1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta

1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:44 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:45 pm

???

Il 1848 nel Veneto - 50 anni dopo la Serenissima

http://www.europaveneta.org/areacultura ... eneto.html

Il 1848 è una delle date più importanti della storia, al punto da segnare un intero secolo. Non esiste un'unica chiave di lettura che da sola possa riassumere in sé le tensioni e le motivazioni che portarono mezza Europa a rivoltarsi contro l'ordine costituito. Che appellativo merita il '48?
"Primavera dei popoli", come exploit dei nazionalismi europei, o "Prima guerra d'indipendenza", come fu celebrata dalla retorica patriottico-savoiarda? Riscatto della classe lavoratrice oppressa, in sintonia con la Comune di Parigi celebrata da Marx, oppure congiura dei poteri occulti pilotata da una internazionale anglo-ebraica, come denunciato dagli ambienti tradizionalisti? E ancora: nel Lombardo Veneto si combatté davvero per un'idea nazionale italiana? La generalità del popolo veneto questi italiani li riconosceva come fratelli, oppure guardava a loro come foresti?
Analizzando con calma i fatti, possiamo considerare una prospettiva più vicina al sentire di allora. Il grande anelito di libertà che all'improvviso contagiò tutto il Veneto seguiva le tracce di una Patria sentita ancora tale da milioni di Veneti, una Patria che vantava 14 secoli di indipendenza. Questo comune sentire non fu suscitato dai fumi ideologici che si levavano dagli affiliati dei clubs carbonari (e che ex post vennero indicati come il deus ex machina di ogni avvenimento). L'avvicinamento del Veneto ai destini politici della penisola in quel tempo fu dovuto all'esigenza di tirarsi fuori dal giogo austriaco, un governo straniero distante da quel senso di appartenenza che aveva sempre legato i Veneti alla Serenissima.
Siccome appariva improbabile una lotta di liberazione fatta da soli contro l’Impero, la classe dirigente veneta si richiamò esplicitamente, expressis verbis, ad un'idea federalista, secondo la quale i popoli italici si sarebbero aiutati a vicenda costituendo un fronte comune; certo nessuno allora immaginava di finire schiacciato da un regime fanatico e sanguinario, guerrafondaio e sfruttatore, quale si dimostrerà il Regno d'Italia. Una dozzina d'anni più tardi, quando tutte le comunità rurali della penisola, e con esse gli ambienti popolari cittadini, si ritroveranno oppressi da un governo di gran lunga peggiore di quelli che precedettero la tanto mitizzata "unità", le condizioni generali di vita dei ceti minori crolleranno in pochi mesi a livelli mai visti di miseria spaventosa.
Sullo sfondo, l'orchestra politica internazionale suonava un'antifona ormai facile da orecchiare: Carlo Alberto per muoversi voleva come contropartita l'acquisto alla sua corona di tutti i territori irredenti. Perché tali mire nel 1848 non poterono essere soddisfatte? Il disegno sabaudo fu osteggiato da tre correnti politiche avverse: 1. I patrioti delle piccole Patrie, come Daniele Manin e Niccolò Tommaseo (che - ad esempio - si richiamavano in senso ideale alla Repubblica Serenissima, pur seguendo un modello istituzionale aggiornato) evitarono il più possibile di legarsi al dominio piemontese; 2. Sovrani cattolici come Papa Pio IX e i Borboni caldeggiavano, con lungimirante acume politico, una federazione italiana di Stati cristiani svincolata dal tallone della maggiore potenza imperialista (la Gran Bretagna), ma anche dal giogo italiano-liberale, ed appoggiarono Veneti e Lombardi addirittura schierando in campo i loro eserciti contro la cattolica Austria; 3. Le forze sovversive più virulente e violente che facevano capo a Giuseppe Mazzini (capo segreto di una rete occulta internazionale che faceva capo a Londra, come del resto vi fece riferimento Garibaldi) erano protette ed armate dall'Inghilterra e rigettavano radicalmente l'idea di monarchia, quindi contrastarono in quel momento il dominio sabaudo. Le cospirazioni mazziniane furono concepite dalla rete di potere occulto anglosassone come una forza di sfondamento che doveva aprire la strada alle invasioni straniere di c.d. liberatori attraverso la violenza sovversiva. Così, a differenza di quanto avvenne con lo sbarco dei Mille nel 1860, il 1848 si presentò come un movimento ostico per la monarchia piemontese; in particolare, la corrente carbonara era animata da un repubblicanesimo intransigente, apertamente ispirato alla Rivoluzione Francese.

Va sottolineato che - caso unico in tutti movimenti rivoluzionari dell'Ottocento in Italia - nel Veneto ci fu una vera lotta di popolo contro la monarchia regnante, in quel caso incarnata dagli Asburgo. In Lombardia il fronte si sfaldò, al punto che tanti contadini al ritorno delle truppe austriache inneggiarono a Radetzky, a scorno dei borghesi che avevano guidato la sollevazione. Occorre, dunque, spiegare come mai solo in una parte del Regno Lombardo Veneto, cioè nelle antiche terre di San Marco, il popolo nel suo complesso - tanto nelle città (ceto borghese, intellettuali e popolo minuto) quanto nelle campagne (contadini, piccoli artigiani, professionisti e persone istruite) - abbiano avuto l'impulso di sollevarsi tutti insieme.
Ciò, poi, contrasta con le insurrezioni successive, che ebbero l'obiettivo ufficiale di fare l'Italia unita: esse vedranno la Carboneria e le sette segrete operare con congiure e sanguinosi attentati, con milizie arruolate di nascosto tra gli adepti delle società segrete, che in ogni caso dovettero fronteggiare non solo gli eserciti monarchici, ma - soprattutto al Sud - il popolo inferocito, quella semplice gente di paese che andava a respingere i cosiddetti “patriotti” armata di forconi e fucili da caccia, menandone strage o consegnandoli alle autorità.
Non v'è dubbio che le comunità rurali del Meridione videro nei Carbonari una forza oscura ed ostile, una grave minaccia al mondo contadino attaccato alla Tradizione Cattolica, allo stesso modo in cui i contadini del Nord insorsero contro le armate napoleoniche, nelle quali avevano visto non solo l'invasore straniero, ma anche i portatori della rivoluzione liberale, che era la negazione di tutti i loro valori, spirituali ed umani.
Nei secoli XVII e XVIII le idee illuministe avevano contribuito a forgiare l'assolutismo. La Rivoluzione Francese segnò il momento in cui la legittimazione del potere si staccò in via definitiva da Dio. Fino ad allora il popolo aveva percepito la legittimazione della politica proprio nella sua discendenza dall'Eterno. Infatti, alla mentalità popolare rimase sempre estranea l'idea di far derivare da un pezzo di carta il modello di società, in forza di un atto politico-giuridico sintesi di principî astratti (le c.d. "libertà borghesi"). L'effetto prodotto dalle Costituzioni cartacee fu quello di accentrare il potere pubblico in poche mani, strapparlo dalla Tradizione e ridurre la società a materia bruta, che lo Stato ha ora il sacro compito di plasmare a suo capriccio.
Ma veniamo ai motivi per cui nel 1848 il popolo si sollevò quasi all'unisono contro l'Impero asburgico. Il Congresso di Vienna del 1815 non aveva affatto messo riparo alle violenze perpetrate dallo sconfitto Napoleone, ma vi aveva dato una sorta di sanzione definitiva: il Congresso stabilì la soppressione della Repubblica di San Marco, la più prestigiosa, longeva e popolare generata dalla storia, per assorbirla in quell'artificiosa e ambigua creazione che fu il Regno Lombardo Veneto, un precario simulacro di autonomia nelle mani di Vienna. Va ricordato che la Veneta Serenissima Repubblica, che per secoli era stata additata dai più illustri politologi come miglior esempio di democrazia (benché avesse forma aristocratica), fu conglobata nel 1815 nell'imperiale Regno Lombardo-Veneto al termine di vent'anni di guerre napoleoniche con un’operazione disinvolta, ammantata da giustificazioni giuridiche inesistenti. La gloriosa Repubblica di San Marco fu trattata come preda bellica al termine di una guerra alla quale essa era rimasta neutrale ed estranea dal primo all'ultimo minuto; anzi va rimembrata la viltà estrema del pseudo-eroe Bonaparte, che le dichiarò guerra dopo aver proditoriamente violato la pace, dopo aver circondato Venezia e solo pochi giorni prima di schiacciarla.
Oltre a questo, va osservato che tutti gli Stati rimessi in piedi dalla Restaurazione, in realtà, non erano più gli stessi di prima. La Rivoluzione liberale aveva vinto nelle idee, prima ancora che nei campi di battaglia, penetrando in profondità nella cultura politica dei regnanti, persino in casa d'Asburgo.
A scuola si dice che gli intellettuali liberali che influenzarono le corti regnanti ne avrebbero attenuato le tendenze autoritarie (si parla di "monarchie illuminate"). È vero il contrario. Anche il mondo asburgico tra Sette ed Ottocento assorbì lo spirito dei tempi, irrigidendo lo Stato in un megalitico apparato burocratico.
Non era stato così nel passato. Il Sacro Romano Impero nell'Alto Medioevo aveva tratto il suo motivo fondante nella difesa della Cristianità dal dilagare di Unni, Avari ed Arabi prima e dei Turchi poi. Si trattava di un meraviglioso mosaico di popoli, ognuno per lo più autonomo sul proprio territorio. Per secoli la Civiltà Cristiana aveva trovato un grande equilibrio unificatore su due principî: la Maestà Temporale (sfera politica) e la Maestà Divina (sfera religiosa). La versione ottocentesca dell’Impero assomigliava, invece, ad un soffocante Stato poliziesco, dove spie e delatori la facevano da padrone, per di più agendo sotto la pressione del nazionalismo austro-tedesco.
Il governo di Vienna durante l'Ottocento sembrò aver smarrito i valori cristiani che ne avevano animato l'opera per secoli; guidato da un'ottusità a volte ingenua, sembrava ignorare la desolante situazione in cui erano scivolate le classi popolari nelle sue terre ed agiva quasi volesse coalizzare i propri nemici a proprio danno.
Tuttavia, qui occorre fare una distinzione fondamentale: gli errori dell'Austria furono tutti di natura politica, ma non ebbero il carattere di deliberato sfascio sociale e morale che avranno con il Regno d'Italia. Vediamo alcuni aspetti sgraditi della politica di Vienna. La Serenissima aveva paternamente difeso per secoli tanto le comunità rurali quanto le città venete, sviluppando tutti i comparti economici e produttivi, mantenendo gli usi collettivi ed i beni civici (che coprivano dal 20 % al 40 % del territorio); questi ultimi si rifacevano a consuetudini antichissime, che consentivano ai ceti popolari poveri di raccogliere legna e pascolare il bestiame a gratis in vaste estensioni di terreno. Questo sistema tradizionale di utilizzo delle risorse pubbliche garantiva una dignitosa possibilità di sostentamento anche ai più poveri. L'Austria vessò le classi popolari, tanto per cominciare emanando una legge nel 1839 con cui svendette tutti i beni comunali alla ricca borghesia. Una riforma agraria operata al contrario, che ebbe l'effetto di una condanna alla schiavitù per i ceti popolari che vivevano nelle campagne e in montagna. Gli Austriaci davano l’impressione di vendicarsi di quel popolo veneto che aveva osato crescere libero e felice per secoli, giungendo a mettere in ombra l'Impero già al tempo della guerra contro i Franchi, nel IX secolo. Si ricordi poi la guerra che Massimiliano d'Asburgo mosse nel '500 assieme al Papa e alla Lega di Cambrais contro la nostra Repubblica. I suoi assalti poterono essere respinti soprattutto grazie all'eroismo del contado veneto. Si consideri anche lo sviluppo economico, manifatturiero e agricolo promosso da Venezia nel Settecento in Terraferma: i primi insediamenti industriali veneti si distinsero in Europa grazie alla brillante conduzione del patriziato lagunare, mentre nelle mani di Vienna l’asse dello sviluppo produttivo si spostò a tutto vantaggio dei lombardi, come pure il porto di Venezia fu affossato a beneficio di Trieste, e così via.
Ma qui dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare: l'amministrazione austriaca era onesta ed efficiente e ancora informata a quella carica di onestà e di servizio ai cittadini con cui viene rimpianta ancor oggi. Che fine ha fatto quella classe dirigente locale, legata alla tradizione cattolica? Un mistero per i più, che certamente non avranno mai sentito parlare del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, che sarà mandato nel 1866 da Casa Savoia a fare piazza pulita di dipendenti pubblici, dei professori dell'Università di Padova, dei rappresentanti politici nelle congregazioni provinciali e nelle deputazioni comunali con l’accusa di essere "austriacanti" (oltre a imporre tante altre “riforme”, quali l'espropriazione radicale degli istituti ecclesiastici che assistevano i poveri, l'abolizione degli ordini religiosi regolari, il matrimonio civile, la scuola di Stato, ecc.). Ebbene, a seguito di questa gigantesca epurazione, i posti di pubblico impiego, anche di prestigio, andranno ai compari liberali e libertini al par suo, in gran parte importati dalle lontane lande meridionali. La totale sottomissione dell'apparato pubblico agli adepti liberal-savoiardi (da noi ancor oggi la casta dominante è antiveneta) darà poi luogo a quella rete di corruzione e di camorre che rende ancor oggi famosa l'amministrazione italiana in tutto il mondo.
L'Ottocento portò il più grave flagello di miseria e di decadenza che la storia avesse mai riservato al nostro popolo, che appariva sottonutrito e afflitto dalla pellagra nelle campagne, o cencioso e ridotto all'accattonaggio nelle strade cittadine. Finché ha governato Vienna, l'idea di un riscatto nazionale ha trovato facile esca in una situazione di oppressione politica ed economica che colpiva trasversalmente e in forme diverse tutte le classi sociali (fatta esclusione per i soliti collaborazionisti). Quando Roma prenderà il suo posto, al tracollo economico si sommerà uno sconvolgimento morale e sociale, esasperato dal continuo fomentare guerre coloniali e mondiali da parte dell’apparato filo-massonico savoiardo.

Nessuno, però, a metà Ottocento avrebbe potuto prevederlo, perché l'idea prevalente non era uno stato unitario, ma di stampo federale. La vasta partecipazione popolare all'insurrezione si dovette anche al riferimento istituzionale che fu prescelto, con piena consapevolezza, nello stabilire il nuovo ordine: il 22 marzo 1848 fu proclamata ufficialmente in piazza San Marco la "Repubblica Veneta" (non "di Venezia" come viene detto da qualcuno con calcolata inesattezza: anche dopo la perdita della Terraferma, non furono mai deliberati nomi diversi).
Questo è il motivo per cui vi fu una sollevazione corale di tutto il Veneto ed il Friuli, fatto che non avverrà mai nel cosiddetto "Risorgimento Italiano" (tutto intessuto all'interno di società esoteriche e trame internazionali). Il nazionalismo italiano fu una costruzione artificiosa di matrice illuministica, quindi incomprensibile ai ceti popolari, mentre il ricordo ancora fresco della Serenissima - 14 secoli di libertà e giustizia per tutti - era un ideale che qualunque veneto era in grado di abbracciare, se non ancora come coscienza nazionale, almeno nel non lontano ricordo che un tempo le cose andavano in modo diverso.
E proprio questa fondamentale spinta popolare, spontanea e genuina, ne spiega il fallimento. Il '48 non godette infatti del necessario appoggio delle grandi potenze. Nessuno Stato straniero ebbe interesse a far rinascere un popolo libero come lo era stato fino a mezzo secolo prima. La Francia si mobilitò in un primo tempo per fornire ai Veneti un appoggio militare che avrebbe potuto dimostrarsi decisivo, ma fu fermata dall'Inghilterra e dal Piemonte, che vedevano assai male un movimento di liberazione nazionale sorto fuori dal loro controllo, in particolare non condizionato dalle trame internazionali che metteranno - una ventina d'anni dopo - la museruola illuminista-liberale alla cosiddetta unificazione italiana.
Venezia terrà duro da sola un anno e mezzo, in una resistenza eroica e disperata, assediata e bombardata sotto gli occhi sbigottiti di tutto il mondo, strangolata dalla fame e dal colera. Così i signori della politica internazionale resteranno tutti alla finestra a guardare l'ottusa Austria intenta ad annichilire il nostro popolo, aspettando il giorno che assedianti ed assediati, ormai esausti, sarebbero stati facile preda delle nuove emergenti superpotenze liberali.
Come per il 1797, anche nel 1848 gli storici rimprovereranno ai Veneziani di non aver sostenuto la terraferma veneta p.e. rifornendoli delle armi requisite all'Arsenale e nelle caserme lagunari durante la sollevazione di marzo (30.000 fucili), oppure provando a riarruolare la grande massa di contadini veneti e friulani che avevano disertato dai ranghi asburgici.
Lo sviluppo degli eventi meriterebbe un’analisi dettagliata, ma in ogni caso si può affermare che Daniele Manin fu un leader di assoluta levatura politica, strategica e morale, dotato di un ascendente fortissimo sulla compagine politica e militare; egli conquistò il cuore del popolo, che lo seguì instancabilmente in qualsiasi sua scelta.
moneta patriottica
Operò il miracolo, che nessuno di noi oggi potrebbe neppure concepire, di tenere in piedi una società ed un'economia per oltre 17 mesi in condizioni terribili, in perpetuo stato d'assedio, sotto le bombe, messo sotto pressione non tanto dal nemico, quanto dalle brame espansioniste di Carlo Alberto e dalla follia rivoluzionaria dei mazziniani: arrivò persino a respingere le pelose proposte di "aiuto" (tra virgolette) di Garibaldi. Oggi c'è chi sostiene che le genti venete si sarebbero dovute trasformare in un poderoso presidio armato in grado di respingere le incalzanti armate austriache: forse si pretende un po’ troppo.
In realtà, la gran parte dei nostri contadini non avrebbe mai voluto saperne d'imbracciare un fucile, se non per difendere il proprio villaggio, come facevano le Cérnide sotto la Serenissima. E poi, chi avrebbe potuto guidare questa forza militare, se eccezion fatta per Venezia non c'era una classe dirigente da mettere alla testa di un movimento veneto di liberazione nazionale? Si pensa davvero che Venezia avrebbe potuto controllare ogni cosa da tanta distanza? L'insorgenza era riuscita in tutto il Veneto e Friuli perché tutti si erano sollevati allo stesso tempo ognun per sé, salvo mettersi tutti sotto l'ala della rinata Repubblica Veneta, che però non era tenuta salda in un blocco politico con il resto del territorio. Il problema non era Venezia. Il problema erano le città venete e friulane. Per secoli il patriziato veneziano aveva protetto le comunità rurali dalle prevaricazioni dei nobili del posto e così si sarebbe dovuto fare nel 1848, perché non era facile che i signorotti di campagna trovassero un'unità d'intenti con i contadini. Il ceto benestante di possidenti e latifondisti era stato favorito dall'Austria, come in seguito i grossi borghesi abbracceranno il nuovo regime savoiardo. Manin e Tommaseo avrebbero anche potuto rimettere in piedi la Nazione, ma non certo nell'arco di un anno e mezzo e con le artiglierie imperiali puntate addosso.

Daniele Manin e la nuova Repubblica Veneta
Nel quadro di decadenza che affliggeva sia Venezia che il Veneto, il 13 settembre 1847 si apriva a Venezia il IX Congresso degli Scienziati italiani, presieduto dal principe Giovannelli, per l'iniziativa soprattutto di Manin e Tommaseo; furono pubblicati in quell'occasione i poderosi volumi "Venezia e le sue lagune", al cui interno Manin produsse un pregevole saggio sulla giurisprudenza veneta. Riunendo l'elite intellettuale si facevano circolare le idee, si stabilivano contatti e si favoriva la presa di coscienza sulla situazione politica. Difatti i due leaders colsero l'occasione per avanzare richieste politiche a beneficio dei Veneti. Il Congresso si concluse il 29 settembre, ma già il 18 gennaio 1848 furono arrestati entrambi.
Due mesi dopo, il 17 marzo arrivò da Trieste un piroscafo che portò notizie di sommosse nelle strade di Vienna e la caduta di Metternich. Allora una folla enorme si raccolse in piazza San Marco acclamando alla liberazione dei due prigionieri; pur esitando, il governatore Palffy acconsentì a rilasciarli, con l'intento di impedire una sollevazione generale, sicché la folla portò il Manin in trionfo per la città. Sin dal 3 gennaio 1848 l'Austria aveva imposto la legge marziale a seguito dei disordini a Milano. Nel Lombardo Veneto aveva dislocato 50.000 uomini: 13.000 a Milano, 8.000 a Venezia, 13.000 nel Quadrilatero. Si noti come nel corso di tutto questo marasma i Veronesi, caso unico in tutto il Veneto, restarono del tutto estranei agli eventi perché imbrigliati nel sistema difensivo asburgico.
Ma lungi dall'essersi ristabilito l'ordine, il giorno dopo, il 18, gli studenti di Padova e i Nicolotti (popolani di Cannaregio e Dorsoduro), si concentrarono in piazza e scoppiarono tumulti. Disselciarono i maxegni scagliandoli contro i soldati, che aprirono il fuoco: nove feriti gravi e otto veneziani morti. A quel punto la Municipalità ottenne il permesso di formare una guardia civica di duecento effettivi, ma in poche ore ne arruolò 2.000.
La sera del 18 arrivò la notizia che l'Impero aveva concesso lo Statuto e gli animi sembrarono quietarsi, ma Manin continuò a prendere accordi segreti con elementi della Marina militare: puntava a prendere l'Arsenale.
Il 22 fu la volta degli Arsenalotti, cioè i popolani di Castello che lavoravano all'Arsenale. Aggredirono il colonnello Marinovich, cioè il Capo ispettore che li sovraccaricava di lavoro e li pagava male. Lo uccisero e la situazione rimise in gioco Manin, che si recò sul posto con suo figlio Giorgio di 16 anni e poche guardie civiche. Riuscì ad entrare mentre affluivano a dargli man forte altre guardie civiche ed operai, dopo di ché gli ufficiali austriaci ordinarono alla truppa di disperdere l'assembramento. E qui succedette l'imponderabile, perché i soldati austriaci, che in realtà erano contadini veneti, capirono la situazione e si rifiutarono di sparare contro i Veneziani. Il mistero è che non intervenne neppure il contingente croato, che in pratica tradì gli Austriaci in favore dei Veneti.

Manin proclama Repubblica
Il colonnello Buday, un barone ungherese, sguainò la spada ma fu sopraffatto dagli arsenalotti. Erano le tre del pomeriggio e la città era in mano agli insorti. Alle quattro e mezzo Daniele Manin, salito in piedi su un tavolino del caffè Floriàn in piazza, concluse un breve discorso davanti ad una folla in delirio con le parole: - Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco! Poco dopo il governatore militare Zichy firmava la capitolazione davanti alla municipalità. La gran parte della guarnigione militare di stanza a Venezia passava alla causa veneta. La notte dopo i membri influenti della borghesia si riunirono nello stesso luogo e affidarono a Manin il governo.
Il corrispondente di un giornale di Augsburg descrisse così il clima tra il popolo: «Io vidi alcuni vecchi cadere in ginocchio piangendo davanti al sacro vessillo [la bandiera di San Marco] e pregare Dio di lasciarli ancora vivere. Le donne e i fanciulli ne seguivano l'esempio». L'entusiasmo popolare straripava, cortei immensi si mettevano in marcia verso San Polo e Rialto, la gente urlava "Viva la Repubblica!".
La nuova Repubblica Veneta si estese a tutti i territori veneti e friulani, ma l'impossibilità di organizzare un vero esercito, i rovesci militari di Carlo Alberto e le false promesse francesi spianarono la strada alla riconquista austriaca. Il territorio libero si ridusse in breve alla laguna e ai forti sulla gronda. Il 4 luglio 1848 il governo cedette alle insistenze dei Piemontesi, che avevano promesso l'invio immediato di 2.000 soldati regolari e aiuti finanziari, sicché l’Assemblea Provinciale votò una risoluzione per entrare nel Regno d'Italia con 127 sì e 6 no: ma fu un voto dettato dalla disperazione, cui erano contrari in cuor loro gli stessi Manin e Tommaseo, che dovettero dimettersi, ma vi si adattarono per aggrapparsi all'unica carta che, giocata bene, ancora poteva sottrarli al totale isolamento internazionale. Tutto inutile: l'intervento di Carlo Alberto si risolse con la vergogna della rotta di Custoza (23 luglio 1848) e dell’ignominioso armistizio firmato dal generale Salasco il 9 agosto, con cui il re fuggiva alle porte di Milano abbandonando i Veneti e tradendo i Milanesi (dopo aver impedito ai Francesi di intervenire in nostra difesa). L'11 agosto alle 8 di sera il popolo si raccolse in Piazza San Marco: la folla prese d’assalto il palazzo governativo nelle Procuratie Nove cacciando i commissari piemontesi Colli, Cibrario e Castelli e pretese che il potere fosse rimesso nelle mani di Manin: si era riformata la Repubblica Veneta indipendente.
L'animo popolare veneziano fu pervicace nel difendere l'ideale repubblicano ed ostinato nel sentimento nazionale veneto: di conseguenza non perdette occasione nel dimostrare avversione verso la dinastia sabauda e l'idea di una "fusione", come allora si era voluto chiamare l’annessione. I gondolieri coniarono una canzonetta che dileggiava i fusionisti: «No intendo ben sto termine che sento dir "fusion"; me par che i se dexmentega de metar prima un "con"». I pescatori di Santa Marta fecero due energiche manifestazioni antimonarchiche con le loro fiocine in piazza, cui si aggiunsero anche i barcaioli e i tagliapietra: ne seguirono addirittura alcuni arresti per la troppa irruenza usata. Testimonia Dell'Ongaro: «chi xelo sto sior Carlo Alberto? - chiedevano le buone donne di Castello e di Santa Marta - Nu no volemo che el nostro Manin e el nostro Tommaseo».
L'italianità era un sentimento sconosciuto ai vari popoli della penisola, connotati da identità etniche del tutto diverse, formatesi in tanti secoli: ancor oggi possiamo riscontrarle. Inoltre, tanti episodi mostrarono che i Veneti tendevano a costituirsi come nazione a parte. Le truppe italiane non legarono affatto con il popolo veneziano. La notte del 23 luglio 1848 tra l'altro vi furono zuffe sanguinose tra popolani di San Pietro di Castello e soldati romani, mentre il 17 febbraio 1849 tra i Nicolotti di San Leonardo e militi napoletani.
Purtroppo la riconquista austriaca della Terraferma fu rapida, perché al governo di Manin mancò un adeguato supporto militare. La difesa del territorio veneto si affidò alla resistenza locale. Fecero eccezione alcune pagine gloriose, seguite ad iniziative intraprese dalla capitale lagunare. Da Venezia il 5 aprile partirono centinaia di volontari per la fortezza di Palmanova, mentre tra l'8 ed il 14 aprile furono migliaia gli armati ad accorrere e a combattere in difesa di Vicenza, capeggiati dallo stesso Manin. Soprattutto vi fu la leggendaria resistenza dei Cadorini: sotto il comando del militare di carriera noalese Pier Fortunato Calvi furono messi 400 volontari e 4.000 guardie civiche, che riuscirono a bloccare la calata di 8.000 effettivi austriaci per tutto il mese di maggio 1848. Cadendo una città dopo l'altra, il 20 giugno 1848 il nemico poté prendere Mestre. I Veneziani formarono un sistema difensivo su cinque fortificazioni sulla gronda lagunare, che resistettero eroicamente quasi un anno.
Il 2 aprile 1849 i deputati dell'Assemblea Permanente di Venezia, eletti a suffragio universale maschile e dal 70 % degli aventi diritto, votavano la seguente risoluzione: «L'Assemblea dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'Austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati». Il 24 maggio 1849 gli arciduchi austriaci e gli ufficiali dello Stato maggiore osservarono comodamente con i loro cannocchiali dalla torre civica di Mestre il loro tenente maresciallo Thurn precipitare sulle teste dei resistenti il fuoco concentrato di 150 pezzi d'artiglieria. Così, la notte del 26 maggio la guarnigione veneta sui forti di gronda fu costretta ad evacuare. La punta avanzata della difesa divenne allora il cosiddetto "Piazzale Maggiore". In pratica furono fatte saltare in aria alcune campate del ponte ferroviario translagunare e costruita all'estremità una piazzola per sistemarvi una batteria: essa si nota ancor oggi in parte conservata sullo spiazzo erboso vicino ai binari, dove sono stati lasciati un paio di cannoni. Questa postazione si appoggiava all'avamposto dell'isola di San Secondo. Ambedue venivano bersagliate di continuo dalle postazioni nemiche situate a San Giuliano, sicché ogni giorno dovevano essere ricostruite e rifornite a caro prezzo di vite umane. La notte tra il 6 ed il 7 luglio un coraggioso contingente austriaco assaltò la piazzola alla baionetta, però l'attacco fu respinto dopo aspro combattimento.
Il colpo di grazia alla resistenza cittadina lo diedero il cannoneggiamento della città dalle nuove postazioni conquistate dagli Austriaci nel margine lagunare e la dilagante epidemia di colera, che sterminò 2788 persone. Il popolo di Venezia si accaniva in una lotta senza speranza: tormentato dalla fame e dagli stenti, mentre non sapeva più che dar da mangiare ai suoi figli, quando vedeva passare i suoi governanti, invece di invocare la resa, urlava loro di non voler giammai consegnare la città al nemico. Nell'isola di San Pietro di Castello si cominciarono ad ammassare all'aria aperta i cadaveri che non si riusciva a seppellire; si moltiplicavano gli orfani di guerra, tutte le famiglie di Cannaregio furono sfollate ed ammassate negli altri sestieri. I morti per causa violenta di guerra ammontarono a 1015, senza contare quelli dei primi giorni di disordini.
Il 24 agosto 1849 gli Austriaci tornavano ad occupare la città rendendole l'onore delle armi; agirono con rispetto e lealtà, non arrestarono nessuno e si limitarono a stilare una lista comprendente una quarantina delle personalità maggiormente compromesse con la sollevazione durata 17 mesi, che venivano quindi avviate all'esilio.
Dovendo trarre le somme da questa drammatica ed intensa esperienza, si può dire che i Veneti resero la più alta testimonianza di attaccamento alla loro Patria con impegno unanime, prodigandosi in una epica lotta senza quartiere. Con essa Venezia cancellò persino le ombre del 1797, laddove la vulgata storica ricorrente parla ancor oggi di caduta ingloriosa. Ma se guardiamo agli effetti politici prodotti dalla sollevazione, ebbene furono un vero disastro (come per tutte le rivoluzioni, d'altronde). Le energie della nostra gente furono annichilite in un sol colpo. Si preparò nel modo peggiore l'avvento dell’infausto Regno d'Italia, che trovò nelle Venezie una terra prostrata e priva di solida e consapevole classe dirigente. Gli Austriaci, infatti, resero la loro politica ancor più opprimente verso lo spirito di libertà del nostro popolo.
Un'ultima parola va spesa per Daniele Manin, accusato da certe parti di essere un intrigante legato alle società segrete. I fatti esaminati con spirito imparziale mostrano il contrario, un eroe veneto dei più puri, che per la difesa del suo popolo diede tutto se stesso, sacrificò la famiglia, la professione, gli averi, finì esule quasi in miseria, rifiutando persino i sussidi offertigli e mantenendosi all’estero con il modesto insegnamento. Come s'è visto, il 1848 fu un'epoca terribile, in cui all'improvviso venne meno l’ordine iniquo della Restaurazione, che aveva preteso di sanare la piaga tremenda della Rivoluzione Francese senza usare rispetto per i popoli, né giustizia per i poveri.

Daniele Manin
Daniele Manin era nato a Venezia il 13 maggio 1804. Il nonno paterno, Samuele Medina, di religione ebraica, si era convertito al cattolicesimo nel 1759, assumendo il cognome della famiglia che lo aveva preso a protezione: la legge prevedeva che con la conversione al Cristianesimo il battezzato prendesse il nome del padrino. Strano scherzo della sorte: questi fu Antonio Manin, fratello dell'ultimo doge di Venezia Ludovico Manin, quasi ad imparentare chi chiudeva una storia e chi ne apriva un'altra!
Tutt'altra faccenda fu la Società nazionale italiana che Manin fondò a Torino nel 1856, un anno prima della morte, avvenuta durante l’esilio parigino il 22 settembre 1857. Il motivo dominante dei suoi ultimi giorni sembrava essere una vendetta quasi ossessiva contro quell'Austria che aveva distrutto la sua libertà, la sua Patria, la sua vita, il suo futuro, invocando una redenzione che credeva ormai possibile solo sotto la corona sabauda. Ben presto, infatti, il Conte Camillo Benso di Cavour prenderà il totale controllo di detta società e piloterà la sovversione liberale con i soliti metodi. Quanto li condivideva il galantuomo Daniele Manin? Giudicate voi da questa sua dichiarazione apparsa sulla Gazzetta delle Alpi n. 135 del 7 giugno 1856: "Il partito cui appartenni è una mano d'assassini".
Il 25 maggio dello stesso anno aveva mandato al giornale "Il Diritto" (che non la pubblicava, ma lo scritto veniva rilanciato dal Times di Londra) una lettera in cui denunciava l'assassinio politico come metodo usuale praticato dai liberali italiani; vi si diceva tra l'altro: «E' cosa che strazia il cuore; è vergognoso il sentir ogni giorno di fatti atroci, di pugnalate, che succedono in Italia... possiamo noi negare che una parte di esse è perpetrata da uomini che chiamiamo patrioti, e che furono pervertiti dalla teoria del pugnale?».


25 aprile 2007 Edoardo Rubini
Bibliografia:
BALESTRIERI L., Veneto: questioni di storia della società veneta e dell’economia padana dalle origini ad oggi, Venezia, 1988.
BERNARDELLO A. - BRUNELLO P. - GINSBORG P., Venezia 1848-49 : la rivoluzione e la difesa, Venezia, 1980.
BENEDETTI L., Pietro Fortunato Calvi e il risorgimento italiano, edizione riveduta da Giovanni Fabbiani, Pieve di Cadore, 1998.
DI FIORE G., Controstoria dell’unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Milano, 2008.
EPIPHANIUS, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Roma, 2002.
GALLETTO P., La vita di Daniele Manin e l’epopea veneziana del 1848-49, San Zenone degli Ezzelini, 1999.
MENCACCI P., Storia della Rivoluzione Italiana.
FUMIAN C., Il marchese della dolce vita: radicale e mondano, Gioacchino Pepoli castiga il Bo, "La nostra gente", inserto della "Nuova Venezia".
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:46 pm

???

1848 lotta corale del popolo Veneto

http://www.europaveneta.org/areadialogo ... eneto.html


Edoardo Rubini segnala l'interessante dibattito sul Risorgimento sul sito Effedieffe, animato da Maurizio Blondet, che riprende gli studi di un'ottima storica cattolica, Angela Pelicciari.

Si tratta di un buon lavoro, che nella sostanza condivido.

Contesto, un aspetto, perché non veritiero e frutto più di "una presunzione di colpevolezza", che di una seria e attenta disamina storica: vengono accomunati alle trame sovversive dei Savoiardi (con annessi Garibaldi, Cavour, Mazzini & co.) i nostri Daniele Manin e Niccolò Tommaseo.

Siccome ho studiato a fondo il periodo, devo dire che quest'equiparazione non si può fare.

Il 1848 veneto fu vera lotta di popolo, la sollevazione generale di Veneti e Friulani insieme, che portò alla rinascita della Veneta Repubblica (pur su nuove basi) per un anno e mezzo.

Invece il c.d. risorgimento italiano fu l'annessione dei diversi popoli della penisola pilotata dall'imperialismo britannico. Lo scopo era cancellare tutti gli Stati cristiani rimessi su dalla restaurazione con il congresso di Vienna e creare staterelli fantoccio di marca liberale in mano ai poteri occulti internazionali. Questa situazione permane ancor oggi, anzi si è radicalizzata dopo la II Guerra mondiale. Per questo gli ufficiali borbonici furono corrotti con i soldi prestati dalla finanza inglese (i cordoni della borsa erano in mano all'ebreo Rotschild, finanziatore persino della battaglia di Waterloo), per questo i Savoia ottennero l'appoggio anglo-usa e poi misero in atto una spietata persecuzione anticattolica ed antipopolare, che mirava alla distruzione della Chiesa Cattolica, per questo tutti i tentativi rivoluzionari nella penisola ebbero contrarie le comunità rurali e i ceti popolari, del tutto estranei al movimento di riunificazione, che fu invece attuata con colpi di stato (con sanguinosi attentati, con bombe e pugnalate) e plebisciti truffa. Come mai il 1848 veneto fu una lotta corale del popolo assieme alla sua classe dirigente?

La risposta è semplice, perché fu una lotta veneta e non una lotta italiana.

Tommaseo era un intellettuale cattolico, non di meno (nonostante qualche discussione) era legatissimo a Daniele Manin che era liberale. Manin aveva subito l'influsso illuminista, tanto che all'inizio aveva tirato fuori il tricolore. Ma amava il suo popolo, che il tricolore non lo voleva, così arrivò a sventolare un gonfalone marciano... sormontato da un berretto frigio giacobino! Oggi si fa presto a criticarlo, perchè sappiamo (ma quanti Veneti di oggi poi lo hanno poi capito?) che il liberal-illuminismo è una falsa religione d'ascendenza gnostica, che inclina al male. Ma allora, a metà '800, il liberalismo era la dottrina che furoreggiava, la nuova Bibbia delle classe intellettuali (gli "studiati"), che prometteva di rimediare a secoli di "oscurantismo cattolico".
Tutto ciò, però, non ebbe effetti pratici, perché un anno e mezzo di resistenza veneta si fece in nome di San Marco e della rinata Repubblica Veneta. Non ha senso a parer mio accusare Manin perché era liberale o di discendenza ebraica.
Noi Cristiani dobbiamo guardare alla sostanza e non alle etichette.


Edoardo Rubini
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:47 pm

22 MARZO 1848, RINASCE LA REPUBBLICA VENETA
di ETTORE BEGGIATO

http://www.miglioverde.eu/marzo-repubblica-veneta

“Quali erano i veri obiettivi dell’insurrezione veneziana?”, chiese W. Nassau a Daniele Manin negli anni del suo esilio parigino. “Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri stati italiani” la risposta del protagonista principale di quella straordinaria esperienza chiamata Repubblica Veneta e durata quasi un anno e mezzo, dal 22 marzo 1848 al 24 agosto 1849. E Daniele Manin continua nelle sue riflessioni denunciando: “Se Carlo Alberto si fosse presentato come un uomo disinteressato; se non avesse fatto una guerra egoistica per l’ingrandimento del Piemonte…il Piemonte usava il pretesto di una guerra di liberazione per fare in realtà una guerra di ambizione e di conquista”.

Purtroppo siamo sempre più coinvolti in una bolgia di retorica di chi cerca disperatamente di far passare una guerra di conquista in una guerra di liberazione, e i professionisti della retorica patriottarda sono gli stessi che cercano di annacquare la nobile figura di Daniele Manin nella macedonia del risorgimento tricolore, di quella macedonia che pretende di presentare i moti del 1848 inserendoli nella prima guerra d’indipendenza. Nel Veneto non fu così. Nel Veneto anche nel 1848 si gridava “Viva San Marco!” e “Viva la Repubblica (Veneta, naturalmente)”, nella nostra Terra di parlava di “confederazione”, di rapporto paritario con gli altri popoli, altro che l’annessione espansionistica savoiarda basata sui plebisciti-truffa. Ed è un personaggio che non si può certamente definire “venetista” come Giovanni Spadolini che esalta la dimensione “federalista” del Nostro: “Era piuttosto la Repubblica in lega con gli altri stati d’Italia nella grande federazione allora sognata. Federazione italiana, e poi europea (secondo un’intuizione che in Manin -personaggio sotto ogni profilo europeo- fu più perentoria e lampeggiante che non in molti altri uomini del risorgimento)”.

Daniele Manin nacque a Venezia il 3 giugno 1804 in campo Sant’Agostino da famiglia ebraica convertita al cristianesimo. Gli storici si dividono sul cognome originario: secondo alcuni fu Fonseca, secondo altri Medina. Quando fu battezzato gli fu imposto il cognome del padrino, come si usava all’epoca, fratello dell’ultimo Doge della Serenissima, Ludovico Manin: quasi un presagio. Secondo alcuni autori, la portata storica della rivoluzione veneta del 1848-49 fu sminuita anche per la consistente presenza di ebrei fra i più stretti collaboratori di Daniele Manin; di certo il periodico italiano la “Difesa della Razza” nel 1939 scrive che “i quaranta proscritti dall’Austria dopo la capitolazione di Venezia erano tutti ebrei, più o meno convertiti”. La madre fu Anna Maria Bellotto di Padova dalla quale ereditò una caratteristica profondamente veneta, la semplicità, quel suo modo di porsi che portò lo statista francese Ippolito Carnot a definirlo “eroe di saggezza, di coraggio e di semplicità”.

Laureatosi giovanissimo avvocato, seguendo le orme paterne, apre uno studio legale in Campo San Paternian (oggi Campo Manin). La passione e l’orgoglio per la storia di Venezia lo porta a stampare il volume “Storia della Veneta Legislazione” lucidissima analisi delle leggi Serenissime. Altrettanta passione dimostrava per la lingua veneta che in una lettera chiamerà “la mia bellissima lingua”, da Lui parlata in tutte le situazioni e che anzi contribuì all’efficacia della sua arte oratoria. Collaborò con Giuseppe Boerio nella stampa di quel “Dizionario del dialetto veneziano” che ancor oggi rappresenta una fonte insostituibile nello studio della lingua veneta.

Le sue convinzioni profondamente repubblicane e di riscatto per la Terra di San Marco diventano pubbliche nel 1847 durante il IX congresso dei scienziati italiani; Manin è un sostenitore della “lotta legale” per arrivare all’autonomia e alle riforme. Il 18 gennaio 1848 assieme a Niccolò Tommaseo viene arrestato dalle autorità austriache: il loro arresto diventa la scintilla che fa incendiare Venezia. Diventa il Presidente della Repubblica Veneta, protagonista indiscusso dei diciasette mesi di straordinaria intensità. Il 24 agosto parte con la famiglia per l’esilio di Parigi dove muore il 22 settembre 1857.
Il 22 marzo 1868 le sue spoglie tornarono a Venezia e in piazza San Marco si svolse la cerimonia ufficiale: emblematica la scelta della data, venti anni dopo la rinascita della Repubblica Veneta, l’intera città di Venezia di stringeva commossa attorno al suo condottiero. Ecco alcuni passaggi del saluto dell’avvocato Luigi Priario di Genova: “Un popolo intero che circonda un feretro! Di chi è questo feretro? Quali preziose ceneri sono raccolte in quest’urna? Le ceneri di un imperatore ? No. Così non si piangono e non si onorano gli imperatori da un popolo. No queste ceneri non vengono da Sant’Elena, e non si legge su questa bara il delitto di Campoformido…Queste ceneri non grondano sangue, né lagrime di un popolo. Sono le ceneri di un salvatore di un popolo. Sono le ceneri di un esule, che fu dittatore, e che volle ed ebbe la gloria di morir povero. Sono le ceneri di Daniele Manin! Chi è Manin? Manin è la virtù, Manin è l’onestà, Manin è il martirio…”. La sua tomba fu portata in un primo tempo all’interno della basilica di San Marco e dopo pochi mesi fu trasferita all’esterno nella piazzetta dei Leoncini dove ancor oggi si trova.

Vediamo brevemente le principali tappe di quello che fu (almeno per il momento) l’ultimo periodo di autogoverno, di indipendenza del popolo veneto.
Il 18 gennaio 1848, a Venezia, vengono arrestati dalle autorità austriache Daniele Manin e Niccolò Tommaseo protagonisti di quella che veniva chiamata “lotta legale” o “opposizione legale” al governo di Vienna.
Il 17 marzo arriva a Venezia, tramite il vapore postale giunto da Trieste, la notizia che a Vienna Metternich si è dimesso ed è stata concessa la Costituzione: la manifestazione popolare successiva porta alla liberazione di Manin e Tommaseo.
Il 22 marzo alle ore 16.30 rinasce in Piazza San Marco la Repubblica Veneta. e il Presidente Daniele Manin termina il suo discorso infiammando la folla con un triplice “Viva La Repubblica, viva la libertà, viva San Marco!”. Nel suo diario Teresa Manin scrive: “Era un’ebbrezza, un delirio: i vecchi piangevano, i giovani si abbracciavano. Chi batteva le mani, chi le alzava al cielo in atto di rendere grazie”. Nel nuovo governo un ruolo centrale spetta al dalmata Niccolò Tommaseo ministro del Culto e dell’Istruzione secondo il quale una confederazione repubblicana delle regioni doveva essere permanente e non un graduale passaggio verso la repubblica unitaria, e in questa confederazione doveva esserci lo Stato Pontificio: il 4 aprile un decreto del governo veneto permetterà la libertà di comunicazione per tutti i vescovi del Veneto con il Papa. Un provvedimento rassicurante per tutto il mondo della Chiesa.

Emblematico il primo decreto che appare sulla “Gazzetta di Venezia” del 23 marzo: “Il Governo provvisorio della Repubblica Veneta dichiara agli stranieri dimoranti in questa città, di qualunque nazioni e opinione siano e qualunque siano i loro antecedenti politici, che sarà ad essi usato ogni riguardo qual si conviene tra nazioni civili, e massime a questo paese noto per l’ospitalità sua. Il Presidente Manin”. È importante sottolineare come graficamente nella Gazzetta emergono due concetti: “Viva San Marco” e “Foglio Ufficiale della Repubblica Veneta”, sottolineo “Repubblica Veneta” visto che c’è ancora in giro qualche simpaticone che pontificando da qualche università parla di “Repubblica di Venezia”…

Oltre a Venezia è l’intera terraferma che si solleva contro gli Austriaci nel nome di San Marco: Padova, Vicenza, Belluno, Treviso, la stessa fortezza di Palmanova, Udine. Emergono figure straordinarie come quella di Pietro Fortunato Calvi.

Non sorprende allora che già il 24 marzo, sempre nella Gazzetta, troviamo un decreto che invita ufficialmente le città del Veneto a far parte della Repubblica Veneta in modo paritario: “Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale.Le Provincie, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alle comune dignità; le Provincie, che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, poiché uguali a tutti saranno i doveri: e incominceranno dall’inviare in giusta proporzione i loro Deputati ciascuna a formare il comune Statuto. Aiutarsi fraternamente a vicenda, rispettare i diritti altrui, difendere i nostri, tale è il fermo proponimento di tutti noi”.

Concetti che vengono ribaditi il 29 marzo: “I cittadini delle Provincie Unite della Repubblica, qualunque siano le loro confessioni religiose, nessuna eccettuata, godono di perfetta uguaglianza dei diritti civili e politici. Tutte le differenze nella vigente legislazione, contrarie a questo principio, sono tolte dalla sua applicazione. Le magistrature giudiziarie e amministrative sono incaricate di questa applicazione nei singoli casi ricorrenti. Manin”.
Concetti come federazione o addirittura confederazione in quei giorni epoca erano estremamente attuali. Ecco quanto arriva dal Governo Provvisorio di Vicenza il 27 marzo: “Con tale adesione peraltro non s’intende pregiudicare in guisa alcuna, né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia, né una speciale confederazione di questi due Stati che rimanessero disgiunti,né (e molto meno) la generale confederazione degli Stati Italiani”.

Confederazione appunto, concetto del tutto sconosciuto agli “ultras” del centocinquantenario della cosiddetta “Unità d’Italia” che stanno imperversando in questi mesi… Le città della terraferma, purtroppo, una alla volta capitolarono e a Venezia il Governo provvisorio convoca una “Assemblea di Deputati” (un parlamentino ove ci sia un eletto ogni duemila abitanti) con il compito di verificare le scelte politiche del governo stesso. L’Assemblea si riunisce in Palazzo Ducale la prima volta il 3 luglio; Daniele Manin nel suo intervento si riallaccia alle glorie del passato: “Cittadini deputati, nel 22 marzo, cessata in Venezia l’austriaca dominazione, il popolo proclamò la Repubblica: cinquant’anni di schiavitù non potevano avergli fatto dimenticare 14 secoli d’indipendenza gloriosa” (no 14 secołi ma caxo mai 9/10).

Il giorno dopo si va al voto: la prima votazione, se la condizione politica della Repubblica debba decidersi subito o no, vede 130 si, e solo 3 no; la seconda sull’immediata fusione della Repubblica Veneta negli Stati Sardi colla Lombardia vede 127 si, e 6 no; la terza sulle sostituzioni e forme dei ministeri fu rinviata al giorno successivo. Manin venne eletto membro di nuovo, probabilmente sarebbe stato rieletto a presidente ma egli rispose: “Io ringrazio vivamente l’Assemblea di questo nuovo contrassegni di fiducia e di affetto, ma debbo pregarla di dispensarmi. Io non ho dissimulato che fui, sono e resto repubblicano. In uno stato monarchico io non posso esser niente, posso essere della opposizione ma non posso essere del governo…”. Al suo posto venne eletto l’avv. Jacopo Castelli che resse il governo provvisorio fino al 7 agosto quando il potere venne assunto dal tre commissari in nome del re Carlo Alberto (generale Colli, cav. Cibrario, avv. Castelli): il proclama dei quali termina con l’acclamazione “Viva San Marco, Viva Carlo Alberto, Viva L’Italia”.

La dimensione unionista filosabauda sembra avere la meglio, anche se non mancavano le attestazioni a favor di Manin e la contrarietà alla fusione. Ecco una simpatica filastrocca: “No intendo ben sto termine/ che sento dir fusion/ me par che i se desmentega/ de metter prima un con/…Ma basta po per altro/ che i lassa star Manin/ lo zuro, no voi altro/ da vero citadin”. La simpatia per i Savoja durò pochi giorni, comunque. Il 23 marzo Carlo Alberto di Savoja aveva dichiarato guerra all’Austria, la cosiddetta “Prima guerra d’indipendenza”, lanciando il proclama “Ai popoli della Lombardia e del Veneto”. In un primo tempo le sorti della guerra sembrano essere favorevoli al Regno di Sardegna con la vittoria di Goito e la resa della fortezza di Peschiera. L’incertezza e l’ambiguità di Carlo Alberto fanno in questa fase il gioco degli Austriaci guidati dal feldmaresciallo Radetzky che il 25 luglio sconfiggono a Custoza i piemontesi. Le truppe sabaude iniziano la ritirata verso Milano che viene poi abbandonata praticamente senza combattere. Da qui le violente polemiche nei confronti di Carlo Alberto.

Il 6 agosto gli austriaci rientrano a Milano e il 9 viene firmato a Vigevano l’armistizio cosiddetto di Salasco (dal nome del generale Carlo Canero di Salasco). L’armistizio, prevede, tra l’altro, il ritiro delle truppe sabaude da Venezia; quando la cosa fu pubblica, i veneziani insorsero gridando “Abbasso il governo regio! Abbasso i commissari! Viva Manin! Viva San Marco!”. Daniele Manin rendendosi conto della drammaticità della situazione assume per 48 ore il potere, i commissari regi vengono rimossi, per il 13 agosto viene convocata l’ “Assemblea dei Deputati” e in questo modo i tumulti cittadini vengono placati. Nelle stesse ore Nicolò Tommaseo parte per Parigi per cercare aiuti.
L’Assemblea del 13 agosto elegge un Triumvirato con Manin, Cavedalis e Graziani che resterà in carica fino al termine della guerra. Pochi giorni dopo viene lanciato un prestito di 10 milioni di lire garantito da ipoteche sul Palazzo Ducale e sulle Procuratie Nuove.
Il 6 ottobre scoppiano tumulti a Vienna e l’imperatore è costretto a fuggire a Linz; la rivoluzione viennese sarà domata l’otto novembre. Il 2 dicembre l’imperatore asburgico Ferdinando I° abdica e subentra il nipote Francesco Giuseppe: regnerà fino al 1916 e il suo regno sarà uno dei più lunghi della storia. Nel frattempo vanno segnalate le sortite del Cavallino e di Mestre costellate da dolorose perdite.
Il 24 dicembre viene istituita una Assemblea permanente dei rappresentanti dello stato di Venezia. L’anno si chiude con la bandiera di San Marco che sventola nella città. Il 1849 si apre con un decreto che vieta l’uso delle maschere, viste le condizioni eccezzionali nelle quali si trova la città. Il 30 si chiudono le elezioni per l’Assemblea dei Rappresentanti: hanno votato ben 32.255 elettori. Il primo febbraio torna in Patria Nicolò Tommaseo. Viene sostituito come Ambasciatore a Parigi dallo scledense Valentino Pasini. Il nove febbraio si riunisce per l’ultima volta l’Assemblea dei deputati, mentre il 15 viene convocata per la prima volta a Palazzo ducale, l’Assemblea dei Rappresentanti del popolo di Venezia. Due giorni più tardi la stessa assise riconferma i poteri straordinari a Manin, Graziani e Cavedalis. Il 7 marzo l’Assemblea nomina Presidente Daniele Manin con 108 voti favorevoli su 110 votanti. Arriva intanto la notizia della ripresa delle ostilità da parte di Carlo Alberto di Savoja.

22 marzo, celebrazione del primo anniversario della Repubblica; Messa e Te Deum nella Basilica di San Marco. Qualche giorno dopo arrivano le notizie della sconfitta dei Savoja a Novara e dell’abdicazione di Carlo Alberto: subentra Vittorio Emanuele II. Il 2 Aprile l’Assemblea dei Rappresentanti dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo unanimemente decreta: “Venezia resisterà all’austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati.”.
Un voto unanime che esalta la dimensione più autentica della Repubblica: in questi mesi così esaltanti, è l’intero popolo veneziano che si mobilita per difendere la libertà della città, è una rivoluzione, una Repubblica interclassista (per usare un’espressione relativamente moderna) che lotta strenuamente e che dice con un’unica voce: resisteremo ad ogni costo. E qui emerge la profonda differenza rispetto all’elites che diverranno protagoniste fra qualche anno del Risorgimento che nel Veneto, rispetto al 1848-49, è stata veramente ben poca cosa. Il 25 aprile, giorno di San Marco, giorno di festa, Manin arringa il popolo cominciando il suo intervento con queste parole: “Cittadini! Chi dura vince, e noi dureremo e vinceremo. Viva San Marco!”.
Pochi giorni dopo, il 4 maggio, incomincia il bombardamento del forte Marghera; Radetzky intima la resa di Venezia, promettendo a Daniele Manin il perdono. Manin risponde inviando il decreto del 2 aprile, resisteremo a ogni costo. Il 14 maggio la comunità ebraica si raccoglie nella sinagoga prepongo per le sorti della città; il 19 i consoli stranieri invitano i loro connazionali a lasciare la città in vista dell’inasprimento dell’assedio. Nel frattempo va ricordato come l’iniziativa diplomatica della Repubblica portasse, in questi giorni, a un risultato concreto. Proprio come nel Veneto, nell’Ungheria nel marzo del 1848 era scoppiata una rivoluzione anti asburgica con alla guida un capo carismatico come Lajos Kossuth; Nicolò Tommaseo durante il suo soggiorno a Parigi era riuscito a creare un notevole rapporto con i rappresentanti del popolo magiaro che si concretizzò nella convenzione di alleanza fra l’Ungheria e Venezia.
A Duino il 20 maggio 1849 fu firmata la convenzione di otto articoli che iniziava con “Nessuno dei due Stati potrà stipulare un patto o un trattato di pace qualsiasi col nemico comune senza il concorso o l’approvazione dell’altro”. Il documento ebbe una grandissima eco in città e provocò un’ondata di ottimismo e di entusiasmo: si favoleggiava di un contributo di mezzo milione di lire per la Repubblica, di un esercito di cinquantamila soldati ungheresi in marcia su Trieste. Non fu così anche se va ricordato come la nazione ungherese fu l’unica a dare un sostegno concreto a Venezia. Il sogno ungherese si spense il 13 agosto con la battaglia di Vilagos dove l’intervento dell’armata russa fu determinante per sconfiggere l’eroismo degli ungheresi.
Torniamo a Venezia: il 26 maggio viene abbandonato il forte di Marghera; il 31 l’Assemblea risponde al messaggio del ministro austriaco De Bruck che la base per ogni trattativa rimane l’indipendenza assoluta del Lombardo-Veneto; al diniego da parte austriaca, la trattativa si sposta sull’indipendenza della città, con un raggio di territorio che rendesse economicamente possibile tale realtà. Il ministro rispose che l’Austria aveva deciso di riconquistare Venezia e solo dopo si poteva discutere.
Il 13 giugno gli austriaci riprendono il bombardamento della città e alcune famiglie vengono evacuate da Cannaregio, la zona più esposta della città. Il 29 il bombardamento divenne più massiccio e diverse famiglie furono costrette a rifugiarsi in piazza San Marco, a Castello e sulla riva degli Schiavoni. Fu aperto il Palazzo Ducale e perfino le scale divennero asilo di sfollati. Nonostante questo nessuno parlava di capitolazione, di arrendersi. Con l’inizio di luglio si manifestano i primi casi di colera.
Il 12 luglio gli Austriaci sperimentano sulla città dei palloni aerostatici incendiari che non provocano fortunatamente danni. Il 3 agosto l’esasperazione degli animi provoca un increscioso assalto alla residenza del Patriarca, accusato da un gruppo di cittadini di aver sottoscritto una petizione con la quale si chiedeva al governo di far conoscere i motivi che potevano indurlo alla resistenza ad ogni costo, anche nella contingenza drammatica che si stava vivendo. Il 6 agosto l’Assemblea concentrò su Manin ogni potere per l’onore e la salvezza di Venezia. Il 15 agosto l’epidemia di colera tocca l’apice: 402 casi con 270 morti. Il 18 Manin parla per l’ultima volta al popolo in piazza San Marco; le condizioni sono gravi, disse, ma non disperate. Per negoziare occorre calma e dignità; l’unica cosa che non si può chiedergli è la viltà: nemmeno per Venezia può arrivare a tanto. Il 21 in città arriva la notizia che anche gli ungheresi di Kossuth hanno capitolato: Venezia è l’ultima città d’Europa a resistere agli Asburgo. Il 22 una delegazione si reca nella terraferma mestrina, a Marocco, per trattare la resa di Venezia. Il 24 agosto il Governo provvisorio, con la dichiarazione di Manin, chiude la propria esperienza; il governo della città viene assunto dal podestà Correr e da 14 membri. Daniele Manin guida la lista dei 40 esiliati.
E la poesia di Arnaldo Fusinato descrive in maniera straordinariamente commovente e incisiva le giornate conclusive di quello che è, almeno per il momento, l’ultimo periodo di indipendenza del nostro popolo.


ODE A VENEZIA
È fosco l’aere, il cielo e’ muto,
ed io sul tacito veron seduto,
in solitaria malinconia
ti guardo e lagrimo,

Venezia mia!
Fra i rotti nugoli dell’occidente
il raggio perdesi del sol morente,
e mesto sibila per l’aria bruna
l’ultimo gemito della laguna.

Passa una gondola della città.
“Ehi, dalla gondola, qual novità ?”
“Il morbo infuria, il pan ci manca,
sul ponte sventola bandiera bianca!”

No, no, non splendere su tanti guai,
sole d’Italia, non splender mai;
e sulla veneta spenta fortuna
si eterni il gemito della laguna.

Venezia! l’ultima ora e’ venuta;
illustre martire, tu sei perduta…
Il morbo infuria, il pan ti manca,
sul ponte sventola bandiera bianca!

Ma non le ignivome palle roventi,
ne’ i mille fulmini su te stridenti,
troncan ai liberi tuoi di’ lo stame…
Viva Venezia!
Muore di fame!

Sulle tue pagine scolpisci, o Storia,
l’altrui nequizie e la sua gloria,
e grida ai posteri tre volte infame
chi vuol Venezia morta di fame!

Viva Venezia!
L’ira nemica la sua risuscita
virtude antica;
ma il morbo infuria, ma il pan le manca…
Sul ponte sventola bandiera bianca!

Ed ora infrangasi qui sulla pietra,
finché e’ ancor libera,
questa mia cetra.
A te, Venezia,
l’ultimo canto,
l’ultimo bacio,
l’ultimo pianto!

Ramingo ed esule in suol straniero,
vivrai, Venezia, nel mio pensiero;
vivrai nel tempio qui del mio core,
come l’imagine del primo amore.

Ma il vento sibila,
ma l’onda e’ scura,
ma tutta in tenebre
e’ la natura:
le corde stridono,
la voce manca…

Sul ponte sventola
bandiera bianca!
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:50 pm

???

I moti del 1848, detti anche rivoluzione del '48 o Primavera dei popoli furono un'ondata di moti rivoluzionari borghesi che sconvolsero l'Europa nel 1848 e nel 1849.
https://it.wikipedia.org/wiki/1848
Scopo dei moti fu abbattere i governi della Restaurazione per sostituirli con governi liberali. Il loro impatto storico fu così profondo e violento che nel linguaggio corrente è entrata in uso l'espressione «fare un quarantotto» per sottintendere una improvvisa confusione e scompiglio.

https://it.wikipedia.org/wiki/Primavera_dei_popoli
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 9:58 pm

???

Milano austriaca, la lunga stagione felice. Fateci ancora sognare!
15 Jun 2016

http://www.lindipendenzanuova.com/milan ... ra-sognare

ROMANO BRACALINI – Il regno di Maria Teresa d’Austria è ricordato in Lombardia come un esempio di rigore amministrativo e un’epoca di grandi riforme..Dopo il degrado spagnolo,lo Stato prende forma politica moderna. Con la guerra di successione e la pace di Utrecht, l’Austria subentra alla Spagna nei domini italiani. Siamo nella prima metà del Settecento. Una donna piccola e grassottella, che non ha nulla del sovrano raffigurato dall’oleografia, è destinata più d’ogni altro a cambiare il volto della città e a interpretarne le ansie di rinnovamento; è anche la prima donna sul trono degli Asburgo.

Maria Teresa d’Austria risiede a Vienna ma considera Milano la perla dei nuovi territori aggregati all’Impero. Concepisce per la Lombardia un vasto piano riformatore. Libertà di commercio, sviluppo dell’industria e dell’agricoltura, ma il suo capolavoro è il catasto, l’ordinamento e la compilazione dei beni prodotti. Rinnova il costume degradato e corrotto dal formalismo spagnolo, sopprime i privilegi feudali e il diritto di asilo, che concedeva il ricovero degli assassini nelle chiese; ripulisce le strade dando dignità al lavoro e riducendo gli eccessi della pubblica carità; abolisce l’inquisizione e la censura ecclesiastica, riduce il latifondo e favorisce la piccola proprietà.

In quarant’anni di regno Maria Teresa impresse il segno nelle opere che rappresentano il suo monumento più duraturo.

Allo Studio di Pavia, rinnovato, chiamò i più gradi talenti dell’epoca: Alessandro Volta, Lorenzo Mascheroni, Lazzaro Spallanzani. Incrementò l’istruzione pubblica con la scuola elementare obbligatoria e gratuita: caso unico nella penisola. Vennero poi le grandi istituzioni vanto della città: il Teatro alla Scala, inaugurato nel 1778; il palazzo Ducale, poi Reale, anch’esso, come la Scala, opera del Piermarini; la Biblioteca Braidense, con 24 mila volumi; ed ecco alla Villa Reale la prima forma di giardino pubblico.

Nulla doveva risultare inutile e tutto di pubblica utilità. Al governo di Milano Maria Teresa aveva voluto l’uomo giusto, il conte Firmian, protettore della musica e delle arti. Milano divenne un crocevia: venne il giovane Mozart ricevuto con gli onori dal governatore. Milano era una città ricca e felice. Più che la parsimonia asburgica ricordava il lusso francese. Alla morte di Maria Teresa, avvenuta nel 1780, salì al trono il figlio Giuseppe II che continuò l’opera riformatrice della madre.
Poi la bufera rivoluzionaria che portò Napoleone a Milano. Alla sua definitiva caduta, nel 1815, tornò l’Austria e la Lombardia fu unita agli antichi territori veneziani nel nuovo Regno Lombardo-Veneto con Milano capitale.

Al nuovo territorio venne concessa una larga autonomia secondo la tradizione Teresiana. Vigeva la doppia monetazione, la lira milanese d’argento e il fiorino austriaco, il golden di carta. E l’arguzia milanese aveva trovato il modo di ridere della lira austriaca, la svanzica, da venti in tedesco, che avendo l’impronta dell’aquila bicipite era chiamata Checc, gallina. Per ammissione dei vecchi milanesi il sistema delle monete e delle misure era complicatissimo. Si cominciava col quattrin o ghell: c’era il trii quattrin, il bòr era una soldo, al ses e on quattrin corrispondeva il quattrin di svanzica. Nomi che servivano all’umore popolare per dare i sopranomi più divertenti. Un abatino si chiamava on ghicc, quasi valesse due centesimi. La lira da venti soldi, ricordo dell’Ambrogino, col sant’Ambrogio dallo staffile, non esisteva più soppiantata dalla lira austriaca, ma il popolo continuava a contare e contrattare nel suo nome.

Quanto alle misure, c’era la pertica, la brenta e la trentina, non c’erano più le moggie e i quartaj, sparite la vecchia pinta, il boccale e la zaina. Col carnevale ambrosiano si esercitava la satira del potere con le maschere allegoriche che sfilavano in Contrada Orientale, l’attuale corso Venezia, e l’Austria lasciava correre. In ottobre arrivavano in piazza Castello i carri con le botti di vino nuovo. Si toglieva la spina e si lasciava bere a on sold al fiaa. Di trippe incoronate e cervellate si trova menzione anche nell’Aretino. La cervellata era così squisita che i magistrati del comune, temendo ne venisse guastata la ricetta, ordinavano che fossero adoperati solo gli ingredienti prescritti e si poteva vendere solo in presenza dall’autorità comunale.

I milanesi avevano sempre avuto fama di ghiottoni. E a proposito delle differenze Dossi diceva: lombardi lupi e fiorentini mangia fagioli, lecca piatti e tovaglioli. Il popolo andava a comprare cinq ghei di basletta, gli scarti di salumeria o delle mense dei ricchi detti repubblica, cinq ghei di repubblica. Repubblica era sinonimo di confusione. Dopo il ’61, arrivata l’Italia, gli operai cominciarono a scendere il sciopero stanchi del pane di mistura e una canzone popolare diceva.

Canta,lavora e mucchela

Coi to do checc al dì.

Quaranta centesimi al giorno. Era tutto ciò che passava l’arcigna monarchia di Savoia. Sotto l’Italia Milano verrà presa a cannonate. Il ricordo dell’Austria non passava.
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 10:01 pm

La Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia a seguito dell'insurrezione della città contro il governo austriaco il 17 marzo 1848, e che continuò ad esistere fino al 22 agosto 1849, quando il Veneto, insieme alla Lombardia, ritornò sotto il controllo asburgico.

https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_di_San_Marco
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Re: 1848

Messaggioda Berto » mer giu 15, 2016 10:03 pm

Rivołuzion del 1848
http://www.treccani.it/enciclopedia/riv ... -di-Storia)/

Insieme di moti rivoluzionari scoppiati in Europa tra il gennaio del 1848 e la primavera del 1849.
Dopo i moti del 1830-31, si trattò della seconda grande risposta delle forze democratiche, liberali e rivoluzionarie alla politica della Restaurazione; in tale ondata, peraltro, alle istanze politiche, di liberazione e indipendenza nazionale e di conquista di regimi democratici, si affiancarono istanze di tipo sociale, ben visibili nel protagonismo operaio e popolare nei moti parigini.
I primi moti si verificarono nel regno delle Due Sicilie, e a seguito di essi il 29 gennaio Ferdinando II di Borbone dovette concedere una Costituzione.
Seguirono quindi episodi simili in Toscana e nel regno di Savoia; qui, l’8 febbraio, Carlo Alberto concesse uno statuto di stampo liberale.

Il 22-23 febbraio, intanto, a seguito del divieto della «campagna dei banchetti», volta ad ampliare il diritto al voto, insorgevano a Parigi operai, artigiani e studenti. Alle dimissioni di Guizot e all’abdicazione di Luigi Filippo d’Orléans seguivano la costituzione di un governo provvisorio (retto dal liberale Lamartine ma comprendente radicali e socialisti), il varo del suffragio universale, l’abolizione della schiavitù nelle colonie e, il 4 maggio, la nascita della Seconda repubblica.

Intanto a marzo i moti si erano propagati nell’impero tedesco e in quello asburgico.
Il 13 marzo Vienna era insorta, provocando la caduta di Metternich; l’imperatore Ferdinando I concedeva quindi una Costituzione, riconoscendo l’autonomia a ungheresi (insorti il 15 sotto la guida di L. Kossuth), cechi e croati. La crisi dell’impero asburgico innescava quindi moti antiaustriaci in Italia: alla rivolta di Venezia (guidata da D. Manin e N. Tommaseo) e alle Cinque giornate di Milano (18-22 marzo), terminate con la cacciata del maresciallo Radetzky, seguì la dichiarazione di guerra all’Austria da parte di Carlo Alberto.

Il 15 marzo, intanto, era insorta Berlino; Federico Guglielmo IV dovette quindi anch’egli concedere una Costituzione e la formazione di un Parlamento, eletto a suffragio universale, il quale tuttavia si divise tra i sostenitori dell’ipotesi piccolo-tedesca e di quella grande-tedesca.
Il 15 maggio una nuova rivolta a Vienna costringeva l’imperatore alla fuga, aprendo le porte a un’Assemblea costituente pure eletta a suffragio universale. Nelle stesse settimane, iniziava però la fase di riflusso: in Francia il peso dei ceti rurali portava all’elezione di un’Assemblea costituente moderata; a questo seguirono l’insurrezione operaia di Parigi (giugno), repressa nel sangue dal generale Cavaignac, e l’ascesa alla presidenza della Repubblica di Luigi Bonaparte, il quale ne avviò il ripiegamento reazionario.

In Italia la prima guerra d’Indipendenza vedeva prevalere gli austriaci, mentre l’autorità degli Asburgo era restaurata anche in Boemia e Ungheria, e una nuova insurrezione di Vienna (ottobre) veniva anch’essa stroncata.
A dicembre Federico Guglielmo di Prussia scioglieva la Costituente, quindi (apr. 1849) rifiutava la corona offertagli dal Parlamento di Francoforte e reprimeva i moti successivi.
In Italia alla fuga di Pio IX e alla proclamazione della Repubblica romana (genn. 1849), guidata da Mazzini, Saffi e Armellini, seguivano una nuova sconfitta dell’esercito sabaudo a opera degli austriaci (luglio), la caduta della Repubblica romana e poi di quella di San Marco (agosto).

L’ondata rivoluzionaria si concludeva quindi con la sconfitta delle forze progressive, al cui interno le posizioni democratiche e socialiste erano destinate a scalzare l’impostazione liberale fino ad allora egemone.
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Re: 1848

Messaggioda Berto » gio giu 16, 2016 5:52 am

???

Bataja de Lisa

Se łe xenti venete łi ła gheva cusita tanto co l'Aostria parké łi ga conbateso co pasion soto ła so bandera contro ła marina tałiana, vinçendo?

https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Lissa
La battaglia di Lissa fu uno scontro navale nell'ambito della terza guerra d'indipendenza italiana e si svolse il 20 luglio 1866 sul mar Adriatico nelle vicinanze dell'isola omonima (in croato: Vis), tra la K.u.K Kriegsmarine, la Marina da Guerra dell'Impero austriaco e la Regia Marina del Regno d'Italia. Fu la prima grande battaglia navale in cui vennero impiegate navi a vapore corazzate e l'ultima nella quale vennero eseguite deliberate manovre di speronamento.
La battaglia rientrò nella guerra austro-prussiana, in quanto l'Italia all'epoca era alleata della Prussia a sua volta in guerra contro l'Impero austriaco. L'obiettivo principale italiano era quello di conquistare il Veneto sottraendolo all'Austria e scalzare l'egemonia navale austriaca nell'Adriatico.
Le flotte erano composte da un insieme di navi di legno a vela e vapore e di navi corazzate che combinavano anch'esse vele e motori a vapore. La flotta italiana, costituita da 12 corazzate e 17 vascelli lignei, superava nel numero la flotta austriaca, composta da 7 navi corazzate e 11 in legno. Una sola nave, l'italiana Affondatore, aveva i cannoni montati in torri corazzate invece che lungo le fiancate (in bordata). Entrambe le marine mostravano un'impreparazione più o meno marcata sul piano tecnico, ma in quella italiana, oltre alle deficienze tecniche, vi erano gravissimi problemi di coesione tra i comandanti ed uno scarso addestramento degli equipaggi.


Uomini di ferro su navi di legno, hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro
http://venicewiki.org/wiki/Battaglia_di_Lissa
dal rapporto dell'ammiraglio Willelm von Tegetthoff, "Brogliaccio" di bordo della "Ferdinand Maximilian"

La battaglia di Lissa fu teatro dell'ultima vittoria navale degli equipaggi della Serenissima.
Il 20 luglio 1866 a Lissa, un'isola dalmata nell'Adriatico, si affrontarono la flotta italiana e la flotta Austriaca.
In realtà la flotta Austriaca era composta quasi completamente da equipaggi provenienti dalle terre una volta soggette alla Repubblica di Venezia: dal Veneto, dal Friuli, dall'Istria, dalla Dalmazia, oltre che da Trieste e da Oltremare, e TUTTI gli ufficiali avevano studiato presso la I.R. Scuola del Collegio Navale di Venezia.
Prima del 1797 non esisteva nemmeno una marina Austriaca ed è dopo quella data che nasce col nome di "OSTERREICH – VENEZIANISCHE MARINE" (Marina Austro-Veneta), composta da ufficiali e marinai provenienti dalle terre della ex Repubblica di Venezia, i quali avevano ben recepite le sue millenarie tradizioni marinare, militari, culturali e storiche. Nel 1849, dopo la rivoluzione Veneta capitanata da Daniele Manin, vi era stata una "austriacizzazione" nella denominazione ufficiale e l'espressione "Veneta" venne tolta; inoltre fra gli ufficiali vi era stato un certo ricambio ed il tedesco era sì diventato la lingua primaria, ma non fra gli equipaggi. Infatti questo cambiamento non poteva essere fatto in così breve tempo. I nuovi marinai continuavano ad essere reclutati nelle terre Venete dell'impero asburgico, e non certamente nelle regioni Alpine o Austriache. NOTA In realtà potevano anche essere arruolati nell'I.R. Marina coloro che abitavano in località situate sui fiumi che sfociano in mare; così potevano essere arruolati giovani di Trento e Merano, bagnate dall'Adige, ma non di Bolzano.
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Re: 1848 en Ouropa, ara tałega, ara veneta

Messaggioda Berto » gio giu 16, 2016 9:39 am

Manin entel 1848 l'envitava i veneti de tera a ensorxar co Venesia ma ...

Oltre a Venezia è l’intera terraferma che si solleva contro gli Austriaci nel nome di San Marco (???): Padova, Vicenza, Belluno, Treviso, la stessa fortezza di Palmanova, Udine. Emergono figure straordinarie come quella di Pietro Fortunato Calvi.

Non sorprende allora che già il 24 marzo, sempre nella Gazzetta, troviamo un decreto che invita ufficialmente le città del Veneto a far parte della Repubblica Veneta in modo paritario:

Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale.Le Provincie, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alle comune dignità; le Provincie, che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, poiché uguali a tutti saranno i doveri: e incominceranno dall’inviare in giusta proporzione i loro Deputati ciascuna a formare il comune Statuto. Aiutarsi fraternamente a vicenda, rispettare i diritti altrui, difendere i nostri, tale è il fermo proponimento di tutti noi”.

Concetti che vengono ribaditi il 29 marzo:
I cittadini delle Provincie Unite della Repubblica, qualunque siano le loro confessioni religiose, nessuna eccettuata, godono di perfetta uguaglianza dei diritti civili e politici. Tutte le differenze nella vigente legislazione, contrarie a questo principio, sono tolte dalla sua applicazione. Le magistrature giudiziarie e amministrative sono incaricate di questa applicazione nei singoli casi ricorrenti. Manin”.
Concetti come federazione o addirittura confederazione in quei giorni epoca erano estremamente attuali. Ecco quanto arriva dal Governo Provvisorio di Vicenza il 27 marzo: “Con tale adesione peraltro non s’intende pregiudicare in guisa alcuna, né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia, né una speciale confederazione di questi due Stati che rimanessero disgiunti,né (e molto meno) la generale confederazione degli Stati Italiani
”.


Venesia ła dovea envitar i veneti a far parte del stado veneto da sorani, çento ani prima e no çento ani dopo co ła storia ła gheva xa fato n'altro corso.

Sipion Mafei (Scipione Maffei) e ła fine de ła Repiovega Venesiana
viewtopic.php?f=160&t=2279
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