Emigrasion veneta ente l'800 e 900

Emigrasion veneta ente l'800 e 900

Messaggioda Berto » ven dic 20, 2013 3:17 pm

Emigrasion veneta ente l'800 e 900
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =139&t=519




Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... GRAT-1.jpg


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Le jenti venete le xe coele ke le gà pagà pì de tute coele de la penixla talega, la xnadural e violenta oneda statual tajana, co la pì granda emigrasion o exodo e dal Trentin e dal Veneto e dal Friul

http://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_italiana
Tra il 1861 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord Africa.

Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 l'esodo interessò prevalentemente le regioni settentrionali con tre regioni che fornirono da sole il 47 per cento dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%).

http://cronologia.leonardo.it/emitot2.htm
http://www.speakers-corner.it/rizzoli/s ... /canti.spm
http://www.emigrazioneveneta.com


Ki li tajani li çerca de scondare le robe metendo poexie bele:
http://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_veneta

"América América
si campa a meraviglia
andiamo nel Brasile
con tutta la famiglia
América América
si sente cantare
andiamo nel Brasile
Brasile a popolare"


no li mete miga coela crua de Berto Barbarani
(anca sel Barbarani nol jera miga masa cretego co la Taja e col so stado enfernal e la colpa d ela migrasion el ghe la dà a la carestia):
http://laveja.blogspot.com/2009/02/bert ... erica.html

Capolavoro del Grande Berto che descrive il dramma della Grande Emigrazione in America.
La poesia e' divisa in due parti: la descrizione del territorio con la carestia e la dura decisione di partire

Fulminadi da un fraco de tempesta,
l'erba dei prè, par 'na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;

ipotecado tutò quel che resta,
col formento che val 'na carestia,
ogni paese el g'à la so angonia
e le fameie un pelagroso a testa!

Crepà, la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir 'na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,

na festa, seradi a l'ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
«Porca Italia» i bastiema: «andemo via!»

E i se conta in fra tuti.- In quanti sio?
- Apena diese, che pol far strapasso;
el resto done co i putini in brasso,
el resto, veci e puteleti a drio".

Ma a star quà, no se magna no, par dio,
bisognarà pur farlo sto gran passo,
se l'inverno el ne capita col giasso,
pori nualtri, el ghe ne fa un desìo!

-Drento l'Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti;

co la testa sbarlota, imbriagada,
i se dà du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada !



http://www.lindipendenza.com/barbarani-merica

di ETTORE BEGGIATO

Il 3 dicembre 1872 nasce a Verona Berto Barbarani all’anagrafe Roberto Tiberio, uno dei maggiori poeti veneti del novecento.

Grande amico del pittore Angelo Dell’Oca Bianca e del dramaturgo Renato Simoni, finiti gli studi incomincia a lavorare come giornalista all’Adige e poi al Gazzettino; ma è la poesia la sua grande passione e così pubblica, fra gli altri, “El Rosario del Cor” (1895), il “Canzoniere Veronese” (1900), il “Nuovo canzoniere veronese” (1911), “I sogni” (1922), “Bozzetti e fantasia” (1942).

Muore a Verona il 27 gennaio 1945; una statua bronzea lo ricorda in pieno centro nella scaligera Piazza delle Erbe. Ma io vorrei ricordarlo come lo straordinario autore della struggente “I va in Merica”, un monumento al dramma dell’emigrazione che colpì la nostra Terra veneta subito dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, quando il nostro popolo si trovò in una situazione di miseria e disperazione come mai nella nostra storia.


Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Braxil.jpg
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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » ven dic 20, 2013 3:20 pm

Tasa sol maxenà

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http://www.sba.unifi.it/upload/scienzes ... cinato.jpg

http://it.wikipedia.org/wiki/Tassa_sul_macinato
La tassa sul macinato, come è nota comunemente l'imposta sulla macinazione del grano e dei cereali in genere, fu un'imposta indiretta, ideata, tra gli altri, da Quintino Sella, al fine di contribuire al risanamento delle finanze pubbliche.

Promulgata per iniziativa di Luigi Menabrea il 7 luglio 1868, entrò in vigore il 1º gennaio del 1869.
A seguito delle rivolte popolari scoppiate per le sue gravi conseguenze, la battaglia si trasferì in Parlamento, ma già il 26 gennaio 1869 il Senato la confermò e conferì al generale Raffaele Cadorna - poi protagonista nel 1870 della presa di Roma con la breccia di Porta Pia - pieni poteri per la repressione.

La tassa fu inasprita dal governo guidato da Giovanni Lanza per iniziativa di Quintino Sella nel 1870 e ancora sotto Marco Minghetti tra il 1873 e il 1876, portando infine alla crisi del suo governo e alla caduta della Destra storica.
Giunta la Sinistra al potere, il governo presieduto da Agostino Depretis non abolì subito la tassa, adottando inizialmente una politica di moderata gradualità. Nel 1879 la tassa fu ridotta solo in parte a causa dell'opposizione della Destra in Senato, la quale ottenne che l'imposta fosse mantenuta per quasi tutti i cereali.
Dopo un'ulteriore riduzione nel 1880, ad opera del secondo governo presieduto da Benedetto Cairoli e con Agostino Magliani come ministro delle Finanze, fu definitivamente abolita nel 1884 dal governo guidato nuovamente da Depretis.

Come effetto più diretto, la tassa sul macinato causò un forte incremento del prezzo del pane e, in generale, dei derivati del grano e degli altri cereali, prezzo che non scese dopo l'abrogazione della tassa.
Se da un lato la nuova tassa contribuì, insieme all'Imposta di ricchezza mobile, al raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1876, dall'altro diffuse il malcontento nelle classi sociali più povere, per le quali i derivati del grano rappresentavano il principale, se non unico, alimento e andava contro la tradizionale politica annonaria di favorire prezzi contenuti per i cereali.
Un'altra importante conseguenza del provvedimento fu la progressiva chiusura di gran parte dei piccoli mulini non in grado di munirsi dei necessari meccanismi di misura, necessari per determinare l'ammontare dell' imposta da pagare, a vantaggio di quelli più importanti, i quali, riuscendo a dichiarare meno di quanto macinassero e grazie all'economia di scala, potevano vendere i propri prodotti a un prezzo inferiore.
A seguito dell'introduzione della tassa scoppiarono in tutta Italia violente rivolte, che furono represse duramente, a volte nel sangue.

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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » ven dic 20, 2013 3:23 pm

http://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_veneta

L'emigrazione veneta ha inizio all'incirca con l'unificazione del Veneto con il regno d'Italia.

Inizialmente il fenomeno fu di carattere perlopiù temporaneo o stagionale, diretto in particolare verso la Germania, l'Austria e l'Ungheria, soprattutto dalle zone montane, ma la fine dell'Ottocento vide abbattersi nel Veneto una profonda crisi economica, che diede l'inizio alla grande emigrazione, che si sarebbe protratta sin dopo la prima guerra mondiale: con la nascita di nuove rotte transoceaniche iniziò l'emigrazione verso il Nuovo Mondo.

Il Veneto fu probabilmente la regione che subì più danni, tra le regioni del Nord, dall'unificazione italiana: prima del 1859 il Regno Lombardo-Veneto, per quanto assoggettato all'Austria-Ungheria, era il più ricco stato italico, ma l'unificazione della Lombardia con l'Italia prima, nel 1859, e del Veneto poi, nel 1866, portarono ad un depauperamento delle risorse della regione, obbligando i veneti a migrare verso stati più ricchi, tanto che nel periodo tra il 1876 ed il 1900 è stata la regione col tasso più alto di migranti. Il Veneto vanta il maggior numero di migranti dal 1876 al 1976, furono ben 3.300.000 i veneti che fuggirono dalla povertà creata dall'Italia
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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » ven dic 20, 2013 3:24 pm

Immigrazione, l’Italia non ha mai amato gli italiani

http://www.lindipendenza.com/immigrazio ... i-italiani

di ENZO TRENTIN

Guardando alla storia dell’unità d’Italia possiamo dire come i vari governanti che si sono succeduti sino ad oggi non hanno mai difeso gli interessi dei propri cittadini. Prendiamo, ad esempio, l’emigrazione moderna. Incomincia in Europa nel 1840. Nella Penisola inizia con vent’anni di ritardo, in coincidenza con la nascita dell’Italia. Partono per primi i piccoli proprietari, i mezzadri: sono i segni di una crisi che investirà, per molti decenni, le società rurali. Le partenze sono favorite dall’Argentina che offre, a chi arriva, terre gratis.

Tutta l’Europa emigra, ma non si capisce l’emigrazione italiana se si ignora che essa è parte della colossale trasmigrazione che ha portato nell’Ottocento circa 60 milioni di europei al di là dell’Oceano.

Questo movimento tumultuoso è sollecitato da quattro grandi forze:

0-La tasa sol maxenà (ghe la go xontà mi parké Trentin el se la gheva dexmentegà) e altre enposte mese dal Stado Talian pena costituio, par pagarse i debiti fati par la goera de l'espansioneixmo savoiardo, scanvià par resorxemento talian. I debeti dei Savoia li xe devegnesti debeti de li "taliani"

1.L’aumento della popolazione. In un secolo l’Europa passa dal 187 milioni a più di 400 milioni di abitanti. Il vecchio continente esplode.
2.L’abolizione delle terre comuni. Un tempo i contadini poveri potevano utilizzare terreni che appartenevano alla Chiesa o ai Comuni. Ora questi terreni non esistono più. Ai poveri non rimane che rifugiarsi nelle città o emigrare.
3.L’arrivo dell’industrializzazione. Cambia il volto della società. Nascono nuove città, le ferrovie accorciano le distanze, arrivano le macchine. Il mercato internazionale del lavoro sposta milioni di persone al di là dell’Atlantico.
4.La crisi delle campagne. Nasce una nuova organizzazione agricola, con grandi mercati aperti alla concorrenza. E la fine delle antiche società rurali. Milioni di contadini si avviano verso i porti di imbarco.
L’emigrazione italiana nasce in questo contesto. È parte di un fenomeno grandioso che investe tutta l’Europa, la manifestazione di una società che cresce di numero e si trasforma. Il mondo vecchio scompare, faticosamente e nasce, sotto la pressione del capitalismo emergente, una società nuova. Al momento dell’unificazione (1861) l’Italia è un Paese in ritardo. Lo Stato è fragile; il Paese diviso da contrasti e paure. La vita è durissima. L’emigrazione è presente, ma in misura contenuta. Poi, improvvisa (1873/74), la grande crisi. Arrivano le prime navi a vapore: l’America scarica in Europa le sue derrate a prezzi allettanti. L’agricoltura europea stenta a reggere la concorrenza; quella italiana, più fragile, crolla. L’emigrazione registra un balzo in avanti. È in questo periodo che nasce e si sviluppa la prima grande migrazione veneta.

Già nel 1876 un certo Don Munari, parroco di Fastro (è una frazione divisa tra i comuni di Arsiè, in provincia di Belluno, e Cismon del Grappa, in provincia di Vicenza), era partito per il Brasile con un gruppo di circa 300 emigranti. Ed è grazie agli emigrati veneti che la colonia di Caxias, nel Rio Grande do Sul (Brasile), conosce uno sviluppo straordinario. In meno di 50 anni passa dalla foresta alla piena industrializzazione. Fondata nel 1875, dopo soli tre anni aveva quasi 4.000 abitanti. Nel 1898 gli italiani erano 25.000, i nove decimi della popolazione. Una peculiarità: a differenza dei meridionali, che partivano con le tasche vuote, gli emigranti veneti partono di solito con un gruzzolo, frutto della vendita di masserizie, animali, di un fazzoletto di terra. È intorno agli anni 1880 che la corrente emigratoria veneta comincia a rompere gli argini. La motivazione è unica: la miseria, la fame. “No se viveva più. Se moriva…”, spiegano i partenti. “Sarà quel che sarà. Peggio del presente non sarà certo” [...] “Tentiamo la sorte. La sarà come la sarà. E poiché abbiamo presto o tardi da morire, tanto vale di lasciare la nostra pelle in America come in Europa”. Ma alcuni commentano: “Il vero agente di emigrazione, in Italia, è Crispi e il suo Governo…”. (1)

La gente parte. A volte si muovono interi villaggi, con il parroco in testa. Partono anche di notte, al buio e in silenzio, quasi fosse tempo di guerra e il nemico stesse in agguato. Qua e là si ode il grido: “Viva l’America! Morte ai signori!” L’emigrazione diventa veramente, per tutto un popolo, una liberazione: dai padroni oppressori, dalla terra che non li mantiene, dal bisogno che incalza, da un Governo inesistente e insensibile. “Noi andiamo in Brasile – gridano alcuni – Ora toccherà ai padroni lavorare la terra…” La partenza è vissuta come un avvenimento doloroso, ma necessario. Rompe una situazione di miseria senza scampo e apre una porta alla speranza. Per questo, a volte, centinaia di persone si mettono in movimento insieme, lentamente, al suono delle campane, come nelle grandi feste, e alla testa della processione vi è un grande Crocefisso o lo stendardo di un Santo che gli emigrati porteranno con loro nella nuova patria.

L’emigrazione avanza con il suo passo dolorante; non è protetta né aiutata. Molti emigrati muoiono ancora, vittime di un ignobile sfruttamento e di un abbandono intollerabile. Di contro l’esempio della Germania è illuminante. Anche la grande Germania aveva, in quegli anni, una forte emigrazione, ma i cittadini tedeschi partivano nell’ordine. Sapevano dove dovevano andare. Erano informati e guidati. Venivano mandati solo dove la terra era buona e dove gli emigrati erano protetti, lasciando agli altri (agli italiani, appunto…) i posti più difficili. Quella italiana era un’emigrazione ancora senza guida, allo sbando. Era nelle mani degli altri.

La Penisola è percorsa da “reclutatori” a caccia di famiglie da avviare oltre Oceano. Le illusioni sono molte; gli imbrogli moltissimi. Nel 1887 i reclutatori saranno riconosciuti ufficialmente dal governo Crispi. La loro azione sarà nefasta. C’è, per esempio, la storia di un bastimento (siamo nell’inverno 1873) carico di contadini abruzzesi diretti a Buenos Aires, dove li attendono parenti ed amici, e che finisce invece a New York. O quell’altra che parla di alcune centinaia di emigranti che avevano venduto ogni cosa e avevano consegnato i soldi a un agente di emigrazione e avevano raggiunto faticosamente il porto di Napoli. Lì avevano scoperto di essere stati truffati ed erano stati rispediti a casa, tra molte lacrime e imprecazioni.

Fu un disastro. Grazie alla patente gli agenti di emigrazione ottennero di fatto un riconoscimento ufficiale: divennero professionisti tutelati dalla legge. Nel giro di poche settimane “le più squisite canaglie – è padre Maldotti, dell’ordine degli Scalabrini che scrive – gli spostati d’ogni fatta, gli analfabeti più provati corsero a ingrossare l’esercito dei nuovi professionisti. Forti del loro inatteso diritto, diedero audaci la scalata alle prefetture e alle sottoprefetture e strapparono fino a 20.000 patenti, colle quali in tasca scorrazzarono le campagne a fare legalissima propaganda. E la propaganda fu implacabile, scandalosa. Ne abbiamo visto alcuni nelle vallate bergamasche a predicare dalle carrozze, vestiti eccentricamente come i saltimbanchi, su pei mercati e negli stessi sagrati delle chiese, intorno alle fortune straordinarie preparate a coloro che si fossero diretti nelle Americhe. I noli pagati dai Governi del Brasile furono tanta manna per questi professionisti. I 50.000 contadini che prima emigravano, salirono annualmente a quasi 200.000. Solo dal porto di Genova, dal 1882 al 1894, partirono un milione e mezzo di emigranti, di cui 7/9.000 diretti al Brasile”.

Succede anche che gli emigranti vengano ceduti dagli arruolatori alle Compagnie di navigazione, che poi li fanno viaggiare a fantasia. Succede pure che i mezzani si trasformino tranquillamente in usurai. Dai reclutatori (siamo a Bari nel 1874) gli emigranti ricevono in prestito 100 ducati in lire di carta. Dovranno restituirne 150 in oro. L’operazione è fatta per gruppi di dieci persone, ognuna delle quali è responsabile per tutto il gruppo. Se qualcuno muore durante la traversata o dopo per malattie infettive, quelli che si salvano, anche se è uno solo, devono pagare per tutti. Se spediscono i risparmi a casa, vengono sequestrati alla posta.

Di storie come queste ce ne sono a bizzeffe. Libri e libri. Ai giorni nostri, l’incuria dei governanti italiani per i propri cittadini non viene meno. È di questi giorni la notizia che il ministro Kyenge trasferisce i clandestini dai centri di accoglienza agli hotel. L’Italia non ha soldi: non ha soldi per le pensioni, ridotte al minimo, con lavoratori ridotti a mangiare alla Caritas; non ha soldi per pagare i farmaci antitumorali ai malati, che se li devono acquistare da sé (chi può permetterselo), però i soldi ci sono quando si tratta di trasferire gli immigrati clandestini negli hotel – non si sa per quanto tempo – a spese degli italiani, ovviamente. Non bastasse, c’è da aggiungere un posto di lavoro pubblico anche per gli immigrati senza la cittadinanza, solo con permesso di soggiorno o rifugiati. Questa la possibilità prevista dalla Legge 97 del 6 agosto 2013. (2)

Indipendenza! Indipendenza da questo paese che non ha mai amato i suoi cittadini!

* * *

NOTE

(1) Deliso Villa “Storia dimenticata” – Ed. Ente vicentini nel mondo, 1997

(2) Legge 6 agosto 2013, n. 97 – Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 – Articolo 7: Modifiche alla disciplina in materia di accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche Amministrazioni. Casi EU Pilot 1769/11/JUST e 2368/11/HOME – [...] b) dopo il comma 3 sono aggiunti i seguenti: “3-bis. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria. [http://reteambiente.it/normativa/18972/legge-6-agosto-2013-n-97/ ]


Comenti:

Heinrich
31 Agosto 2013 at 1:48 pm # L’emigrazione dall’italia è sempre stata voluta e mirata, e non è un caso che sia iniziata con la proclamazione del Regno d’Italia ed abbia colpito le regioni man mano che queste venivano annesse al dominio sabaudo.
Dal 1866, mentre i veneti iniziavano ad emigrare in massa verso le americhe e l’oceania, cosa mai accaduta prima quando il Veneto era sotto amministrazione asburgica (ergo “sovrappopolazione” un corno!), i friulani neo-annessi al regno italiano emigravano in massa nel Friuli Austriaco!
Il discorso della sovrappopolazione non sta in piedi, è una boiata sesquipedale.
Se fosse stato così sarebbero emigrati unicamente verso il Nuovo ed il Nuovissimo Mondo, invece dal Regno d’Italia emigravano in Francia, Germania, Svizzera ed Austria-Ungheria.
Questa è una spiegazione lampante: emigravano perché sin dalla sua nascita l’Italia si è dimostrata uno STATO DI MERDA, altro che sovrappopolazione.
Il fatto che, a distanza di una manciata di km, nell’Anpezo asburgica si pagasse il 7% di imposte all’erario imperiale mentre nel Cadore italiano la regia tassazione sabauda fosse già del 27% dovrebbe dare un’idea del drastico peggioramento delle condizioni di vita degli abitanti del Regno Lombardo-Veneto dopo il loro passaggio sotto la dominazione italiana.
Fame e malattia. Ed a proposito ricordiamo i vari scandali tipicamente italiani riguardanti già Cavour ed i suoi colleghi in merito a nepotismi, clientelismi, truffe e ruberie tra le quali il celebre caso dell’aggiotaggio sul prezzo del grano, cosa che portò la popolazione di Milano a rivoltarsi per la mancanza di pane (quindi non chissà qual rivolta libbberale), rivolta che venne repressa nel sangue dal piemontese Gen. Fiorenzo Bava Beccaris, il quale venne decorato con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia e premiato con la nomina a Senatore per il “merito” di aver aperto il fuoco sui civili milanesi affamati causando 80 morti e 450 feriti.
Inoltre l’italia era uno dei paesi europei con il più elevato tasso di analfabetismo in assoluto, ed i dati parlano chiaro: dopo pochi anni di dominazione italiana il tasso di alfabetizzazione in Lombardia crollò verticalmente…un secolo di sforzi ed innovazioni austriache volto ad estendere l’istruzione obbligatoria e garantire una educazione di qualità, per quanto minima, a tutti, venne smantellato rapidamente dalla (d)istruzione sabauda.
Non stupisce infatti che nella prima guerra mondiale gli italiani tanto del nord quanto del sud guardassero esterrefatti i civili del Friuli Austriaco deportati nei campi di concentramento italiani sparsi in tutta la penisola, quando questi dimostravano di saper tutti (uomini, donne, vecchi e bambini) leggere e scrivere perfettamente non solo in italiano, ma pure in più di una lingua.


Edoardo Rubini (???)
1 Settembre 2013 at 2:11 pm # Un particolare importante: la trasformazione della società nell’800, che porta alla rivoluzione industriale, all’industrializzazione pesante, all’inurbamento di milioni di contadini nelle periferie industriali, all’esplosione demografica, all’emigrazione di milioni di europei è dovuta proprio all’abbandono della struttura socio-economica di tipo cristiano impianta per secoli in Europa (???).
Essa viene soppiantata con la buone e con le cattive dall’imporsi dell’ideologia liberale (di cui il liberismo è l’espressione in economia), che vuole l’abbandono dello stato sociale, l’imporsi del libero mercato con l’abolizione di dazi e dogane, la svendita del patrimonio fondiario pubblico (che alcuni Stati Cristiani, come la Veneta Serenissima Repubblica, prima rivolgevano al libero uso del popolo ???), infine alla requisizione di Monti di Pietà, di istituzioni religiose, la chiusura di conventi ed abbazie, che prima formavano un immenso apparto assistenziale gratuito rivolto ai poveri (???). Questo patrimonio immenso, nel caso italiano, è incamerato dallo “stato leggero” savoiardo, ma poi la cura dimagrante è compiuta con la sua svendita agli amici degli amici di loggia massonica.
Il paradosso è che a denunciare questo sfacelo sono i propugnatori dell’ideologia “libertarian”, continuatori della distruzione della Civiltà Veneta e della Veneta Nazione (???).

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FATTA L’ITALIA, OCCORRE DISFARSI DEGLI ITALIANI

http://www.lindipendenza.com/fatta-lita ... i-italiani

di PAOLO L. BERNARDINI

Il libro curato da Gianpaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (1857-1921), pubblicato da Regione Veneto-Longo editore Ravenna nel 2011, ha molti meriti e qualche demerito. Il primo dei meriti è quello di riportare all’attenzione del pubblico Adolfo Rossi, uno dei maggiori giornalisti italiani, originario del Polesine, a cavaliere dei due secoli. Rossi, che appartiene ad una terra che di giornalisti, scrittori e politici illustri ne conta molti, soprattutto in quel periodo – da Balzan a Matteotti – fu prima di tutto un grande viaggiatore, e uno scrittore puntuale, preciso, mai rettorico o oleografico, ma di misurata prosa ed efficace argomentare. Nato povero, fu prima emigrato in America, poi giornalista, poi, dal 1902, ispettore del Commissariato Generale dell’Emigrazione, e quindi, dal 1908 fino alla morte, membro del corpo diplomatico italiano.

Purtroppo manca su di lui quella monografia che ci permetterebbe di cogliere a tutto tondo una figura che si mosse, inesausta, dagli USA all’America Latina, dall’Eritrea, colonia sabauda di recente acquisizione, alla Sicilia, colonia meno recente, da Costantinopoli a Madrid, al Sudafrica della guerra anglo-boera (e dell’emigrazione italiana); la sua bibliografia conta almeno trenta volumi, o lunghe relazioni (come quelle pubblicate qui, su Brasile, Stati Uniti, Sud Africa, e Argentina: Romanato ha escluso la relazione su Basilicata e Calabria del 1908, un peccato, perché avrebbe completato così il volume, che avrebbe contemplato tutte e 5 le relazioni ufficiali che Rossi pubblicò sul “Bollettino dell’Emigrazione” dal 1902 al 1914), oltre ad un numero altissimo di articoli pubblicati sui maggiori periodici italiani.

Rossi dunque affrontò il problema dell’emigrazione italiana soprattutto extra-europea, con dovizia di particolari, viaggiando coraggiosamente attraverso i luoghi più sperduti dove gli “italiani”, ovvero i siciliani, i veneti, i liguri, i campani, gli abruzzesi, i trentini, i friulani, cercavano di sopravvivere fuori da una patria ingrata, ma soprattutto, alla fine, inesistente.

Come spesso accade, quando si affronta il problema della migrazione italiana, pianificata come deportazione degli italiani in eccesso da figure criminali quali Nino Bixio ben prima che l’Italia divenisse un’entità politica (viaggiava perfino in Australia a tale scopo), Romanato tace, come del resto fa Rossi, sulle cause di tale fenomeno, immenso.

“Fatta l’Italia, occorre disfarsi degli italiani”, parafrasando l’esteta D’Azeglio, vacuo e razzista, non solo attraverso politiche destinate esplicitamente ad incoraggiare la migrazione – con relativa corruzione di Stato a livelli estremi, come accadeva soprattutto nella gestione dei mediatori e procuratori di carne umana – ma anche attraverso politiche di tassazione eccessiva ed esagerata, denunciate da molti ai tempi, che aveva ad esempio ridotto il Polesine di Rossi, di Matteotti, e di Romanato alla nascita (è del 1946), a quella miseria ignobile che mai aveva conosciuto sotto la Serenissima, probabilmente neppure ai tempi dei Romani, dei Veneti antichi, e financo degli Euganei. L’inizio della rapida decadenza del Polesine, del resto, risale agli anni Sessanta: prima le rinnovate ed esacerbate richieste del governo austriaco, che doveva finanziare la guerra con la Prussia, poi quelle, ininterrotte, cieche, violentissime, del governo italiano, a partire dal 1866, ovvero dall’annessione del Veneto e di Mantova (peraltro, anche di mantovani è pieno il Brasile di cui ci parla Rossi).

Fortuitamente, l’occupazione sabauda di Veneto, Emilia, Regno delle due Sicilie, Friuli e Lombardia, insieme ad una rivoluzione demografica tardiva (quella europea si era svolta tra metà e fine Settecento), venne subito dopo l’abolizione della schiavitù in tutto il continente americano. Ecco che gli “italiani”, insieme a numerose altre popolazioni di disgraziati, ovvero ridotti in disgrazia dai propri governi, in primis i cinesi, i coolies, meno resistenti però al lavoro duro rispetto a veneti, friulani, siciliani etc., vennero a sostituire gli schiavi, sotto l’apparenza della libertà. Di nuova schiavitù si tratta, in effetti, e se si leggono senza piangere queste pagine di Rossi, si vedrà come della vita in schiavitù gli “italiani” patissero tutti i disagi: violenza, abusi sessuali, fustigazioni, bastonature, malattie, privazioni, stenti. Ora, vero documento per un’antropologia coloniale, i testi di Rossi forniscono materia viva allo storico, sono testimonianze raccolte di prima mano, veritiere. Gli schiavi tricolore, più variopinti dei neri e dei gialli e degli indios messi insieme.

Anche il fatto che gli “italiani” dovunque tenessero i ritratti di Vittorio Emanuele III e della regina Elena (tra l’altro, Rossi era stato anche in Montenegro, pubblicando un resoconto interessante nel 1896), non deve sorprendere, non si tratta di “sindrome di Stoccolma” per gli esiliati dal regno sabaudo. Si tratta dell’umano desiderio di avere un sogno di patria, un’idea di patria, senza comprendere che tale patria, nel caso di specie, era la peggiore “patrigna”, anche se l’effetto che questa patetica ingenuità ci fa, è pari a quello di pensare a ebrei che avessero appeso nelle celle dei lager la foto di Hitler.

Perché occorre leggere Rossi? Perché rende perfettamente chiara la tragedia dell’emigrazione, per tutti, o quasi tutti (qualcuno riuscì a far fortuna), perché rende perfettamente chiare le motivazioni, e le condizioni miserrime di vita, di questa ondata di milioni di disperati che si riversavano fuori dai loro paesini, oggi spesso nomi a cui non corrispondente neanche più una casa. Dice a Rossi, in veneto, nel mezzo del Brasile, il colono trentino Beniamino Fontana: “chi ghe n’ha, sta mejo in Italia de qua” (p. 85), parole sacrosante applicabili ad ogni migrante: non si lascia la propria terra, nella maggior parte dei casi, se essa offre abbastanza per vivere bene, o perlomeno dignitosamente.

Rossi si indigna, a ragione, per i denari spesi nelle colonie africane, e per le sciagurate politiche coloniali; ma non si indigna abbastanza dinanzi ai suoi “connazionali”, ridotti in schiavitù. O meglio, colto da patriottica cecità, come lo storico Romanato (che chiama in ogni momento l’Italia “il nostro paese”, usando il pluralis maiestatis, perché mio, ad esempio, proprio non è), ed insieme senso vivo di pietà per quei tribolati, vorrebbe che il governo italiano spendesse di più per aiutarli in quei paesi lontani, insomma, un po’ come chiedere a Hitler di fornire le mense di Auschwitz con brioches, frittelle, galani e cioccolata calda. I migranti erano merci da export, influivano sulla bilancia commerciale e sull’equilibro diplomatico, valevano un tanto al chilo per il governo italiano, una volta esportati, non erano più interessanti, se già allora si fossero esportate FIAT avrebbe avuto maggior valore e qualche officina per le magnifiche vetture torinese sarebbe stata pur creata (stiamo parlando di Brasile, infatti…).

Ben venga dunque un libro di scritti di Rossi, ben venga, se qualcuno la scriverà, un’opera dedicata interamente a lui, figlio del Polesine asceso a giusta fama, viaggiatore attento anche ai minimi dettagli, e ai più remoti anfratti del mondo, senza mai cadere nella disgustosa retorica dei suoi equivalenti attuali. Ma non si ignorino le ragioni per cui quegli inferni qui descritti sono venuti al mondo, ché prima non c’erano, ché prima del 1861, o del 1866, l’emigrazione era assai limitata, ché prima ancora nel Nuovo Mondo ci andavano Lorenzo da Ponte o qualche nobile viaggiatore lombardo. Non ci andavano queste torme di disperati, affetti da ogni malattia, forse anche dalla nostalgia di una terra che era stata loro sottratta, nell’illusione di averli resi, di tale terra, cittadini a pieno titolo. Se il sogno di Cavour era la fine del latifondo, ecco che i contadini diventano proprietari di piccoli appezzamenti in Brasile, il sogno antinobiliare si frantuma sulla realtà di miseria che l’Italia unita crea, e sperimenta, da subito. Diventano proprietari dopo aver sudato sette, o piuttosto settemila camice. Contribuiscono, certo, a rendere ricchi paesi altri, ma a quale prezzo.
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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » dom dic 22, 2013 10:13 pm

L'oror de li talego romani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... =drive_web

Immagine

Cremenaletà talega
http://www.speakers-corner.it/rizzoli/s ... a2int7.spm

Kel fiol d’on can de Stela el gà manepolà li dati: el gà meso li omiçidi de diexe ani come se li fuse de on ano e li gà devedesti par el nomaro de li abitanti otegnendo cusì na çifra de 16.127 par cu pararia ke ente la nostra tera veneta eente l’otosento ghe fuse da tre a sincoe volte li sasini ca ghè anco ente la Canpania e la Siçilia (coando ke en realtà li xe da 4 a 7 volte de manco).

Omicidi in una regione simbolo: il Veneto
(li mi a go corejesto li dati)

Veneto 2001 sasini 35 so 4.540.853 de parsone, ono ogni 129.738 parsone
Campania 2001 sasini 127 so 5.782.244 ono ogni 45.529
Sicilia 2001 sasini 82 so 5.076.700 ono ogni 61.910

Veneto (ani 1875 – 1884) en diexe ani 174,5 (= 17, 45 a l’ano) so 2.814.173 ono ogni 161.270 parsone


I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
viewtopic.php?f=22&t=2587
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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » mer gen 08, 2014 9:14 am

Li taliani dapò ver desfà la tera veneta e copà xentenara de miliara de veneti li ciamava el Veneto
Veneto bubbone d’Italia
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... pTaUE/edit

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/268.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 11/269.jpg
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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » ven gen 10, 2014 8:43 am

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Re: Emigrasion

Messaggioda Berto » dom gen 12, 2014 3:12 pm

LOTO OGNI JORNO PAR LA ME LENGOA VENETA
(entervista conpleta a Darcy Loss Luzzatto)
http://www.youtube.com/watch?v=YfnQkLHQ ... r_embedded

Na casa de pria e sasi fata dai veneti migrà en Braxil
Immagine

L'epopea della emigrazione veneta
Giovanni Meo Zilio
http://www.comunitaitaliana.com.br/mosa ... veneta.htm
Le cause principali del fenomeno emigratorio furono, com’è noto, la miseria e l’emarginazione delle classi rurali dell’epoca, se non addirittura la fame, insieme al sogno della proprietà della terra da parte dei nostri contadini (allora veri “servi della gleba”), spesso ingannati da fallaci propagande interessate, favorite, a loro volta, dall’ignoranza commista alla speranza che è sempre l’ultima a morire. Ma va tenuto conto anche di quell’insopprimibile spirito di avventura, quell’attrazione verso il nuovo e il lontano che da sempre ha agito sull’umanità e che spesso viene trascurato dagli storici dell’emigrazione.
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Re: Emigrasion veneta ente l'800 e 900

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2014 11:44 am

Lobby veneta per fare affari nel mondo - Zaia: «Dobbiamo imparare dagli ebrei»
Il governatore: imitiamoli, l’amarcord non basta più. Un network (con sito e uffici) per studenti e imprese

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 1300.shtml


CITTADELLA (Padova) — La valigia di cartone, e va bene. La foto di mamma e papà col cappello di paglia in mezzo ai campi, e va bene. Il filò nella stalla, i fazzoletti sventolati al molo, i baci rubati dal finestrino del treno. Va tutto bene. Ma se ci si ferma al bianco e nero, i veneti nel mondo rischiano di morire di romanticismo, nostalgia e pure un po’ di noia. E noi con loro. Le foto sono belle, ma nel mezzo della Grande Crisi, ad un passo dal 2014, non si campa di soli ricordi né di qua, né di là dell’oceano. «L’amarcord è bello - ammette il governatore Luca Zaia - ma per piacere andiamo oltre». Come? Se n’è parlato sabato all’apertura dei lavori della Consulta in cui siedono i rappresentanti di tutte le associazioni dei veneti sparsi per il mondo, riuniti a Cittadella per due giorni come ogni anno.

Sono arrivati dal Brasile, dal Canada, dagli Stati Uniti, dall’Australia, dal Giappone, dalla Francia... ci fermiamo qui, sennò l’articolo non basta. D’altronde i veneti iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero, sono 320 mila ma quelli censiti dalle associazioni, che tengono conto anche dei discendenti fino al quinto grado, superano i 6 milioni. Un Veneto fuori dal Veneto. «Un network straordinario - sottolinea Zaia, che presiede la Consulta - che se ben organizzato e ben utilizzato può rivelarsi efficacissimo come motore culturale per gli studenti ma anche, e soprattutto, come trampolino di lancio per gli imprenditori». Non è un caso che in platea sedesse il leader di Confartigianato, Giuseppe Sbalchiero.

«Dobbiamo imparare dagli ebrei, non c’è nulla da inventare - prosegue Zaia -. Conosco bene la comunità ebraica, la frequento, la stimo e resto sempre stupito di come riescano non solo a rimanere in contatto e a coltivare la loro identità dovunque si trovino, ma anche di come siano solidali gli uni con gli altri e collaborativi. Ecco, vorrei che i veneti nel mondo fossero come gli ebrei nel mondo». Un esempio concreto di come possa operare questo network lo tratteggia Luciano Sacchet, discendente di bellunesi, imprenditore in Uruguay, vice presidente della Consulta: «Il mercato del Sudamerica si sta espandendo in modo straordinario e posso assicurare che ancora non si è visto nulla delle potenzialità di quel continente. Ebbene, se un’impresa veneta volesse vendere i suoi prodotti in Brasile troverebbe difficoltà insormontabili, a cominciare dai dazi. Ma se quella stessa impresa potesse contare su una filiale in Uruguay, allora entrerebbe nel Mercosur (il mercato latinoamericano, ndr.) e il problema sarebbe risolto. E noi siamo pronti a prenderci parte del rischio».

Per intendersi: in Brasile, dove esiste un vero e proprio «Stato Veneto», il Rio Grande do Sul (la sua capitale è Caxias do Sul (??? o Porto Alegre), dove ancora si parla il talian derivato dal nostro dialetto (e no lengoa?), ma c’è pure una Nova Bassano), il mercato conta 200 milioni di potenziali clienti. La vicina Argentina è a quota 45 milioni. «Altro che spreco - taglia corto Sacchet con orgoglio - noi per i veneti siamo una risorsa». Fabio Gazzabin, capo di gabinetto e braccio operativo di Zaia, dovrà farsi carico di portare sulla Terra le buone intenzioni che oggi viaggiano nell’iperuranio («Se serve ci mettiamo soldi in bilancio, non c’è problema» l’ha rassicurato Zaia). Non si parte da zero: c’è la Consulta, ci sono gli uffici in Regione e c’è un sito in via di espansione, globalven. com, che diventerà il luogo virtuale in cui far incontrare studenti e imprenditori, mettendo in contatto chi sta per partire con chi è pronto a dargli una mano.
Basta scorrerlo rapidamente per accorgersi che Antonio Tomba, «il padre del vino argentino», e Geremia Lunardelli, «il re del caffè», oppure l’ex sindaco di Sidney Frank Sartor o l’ex ministro brasiliano Luiz Fernando Furlan, sono soltanto le punte di diamante di una storia che continua ancor oggi con imprenditori, medici, avvocati, architetti, ingegneri, chef.

L’ondata migratoria del Duemila può avere partenze e approdi assai diversi da quelli delle tre che l’hanno preceduta, a fine Ottocento e poi nel primo e nel secondo dopoguerra. «Ci sono ragazzi che lavorano a Bruxelles e ogni domenica pranzano a casa con mamma e papà...» sorride Zaia, mentre Sacchet punge: «Qui c’è troppo individualismo, dovete recuperare lo spirito di comunità e solidarietà che noi all’estero conserviamo ancora forte.
La crisi? Quella che state vivendo in Italia non è neppure paragonabile alle tre che abbiamo sofferto noi in Sudamerica negli ultimi anni, quando le banche chiudevano dalla sera alla mattina. Quelle sì che erano crisi...». Il governatore abbozza ma non sembra tanto convinto. Poi coglie l’occasione per lanciare una nuova battaglia, si vedrà con quali fortune:
«Gli iscritti all’Aire acquistano di default il domicilio fiscale a Roma. Uno scandalo non solo per ragioni identitarie ma anche economiche, perché così una parte consistenze delle loro tasse, a cominciare dall’Irpef, si ferma nel Lazio anziché andare nei Comuni di origine, assai più bisognosi. Sarò dunque primo firmatario di un progetto di legge volto a riportare il domicilio di chi ha scelto di risiedere all’estero nei veri luoghi da cui è partito».

25 novembre 2013 (modifica il 27 novembre 2013)
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Re: Emigrasion veneta ente l'800 e 900

Messaggioda Berto » dom apr 13, 2014 10:14 am

A catar fortuna
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... VkM1k/edit

Immagine


La Boje

http://it.wikipedia.org/wiki/La_Boje
La Boje è il nome con cui viene ricordato il moto contadino del periodo 1882-1885.

Origine della rivolta

Gli storici non sono concordi sul luogo ove ebbe origine la rivolta. Secondo alcuni la rivolta avrebbe avuto origine nel Mantovano, secondo altri nel Trevigiano. Secondo Vittorio Tomasin il luogo dove avrebbe avuto origine la rivolta è localizzato a Ceregnano, in località Pezzoli. A supporto della tesi di Tomasin c'è il fatto che la parola "la boje" - cioè [essa] bolle riferita alla pentola in ebollizione - fa parte del dialetto (lengoa prego!) veneto: "La boje, e de boto la va fora" (Bolle, e sta per traboccare).

A conferma ulteriore della tesi principe, risultata negli anni l'unica saldamente fissata da documenti storiografici, tuttora anziani della zona montagnanese (nel Padovano) continuano a trasmettere oralmente il detto "la boje" come esclamazione di giubilo o di disappunto.

Un'ulteriore conferma è data dall'uso consueto, nel gergo da caserma dei soldati di leva di stanza nel Friuli e zone limitrofe (tra cui il trevigiano), dell'espressione "la boje" per indicare una situazione difficile che stia per accadere (una ispezione del comandante, una missione in polveriera, etc.).

Cause della rivolta

Un altro motivo di supporto alla tesi di origine del moto in provincia di Rovigo, sta nel fatto che nel 1882 l'Adige aveva rovinosamente rotto gli argini allagando grande parte del Polesine mettendo in ginocchio l'Agricoltura. I braccianti non riuscivano a vivere con la bassa paga, mentre gli agrari si trovavano nell'impossibilità di concedere aumenti. Il problema si risolse negli anni successivi con la forte emigrazione verso il Sudamerica di numerosi braccianti.

Il processo di Venezia

Lo sviluppo maggiore dell’agitazione si ebbe nel mantovano, dove i contadini vennero organizzati in due Associazioni: la Società di mutuo soccorso tra i contadini della provincia di Mantova che operava principalmente nel circondario di Mantova e nel Basso mantovano fino all'Oltrepò, fondata dall’ingegnere Eugenio Sartori e l’Associazione generale dei lavoratori italiani diretta dall’ex garibaldino Francesco Siliprandi e dal contadino gonzaghese Giuseppe Barbiani, che operava principalmente nei territori al confine con il Cremonese. Entrambe le associazioni furono formalmente fondate nel 1884.

Lo sciopero durò parecchi mesi causando la reazione governativa. Nel marzo 1885 lo sciopero venne soffocato dall'intervento dell'esercito e circa 160 persone vennero arrestate, delle quali 22 furono rinviate a giudizio. Il Collegio di difesa era composto dall’avv. Giuseppe Ceneri, dall’avv. Ettore Sacchi, deputato cremonese della Democrazia radicale e futuro ministro e dal giovane avv. Enrico Ferri, già noto giurista mantovano.
La giuria popolare della Corte d’Assise di Venezia, con sentenza del 27 marzo 1886, assolse i ventidue imputati.
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