Il tempio o la casa della libertà e della non credenza

Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » mar dic 01, 2015 12:21 pm

Fino a quando non si ammetterà che la radice del male è l'islam, il terrorismo islamico prevarrà e l'Occidente capitolerà
ANDREA TEDESCO
https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 3494750906


Abd al-Rahman al-Rashed, Asharq al-Awsat, 4 settembre 2004
"La triste verità è che la maggior parte dei terroristi sono musulmani...Non dovremmo forse riflettere su noi stessi, sulle nostre società, sulla nostra cultura? Queste immagini crudeli, orripilanti, che ci umiliano quando le raccogliamo e le mettiamo in fila una dopo l’altra, invece di negarle e giustificarle, dobbiamo innanzitutto ammetterne la veridicità invece di tessere discorsi e scrivere articoli che proclamano la nostra innocenza. Dopo avere ammesso la malattia sarà più facile guarirne. Il primo passo verso la guarigione è l’ammissione. Dopodiché dobbiamo dare la caccia ai nostri figli terroristi perché sono la naturale conseguenza di una cultura deformata..."

Chi in Occidente non dice la verità sull’islam sta forse facendo, suo malgrado, il gioco degli islamici radicali?
Perché non dire la verità sull'islam, e in particolare la verità storica? Perché non responsabilizzare i musulmani? Perché non raccontare che cosa è stato fatto in nome dell’islam nell’arco dei suoi 1400 anni di storia ed evidenziare il ruolo chiave giocato dall’islam nelle disgrazie, nei fallimenti, nelle sofferenze anche e anzitutto del mondo islamico?
Perché non sfatare il pericoloso mito diffuso con il contributo di intellettuali occidentali disonesti intellettualmente, secondo cui tutti i problemi dei paesi islamici sarebbero colpa dell’Occidente?
Per evitare forse di urtare la suscettibilità di quei musulmani già impegnati nel genocidio dei cristiani in tutto il mondo, nonostante decenni di rispettosi silenzi sull'islam rotti solo dalle parole di Benedetto XVI a Ratisbona?
E cosa potrebbero costoro attuare di peggio di un genocidio se la verità li offendesse?
Per evitare forse di urtare la suscettibilità dei musulmani moderati e diminuire le probabilità che costoro, offesi dalla verità, possano "fraintendere e corrompere" l'islam aderendo alla causa della versione di islam militante prevalsa nell'arco di 1400 anni?
Eppure i musulmani moderati, spesso coraggiose persone di buona volontà alla ricerca della verità, come ad esempio Magdi Allam prima della conversione, o Salman Rushdie, il presidente egiziano Al-Sisi, sono di solito già a conoscenza della verità sull'islam ed anzi, a rischio della vita, sono i primi a gridarla a gran voce nella speranza di essere ascoltati dagli occidentali.

I musulmani moderati, in particolare quelli impegnati nel tentativo di riformare l’islam, sono, cioè, le prime vittime dei musulmani radicali. Costoro sperano di vedere riconosciuta pubblicamente la verità sull'islam anche dall'Occidente e dalla comunità internazionale, e che i musulmani radicali siano repressi e sconfitti. Costoro non si offenderebbero se sentissero finalmente proclamare la verità sull'islam anche dai leader religiosi e politici di tutto il mondo, ed anzi si disperano e vedono minati i propri sforzi di riforma dell’islam, quando devono sentire il Presidente Obama e altri leader occidentali affermare che l’Isis non è islamico.
A giudicare dalla scelta attuata da questi coraggiosi musulmani genuinamente moderati, chi in Occidente non dice la verità sull’islam fa in realtà il gioco degli islamici radicali.
Esiste, però, probabilmente anche una categoria di musulmani moderati che non hanno il coraggio di denunciare l'islam radicale e che a maggior ragione si aspettano di vederlo denunciato, isolato, represso e sconfitto da qualcun altro. Costoro, proprio perché sopraffatti dalla comprensibile paura, con ogni probabilità, potrebbero sposare la causa dell'islam radicale se lo percepissero come il cavallo vincente destinato a conquistare il mondo, se non altro per essere risparmiati.
Questo è proprio quanto accaduto in Iraq, dove, all'arrivo dei musulmani dell'Isis, buona parte dei musulmani locali si sono uniti ai ranghi degli invasori tradendo i vicini cristiani e yazidi e partecipando al loro sterminio.
Un'altra possibile categoria di musulmani moderati sono coloro che non conoscono l'islam, perché laici che non frequentano la moschea e non leggono il Corano, proprio come tanti cristiani “moderati” che non frequentano la chiesa e non leggono la Bibbia. Costoro non avrebbero ragioni particolari per offendersi se dovessero scoprire la verità sull'islam, ed anzi potrebbero vedere ampiamente confermata la scelta personale di starne lontano, una volta venuti a conoscenza della cruda realtà.
A parte la categoria dei coraggiosi musulmani che dichiarano pubblicamente la verità sull'islam rischiando la propria incolumità, gli altri moderati sono tutti a rischio di sposare l'islam radicale, se l'islam radicale non venisse esplicitamente condannato, represso, sconfitto, e fossero costretti dalla presenza di islamici radicali e di moschee nel loro quartiere a frequentare la moschea e a leggere ed approfondire la conoscenza del Corano sotto la supervisione di fondamentalisti islamici.
Per quanto poi riguarda tutti quei musulmani moderati, in particolare giovani immigrati di seconda generazione, che potrebbero essere persuasi a sposare la causa del Jihad per fare giustizia, traviati dall'opinione dominante che le potenze occidentali siano responsabili, attraverso la colonizzazione e l'imperialismo, dello sfruttamento e quindi della povertà e delle sofferenze del mondo islamico, nessuno più di loro avrebbe bisogno di sentire la verità sull'islam per comprendere che è proprio l'islam la causa principale dei fallimenti, dei drammi e delle tragedie del mondo islamico.
A questo punto, gli apologeti dell’islam ci ricorderanno che l’Occidente e i cristiani si sono resi responsabili di nefandezze, ma in realtà non ci racconteranno nulla di nuovo. Sono, infatti, anni che nelle università e nelle scuole occidentali non si parla d’altro che degli errori commessi dall’Occidente, dalla Chiesa e dai cristiani. È ormai pratica consolidata utilizzare un approccio etnocentrico allo studio della storia e concentrarsi quindi sulla storia dell’Occidente. Come risultato della presenza di una percentuale elevata di professionisti della critica, perfezionisti, eccessivamente pignoli, ipercritici, pessimisti propensi a sottolineare gli aspetti negativi della propria civiltà, tra i docenti e i giornalisti, cioè i detentori della cultura e responsabili della formazione dell’opinione pubblica, la demonizzazione della civiltà occidentale e delle sue radici giudaico-cristiane è diventata di moda. L’Occidente e la sua storia, visti attraverso il filtro a maglie finissime dei suoi intellettuali etnocentrici e pessimisti, vengono inevitabilmente percepiti esclusivamente in una luce negativa che enfatizza le tendenze all’imperialismo e al colonialismo.
Se invece venisse eseguita un’analisi più bilanciata e comparata, che tenesse conto anche dei contributi positivi ai progressi dell’umanità, e paragonasse la civiltà occidentale alle altre civiltà da tutti i punti di vista, emergerebbe un quadro molto diverso, in cui la civiltà occidentale si collocherebbe in una posizione di dominio non solo scientifico e tecnologico, ma anche culturale e di promozione della libertà e della dignità umana.
E soprattutto, e con un auspicabile impatto positivo di portata critica per il futuro dell’umanità, l’Occidente e Israele cesserebbero di rappresentare il capro espiatorio d’elezione utilizzato sia dai leader arabi “laici” del mondo islamico (quelli sopravvissuti alle “esplosioni” delle Primavere Arabe…), sia dai musulmani radicali, per deresponsabilizzarsi e giustificare la miseria e il degrado che affliggono i propri paesi. Questa attribuzione di responsabilità all’Occidente, infatti, fornisce combustibile all’incitamento delle popolazioni islamiche all’odio nei confronti degli occidentali o al reclutamento di combattenti al Jihad.
La presa di coscienza delle responsabilità storiche dell’islam è una premessa indispensabile per qualsiasi genuino tentativo di riforma dell’islam in senso moderato o, qualora non fosse possibile, per l’eventuale decisione di affidarlo al cestino della storia, come ha ben compreso un autorevole islamico genuinamente moderato come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi:
"Mi rivolgo agli studiosi della religione e alle autorità religiose. Dobbiamo rivolgere uno sguardo attento e lucido alla situazione attuale. E' inconcepibile che l'ideologia che noi santifichiamo faccia della nostra intera nazione una fonte di preoccupazione, pericolo, morte e distruzione nel mondo intero. Non mi riferisco alla "religione" bensì alla "ideologia" - il corpo di idee e di testi che abbiamo santificato nel corso di secoli, al punto che rimetterli in discussione diventa difficile. Abbiamo raggiunto il punto in cui questa ideologia è ostile al mondo intero. È concepibile che 1,6 miliardi di musulmani uccidano il resto della popolazione mondiale, per vivere da soli ? E' inconcepibile. Io dico queste cose qui ad Al-Azhar davanti ad autorità religiose e studiosi. Che Allah possa testimoniare nel Giorno del Giudizio della sincerità delle vostre intenzioni, riguardo a quello che vi dico oggi. Non potete vedere le cose con chiarezza quando siete imprigionati in questa ideologia. Dovete uscirne e guardare le cose da fuori, per avvicinarvi a una visione illuminata. Dovete opporvi a questa ideologia con determinazione. Abbiamo bisogno di rivoluzionare la nostra religione... Onorevole Imam (Gran Sceicco di Al-Azhar), voi siete responsabile davanti ad Allah. Il mondo intero aspetta le vostre parole, perché la nazione islamica è lacerata, distrutta, avviata alla rovina. Noi stessi la stiamo conducendo alla rovina". (Abdel Fattah al-Sisi, Università di Al-Azhar, 01/01/2015).
Allora perché non dire la verità sull'islam se ai musulmani moderati potrebbe risultare "estremamente" utile sentirla finalmente proclamare e se i musulmani radicali non potrebbero arrabbiarsi ulteriormente e perpetrare crimini contro l'umanità peggiori di quelli di cui si stanno già rendendo responsabili?
È possibile che la ragione del silenzio abbia qualcosa a che fare con la profonda convinzione che la violenza islamica sia in realtà una responsabilità dell’Occidente, e quindi con l’illusione di aver trovato l’interruttore magico per spegnerla?
La stragrande maggioranza dei leader politici e religiosi ed intellettuali occidentali sembrano accomunati non solo dal fatto di non dire la verità sull'islam, ma anche da quello di sottoscrivere la teoria del “Jihad reattivo”, secondo cui gli Jihadisti avrebbero sì corrotto il presunto messaggio di pace e tolleranza del Corano, ma in qualche modo in risposta alle ingiustizie subite dal Terzo Mondo, come reazione appunto all’imperialismo e all’egoismo occidentali, alla povertà e disperazione conseguenti alla colonizzazione, allo sfruttamento etc.
Per esempio, la scelta del Papa di enfatizzare le armi, il petrolio, i finanziamenti agli Jihadisti, come cause della Jihad globale, se da una parte sottolinea aspetti tutti degni di considerazione per un approccio olistico alla risoluzione del problema, tende anche, però, a creare l'impressione che sia proprio l'Occidente, ricco venditore di armi, assetato di guadagni, di petrolio, il vero e unico responsabile.
La versione "deformata e corrotta" dell’islam incarnata dagli Jihadisti dell’Isis sarebbe, quindi, in realtà una creazione dell'Occidente, o in quanto semplice reazione alle ingiustizie, allo sfruttamento perpetrati dall'Occidente ai danni del Terzo Mondo, o in quanto "pilotata" dall'Occidente, che avrebbe "creato" l'Isis per soddisfare le sue ambizioni egemoniche ed economiche.
La scelta di ignorare i fiumi di sangue versato dall’islam nei suoi 1400 anni di storia, così come l’esaltazione dell’islam in quanto religione di pace e tolleranza contro ogni evidenza, ma anche la profusione di mea culpa e scuse sincere, l’accoglienza generosa, i cospicui sussidi, le concessioni, l’apertura di moschee, avrebbero quindi lo scopo di farsi perdonare tutte le presunte colpe occidentali, spegnendo così la violenza islamica.
Sembrerebbe che la scelta di non dire la verità sull’islam non si prefigga di non urtare la suscettibilità dei musulmani moderati, ma quello di tendere una mano proprio ai musulmani radicali, agli Jihadisti reali o potenziali.
Questo è confermato dagli inviti di rappresentanti del Movimento 5 Stelle in Italia a comprendere le ragioni dell'Isis, dai negoziati discreti di Obama con i Talebani in Afghanistan, dal rapporto instaurato dalla Casa Bianca con i Fratelli Musulmani in Egitto, dal dialogo del Vaticano con l’Ucoii, che in Italia si rifà all'ideologia della Fratellanza islamica, che ha accusato un ex-musulmano moderato come Magdi Cristiano Allam di islamofobia per tentare di chiudere la bocca a tutti i critici dell'islam, e anzitutto ai musulmani moderati che aspirano a riformarlo.
I nostri leader sarebbero impegnati a tentare di comprendere le ragioni degli Jihadisti e a convincerli a rinunciare alla violenza, tessendo le lodi dell’islam, guardandosi bene dal proferire qualunque parola che possa minimamente mettere in cattiva luce questa presunta religione di pace e tolleranza.
Contro le intenzioni dei promotori del dialogo fondato sulla "negazione" della verità storica, questa posizione promuove, però, la diffusione dell’islam radicale e il reclutamento di Jihadisti tra i musulmani moderati, e persino tra gli "infedeli", per una serie di ragioni.
Essendo fondata sulla demonizzazione dell’Occidente, riduce la nostra autostima, e mina la nostra volontà di difenderci e la nostra determinazione con i sensi di colpa, e contemporaneamente trasmette al mondo islamico la netta impressione di essere deboli e codardi, e quindi incapaci di fronteggiare e sconfiggere l’islam radicale.
La nostra debolezza lascia spazio in Occidente all'islam radicale accreditandolo come interlocutore agli occhi dei veri moderati, che vengono invece marginalizzati.
Questo aumenta prevedibilmente le probabilità che i moderati possano essere indottrinati grazie all’apertura di nuove moschee e alla presenza di islamici radicali accreditati, invece che isolati ed arrestati, nella società. Ciò, inoltre, suggerisce che l’islam radicale rappresenti il cavallo vincente e possa avere la meglio in futuro, spingendo così i musulmani moderati a sposare la causa della Jihad anche solo per salvarsi la vita.
La demonizzazione dell'Occidente associata alla teoria del Jihad reattivo conferma in modo esplicito l'eroismo dei guerrieri islamici, apparentemente impegnati nelle difesa del mondo islamico dai soprusi e dalle ingiustizie, dall'imperialismo dell'avido e malvagio Occidente, favorendo così il reclutamento di Jihadisti tra i musulmani moderati, tra gli immigrati islamici di prima e soprattutto di seconda generazione, e persino tra giovani non-musulmani di estrema sinistra o estrema destra, alla ricerca, come tutti i giovani, di una nobile causa per cui combattere.
Sembrerebbe proprio che chi si illude di aver trovato l’interruttore magico per spegnere il Jihad abbia, a sua insaputa, scoperto quello per accenderlo…
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » sab dic 05, 2015 5:00 pm

Moriva 11 anni fa Theo Van Gogh, regista ucciso da un fondamentalista islamico
L'episodio ha sconvolto il popolo olandese e l'intera Europa suscitando forti polemiche sul fondamentalismo islamico e le politiche di integrazione
Adriano Palazzolo - Lun, 02/11/2015

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/mor ... 90087.html

Il 2 novembre del 2004 venne barbaramente ucciso il regista olandese Theo van Gogh, nipote del celebre pittore.
L'uomo aveva girato un film, Submission, che denuncia i soprusi cui devono sottostare le donne musulmane, e subito dopo aveva ricevuto minacce di morte, mentre contro il film si erano espressi molti esponenti musulmani dei Paesi Bassi.
Mohammed Bouyeri, l'immigrato marocchino che lo ha massacrato a colpi di coltello e di pistola, fu condannato pochi mesi dopo al carcere a vita.

Nell'annunciare il verdetto, il presidente della Corte, Udo Willem Bentick, aveva spiegato che l'assassino "ha agito con intento terroristico, ha ucciso senza alcuna pietà e non ha poi manifestato il benché minimo segno di pentimento. L'omicida - ha proseguito Bentick -ha provocato nella società olandese un'ondata di paura e di insicurezza trucidando con brutalità Theo Van Gogh".

Bouyeri pagherà dunque con l'ergastolo non solo l'infamia di un omicidio bestiale, ma anche l'offesa arrecata a un intero popolo. Fedele al suo personaggio, per metà bruto e per metà gelido, il ventisettenne marocchino quel giorno ha accolto il verdetto rimanendo impassibile e non ha degnato di uno sguardo la ventina tra parenti e amici della sua vittima che ieri erano presenti in aula.

Nella sua confessione, il killer ha ammesso di aver compiuto l'omicidio "per convinzione e in nome della religione, e non perché lui era olandese e io marocchino o perché io mi sia sentito insultato. Esiste una legge - aveva aggiunto gelidamente, ribadendo di non volersi difendere in tribunale - che mi obbliga a tagliare la testa a chi insulta il Profeta. E sarei pronto a rifare la stessa cosa".

Bouyeri, quel 2 novembre di undici anni fa, non si era limitato a questo. Aveva atteso che Theo Van Gogh, discendente di un fratello del celebre pittore del diciannovesimo secolo Vincent van Gogh, uscisse in bicicletta dalla sua abitazione nel centro di Amsterdam. Lo aveva aggredito impugnando un coltello e ferendolo gravemente. Il regista terrorizzato lo aveva supplicato di non ucciderlo, ma il giovane marocchino per tutta risposta lo aveva brutalmente sgozzato.

Non soddisfatto, aveva poi estratto una pistola, sparando a bruciapelo sull'uomo agonizzante. Infine, mentre i passanti fuggivano in preda all'orrore, aveva piantato sul cadavere di Van Gogh un coltello, fissando così ai vestiti insanguinati cinque fogli sui quali erano scritte minacce di morte contro Ayaan Hirsi Ali, la parlamentare olandese di origini somale che aveva realizzato la sceneggiatura di Submission.

In questo periodo ricorre il triste giorno in cui il regista olandese Theo Van Gogh è stato assassinato da un "fanatico e malvagio mussulmano" per aver mostrato le immagini delle donne mussulmane maltrattate dalle leggi islamiche nel suo film "sottomissione".
http://www.artribune.com/2015/01/submis ... rlie-hebdo

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https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... ission.jpg
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » gio dic 10, 2015 7:54 pm

Akbar il Grande o Muḥammad Abū l-Fatḥ Jalāl al-dīn
https://it.wikipedia.org/wiki/Akbar

Immagine

Muḥammad Abū l-Fatḥ Jalāl al-dīn, persiano: جلال الدین محمد اکبر‎‎ (trascrizioni alternative sono Jellaladin o Celalettin), meglio conosciuto come Akbar il Grande, Akbār-e Aẓam (Umarkot, 15 ottobre 1542 – Agra, 27 ottobre 1605), fu il terzo sovrano timuride dell'Impero Moghul, Gran Mogol dal 1556 fino alla morte. I fatti della sua vita sono narrati nell'Akbarnama (Akbar nāmeh), cronaca ufficiale, riccamente miniata sul suo regno, commissionata dallo stesso sovrano.

Fra i più importanti imperatori dell'Impero Mogul, grazie all'impegno militare (operò diverse conquiste espandendo i domini della dinastia) e alla politica di riforma amministrativa, e inoltre agli sforzi in campo religioso, fu impegnato nel far convivere le religioni maggioritarie del regno, come l'induismo e l'islam.
...
Akbar considerava con grande serietà il fatto di essere l'imperatore di un popolo con più religioni e dedicò molto tempo e risorse per cercare punti di contatto tra le diverse fedi del popolo su cui regnava. Si spese così, oltreché in campo amministrativo migliorando l'apparato burocratico, anche sul fronte sociale attenuando i prelievi fiscali, sforzandosi di renderli omogenei (tale parità di trattamento implicava anche un uguale riconoscimento di natura religiosa).
Egli era estremamente tollerante nei confronti dell'induismo, mentre al contrario era molto critico nei confronti dell'Islam; volle così approfondire la conoscenza di altri culti, invitando a dibattere pubblicamente e liberamente alcuni esponenti delle principali religioni presenti nel suo regno: musulmani, zoroastriani, hindu, giainisti e anche cristiani, questi ultimi provenienti da Goa, possedimento portoghese, nonché dalle missioni francescane e gesuite.
Applicò per primo, cosa evidentemente di grande novità per quel tempo (soprattutto presso i regni musulmani), un criterio di tolleranza religiosa, facendo in modo che i vari credi potessero convivere senza che ne prevalesse alcuno.

La sua fama di sovrano clemente (soprattutto per il trattamento accondiscendente verso le missioni e le ambascerie cristiane ed europee) si estese all'Occidente, dove fu noto col nome di "Gran Mogol", dovuto all'origine mongola (il suo antenato Tamerlano era di etnia turco-mongola) della sua dinastia, e che venne esteso in seguito anche ai suoi successori.
Le frequenti diatribe, i sottili ragionamenti teologici e soprattutto i vari tentativi di conversione nei suoi confronti, operati soprattutto da parte dei missionari gesuiti, ebbero il risultato di allontanare definitivamente Akbar da ogni tipo di religione ufficiale, tanto che nel 1579, sfiduciato anche dagli esponenti di un Islam ortodosso, si autoproclamò infallibile in materia di fede e nel 1582 fondò una sua personale religione chiamata Din-i tawhid-i ilahi ("monoteismo"), che purtuttavia rimase circoscritta alla cerchia dei letterati di corte, e non ebbe alcun seguito presso il popolo, che rimase totalmente legato alle proprie antiche fedi.

La nuova religione derivava dalla lunga permanenza di Akbar in Persia, e si basava fondamentalmente sull'Islam, in particolare sufi, ma registrava anche una forte influenza dallo sciismo; era comunque fondata sul concetto dell'unicità di Dio e dell'unità del reale.
Akbar assunse il titolo di "Rivelatore di quanto è all'interno e rappresentante di quanto esiste", titolo di chiara derivazione sciita, che vede l'imam come colui che sparge la conoscenza di Dio e plasma il mondo in funzione di tale conoscenza. Tra le derivazioni da altri credi vi sono il rispetto di tutti gli esseri viventi, tipico del jainismo, ed il Culto del Sole e della divinità dell'imperatore, provenienti dallo zoroastrismo, che creò forti attriti con l'ortodossia islamica.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » dom dic 13, 2015 8:54 pm

Martini: il credente e il non credente che sono in noi
19/10/2015
http://www.famigliacristiana.it/articol ... denti.aspx

Comincia con "Le cattedre dei non credenti" la pubblicazione dell'opera omnia del cardinale. «Io chiedevo non se siete credenti o non credenti, ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate».
Arriva in libreria il 22 ottobre Le Cattedre dei non credenti, primo volume dell’Opera Omnia del cardinale Carlo Maria Martini, con una prefazione di Papa Francesco. Un progetto, che si compone di 18 libri, promosso dalla Fondazione Carlo Maria Martini in collaborazione con l’editore Bompiani. L’intento è quello di conservare, diffondere e soprattutto mantenere vivi il patrimonio e l’eredità di uno dei grandi protagonisti della Chiesa, della cultura e della società dell'ultimo secolo.
«Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa»: con queste parole Carlo Maria Martini apriva la Prima Cattedra dei non credenti, nel 1987. Iniziava così un lungo cammino di dialogo voluto dall'arcivescovo di Milano per dare la parola a non credenti, offrendo loro la possibilità di rendere ragione delle proprie convinzioni, e favorendo nei credenti un atteggiamento di ascolto disponibile e pensoso.
Fra le personalità coinvolte, Massimo Cacciari, Salvatore Natoli, Fulvio Scaparro, Carlo Maria Giulini, Ermanno Olmi, Pierangelo Sequeri, Elena Loewenthal, Enzo Bianchi, Lalla Romano, Giulio Giorello, Gustavo Zagrebelsky, Edoardo Boncinelli, René Girard...
Attraverso l’incontro con personaggi di spicco della cultura e del mondo scientifico, nel corso delle dodici edizioni delle Cattedre, fu possibile esplorare il credere e il non credere in rapporto alla città, ai sentimenti, all’arte e alla letteratura, al dolore, al cosmo e alla storia. «Io chiedevo - commenta Martini - non se siete credenti o non credenti ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate».
Le Cattedre dei non credenti presenta al pubblico la versione integrale e completa delle dodici edizioni dell'iniziativa, svoltesi a Milano dal 1987 al 2002, con molti interventi inediti.
Il volume sarà presentato in anteprima martedì 20 ottobre, alle ore 18, presso l’Auditorium San Fedele di Milano (Via Hoepli 3/b): interverranno Carlo Casalone SJ, presidente della Fondazione Carlo Maria Martini, Guido Formigoni, coordinatore del comitato scientifico dell'Opera Omnia, e i filosofi Salvatore Natoli e Carlo Sini.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » sab dic 19, 2015 7:51 pm

Quei “coglioni” di Charlie
Il settimanale francese fu abbandonato al terrore islamista ben prima della strage di un anno fa. Un libro racconta la fine della libertà di espressione fra taglialingue e vigliacchi
di Giulio Meotti | 19 Dicembre 2015

http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/12/ ... e_c304.htm


L’allora direttore di Charlie Hebdo, Stephane Charbonnier, davanti alla redazione dopo l’attentato del 2011, in una foto opportunamente pixelata. Censurato dai giornali, “Charb” era stato ridotto a nulla
Anticipiamo un estratto del nuovo libro di Giulio Meotti, “Hanno ucciso Charlie Hebdo. Il terrorismo e la resa dell’occidente: la libertà di espressione è finita”, da oggi in libreria (Lindau, 160 pagine, 16 euro). E’ la storia di come l’islamismo sia riuscito a restringere la nostra libertà di dire e pensare.

L’ultima vignetta firmata “Charb” mostrava un talebano con un kalashnikov in spalla che invita a non illudersi troppo per l’assenza di attentati in Francia, perché “c’è tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri”.

Stéphane Charbonnier, in arte Charb, era un obiettivo terroristico fin dal 2011, quando un incendio aveva distrutto la storica sede di Charlie Hebdo, alla vigilia di un numero dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia e con un ritocco alla testata, convertita in “Charia Hebdo” (riferendosi alla sharia, la legge islamica). Nel settembre del 2012 un jihadista era stato arrestato a La Rochelle perché aveva esortato, da un sito internet, a decapitare Charb. Lui aveva risposto così: “Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”.

Figlio di un tecnico di France Telecom e della segretaria di un ufficiale giudiziario, Charb era arrivato a dirigere Charlie Hebdo a 42 anni. Charbonnier aveva fatto tutto nella periferia di Pontoise: scuola elementare, scuola media, scuola superiore. Fino al cimitero di Pontoise, dove è stato sepolto nel gennaio 2015 con le note dell’Internazionale in sottofondo. Genitori socialisti, Charb eredita la vocazione di sinistra. Charb aveva lavorato per numerosi giornali e collaborava anche con il quotidiano del Partito Comunista L’Humanité e due importanti riviste francesi di fumetti, Fluide Glacial e L’Echo des Savanes. Irriverente e anti-capitalista, come dimostrano le sue vignette più celebri spesso al limite del pornografico, che riguardano il cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Tutto cambia nel 2011. Lì, la minaccia diventa tangibile. Una notte, alle 5 del mattino, la polizia convoca Charb per dirgli che qualcuno ha incendiato la sede del settimanale. L’edizione di quei giorni si era concentrata sulla “sharia soft”, “in onore del ruolo dell’islam nelle rivolte arabe”. Per celebrare in maniera appropriata la vittoria degli islamisti di Ennahda in Tunisia, e la promessa del presidente del Consiglio nazionale di transizione che la sharia sarà la principale fonte di legge in Libia, “Charlie Hebdo” aveva invitato Maometto a essere direttore per un giorno, come aveva scherzato la redazione di Charb in una nota. E fece firmare al Profeta un editoriale sul bere halal, secondo i dettami dell’islam, in cui l’alcol è proibito; dedicava una sezione – “Sharia Madame” – a donne e velo islamico, da poco vietato in Francia. Su Internet apparve una fotografia di Charb e la scritta “vivo o morto”, firmato al-Qaida. Il mondo politico francese fece una dichiarazione di condanna, ma aggiunse anche che “Charlie” aveva gettato benzina sul fuoco, che era irresponsabile. Charb si sentì solo per la prima volta. Abbandonato. Charb fu il primo obiettivo durante l’attacco del 7 gennaio. I terroristi, entrati dentro la redazione, gridavano “Charb? Dov’è Charb?”. Dopo averlo guardato dritto negli occhi gli hanno sparato. Poi vengono chiamati, uno alla volta, i membri della redazione e subito dopo fatti secchi. Durante pochi interminabili minuti i terroristi hanno compiuto una mattanza “scientifica”, che prevedeva la richiesta del nome ai giornalisti prima di giustiziarli.

Charb aveva il viso pallido di un bambino triste. Con i suoi occhiali, la sua T-shirt e il maglione, il direttore di Charlie Hebdo sembrava un eterno adolescente. Charb amava soprattutto ridere. “E’ la risata che decide”, ripeteva. Ma il suo sguardo era stato spento già prima ancora che i terroristi facessero irruzione nella sede del giornale.

Dopo la strage, il New York Daily News ha pubblicato una fotografia del 2011 con Charb davanti alle ceneri della redazione, incendiata dai fondamentalisti islamici. Tiene in mano una copia del suo giornale, la sua vita. Ma la copertina non è altro che un grappolo di pixel censurati, un puzzle di inoffensivi brandelli virtuali. Per chi guarda l’immagine, Charb tiene in mano il nulla. E’ ridotto a nulla.

Nel 2007 Charlie Hebdo era stato portato di fronte alla XVII sezione del Tribunale penale di Parigi, processandone il direttore, Philippe Val, costretto a rispondere di “insulti pubblici contro un gruppo di persone a causa della loro religione”. “Ma chi deve definire il concetto di libertà d’espressione e l’ambito entro cui può manifestarsi: i deputati, eletti dal popolo, o i gruppi religiosi?”, chiese Philippe Val in aula, esprimendo il suo profondo dissenso dall’accusa per cui venne portato in tribunale dalla Grande Moschea di Parigi presieduta dal rettore Dalil Boubakeur, l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia e la Lega musulmana mondiale.

A testimoniare per Charlie, si presentarono il saggista musulmano Abdelwahab Meddeb, il direttore di Cahiers de l’Orient Antoine Sfeir, il capo delle pagine culturali del Jyllands-Posten Flemming Rose, la studiosa Élisabeth Badinter e l’ex direttore di L’Express Denis Jeambar. La Lega musulmana mondiale citò come testimone padre Michel Lelong, un prete cattolico: “Trovo deplorevole che un giornale abbia pensato bene di ravvivare questa contesa”, disse il veterano dell’amicizia franco-araba.
Christophe Bigot, avvocato della Moschea di Parigi, aggiunse che “non è in alcun modo un dibattito sulla censura, ma un dibattito sulla responsabilità”. Charlie Hebdo era colpevole ai suoi occhi di “un atto deliberato con la coscienza del male”. Attesissimo l’intervento in aula di Flemming Rose: “Ho ridicolizzato un’ideologia, non gli uomini. Tutti devono accettare il ridicolo, nel rispetto della legge”. Élisabeth Badinter sostenne invece che “se Charlie Hebdo verrà condannato, è il silenzio che si imporrà su tutti noi”.

Quella volta Charlie si salvò, ma il silenzio sarebbe presto calato comunque sulla Francia e l’Europa. Non era la prima volta che si trascinavano scrittori e giornalisti alla sbarra nella Parigi dei Lumi. Il primo processo alla libertà di espressione sull’islam, a Parigi, venne celebrato nel 2002. E’ l’affaire Michel Houellebecq, l’autore del romanzo “Piattaforma”. Nelle stesse ore in cui i giudici assolvevano lo scrittore, all’Eliseo il presidente Jacques Chirac premiava Dalil Boubakeur con l’Ordine nazionale al merito per lo spirito “di dialogo, di tolleranza e di pace”. Boubakeur è il rettore della grande moschea di Parigi, l’uomo che con più convinzione aveva denunciato Houellebecq, con queste parole pronunciate in aula: “L’islam è stato insultato in modo indescrivibile e nella totale ignoranza di ciò che è. La libertà di espressione ha dei limiti. Credo che la mia comunità sia stata umiliata, e offesa la mia religione. Esigo giustizia”. Kamel Kabtane, rettore della Moschea di Lione, che figurava tra i querelanti, disse che le parole di Houellebecq erano sulla linea degli anni 1936-1939. Un protonazista, dunque.

Dalla parte di Houellebecq si fecero avanti alcune mosche bianche, irregolari. Michel Braudeau, caporedattore della Nouvelle revue française, in aula rivendicò “la liberté de l’écrivain, sa fonction critique dans la société”, ribadendo quanto fosse importante per l’homme de lettres che la libertà di espressione non fosse mai messa in discussione. Lo scrittore Dominique Noguez, ateo anch’egli, come Braudeau, difese a sua volta Houellebecq con brani di Clémenceau sulla libertà di pensiero. Noguez non mancava, infine, di manifestare il proprio sbigottimento vedendo che proprio la Lega dei diritti dell’uomo si era costituita parte civile contro Houellebecq, a fianco delle moschee e della Lega islamica mondiale, ritenendo paradossale che un’associazione nata per difendere i diritti dell’uomo si schierasse a fianco di chi puntava a reprimere la libera manifestazione del pensiero.

Come quarto testimone depose Fernando Arrabal, agnostico, già arrestato per blasfemia nel 1967 da un tribunale della Spagna franchista, per espressioni irriverenti nei riguardi della patria e della religione. “Che gioia essere testimone in un processo per reati di opinione”, disse Arrabal in aula a Parigi. “Saragozza, Valladolid, Santander…” il drammaturgo elenca improvvisamente una serie di città spagnole. “Questa è la lista delle carceri in cui sono stato per aver fatto la stessa cosa di Houellebecq. Nel 1967, ho avuto l’onore di essere difeso da Elias Canetti, Octavio Paz e Samuel Beckett”.

La sentenza di assoluzione di Houellebecq venne pronunciata il 22 ottobre 2002 e rappresenta una grande vittoria per la laicità e la libertà di espressione. Houellebecq veniva assolto, ma le porte del tribunale si stavano già aprendo per un’altra scrittrice: Oriana Fallaci. “La donna che diffama l’islam”, aveva scritto il quotidiano della gauche Libération. “La Bin Laden della scrittura”, disse con calma, quasi sommessamente l’avvocato della Federazione internazionale dei diritti umani, Patrick Baudouin.

Quando Oriana Fallaci è morta, nel settembre del 2006, era ancora imputata al tribunale di Bergamo. Era la prima volta che un giudice aveva disposto un processo per vilipendio della religione islamica. Ma non sarebbe stata l’ultima.

Processato e sotto scorta, il direttore di Charlie Hebdo Stéphane Charbonnier venne vilipeso anche da morto. In un commento agghiacciante a poche ore dal massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo, Tony Barber, direttore dell’edizione europea del Financial Times, accusò il settimanale satirico di “deridere, stuzzicare e punzecchiare i musulmani da troppo tempo”. “Coglioni” e “masochisti”: così l’eurodeputato Verde ed ex leader del ’68, Daniel Cohn-Bendit, aveva invece definito i responsabili della rivista Charlie Hebdo. “Qualsiasi integralista è un coglione, sia che si tratti di integralismo cristiano, ebraico, laico o mussulmano”. Ma per Cohn-Bendit, quelli di Charlie Hebdo erano anche “masochisti. Si vede che amano farsi del male”. Senza contare la volta in cui alcuni noti rapper francesi, tra cui Akhenaton, Disiz, Kool Shen e Nekfeu, invocarono un “falò contro quei cani di Charlie”: pochissimi solidarizzarono con Charbonnier e colleghi. Anzi, per la maggior parte se l’erano cercata.

Dopo le bombe incendiarie che colpirono Charlie Hebdo nel 2011, Bruce Crumley su Time Magazine attaccò il settimanale anziché i terroristi, parlando di “buffonate islamofobiche inutile e puerili”. Fu il filosofo francese André Glucksmann a dichiarare in merito a Charlie Hebdo contro “gli atei che muoiono di paura, pronti a piegarsi davanti al ricatto”. Furono i più a cedere al ricatto.

I proprietari di France Soir, senza aspettare di ricevere una sola minaccia, licenziarono il direttore del giornale per aver riprodotto le vignette come gesto di solidarietà con i colleghi danesi. Il giornale che aveva pubblicato le vignette satiriche su Maometto poi uscì in prima pagina con il titolo “Voltaire aiutaci!”.

Copie già in stampa, dopo aver licenziato il direttore, Jacques Lefranc, l’editore, l’uomo d’affari francoegiziano Raymond Lakah, ha dichiarato: “L’ho fatto in segno di forte rispetto per la fede e le convinzioni intime di ciascun individuo. Presentiamo le nostre scuse alla comunità mussulmana e a tutte le persone che sono state scioccate da questa pubblicazione”. In un commento intitolato “Risposta ad alcune domande”, France Soir scriveva infine: “Si può immaginare una società dove si sommino i veti di diversi culti? Che cosa resterebbe della libertà di pensare, parlare, persino muoversi? Quelle società le conosciamo bene: oggi l’Iran dei mullah, ieri la Francia dell’Inquisizione”.

Attorno a Charlie Hebdo, destra e sinistra fecero a gara per prendere le distanze. L’allora ministro Rachida Dati disse che Charlie Hebdo aveva cercato “una trovata di marketing” che rischiava di arrecare “danno” ai francesi. Facebook fece sparire subito le caricature di Charlie Hebdo. E altrettanto fece Le Point perfino quando ne pubblicò una per criticarla. Lo stesso ha fatto l’Associated Press, che ha censurato le vignette esposte dalle migliaia di francesi scesi in piazza. Motivo? Erano “deliberatamente provocatorie”. E pazienza se fino a ieri la stessa agenzia non aveva mai ritenuto provocatoria l’immagine del Cristo di piscio di Andres Serrano.

In Italia, la Repubblica ha riempito le pagine di commenti in difesa della libertà, intervistando il vignettista danese che vive sotto scorta, ma sul più letto giornale d’Italia non si è trovata una sola vignetta di Charlie Hebdo sull’islam. C’è quella contro gli inglesi, l’Obelix drogato, quella sulla crisi finanziaria, quella su Ratzinger che amoreggia con una guardia svizzera, ma nemmeno una su Maometto, neppure delle più lievi. Nemmeno il presidente Barack Obama intervenne a difesa della libertà di parola, come invece avrebbe fatto due anni dopo per bacchettare la Sony, che aveva chinato la testa dinanzi alle proteste del dittatore della Corea del Nord e ritirato un film satirico su di lui.

Zuckerberg, Obama e tutti gli altri hanno fatto quello che Stéphane Charbonnier, il direttore di Hebdo ucciso dai terroristi insieme ai suoi redattori, si era rifiutato di fare: arrendersi ai nemici della libertà di parola. Per non parlare dell’ex presidente Jacques Chirac, che già nel 2006 condannò le “provocazioni di Charlie”: “La libertà d’espressione deve esercitarsi in uno spirito di responsabilità”. Ma per chi non lo ricordasse, è lo stesso Chirac che all’epoca del caso Rushdie espresse solidarietà con chi aizzò le masse islamiche (Khomeini d’altronde aveva trovato riparo a Parigi, adulato dagli intellettuali della sinistra francese, compreso il socialista Lionel Jospin), e non con lo sventurato scrittore.

E si prosegue con l’Osservatore Romano, che parlò, sempre a proposito di Charlie Hebdo, di “discutibile iniziativa che minaccia di gettare benzina sul fuoco”, fino all’Onu, che definì i giornalisti di Charlie “stupidi e irresponsabili “, o la Casa Bianca, che per bocca del portavoce di Obama annunciò che per loro le vignette su Maometto “sono offensive per molte persone, e incendiarie”. Le caricature di Charlie Hebdo “susciteranno la repulsione di molti fedeli mussulmani”, disse il cardinale di Parigi André Vingt-Trois, presidente dell’episcopato francese. Intervistato dalla radio Europe 1, il prelato ha anche affermato: “Non voglio vederle. Susciteranno la repulsione di molti credenti mussulmani che si sentiranno feriti nella loro fede e che cercheranno il modo per esprimere il loro malcontento. Non si può dire qualsiasi cosa protetti dalla libertà di espressione”.
In un’intervista pubblicata sul Monde, Jean-François Copé, all’epoca Segretario Generale dell’Ump e deputato del Parlamento francese, difese l’allora primo ministro, Jean-Marc Ayrault, che aveva invocato da parte di Charlie Hebdo un “comportamento responsabile”.

Il giornale cattolico La Croix scrisse che “la responsabilità editoriale richiede una valutazione delle conseguenze di ciò che si pubblica”. Laurent Fabius fece sapere che con la pubblicazione delle vignette di Charlie Hebdo “gettano benzina sul fuoco”. Olivier Besancenot critica il giornale satirico e lo accusa di “imbecillità reazionaria”. E anche Rama Yade, ex Segretario di Stato per gli Affari Esteri e per i diritti umani, attacca Charlie Hebdo, mentre l’ex ministro dell’Interno Brice Hortefeux fa riferimento a “una provocazione inutile”.

Il Quai d’Orsay per bocca del ministro degli Esteri Philippe Douste-Blazy si dimostrò abbastanza arrendevole: “La Francia non rimette certo in questione la libertà di stampa, ma che si eserciti in uno spirito di tolleranza”. E l’ambasciata francese ad Algeri, che si è affidata a un comunicato formale, va persino oltre: “Le caricature ci sembrano choccanti… capiamo la riprovazione e l’incomprensione dei mussulmani”. Il presidente del Partito della Sinistra, Jean-Luc Mélenchon, disse che Charlie Hebdo “offende le credenze di alcuni dei nostri concittadini mussulmani”.

Il più osceno fu Malek Chebel che scrisse: “Charlie Hebdo saprà ancora approfittare di una crisi per ricostruire la propria salute finanziaria”. Come a dire, il settimanale usava la libertà di espressione per drenare soldi. Charlie Hebdo uscì poi con un numero speciale definito “responsabile”, sulla cui prima pagina ci sono solo la testata e un riquadro bianco.

Il giornale rispose così ai numerosi “appelli alla responsabilità” giunti nei giorni scorsi dal governo e da numerosi esponenti del mondo politico. “Al fine di soddisfare Laurent Fabius, Brice Hortefeux e Tariq Ramadan (rispettivamente ministro degli Esteri, ex ministro dell’Interno e intellettuale islamico, ndr), Charlie Hebdo non getterà più ‘benzina sul fuoco’ e non sarà mai più ‘irresponsabile’“, recitava un editoriale dai toni ironici, a pagina tre. Un giornale interamente di riquadri bianchi, firmati dai più noti disegnatori che collaborano con il settimanale, e da colonne bianche sormontate da titoli di articoli. Unica eccezione, la doppia pagina centrale, dedicata al “dibattito della settimana “: “Bisognava mostrare il seno della regina Kate?”. Anche in quella ironia, ci avevano visto giusto.

Charlie Hebdo era rimasta, dunque, l’ultima pubblicazione in Europa a non cedere sulla libertà di espressione. E infatti, anche il Maometto piangente che ammette “Je suis Charlie” non apparve sul New York Times e nemmeno venne trasmesso dall’americana Cnn. Quest’ultima ha spiegato di nutrire “preoccupazioni per la sicurezza dei lavoratori e per la sensibilità del suo pubblico mussulmano”. La Bbc annunciò che avrebbe parlato della copertina senza mostrarla, una scelta condivisa dall’Independent e dal Telegraph. Quest’ultimo ha tagliato in modo da espungere la caricatura del Profeta dell’islam.

Anche il sito della radio pubblica americana, Npr, ha deciso di aggirare il problema, tagliando l’immagine. La stessa scelta è stata fatta da altri quotidiani in Canada e in Australia. Hanno sfidato invece l’opinione pubblica islamica il Wall Street Journal, il Daily Mail, Usa Today e Buzz- Feed. Il quotidiano progressista britannico The Guardian ha pubblicato il Maometto in lacrime con l’avvertenza che la cosa avrebbe potuto “ferire la sensibilità dei lettori”.

I grandi network americani (Cbs, Nbc, Abc) hanno evitato di mostrare le vignette sul Profeta. Facebook ha bloccato il sito francese di Le Point per impedire l’accesso alle strisce satiriche. Sul sito del britannico The Telegraph è apparsa la foto di una ragazza che leggeva una copia della Vita di Maometto coi disegni di Charlie Hebdo, ma la copertina era oscurata. Lo stessa nel materiale fotografico fornito dall’agenzia Associated Press, che ha censurato le vignette esposte dalle migliaia di francesi scesi in piazza. Motivo? Erano “deliberatamente provocatorie”. Fra le tv, il gruppo Nbc ha dato precise direttive a Msnbc e Cnbc: non mostrare titoli o vignette che possono essere “insensibili” od “offensivi”. La tv britannica Sky News ha censurato la vignetta su Maometto che piange.

La vigliaccheria della cultura popolare americana cominciò subito a palesarsi durante la crisi delle vignette danesi nel 2006. I soli quotidiani a ribellarsi all’autocensura, o alla capitolazione per malcelato terrore, furono Weekly Standard, conservatore, e Free Inquiry, ateo, due media con una tiratura complessiva assai limitata. La catena di librerie Borders ha subito fatto sparire Free Inquiry dai suoi scaffali.

Sei mesi dopo la strage, Charlie Hebdo ha annunciato che non avrebbe più pubblicato vignette su Maometto, per bocca del nuovo direttore della rivista Laurent Sourisseau, il quale ha spiegato che le vignette erano un tentativo “di difendere i principi della libertà di espressione e non una critica all’islam. Adesso però lo scopo è stato raggiunto: i giornalisti hanno difeso il loro diritto alla satira”, ha detto Laurent Sourisseau. Ma era il terrore che aveva vinto.

Quando i fratelli Kouachi uscirono per strada, dopo aver abbattuto otto fra giornalisti e vignettisti, esultarono: “Abbiamo vendicato Maometto. Abbiamo ucciso Charlie Hebdo”. Poi, nelle stesse strade di Parigi, qualche ora dopo ci fu la grande marcia di solidarietà, con i capi di Stato e di governo che camminavano in silenzio, a braccetto, dimenticando quello che avevano detto e scritto su Charlie Hebdo. Sapevano che nessuno, dopo quella strage, si sarebbe mai più permesso di criticare l’islam.

C’erano sette vignettisti che avevano reso grande il settimanale Charlie Hebdo. Cinque sono stati uccisi il 7 gennaio 2015: Charb, Cabu, Honoré, Tignous e Wolinski. Gli altri due, Luz e Pelloux, si sono dimessi dopo la strage. Fra omicidi e abbandoni, si è conclusa così la parabola dell’ultimo giornale in Europa a sfidare l’intimidazione violenta e l’autocensura sulla libertà di espressione.

“Siamo stati fatti a pezzi”, ha dichiarato Corinne Rey, la vignettista di Charlie che si firma come “Coco”. Laurent Joffrin, direttore del quotidiano Libération, ha scritto che “ogni islamista al mondo sogna di uccidere uno di quei ragazzi. E così devono vivere nei loro appartamenti con le loro tende chiuse perché hanno paura dei cecchini. Vivono al buio. E questo è probabilmente destinato a durare per il resto della loro vita. Ciò dimostra che chi continua è particolarmente coraggioso”.

Oggi i giornalisti di Charlie Hebdo lavorano in una nuova redazione con vetri antiproiettile, una “panic room” in cui rifugiarsi in caso di attentato e un labirinto di porte blindate. Misure di sicurezza costate un milione e mezzo di euro. Senza considerare la protezione, notte e giorno, della polizia. L’indirizzo, nel XIII Arrondissement, non è di dominio pubblico. E il settimanale investirà un altro mezzo milione di euro all’anno per altre guardie armate. Il 13 novembre, mentre un commando di terroristi era impegnato a uccidere centotrenta francesi, i giornalisti di Charlie venivano invitati dalla polizia a non presentarsi quel giorno nella nuova redazione. “Troppo pericoloso”.

Nel gennaio 2015 la Francia era tutta “Charlie”. Un anno dopo, quasi nessuno si dichiara più tale. Lo ha ben detto la femminista e filosofa Élisabeth Badinter, moglie dell’ex ministro della Giustizia, nel documentario Je suis Charlie: “Se i nostri colleghi nel dibattito pubblico non condividono una parte del rischio, allora i barbari avranno vinto”. Charlie Hebdo oggi è stanco, forse non tornerà più. E chi può dargli torto? Ma gli altri?

Il senso di questa catastrofe sta tutto nella copertina di Charlie Hebdo dopo la strage del 13 novembre, quando hanno perso la vita 130 francesi. Lo sfondo è rosso e un ragazzo balla mentre beve champagne che zampilla dai fori dei proiettili su tutto il corpo. La scritta recita: “Loro hanno le armi. Si fottano, noi abbiamo lo champagne”.
Addio, Charb. Addio, “Charlie”.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » mar dic 29, 2015 4:56 pm

???

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... of-One.jpg


A Berlino si progetta la The House of One, un’unica chiesa per cristiani, ebrei e musulmani
Andrea D'Addio
giugno 26, 2014

http://www.wired.it/attualita/2014/06/2 ... -musulmani

Si chiamerà The House of One ed accoglierà i fedeli di tutte e tre le maggiori religioni monoteiste: cristiani, ebrei e musulmani. Sorgerà a Berlino, sempre che tutto vada bene. Lo scorso 3 giugno è infatti partita la campagna per raccogliere i 43 milioni di euro necessari per la sua costruzione. Chi vorrà potrà versare una donazione al costo simbolico di 10 euro a “mattone”.

L’idea in realtà è partita in realtà già nel 2006, quando, durante alcuni scavi sull’isola dei Musei (una sorta di isola Tiberina di Roma dove il Kaiser Federico Guglielmo IV di Prussia ha concentrato i maggiori musei cittadini) furono ritrovati i resti di ben cinque chiese cristiane, la più antica risalente al 1200. Si pensò che su quelle macerie sarebbe dovuto nascere qualcosa di speciale e così, dopo aver ricevuto autorizzazioni e aver messo definito ciò di cui si era in cerca, è stato indetto un concorso con il placet dell’amministrazione cittadina. A vincere, nel 2012, è stato il progetto dello studio d’architettura italo-tedesco Kuehn Malvezzi. A quel punto il problema è stato trovare tre rappresentanti dei vari credi che sostenessero il tutto. Se per la comunità ebraica e quella cristiana non ci sono stati grossi problemi, diverso è stato il discorso con i musulmani. La ricerca è finita solo qualche mese fa quando l’imam Kadir Sanci ha assicurato che farebbe confluire i propri fedeli nel nuovo luogo di culto. “Per noi musulmani è un’opportunità eccezionale”.

Dal punto di vista progettuale non è stato facile riuscire a pensare ad un luogo multi-religioso che tenga conto di tutte le esigenze dei fedeli. Se infatti, almeno per i cristiano protestanti, la direzione in cui è posto l’altare non è un problema, per musulmani ed ebrei la preghiera deve essere rivolta ad est. Non solo. Sempre per rispettare la religione islamica serve uno spazio quadrato dove potere stare fianco a fianco mentre per gli ebrei è importante avere una zona riparata per la celebrazione del Sukkot, la Festa delle capanne. Il Kuehn Malvezzi costruirà una sorta di cubo alto 44 metri rivestito di mattoni color senape. All’interno ci saranno tre settori separati (che per ebrei e musulmani saranno a loro volta divisi tra uomini e donne) senza simboli religiosi. Una quarta aerea sarà invece destinata per gli incontri tra tutti e tre i tipi di credenti.

Il nome The House of One richiama un Dio che si presume unico. Lo slogan, “Drei Religionen. Ein Haus” significa semplicemente “Tre religioni, una casa”. La speranza a questo punto è che dalle belle parole si passi ai fatti. Per partecipare al Crowfunding potete visitare il sito di The House of One.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » mar dic 29, 2015 8:48 pm

???

Contro il naufragio laico studiamo le religioni
Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Pensare che la religione sia solo violenza è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità
di Donatella Di Cesare
29 dicembre 2015

http://www.corriere.it/opinioni/15_dice ... e502.shtml

Le polemiche sui presepi o sui crocefissi a scuola, le difficoltà in cui spesso si scontra chi tenta di affrontare temi religiosi, non solo nelle aule scolastiche, ma anche in quelle universitarie, spingono a più di una riflessione.
La presenza dell’Islam (come religione) in Europa ha fatto emergere un fenomeno diffuso già da qualche anno: il ritorno delle religioni nella sfera pubblica. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Giustamente Jürgen Habermas parla perciò di «società post-secolari».
Il «ritorno» delle religioni crea molti problemi soprattutto là dove, come in Francia, la laicità sembrava un valore intramontabile. Di qui il forte attrito con l’Islam. Mentre Ebraismo e Cristianesimo, rinunciando a molte prerogative, hanno concordato, già all’inizio della modernità, un patto con lo Stato, riconoscendone la sovranità, l’Islam comincia solo ora a entrare nel «patto laico» e nella nazione. L’ingresso dell’Islam nella cittadinanza europea porta alla luce una difficoltà che riguarda anche le altre religioni.

Così Ebraismo e Cristianesimo hanno dovuto rinunciare alla loro dimensione politica, senza che questa rinuncia fosse mai definitiva. Forse perché la separazione tra religione e politica è una pretesa del laicismo, fittizia quanto irrealizzabile. E se a essere un problema fosse proprio quella sorta di religione civile dello Stato che sta tramontando insieme allo Stato-nazione? Certo è che le componenti più laiche sembrano oggi le più impreparate a comprendere quel che accade nel complicato processo della globalizzazione.

Pensare che la religione sia solo violenza, che rappresenti un inutile oscurantismo, è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità. Come se bastasse sbarazzarsi delle religioni per trovare un rimedio nel tormentato scenario contemporaneo.

Quel che appare ormai evidente è che la laicità non è il luogo neutro di un confronto tra religioni e culture diverse, non è il terreno di una non meglio precisata «morale universale», né la forma dell’identità collettiva. Ciò a cui oggi si assiste è proprio il naufragio della laicità così intesa. Il patto laico, che ha sempre avuto tratti fortemente nazionali, non funziona nel mondo globalizzato. Ma a ben guardare non ha funzionato neppure prima, lasciando una difficile eredità.

Giudicate dall’alto della ragione illuministica, le religioni sono state ridotte a dogmi superflui e dannosi, quasi che non facessero parte del patrimonio culturale. Gli effetti sono devastanti. Questo spiega perché il «dialogo interreligioso» è una faccenda di élite. Nelle scuole e nelle università, sia nel nostro Paese, sia in altre nazioni europee, domina l’ignoranza.

Peraltro proprio quando oramai in quasi ogni classe ci sono studenti delle tre religioni e sarebbe auspicabile la mutua conoscenza. Ma come si può dialogare con la religione degli altri, se si sa poco o nulla della propria?
E se si è portati a credere che, in un caso come nell’altro, si tratta di oscuri dogmi?
Si moltiplicano allora preconcetti e cliché. Anche l’ebraismo è oggi più che mai nel mirino. Così si spalancano le porte all’islamofobia non meno che all’antisemitismo. E così finiscono per avere la meglio le posizioni fondamentaliste, diffuse purtroppo anche tra i giovani.

Dove non si è stati abituati all’ermeneutica dei testi, alla riflessione sui concetti religiosi, si resta muti di fronte alla ostentazione di una pretesa «verità», che dovrebbe invece essere subito decostruita. I fondamentalismi religiosi tentano infatti di separarsi dalla cultura di provenienza. Mentre il Corano, come i Vangeli, come la Torà, richiedono interpretazione.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » mer gen 06, 2016 8:36 pm

Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 201&t=2138

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0521202715

https://it.wikipedia.org/wiki/Charlie_Hebdo
https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato ... rlie_Hebdo
L'attentato alla sede di Charlie Hebdo è stato un attacco terroristico avvenuto il 7 gennaio 2015 contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi. Nell'attentato sono morte dodici persone e undici sono rimaste ferite.
Si è trattato dell'attentato terroristico col maggior numero di vittime in Francia dopo l'attentato multiplo del 13 novembre 2015 al teatro Bataclan, allo Stade de France e a tre ristoranti parigini, in cui hanno trovato la morte 130 persone e quello del 1961 per opera dell'Organisation armée secrète durante la guerra d'Algeria, che causò 28 morti. Dopo il primo attentato, il 9 gennaio un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone. Durante gli eventi seguenti all'attentato sono morte in totale otto persone: i due responsabili, il complice di Porte de Vincennes, quattro ostaggi di quest'ultimo e una poliziotta, portando così il totale a venti morti.
L'attentato è stato rivendicato da Al-Qāʿida nella Penisola Arabica (o Ansar al-Sharia), branca yemenita dell'organizzazione stessa.

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... harlie.jpg


Charlie Hebdo, «L'assassino è ancora libero»: polemiche per la copertina dell’anniversario della strage
di Ida Artiaco
Lunedì 4 Gennaio 2016,

http://www.ilgazzettino.it/esteri/charl ... 61663.html

Mitraglietta sulle spalle, vestiti pieni di sangue e sguardo spaventato mentre cerca di scappare. È un dio generico, di tutte le religioni, quello che è rappresentato sulla copertina del nuovo numero di Charlie Hebdo, il giornale satirico francese vittima della furia omicida jihadista lo scorso gennaio. Sarà in edicola a partire da domani, esattamente nel giorno dell’anniversario della strage in cui persero la vita dodici persone, tra cui il direttore Charb.

Il titolo dell’ultimo numero è quanto mai provocatorio: “Un anno dopo l’assassino è ancora in libertà”. L’autore del disegno che farà di sicuro discutere è Riss Laurent Sourisseau, attuale numero uno del giornale e tra i feriti dell’attentato. Nell’editoriale di apertura ribadisce la difesa della laicità e attacca ancora una volta “i fanatici abbruttiti dal Corano” e “i bigotti appartenenti ad altre religioni”. Dopo aver ricostruito la scena che si è trovato davanti agli occhi quel 7 gennaio 2015, lo stesso Riss si chiede: “Come continuare a fare il giornale? A darci la forza è stato tutto ciò che avevamo costruito in 23 anni. Non saranno due incappucciati a mandare all’aria il lavoro di tutta la nostra vita. Non saranno loro a far crepare Charlie. È Charlie che li vedrà crepare”.

Il numero avrà una tiratura di un milione di copie, di cui decine di migliaia sono già prenotate all’estero. In particolare, la domanda è risultata altissima in Germania: oltre ai 180mila abbonamenti, il giornale vende già attualmente 100mila copie in edicola, 10mila della quali fuori dalla Francia. All’interno ci saranno una raccolta dei disegni dei vignettisti uccisi dai jihadisti e i contributi di varie personalità del mondo della cultura.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » mer gen 06, 2016 8:44 pm

«È una spia»: uccisa a Raqqa la giornalista che sfidava l'Isis
Raqia Hassan 30 anni, scriveva in Rete utilizzando lo pseudonimo di Nissan Ibrahim. Denunciava le condizioni di vita nella roccaforte dei miliziani islamici. Nei mesi scorsi aveva scritto: «Ho ricevuto minacce di morte, l'Isis mi arresterà e ucciderà»
di Annalisa Grandi
http://www.corriere.it/esteri/16_gennai ... 2f89.shtml

«Mi taglieranno la testa»

«Sono a Raqqa e ho ricevuto minacce di morte, ma quanto l’Isis mi arresterà e ucciderà sarà tutto ok, perché loro mi taglieranno la testa e io ho la dignità. Meglio che vivere sotto l’umiliazione di Isis» aveva scritto qualche tempo fa su Facebook. E ancora, a luglio, scriveva: «Avanti tagliateci internet, i nostri piccioni viaggiatori non se ne lamenteranno». Raqia aveva studiato all’università di Aleppo, e quando Isis aveva preso il controllo di Raqqa si era rifiutata di lasciare la città. Da allora, aveva continuato a scrivere, denunciando la condizione di civili nella città nelle mani dei jihadisti. Non solo, raccontava anche dei continui bombardamenti della coalizione internazionale. Da alcuni mesi si erano perse le sue tracce, la morte di Raquia potrebbe risalire al mese di settembre, come riferisce il Guardian, ma solo questa settimana è arrivata la conferma dagli attivisti del gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently, che aveva pubblicato anche i Tweet e i messaggi di Raqia. Nei giorni scorsi in un videomessaggio Isis aveva rivendicato l’uccisione di cinque giornalisti accusati di essere delle spie.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa

Messaggioda Berto » lun mar 07, 2016 11:40 am

No xe łe rełijon e łe fedi ke łe ne porta ła spirtoałetà parké ła spertoałetà ła xe na despoxision natural e ogniversal ca ghè xa ente ogni creadura come esensa de ła vida; łe fedi, i credi, łe rełixon łe xe lomè na enterpretasion, na deformasion, na manepołasion de ła spertołetà natural e 'nte sto senso łe xe tute pagane e eidołatre.

Non sono le religioni e le fedi che portano all'uomo la spiritualità, perché la spiritualità è una disposizione naturale e universale che c'è già in ogni creatura come essenza della vita; tutte le fedi, i credi, le religioni non sono altro che interpretazioni, deformazioni, manipolazioni della spiritualità natural e in questo senso sono tutte pagane e idolatre.
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