Briganti italiani del primo Ottocento visti da Stendhal(a cura di Davide Monda)
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Si offre la traduzione italiana di un breve ma denso saggio di Stendhal, I briganti in Italia, che apparve peraltro anonimo, col consenso dell’autore, in un’opera del cugino Romain Colomb, ossia nel Giornale di un viaggio in Italia e in Svizzera dell’anno 1828 (1833); Colomb vi dichiarava, alludendo a Stendhal e a queste sue pagine: «L’un de mes nouveaux amis, qui paraît fort instruit de tout ce qui se rapporte au brigandage en Italie, nous a lu une notice qu’il a fait sur ce sujet intéressant; il m’a permis d’en prendre copie, et la voici». In questo, come del resto in molti altri casi, l’autore de Il rosso e il nero rappresenta l’Italia come un paese fatto di luci e d’ombre, che non manca tuttavia mai d’incuriosirlo ed ammaliarlo... Quanto poi alle fonti del presente studio, l’homme de lettres francese, oltre che sulla documentazione diretta, si è basato su taluni ricordi di Sismondi, su numerosi particolari forniti dalle Tablettes romaines di Santo Domingo, ed anche su diversi aneddoti di varia provenienza. Il vivo interesse che Stendhal manifesta per il fenomeno del brigantaggio – e specie per le sue implicazioni sociali e psicologiche – è altresì confermato dalle vicende raccontate in uno dei suoi testi narrativi più celebri, La Badessa di Castro.
In Francia e nella maggior parte degli Stati europei facilmente si concorda sulla qualifica da dare agli uomini la cui professione è quella di derubare i viandanti lungo le strade maestre: sono briganti. In Italia, sono chiamati pure assassini, ladroni, banditi, fuorusciti [1], ma sarebbe un grave errore credere che questo tipo di attività sia lì colpito da una riprovazione così viva e universale come lo è dappertutto altrove.
Tutti hanno paura dei briganti: ma, cosa strana!, ciascuno per parte sua li compiange quando essi ricevono la punizione per i loro crimini. Insomma, si ha per loro una sorta di rispetto anche di fronte all’esercizio di quel terribile diritto che essi si sono arrogati.
Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono ricordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi è in quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina al sentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.
Nel 1580, nel cuore della Lombardia si era formata una corporazione di assassini molto temuta: era quella dei bravi[2]. Molti grandi signori ne avevano al proprio servizio e ne disponevano a piacimento per soddisfare ogni loro capriccio, sia di odio, sia di vendetta, sia perfino d’amore. I bravi eseguivano con un’abilità e un’audacia senza pari le missioni più difficili: facevano tremare finanche le autorità. Sin dal 1583, il governatore spagnolo di Milano compì inutili sforzi per distruggere una corporazione tanto pericolosa: emanò editti su editti, che peraltro non impedirono ai bravi di continuare ad essere reclutati. Nel 1628, tale categoria era particolarmente fiorente e aveva la più spaventosa reputazione in fatto di omicidi e rapimenti.
I bravi fungevano da secondi nei duelli che i signori di cui erano al servizio potevano fare tra loro. Obbedienza cieca, discrezione e prudenza erano le qualità principali della professione di bravo.
Il brigantaggio esiste in Italia da tempo immemorabile, ma incominciò ad aver grande diffusione verso la metà del Cinquecento.
Questa professione fu inizialmente esercitata da uomini che consideravano più onorevole conservare in tal modo la propria indipendenza che non piegarsi dinanzi all’autorità pontificia. Il ricordo delle repubbliche medioevali agiva ancora potentemente sugli animi, turbava ogni mente: in poche parole, il fine sembrava giustificare i mezzi. Uomini dotati di così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di opposizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare alla vita e alle sostanze di privati cittadini. Alfonso Piccolomini, duca di Montemariano, e Marco Sciarra guidarono con successo l’azione di bande contro gli eserciti del papa.
Nel 1582 il Piccolomini si trasferì in Francia, trovò da prestarvi servizio militare e vi rimase otto anni. Il 16 marzo 1591, Ferdinando, granduca di Toscana, lo fece impiccare, nonostante le proteste di Filippo II e di Gregorio XIV, nei cui Stati egli aveva sparso la desolazione. Il piccolo esercito del Piccolomini era composto da tutti i malfattori della Toscana, della Romagna, delle Marche e del Patrimonio di San Pietro.
Sciarra fu a capo di una banda numerosa e temibile che, sotto Gregorio XIII e verso la fine del Cinquecento, devastò gli Stati romani e le zone di frontiera della Toscana e del Regno di Napoli. La sua armata giunse talvolta a contare parecchie migliaia di uomini. Sisto V riuscì ad allontanarla da Roma, ma non a domarla. Clemente VIII, nel 1592, attaccò Sciarra con tanta energia che quell’illustre brigante si vide costretto a rinunciare al suo pericoloso mestiere e passò al servizio della repubblica di Venezia con cinquecento dei suoi uomini migliori. Lo mandarono in Dalmazia a combattere gli Uscocchi; ma papa Clemente si lamentò vivamente del fatto che banditi da lui ricercati si fossero in tal modo sottratti alla sua giustizia; chiese che gli fossero consegnati; il senato di Venezia si spaventò, fece assassinare Sciarra e mandò i suoi compagni a morire di peste nell’isola di Candia.
Costretti a guerreggiare di continuo con le truppe pontificie, i briganti si rifugiarono nei boschi: privi di ogni risorsa, rubarono e uccisero per vivere. Il teatro delle loro operazioni comprendeva le montagne che si estendono da Ancona a Terracina, da Ravenna a Napoli. Ma allorché l’impunità, per mancanza di strumenti di repressione o per difetto di buona volontà da parte dei governi, divenne una sorta di tacita promessa, il brigantaggio si diffuse in tutta l’Italia. Quella vita libera e avventurosa sedusse spiriti che, se ben guidati, sarebbero stati capaci di cose grandi. Darsi alla macchia era sovente, per un oppresso, il solo modo di vendicarsi della tirannia di un gran signore o di un abate importante.
I Colonna e gli Orsini possedevano la quasi totalità delle terre nei dintorni di Roma. Queste due potenti famiglie erano nemiche l’una dell’altra da circa due secoli. Facendosi una guerra accanita, cercando di distruggersi a vicenda, completavano la devastazione della campagna romana così bene avviata dai barbari, riducendola in quello stato di insalubrità e di spopolamento in cui la vediamo attualmente. Tutta la nobiltà, al seguito di temibili condottieri[3], prendeva le parti o dei Colonna o degli Orsini. Sisto V riuscì a riconciliarli legandoli a sé, il che equivaleva ad affermare sempre di più la sua autorità. Questo papa, uomo abile e intelligente, aveva due nipotine: fece sposare una di esse al primogenito di casa Colonna, e l’altra al primogenito di casa Orsini. La rivalità fra gli Orsini e i Colonna datava dal pontificato di Bonifacio VIII (1294), a cui gli Orsini avevano procurato la tiara.
Tutta l’Italia è stata, contemporaneamente o di volta in volta, infestata dai briganti: ma è soprattutto negli Stati del papa e nel regno di Napoli che essi hanno regnato più a lungo e hanno proceduto in maniera più metodica e costante insieme. Là essi hanno un’organizzazione, dei privilegi e la certezza dell’impunità e, se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo, la loro fortuna è fatta. E’ dunque a questo fine che tendono costantemente per tutto il tempo in cui esercitano il loro infame mestiere. Sembra di essere ancora ai tempi della barbarie, quando la forza era il solo arbitro, il solo potere riconosciuto. Che governo è mai quello che è costretto a tremare dinanzi a un pugno di malfattori! Venti o trenta uomini bastano a spargere il terrore nell’intero paese e a mettere sul piede di guerra tutti i carabinieri del papa!
La città e il territorio di Brescia un tempo erano famosi per il grandissimo numero di omicidi che vi si commettevano: di solito, se ne verificavano duecento all’anno. Ai giorni nostri, la polizia militare francese, e poi le baionette austriache, hanno fatto cessare questo stato di cose.
Sarà ricordata a lungo, in Calabria, la lotta che vi sostennero i Francesi per una dozzina di anni circa (1797-1808). I briganti, sobillati dagli Inglesi, costituirono il nocciolo dell’insurrezione realista. In seguito, altri scontenti spinti dal fanatismo religioso o da quello che trae origine nell’amor di patria, si unirono a loro. Mai forse la resistenza all’oppressione straniera fu accompagnata da un furore altrettanto sanguinario. Da entrambe le parti ci si combatté fino all’ultimo sangue: tutti gli orrori e le crudeltà di una guerra civile insanguinarono quell’infelice paese. La banda di assassini comandata da Francatrippa era rinforzata dai banditi siciliani, spesso fatti sbarcare sulle coste dagli Inglesi (1807).
In Calabria, è usanza abbastanza diffusa che la famiglia di chi ha commesso un omicidio si offra di trattare con quella della vittima. Se il prezzo richiesto è troppo alto, se non si possa o non si voglia pagarlo e venga sporta denuncia, allora fra le due famiglie s’instaura un odio inestinguibile e c’è da aspettarsi una lunga serie di vendette. I contadini calabresi parlano ancora con orgoglio dei loro antenati e di Skanderberg, che, nel 1443, agitò la bandiera dell’indipendenza contro l’usurpatore del suo patrimonio e l’assassino della sua famiglia, il sultano Amurath.
Spogliati di ogni diritto civile e politico, abbandonati all’arbitrio di un potere che si pretende di origine divina, i sudditi del Santo Padre devono per di più essere rapinati e sgozzati dai briganti che infestano i domini della Chiesa.
Bisogna ammettere che il governo, con la sua condotta pusillanime e la sua vile condiscendenza verso gli assassini, con le assoluzioni, le ricompense, le pensioni, perfino gli incarichi di cui li gratifica, si rende loro complice. Che potrebbe far di più, se volesse incoraggiarli? Un papa lasciò da parte ogni decenza al punto di nominare cavaliere un celebre ladro, Ghino di Tacco, semplicemente perché ammirato del suo coraggio.
Questi briganti, d’altronde, non assomigliano affatto a ladri comuni. Come ho già detto, non è sempre il bisogno a spingerli nella carriera del crimine: sono il caso, l’ozio, e più spesso una vera e propria vocazione; ma quanti fra loro non vorrebbero altro che un campo da coltivare, pur di non fare i briganti!
Essi sottopongono a una sorta di noviziato e a prove severe quelli che aspirano a far parte della loro compagnia. Molti hanno una casa, del bestiame e sono sposati. Obbediscono a un capo il cui potere è assoluto. Ma questo capo, liberamente eletto, può essere deposto e anche messo a morte, se tradisce i compagni o viola i suoi giuramenti.
I banditi sono vestiti in modo pressoché uniforme. Il loro pittoresco costume ha qualcosa di militare: pantaloni corti di panno blu, con grosse fibbie d’argento su bretelle rosse; panciotto dello stesso tessuto ornato da due file di bottoni d’argento; giacca rotonda, anch’essa di panno blu, con tasche da entrambi i lati; mantello di panno scuro gettato sulle spalle; camicia aperta dal collo ripiegato; una cravatta, i cui due capi sono tenuti uniti dagli anelli e dalle fedi nuziali rubate; un alto cappello a punta di feltro rosso, con dei cordoni o nastri di diversi colori; calze legate alla gamba da piccole strisce di cuoio che terminano in sandali o in grosse scarpe chiuse; una larga cintura di cuoio con dei tagli per infilarvi le cartucce, allacciata da fermagli d’argento; una giberna, un budriere da cui pendono una sciabola, una forchetta, un cucchiaio e un pugnale; al collo, un nastro rosso che lascia ricadere sul petto un cuore d’argento: contiene delle reliquie e reca all’esterno, in rilievo, l’immagine della Vergine Maria col Bambino Gesù. Tale è l’equipaggiamento guerresco e religioso insieme di questi uomini che, sottoposti a una severa disciplina, non si spostano se non in bande più o meno numerose. Siccome pagano generosamente le loro spie e i loro rifornitori, raramente ne sono traditi.
La loro vita un po’ nomade si divide fra le cure da prestare alle greggi di capre, da cui traggono in parte il loro sostentamento, e il controllo delle strade principali o delle vie secondarie, sulle quali aspettano i viaggiatori. Spesso, pure, tali orde di banditi non sono altro che abitanti dei villaggi della Sabina o degli Abruzzi; per una parte dell’anno si dedicano ai lavori dei campi, ma poiché tale lavoro su quei terreni rocciosi non basta ai bisogni della famiglia, si abbandonano alla loro naturale inclinazione per l’assassinio e il saccheggio. Questa abitudine al brigantaggio non è d’altronde per loro se non un modo di vivere, a cui sanno molto bene che è connesso il rischio del patibolo. Poiché la maggioranza della popolazione è di fatto arruolata sotto le bandiere di alcuni capi, costoro hanno sempre ai loro ordini un piccolo esercito, tanto pronto a riunirsi quanto a disperdersi ad azione compiuta.
Nelle loro spedizioni i banditi sono di solito aiutati dai pastori. Gli uomini dediti alla pastorizia[4] conducono un’esistenza semi-selvaggia, che li lascia in contatto con le città, da cui possono rifornirsi di provviste, e tuttavia li scioglie da ogni legame sociale, sino a renderli indifferenti ai delitti degli altri.
Affrontare ogni pericolo, sopportare ogni privazione e ogni fatica: ecco la vita quotidiana dei briganti. Dormono perlopiù in fondo a un fosso, avvolti nel loro mantello, senz’altro riparo che la volta celeste. Da lì, quei filibustieri di terra si gettano sulle loro vittime, le trascinano nei loro rifugi e ne fanno scempio se non possono pagare il riscatto richiesto. Ecco il trattamento riservato alle persone del luogo. Quanto ai forestieri, di solito vengono soltanto spogliati di tutto, talvolta fino a rimaner nudi sul posto. Il primo ordine che i banditi intimano ai viaggiatori da loro aggrediti è quello di mettersi faccia in terra[5]. Spesso una banda compare all’improvviso in mezzo a un gregge di pecore. Allora, se la fame si fa sentire, i ladroni ordinano ai pastori di ucciderne una o più. Subito dopo le pecore sono scuoiate e fatte a pezzi che vengono arrostiti sulla punta delle bacchette da fucile, e divorati. In modi analoghi giungono il pane e il vino. Durante il pasto, i briganti hanno di solito l’abitudine di servirsi dei pastori di cui hanno decimato il gregge per far loro tagliar legna, attingere acqua, ecc. ecc.
Quando una banda sosta da qualche parte, prende tutte le precauzioni di cui fa uso un esercito in un paese nemico. Sentinelle, a cui vien dato il cambio a brevi intervalli, sono collocate nei diversi punti da cui si potrebbe esser colti di sorpresa. Fatto ciò, i banditi si dividono in gruppi; alcuni giocano a carte, altri alla morra[6]; alcuni ballano, altri ascoltano un racconto o una canzone, nella più completa tranquillità e sicurezza.
Nel corso della sua vita avventurosa, due cose, da cui non si separa mai, rassicurano il brigante italiano: il suo fucile, per salvarsi la vita, e l’immagine della Vergine Maria, per salvarsi l’anima. Nulla di più spaventoso di questo miscuglio di ferocia e superstizione! Un uomo del genere finisce per convincersi che la morte sul patibolo, preceduta dall’assoluzione datagli da un prete, gli assicurerà un posto in paradiso. Simile convinzione spesso spinge un disgraziato a commettere un delitto che gli comporterà la pena capitale allo scopo di meglio procacciarsi una felicità resa certa dal sacrificio della sua vita! Insomma, quella è gente che vi assassina come si deve, con la corona del rosario in mano, accompagnando le sue stilettate con un per amor di Dio[7].
Un bandito, accusato di un grande numero di omicidi, comparve dinanzi ai giudici: lungi dal negare di aver commesso i crimini imputatigli, ne confessò altri fino a quel momento ignorati dalla giustizia, ma quando si giunse a chiedergli se avesse sempre rispettato le giornate di digiuno, il devoto furfante si risentì. Quel dubbio era per lui la più grave delle offese. “Mi sospettate dunque di non essere cristiano?”, chiese con amarezza al magistrato che lo interrogava.
La storia di questi uomini straordinari, dopo che sono diventati famosi, sarebbe lunga e curiosa: ma, a parte il fatto che sarebbe difficile riunirne gli elementi, io non ho avuto né il tempo né l’intenzione di condurre una simile ricerca. Ma anche limitandomi a parlare di quelli su cui si possiedono informazioni precise, il mio racconto non sarà privo di un certo interesse.
Una persona degna di fede, il signor Tambroni, afferma che, durante il regno di Pio VI (1775-1800), nello Stato pontificio ci furono diciottomila omicidi. Sotto Clemente XIII erano stati diecimila, di cui quattromila nella stessa Roma. E’ noto che sotto il pontificato di Pio VII molti banditi sono diventati famosi.
Maino di Alessandria è stato uno degli uomini più notevoli di questo secolo: si faceva chiamare “imperatore delle Alpi” e con questo titolo firmava i proclami che faceva affiggere lungo le strade. Nelle sue giornate di rappresentanza o in quelle in cui passava in rivista la sua banda, compariva con uniformi e decorazioni tolte a generali e ad alti funzionari francesi[8]. Maino combatté per parecchi anni contro la gendarmeria. Alla fine, tradito da una donna, la casa in cui si trovava nel villaggio della Spinetta, suo luogo di nascita, fu improvvisamente circondata da agenti di polizia e da due brigate della gendarmeria: fra un uomo solo e una truppa di uomini armati fino ai denti s’ingaggiò un’accanita battaglia. L’eroe delle strade si difese come un leone, uccise parecchi avversari e non abbandonò il suo rifugio se non quando gli fu dato fuoco. Allora si dà alla fuga, scala un muro, riceve una fucilata che gli fracassa una coscia e finisce con l’essere ucciso in quello stesso posto mentre si dibatte fra i gendarmi. Maino aveva soltanto venticinque anni.
Un uomo del genere soccomberà sotto i ripetuti attacchi di una polizia militare molto bene organizzata, riceverà sul patibolo il premio dei suoi delitti e del suo intrepido coraggio; ma l’opinione pubblica gli attribuirà maggiore genialità e sangue freddo che non a molti generali che hanno lasciato fama di sé.
A Parella, i cui deplorevoli eccessi hanno tanto a lungo sparso il terrore nel regno di Napoli, i soldati francesi davano da tre anni la caccia. Non riuscendo a catturarlo, il ministro Salicetti mise una taglia sulla sua testa. Un contadino, che era barbiere, servitore e uomo di fiducia di Parella da una dozzina d’anni, ebbe un giorno a lamentarsi di lui; cedette all’attrattiva del guadagno e al desiderio di vendetta; una mattina, mentre gli faceva la barba, tagliò la gola al suo padrone, ne consegnò la testa e intascò quattrocento ducati come ricompensa per questa azione.
Il capo chiamato Diciannove, perché gli mancava un alluce, era più assetato di sangue che di oro: con barbaro piacere torturava a lungo le sue vittime prima di finirle. Alla fine Diciannove, più stanco che sazio della propria crudeltà, propose al governo pontificio un armistizio che questo accettò.
Una volta ottenuta la grazia come banditi e assolti come cristiani, Diciannove e i suoi compagni poterono presentarsi impunemente ai familiari delle persone che avevano assassinato. Dopo essersi seduti alla loro tavola e aver preso parte ai pasti della famiglia, quegli scellerati, andandosene, chiedevano ancora del denaro, in cambio dei riguardi che pretendevano di aver usato quando avevano esercitato il loro mestiere di ladri: nessuno osava rifiutare. In tal modo, essi conservavano i benefici del loro antico mestiere senza più correre il minimo rischio.
La banda di Corampone, dopo avere rivaleggiato in crudeltà con quella di Diciannove, ottenne le stesse immunità.
Da Terracina a Fondi, da Fondi a Itri, ci troviamo sul territorio classico del brigantaggio, la terra che ha visto nascere il celebre Giuseppe Mastrilli. Egli divenne assassino per amore: bandito dagli Stati di Roma e di Napoli, vi ricomparve più volte, sfuggì sempre alla giustizia e morì serenamente dichiarando di essere pentito dei suoi delitti. Prima di diventare capo di una banda, quest’uomo geniale aveva fatto parte di quella del vecchio Barba Girolamo.
Mastrilli rivestì un’importante funzione nella più singolare manifestazione controrivoluzionaria cui l’Europa ci abbia fatto assistere dopo il 1789. Questo brigante stava per essere impiccato per i suoi delitti a Montalbano, piccola città vicina alla punta dello stivale italiano, quando il cardinal Ruffo, generale dei sanfedisti calabresi, l’unica persona intelligente del partito legittimista, ritenne utile alla causa di Ferdinando III presentare Mastrilli ai suoi soldati e alla plebaglia come duca di Calabria, col quale in effetti egli mostrava qualche somiglianza. Il bandito si affacciò a un balcone fregiato degli ordini di San Ferdinando e del Toson d’oro: la moltitudine, ingannata dalle apparenze, fece risuonare nell’aria i suoi evviva e l’accolse col più grande entusiasmo. Quel principe di un momento porse la mano da baciare al cardinal Ruffo, e Sua Eminenza la baciò col più rispettoso degli atteggiamenti.
Prima di mettersi a capo del piccolo esercito agli ordini del Ruffo, Mastrilli prese tutte le sue misure per garantirsi la grazia e una ricompensa pecuniaria da parte del legittimo sovrano: sostenuto dal popolo, che era stato appena ingannato con tanta impudenza, il nostro eroe poté assumere un tono d’autorità e dettare al cardinale le proprie condizioni.
Verso la metà del secolo scorso un altro brigante aveva già reso celebre il nome dei Mastrilli. I delitti da lui commessi e l’abilità con cui sapeva sottrarsi alla giustizia ne fecero un uomo così pericoloso che non fu possibile liberarsene se non mettendo una taglia sulla sua testa; fu tradito e ucciso mentre era a caccia. Nel 1766 si vedeva la sua testa esposta sulla porta di Terracina che guarda verso Napoli.
Nel 1806 tutta l’Italia tremava al solo nome di Fra Diavolo. Tale brigante, nato a Itri, seminò il terrore soprattutto fra le popolazioni delle rive del Mediterraneo che facevano parte degli Stati romani e di quelli napoletani. Questo ex-monaco ed ex-galeotto, dal volto tutto brunito dal sole, uccideva i suoi simili per necessità e per divertimento, salvandoli qualche volta per capriccio o aiutandoli in un empito di bontà. Per il resto era molto devoto alla Vergine e ai santi. Da brigante diventò controrivoluzionario e ufficiale superiore nell’armata del cardinal Ruffo, e sgozzò parecchi a Napoli per devozione verso il trono e l’altare. Andava sempre coperto di amuleti e armato di pugnali. Dopo numerose azioni di un ardimento e di un coraggio stupefacenti, Fra Diavolo cadde in mezzo a un distaccamento francese: fu catturato, giudicato e impiccato.
La banda il cui quartier generale si trovava nei dintorni di Sonnino seminava il terrore tra Fondi e Roma: i suoi capi, Mazzocchi e Garbarone, erano dotati di una genialità infernale. L’astuto stratagemma con cui trasportarono sulle loro montagne tutti gli alunni del seminario di Terracina è cosa davvero incredibile.
Il degno uomo di chiesa che dirigeva l’istituto meditava da tempo sui mezzi da adottare per porre fine agli spaventosi delitti commessi da quei briganti. Un giorno, spinto da santo zelo, si mise la sua croce sulle spalle, salì sulla montagna che serviva di rifugio ai banditi, penetrò nel bel mezzo della banda e lì piantò il simbolo della nostra redenzione. Il virtuoso missionario rammentò loro tutte le malefatte che avevano commesso nella regione; li scongiurò ardentemente di abbandonare una così funesta professione; s’impegnò a far loro ottenere senza resistenza ciò che erano soliti prendersi con l’assassinio e il saccheggio; disse loro, insomma, tutto ciò che di più persuasivo gl’ispirava la sua apostolica filantropia. A poco a poco sembrò che i briganti ne fossero scossi; essi accolsero le proposte dell’ecclesiastico; di più, dimostrarono sincero pentimento e il desiderio di rientrare nel seno della Chiesa confessando i loro misfatti. Il venerando prete versò lacrime di gioia e propose ai ladroni di mettere in pratica le loro buone intenzioni accompagnandolo al seminario. Quelli lo seguono, ne ascoltano le istruzioni, assistono a tutte le funzioni religiose e assolvono insomma tutti i doveri di un buon cristiano.
Il bravo direttore ringraziava Dio tutti i giorni per quella felice conversione che riportava la pace nella contrada. La sincerità dei suoi neofiti sembrava al di là di ogni sospetto. Costretto ad assentarsi per due giorni, egli parte per Velletri dopo averli salutati amichevolmente; ognuno di quegli uomini gli baciò la mano e il degno uomo attraversò le paludi Pontine piacevolmente immerso nei dolci pensieri che accompagnano ogni buona azione.
Il prete si era appena congedato dai suoi nuovi convertiti, che questi si diedero a mandare ad esecuzione l’ardito progetto che avevano così abilmente avviato. Nella notte immediatamente successiva, i bricconi trasportarono tutti i seminaristi sulle loro montagne. Da lì, lettere scritte di pugno dei giovani, costrettivi da un pugnale sul cuore, invitavano i loro genitori a spedire senza indugio la somma richiesta per il loro riscatto.
Trascorso il termine fatale fissato per la consegna di quei tributi, tre degli sventurati ragazzi non erano stati ancora riscattati: due furono sgozzati; il terzo si gettò ai piedi degli assassini invocando sant’Antonio! Questa preghiera lo salvò: fu rispedito dai suoi genitori munito di un salvacondotto.
Nel 1813, la polizia francese, dopo cinque anni di inseguimenti, arrivò a catturare un pericoloso bandito, il Calabrese. Quest’uomo, per nobilitare la propria immagine, dava ai suoi atti parvenze politiche: voleva essere considerato come il capo della Vandea romana; si fregiava dei titoli più pomposi.
Gli uomini del Calabrese, sgomenti per il suo arresto e volendo ad ogni costo impedire che fosse giustiziato, mandarono un’ambasceria al capo della gendarmeria, a cui proposero che, dietro compenso di trenta soldi al giorno, si sarebbero incaricati di garantire la sicurezza della strada delle paludi Pontine contro tutte le altre bande. In cambio, l’autorità s’impegnava a non sottoporre a giudizio per i suoi delitti il Calabrese e, come unica pena, a deportarlo in Corsica. Il singolare patto fu concluso e ciascuna delle due parti ne rispettò scrupolosamente le condizioni.
Nel 1817, la banda dell’Indipendenza, comandata, credo, dal De Cesaris, esercitava in Calabria un potere assoluto e terribile; era composta da trenta uomini e quattro donne. Suoi principali tributari erano i fattori e i proprietari terrieri, i quali ben si guardavano dal disobbedire all’ordine di depositare presso il tronco di un albero o alla base di una colonna, in un certo giorno e a una certa ora, quanto era loro richiesto. Tuttavia, un fattore tentò di sottrarsi a quel duro vassallaggio. Anziché portare il suo tributo, dunque, egli avvertì le autorità; e truppe a piedi e a cavallo accerchiarono gli Indipendenti. Vistisi traditi, i briganti fecero una sortita, coprendo il terreno dei cadaveri dei loro nemici. Tre giorni dopo, compirono una terribile vendetta nei confronti dello sventurato fattore. Dopo averlo torturato e condannato a morte, lo gettarono in un enorme calderone dove si faceva bollire il latte per il formaggio, e i banditi obbligarono ognuno dei suoi domestici a mangiare un pezzo del corpo del padrone.