termine partitocrazia è addirittutra l’inventore (lo usa per la prima volta nel 1949, nel corso della lezione inaugurale per l’apertura dell’anno accademico all’università di Firenze) non si stancò mai, fino alla morte (avvenuta nel 1969) di denunciare da posizioni liberali e federaliste quello che lui stesso chiamava “il regime dei partiti”, l’oligarchia che tende a creare uno Stato nello Stato.
“Il problema della democrazia dei partiti, scriveva Maranini, appare come un problema di organizzazione giuridica, e può essere risolto solo su questo terreno”. In altri termini quando lo Stato liberale democratico assiste inerte al sorgere dei partiti organizzati e li rende arbitri della sua vita ma non si preoccupa di imporre alla loro organizzazione le stesse garanzie che lo caratterizzano come tale, commette un suicidio, “abdica alla sua funzione di difensore delle libertà individuali”.
Sul versante più strettamente politico anche Don Luigi Sturzo, parallelamente a Maranini, metteva a tema, tornato dall’esilio americano nel primo dopoguerra, una dura critica alla partitocrazia. Sturzo rilevava infatti che i partiti, compreso il suo, avevano la natura di “ingerirsi pesantemente nell’andamento amministrativo e governativo del Paese così da ridurre la libertà costituzionale del cittadino, da esautorare il parlamento della sua autonomia fino a occupare militarmentre la società civile attraverso la lottizzazione sistematica di ogni spazio di vita associato”.
Panfilo Gentile riguardo il regime dei partiti fu ancora più esplicito: per lui, liberale di destra con idee elitiste, la partitocrazia era in sostanza un regime mafioso retto da oligarchie demagogiche. Democrazie Mafiose (ripubblicato pochi anni fa da Ponte alle Grazie), insieme a Polemica contro il mio tempo (Volpe 1965) e Opinioni sgradevoli (Volpe 1966) sono i saggi dove Gentile mette a fuoco la sua polemica contro la partitocrazia, fenomeno di cui restituisce una disamina fredda, anatomica, chirurgica, piena non solo di rimandi storici, ma anche di ficcanti notazioni psicologiche sull’antropologia politicante, sui meccanismi di selezione delle classe dirigenti, sulla decadenza delle vecchie elite e la meschinità delle nuove: “Le oligarche mafiose, cui tendenzialmente sboccano le moderne democrazie – scrive – sono oligarchie di piccoli borghesi disoccupati, imbevuti di clericalismo ideologico, portati all’intolleranza e allo spirito settario”. Ma già nel 1969, quando ancora si era molto lontani dal parlare di morte delle ideologie e dal percepirle come paraventi per operazioni di potere, Gentile aggiunge: “Però le ideologie sono in realtà soltanto idee vecchie diventate popolari, idee al tramonto […] E con esse appassisce l’impulso vitale che animava ed anima i partiti”.
A questa profonda sfiducia per le nuove oligarchie, non corrisponde però una fiducia nel demos. Secondo Gentile infatti, cresciuto alla scuola del realismo elitista di Mosca e Pareto, il popolo “obbedisce a sentimenti elementari, buoni e cattivi, ma sempre incontrollati ed eccessivi”. Tanto che “le masse non si fermano al patriottismo moderato, conciliante, ma si scatenano per la nazione e si danno in balìa dei gruppi dirigenti più forsennati e delireanti”. Allo stesso modo “L’invidia sociale, come è sentita dalle masse, non è una molla per la propria elevazione. È un odio più generale contro tutte le superiorità e non mira tanto all’eliminazione della propria inferiorità, quanto all’abolizione della superiorità altrui”.
In queste considerazioni è condensata implicitamente anche la critica di un vecchio liberale verso i sistemi totalitari novecenteschi di destra e di sinistra. Sistemi che secondo Gentile non hanno mai rinunciato in verità a una componente democratica, visto che dicevano di agire in nome del popolo. Gentile così introduce un altro concetto: democrazia e libertà non sono sinonimi. Anzi, la democrazia spesso finisce col servire su un piatto d’argento la testa della libertà alle oligarchie partitocratiche. “Storicamente, il liberalismo o costituzionalismo, come possiamo chiamare la dottrina dello Stato di diritto e il democraticismo o popolarismo, furono termini quasi coevi e spesso anche confusi. Ma dal punto di vista dei concetti si tratta di cose diverse”.
E infatti lo Stato di diritto secondo Gentile non è più tale dal momento in cui esso è occupato dai partiti che contemporaneamente controllano governo e sottogoverno, enti statali e parastatali, che arrivano a usare anche la burocrazia come un loro strumento, tanto che “la politicizzazione della burocrazia si fa sentire fino al più umile cittadino». Certo, “il rimedio facile a questi guasti sarebbe quello di togliere al governo il diritto di nominare a suo piacere il personale dirigente di tutti questi enti”, personale che potrebbe essere reclutato con metodi che possano meglio garantire indipendenza e imparzialità. Ma è un rimedio impossibile, chiosa realisticamente Gentile, “perché in Parlamento non si troverà mai una maggioranza capace di approvarlo, tradurlo in legge. Nella storia si conoscono gli abusi di potere e non la rinunzia volontaria al potere”. Peraltro il Parlamento nella spietata disamina di Gentile è un istituzione sotto tutela, il luogo dove la partitocrazia recita i suoi riti esteriori: arcana imperii come quelli degli aruspici descritti da Cicerone.
A questo punto allora si pone la questione più drammatica che Gentile affronta, quella della legittimità del potere, del suo diritto di pretendere obblighi e obbedienza. In questo Gentile è drastico: smascherato il mito della sovranità popolare (i partiti sono delle oligarchie chiuse capaci di creare consenso indotto col controllo delle risorse economiche e dei mezzi d’informazione) il sistema resta nudo. Il suo potere si regge sulla rendita politica. Metodo che si giustifica con il concetto di Stato assistenziale o sociale il quale ha come contropartita “una tassazione feroce e una pesante ingerenza negli affari economici”. Abbiamo così quei regimi “che non sono né socialisti né liberali e nei quali lo spirito egualitario originario del socialismo è decaduto nel pesante e costoso statalismo assistenziale, utilizzato poi dai partiti a scopo clientelare e mafioso”.
Ma Gentile va oltre: nella sua analisi del sistema partitocratico non anticipa solo Tangentopoli prevede anche la progressiva liquidazione della politica nelle direzioni del leaderismo populistico da un lato e della resa incondizionata alle logiche della criminalità organizzata dall’altro. “La vita pubblica non attira più gli uomini migliori, non è più un club di gentlemen. E non è nemmeno diventata un arsenale di tecnocrati. Abbiamo purtroppo a che fare con piccoli borghesi disoccupati disposti a tutto pur di fare carriera”.
Che cosa è avvenuto? Che i sistemi costituzionali fondati su ordinamenti liberal-democratici e sorretti da una società strutturata in corpi intermedi hanno finito nelle società e nei partiti di massa per soggiacere sempre di più alle spinte dal basso, assecondandone con la demagogia anche gli imperativi più ciechi, le pulsioni più oscure. Ben prima che la categoria di populismo fosse messa a fuoco Gentile ricordava come le stesse dittature di destra e di sinistra, che si sono diffuse in Europa nel secolo scorso, hanno liquidato gli ordinamenti liberali in nome della volontà popolare: “I bolscevichi facevano tabula rasa dello Stato rappresentativo ma non aggredivano il dogma della sovranità popolare. Le dittature di destra riducevano in un mucchio di rovine i vecchi stati liberal-democratici, ma il titolo dei nuovi Cesari era ancora e sempre la volontà popolare”.
Il suffragio universale da solo insomma, senza l’equilibrio di istituti di contegno, come la camera alta inglese per esempio, conduce inevitabilmente alla degenerazione autoritaria o «partitocratica», ad un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, “sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti” e impongono un regime dell’affiliazione, con ciò distruggendo l’essenza dello Stato liberale. Ma arriva il punto in cui suona la campana a morto per una classe politica senza più legittimità e idee, arroccata in un sistema di privilegi, incapace di rispondere alle esigenze di una società sempre più complessa.
Non è più solo il demos a imporle con la pressione del numero i propri imperativi, sono le organizzazioni criminali, che intanto hanno pervaso la società e l’economia sottraendo allo Stato il monopolio della forza, a condizionarla se non a dettarle la linea. Gentile descrive insomma il piano inclinato che percorre l’organizzazione politica democratica: dai regimi di consenso, a quelli popolari autoritari, dalla partitocrazia al potere mafioso.
Un quadro disperante quello che traccia Gentile e che non sembra trovare sbocchi propositivi, a parte un vago accenno alla Repubblica presidenziale vista come parziale, anche se rischiosa soluzione, al regime partitocratico. Ma Panfilo Gentile era pur sempre un reazionario, il nostalgico di un’epoca in cui gli Stati erano governati dai probiviri di una borghesia sobria e dignitosa e il suffragio universale era di là da venire. Sentimenti impolitici e inattuali. Di Gentile resta però la lucida e per certi versi insuperata critica alla partitocrazia, ai suoi meccanismi e ai suoi guasti. E con essa resta, purtroppo, anche la partitocrazia. E le sue ulteriori degenerazioni.
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Re: L'orenda Costitusion Tałiana

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:38 am

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