L'intraducibile «Heimat»http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABD5RcABIl paese è sempre Schabbach, nell'Hunsrück, la regione dove Edgar Reitz nacque nel 1932.
La famiglia è ancora la protagonista della trilogia di Heimat, i Simon, attraverso cui il portavoce del "Nuovo cinema tedesco" ha raccontato la storia del suo Paese, dalle macerie della prima guerra mondiale agli anni 2000.
Ma Die andere Heimat - di cui domani il regista parlerà ad Ascona nell'ambito della manifestazione L'immagine e la parola - è un fatto a sé. I Simon sono retrocessi nel tempo, alle soglie del 1840, nel villaggio che pare una casa di bambole, sporcata dal freddo e dalla miseria, sotto la cappa quasi medievale dell'impero prussiano. Un borgo che si sogna di lasciare per fame, o per bramosia di chimere, come avviene al giovane Jakob (Jan Dieter Schneider), funambolo di lingue esotiche, imparate sui libri di viaggio.
Die andere Heimat in italiano è stato reso con L'altra Patria, ma il vocabolo Heimat non ha un corrispondente nelle lingue neolatine e in inglese; solo nello slavo dòmovina.
«La parola tedesca "Heimat" è certamente connessa a diversi significati secondari carichi di emotività -, spiega il regista -. Ecco perché è così difficile da tradurre. Non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza.
Suppongo che nelle parole e nei concetti, ed è così in ogni lingua, si rispecchi l'esperienza vissuta da diverse generazioni. Quella delle popolazioni germaniche, scandinave o slave deve dunque celare un vissuto che ben rappresenta il concetto di "Heimat" e che magari risale a migliaia di anni fa. Non possiamo saperlo».
Forse è un vocabolo strettamente legato agli esodi, alla necessità di spostarsi, di cui si parla sia in Heimat, che in Die andere Heimat. «Il concetto di "emigrazione" contempla la somma di una moltitudine di motivazioni che spingono a lasciare la propria patria per trovare felicità e fortuna in un Paese straniero.
A me interessano le storie individuali, non il movimento migratorio in senso lato.
Le ragioni che nel 1923 portano Paul ad andare via non si spiegano facilmente; lui stesso non riesce a definirle. È un impulso intrinseco che lo fa partire. Vi è un'altra parola tedesca pressoché intraducibile che ho scelto come titolo della prima parte di Heimat 1: "Fernweh". I presentimenti che tormentano il giovane Jakob per Die andere Heimat sono ancora più complicati, poiché egli viaggia nei lontani Paesi del Sudamerica soltanto con la fantasia. Anche qui ho scelto un sottotitolo per descrivere la vita interiore di Jakob - Chronik einer Sehnsucht - Cronaca di un Desiderio -. Un senso di nostalgia e struggente malinconia che il tedesco descrive con la parola "Sehnsucht", un leitmotiv del romanticismo. Si tratta di un anelito rivolto sia al futuro sia al passato. Una vera e propria contraddizione che attanaglia l'animo del giovane. Per questo motivo Jakob non riesce a decidere, ma si fossilizza nei propri sogni».
Una nostalgia che si percepisce nelle immagini potentissime di una campagna dalla bellezza assorta ma avara di frutti, e negli interni oscuri, saturi del fascino e delle paure degli antri magici.
Ogni tanto il bianco e nero è illuminato da colori, come il cappottino rosso e le fiammelle in Schindler's List (1993) di Steven Spielberg: il rosso del sangue e di un ferro di cavallo incandescente, l'azzurro dei fiordalisi in un campo mosso dal vento, l'arancione di una pietra in controluce. «Nell'era digitale il film in bianco e nero non esiste più, è una decisione puramente artistica che concerne la fase di "post produzione". Quando si converte la policromia in monocromia si può anche decidere di riprodurre alcuni oggetti nella loro cromaticità originaria. Sono oltre trent'anni che cerco questo tipo di effetto e solo ora ci sono riuscito. In questo modo i colori tornano a far parlare di sé».
Reitz nella lezione di domani promette di raccontare la nascita della sua ultima opera, che ha richiesto tre anni di preparazione e uno di produzione. Ma anche gli esordi, di quando, giunto a Monaco nel 1952, sperimenta il teatro, la letteratura e la poesia, fino a dedicarsi completamente al cinema, produzione, fotografia montaggio, prima ancora della regia. «Sin dagli anni Sessanta mi sono fatto portavoce del cinema tedesco d'autore. Nella mia generazione la storia cinematografica tedesca ha svolto un ruolo solo marginale. Naturalmente abbiamo anche noi i nostri classici, risalenti all'epoca del cinema muto, con Murnau o Lang, che sono stati un po' "i nostri avi". Io ho preso esempio dai grandi registi del cinema europeo, ispirandomi soprattutto al cinema italiano del dopoguerra, ai film di De Sica, Rossellini, Visconti e Fellini».
Die andere Heimat ricorda, tra l'altro, le atmosfere di L'albero degli zoccoli (1978) di Olmi e Novecento (1976) di Bertolucci. «Mi fa molto piacere che vengano citati questi fantastici registi del cinema italiano. Apprezzo moltissimo i film di Ermanno Olmi, lo sento vicino, come un fratello, anche se non ci siamo mai incontrati. Bertolucci è uno dei grandi nomi del cinema europeo, conosco tutti i suoi film, dal primo all'ultimo. Mi è piaciuto soprattutto Il Conformista».
Nel 1962 Reitz è tra i firmatari del "Manifesto di Oberhausen" che rivendica il diritto di creare un nuovo corso cinematografico, Junger Deutscher film. «Nei primi anni, ovvero sino alla fine degli anni Settanta, con molti cineasti tedeschi, per esempio Kluge, Herzog e Fassbinder, era nata una profonda amicizia.
Poi le nostre strade si sono divise», continua il regista.
Voxi col senso de heimat de domovina (domus e i demo greghi) ła podaria esar: paexe, tera, ma mi adoto vołentiera anca ła voxe heimat.Heimathttp://webcache.googleusercontent.com/s ... clnk&gl=it Negli incontri con il popolo tirolese, sia che si tratti di personaggi politici che di semplici cittadini, è abbastanza facile udire questa parola: Heimat.
È un termine che racchiude in sé un profondo significato, che ha la sua ragione di esistere e che non deve essere svilito da un uso improprio.
Heimat è un vocabolo tedesco che non trova un corrispettivo nella lingua italiana. Esiste, al contrario, un migliore corrispettivo in alcune lingue slave: “domovina” in sloveno, croato e serbo e nel “domov” della lingua ceca.
In italiano esso viene spesso tradotto liberamente con i termini: “Casa”, “Piccola Patria”, “Paese natale” o anche “Luogo o terra natia” cercando di indicare, in questo modo, il territorio nel quale ci si sente a casa propria perché vi si è nati, oppure vi si è trascorsa l’infanzia o ancora perché vi si parla la lingua degli affetti. Tuttavia la Heimat non è solo il posto dove si è nati e che si ha abitato da piccolo, ma anche i ricordi, le persone care e quant’altro circonda i posti dove si è nato, da quando si è nati fino ad oggi.
Si consideri inoltre che della Heimat fanno parte anche i cambiamenti avvenuti nei propri luoghi natii; cambiamenti a volte tali e tanti che un singolo individuo può tranquillamente affermare di non avere più una Heimat.
Il limite di tutte queste traduzioni non risiede nell’intraducibilità di questa parola a cui esse si sforzano di conformarsi, quanto piuttosto nella presupposizione di autoreferenzialità che in questo caso sembra sottrarre l’aspetto fisico della parola da tradurre (cioè il suono e la grafia di una parola della lingua tedesca), al comune spazio di significato dischiuso dalle parole pronunciate o scritte in italiano. È insomma come se, proferendo la parola Heimat, l’effetto di senso prodotto dalla combinazione di queste sei lettere, rifluisse nel perimetro di quell’unico suono, per sottintendere, a guisa di un dialetto scontroso, una comunicazione per pochi. Portando
all’eccesso la definizione: solo chi può dire “Heimat” può alla fine avere una Heimat!
Il concetto di Heimat si sviluppò inizialmente in Germania nell’800 quando l’industrializzazione comportò, in questo paese, l’esodo massiccio di popolazione dalle aree rurali nelle grandi città. Nello stesso periodo, inoltre, si costituiva lo stato tedesco. L’Heimat venne interpretata come una reazione alla perdita dell’individualità e della comunità di origine: un aspetto questo, dell’identità tedesca che inizialmente era patriottico ma non nazionalistico. Secondo alcuni sociologi, l’amore per la piccola patria ed il rifiuto di ciò che le era estraneo, conteneva nella sua essenza, i germi del concetto nazista Blut und Boden (Sangue e Terra).
Quale Heimat per il popolo trentino?L’anima del popolo trentino risente, in modo preponderante, di tutte le vicissitudini storiche nella quale è incorsa. Senza scendere troppo in là nella Storia è opportuno ricordare quante volte, frange del popolo trentino si sono alleate con realtà politiche straniere. Il basso Trentino, il roveretano, con i Castelbarco, fece la scelta di Venezia per contrastare gli interessi del Principato Vescovile di Trento. Anche il Primiero, nella storia,
ha trovato comuni interessi con la Contea di Feltre. Gli interessi dei Conti d’Arco con la provincia bresciana sono cosa nota. Le Valli Giudicarie nelle sue estreme propaggini hanno avuto e desiderato infiltrazioni straniere. Se le difficoltà ambientali del Passo del Tonale hanno impedito alle popolazioni della Val di Sole e anche di Non di instaurare rapporti estesi con le realtà opposte, non per questo hanno evitato quelle continue ostilità nei confronti del Principato di Trento.
Il lungo periodo del governo asburgico non ha tuttavia nascosto le continue rivendicazioni irredentiste verso una Italia non ancora esistente. Pur con tutte queste contraddizioni, la scelta dei Cacciatori del Kaiser, fatta da Francesco Giuseppe nei territori trentini era comunque dovuta alla consapevolezza di una loro sicura fedeltà.
Tutta questa storia si ripercuote continuamente nella odierna storia del popolo trentino. Anche al giorno d’oggi si osservano e si ascoltano uomini e donne trentini, inneggiare a realtà politiche nazionali che tutto hanno nel loro DNA salvo quello di desiderare la felicità del popolo trentino. Questi trentini che portano avanti le istanze della Lega Lombarda e Veneta, altro non sono che i figli nascosti di quel Guglielmo da Castelbarco che vendette per il suo tornaconto le nostre terre.
Forse, in questo caso, vale quello che scrisse una volta il grande filosofo americano Eric Hoffer: “Quando si è liberi di fare come si vuole, in genere si imitano gli altri”.
Tuttavia, la comprensione della parziale perdita dell’Heimat non è così semplice.
Se si volge lo sguardo alla vicina provincia di Bolzano, si può osservare che nel corso dei secoli gli interessi delle popolazioni della Val Venosta hanno sempre avuto una perfetta comunanza con quelli delle popolazioni della Val Pusteria e quasi nessuna diversità con le regioni inferiori di Laives o Salorno. Al contrario, gli interessi del basso trentino o della Valle dell’Adige con la Valsugana oppure le Valli di Non o di Sole e financo alle enclavi ladine di Cembra, Fiemme, Fassa hanno sempre presentato scadenti punti di contatto.
Nella realtà, il popolo trentino non esiste. Siamo un insieme di popolazioni legate assieme da un mix di interessi contingenti, ricordi passati e, al momento opportuno, dalla paura di perdere alcuni piccoli privilegi che abbiamo conquistato con fatica e dignità.
Un po’ poco per trarne un’Heimat.
Tuttavia, c’è una cosa che ci accomuna. Una cosa unica e grandiosa sotto gli occhi di tutti. Basta alzare gli occhi al cielo e chiunque può osservarla.
Da Est a Ovest ogni spazio trentino è sovrastato dalle montagne, dalle Dolomiti. Montagne uniche al mondo.
Noi siamo un popolo duro come la terra e la roccia che ci sostiene e le nostre montagne sono le pareti della nostra casa e solo tra di loro possiamo ritrovare la nostra Heimat.
Trent’anni fa stavo terminando il mio corso di studi all’Università di Verona. Un Professore mi chiese se intendevo continuare gli studi con la sua scuola di specializzazione. Sarebbero stati altri cinque anni. La mia risposta, pur con qualche rimpianto, fu semplice. Senza montagne non è vita. Tre mesi dopo assumevo l’incarico della condotta medica a Capriana in Val di Cembra.
Nel 2010 cadono i miei venticinque anni di volontario nel Soccorso Alpino. Un aspetto tipico della vita di molti trentini. Quello di restituire qualcosa, in modo gratuito, a questa terra che ci ha accolto.
Quel giorno di trent’anni fa, dopo che il treno aveva superato le Chiuse di Verona e si delineavano le possenti mura del castello d’Avio e poi la valle di Ronchi ed Ala ed infine la ridente Valle Lagarina, una sola parola tedesca risuonava nella mente: beheimaten…… cominciare a sentirsi a casa.
Giuseppe Gottardi
Rovereto
26 febbraio 2010