Venesia e ła rivołusion fransoxa - Ippolito Nievo
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DA CONFESSIONI DI UN ITALIANO DI IPPOLITO NIEVO
Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l'uno uguale all'altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell'umanità resteranno come i segni d'uno de' suoi principali rivolgimenti.
Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d'un sol popolo.
La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà che dopo aver lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile.
Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un'idea.
Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all'esperimento: fu essa chiamata il capo dell'umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, destreggiatrice, che sovente distrusse l'opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno.
A Venezia come in ogni altro stato d'Europa cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozii civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s'accorgevano del legame dei doveri.
Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall'altro.
Ma a Venezia meno che altrove gli animi eran disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d'averci trovato non uno stato ma una famiglia.
Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e d'esperienza che inducono l'obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d'altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora giunge il momento che i figliuoli cresciuti di forza di ragione e d'età hanno diritto d'uscir di tutela: quella famiglia nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà.
Venezia era una famiglia cosifatta.
L'aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell'ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sé al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro.
Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal cielo, accarezzate dal mare, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull'acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita.
Così nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnevali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare.
Al 18 Febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di Marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa.
Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre.
Viva e muoia a suo grado purché non turbi l'allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto: cotali erano í sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza. Con l'uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di Marzo Lodovico Manin : si affrettarono forse, perché le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima.
L'ultimo doge salì il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata.
Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine non avea mancato chi prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii.
Fors'anco i rimedii proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori.
Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore.
Non molti anni prima l'Avogadore di Comune Angelo Querini avea sofferto due volte la prigionia d'ordine del Consiglio di Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accapparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio.
La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l'indipendenza di una autorità semitribunizia, e tanto il valore e l'affetto consentitole; nessuno s'accorse o tutti finsero non s'accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo.
Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza.
Nel 1779 a tanto era scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva.
Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu così stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessarii cambiamenti.
Si nota in quelle discussioni, che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell'ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine.
Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un'autorità demandata.
I partigiani dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugii per tirar la cosa in lungo.
La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque corettori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito.
Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità.
«Io stesso,» aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano «io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. Se v'ha stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo ".»
Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l'inerzia, e il silenzio. Gli era un dire; se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso.
Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un'ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessarii negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perché i posteri compiangessero l'impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri.
Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani.
Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morir esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà.
Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso.
E questo sopportare senza risentirsi lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell'esiglio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l'esecuzione dei proprii decreti.
Cotale era l'ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano.
In verità, piuttostoché vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge, sarebbe stata opera più civile, prudente insieme e generosa, l'arrischiar di morire in qualunque altra maniera.
Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi.
Il dì medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati Generali, il 14 luglio 1788 ", l'ambasciatore Antonio Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi più opportuni da governarla.
Ma gli Eccellentissimi Savii gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza.
Bensì gli Inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l'imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio.
Il conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d'Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti.
Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l'Adda e l'Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile.
Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro.
Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti i governanti avevano in cuore l'indifferenza della disperazione.
In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d'impiccio, partendo da Venezia.
E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti.