I clandestini non producono PIL e non pagano le pensioni

I clandestini non producono PIL e non pagano le pensioni

Messaggioda Berto » dom ago 30, 2015 3:07 pm

I clandestini non producono PIL e non pagano le pensioni
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 194&t=1800

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I disoccupati non aumentano il PIL e non pagano le pensioni ai pensionati
È chiaramente una menzogna quello che raccontano certi fanfaroni che questi "migranti irregolari e nuovi disoccupati" possano contribuire con la loro disoccupazione ad aumentare il PIL e a pagare le pensioni dei pensionati.

https://www.facebook.com/groups/altridi ... 4596633885

Nella penisola italica a giugno 2015, secondo i dati ISTAT il 12,7% della popolazione era disoccupata.
Cosa significa?
Significa che tutti questi "migranti irregolari" che arrivano dal mare, sono persone disoccupate che vanno ad aggiungersi ai disoccupati già esistenti e a gravare sulle casse dello stato che è pieno di debiti da far paura e che strozza di tasse le genti italiche che lavorano.

Altri dati al 2012, ma oggi è ancora peggio:
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Tra questo 12,7% di disoccupati ve ne è una parte rilevante di stranieri residenti che hanno perso il lavoro che si trovano in cassa integrazione o in mobilità o sussidiati o senza alcuna assistenza.
Ed è a questa parte percentuale che vanno ad aggiungersi i nuovi migranti disoccupati bisognosi di assistenza a tempo indeterminato.

Disoccupazione marzo 2015 sale al 13%. In aumento anche quella giovanile: siamo al 43,1%
Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 30/04/2015

Il numero dei disoccupati è salito a quota 3 milioni 302mila.
http://www.huffingtonpost.it/2015/04/30 ... 78054.html

Continua a crescere la disoccupazione in Italia. A marzo il tasso di disoccupazione, secondo le stime provvisorie dell'Istat, è salito al 13% dal 12,7% di febbraio. Su base mensile la crescita è stata di 0,2 punti percentuali, mentre su base annua si è registrato un incremento di 0,5 punti percentuali.
Il numero dei disoccupati è salito a quota 3 milioni 302mila.

Parallelamente, continua a calare l'occupazione: a marzo - spiega l'Istituto di Statistica - gli occupati sono diminuiti di 59mila unità su base mensile. "È presto per vedere i risultati del Jobs Act", fanno notare i tecnici dell'Istituto spiegando che il provvedimento è entrato in vigore "il 6 marzo e per far ripartire il mercato del lavoro ci vuole tempo". In un anno si sono persi 70mila occupati. A marzo il tasso di occupazione è sceso al 55,5%. Dalla produzione "i segnali sono ancora deboli", hanno sottolineato i tecnici dell'istat e, dunque, "servirà più tempo per far ripartire il mercato del lavoro che permane in difficoltà".

In aumento anche il tasso di disoccupazione giovanile, che nel mese di marzo è salito al 43,1% rispetto al 42,8% di febbraio, rimanendo fra i livelli più elevati. Lo comunica istat, sottolineando che il numero dei giovani disoccupati mostra una lieve crescita su base mensile: 8mila in più, pari al +1,2%. A marzo, si sottolinea, si registrano variazioni di lieve entità rispetto a febbraio della partecipazione al mercato del lavoro dei giovani tra i 15 e i 24 anni. L'occupazione giovanile è sostanzialmente stabile nell'ultimo mese: il tasso di occupazione è pari al 14,5%. Il numero dei giovani inattivi è in calo dello 0,3% su mese (-11mila). Il tasso di inattività dei giovani tra i 15 e i 24 anni diminuisce di 0,1 punti percentuali, arrivando al 74,5%.

Tornando alla disoccupazione generale, a marzo i disoccupati aumentano su base mensile dell'1,6% (+52 mila). Dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio e la lieve crescita a febbraio, a marzo il tasso di disoccupazione sale ancora di 0,2 punti percentuali, arrivando al 13,0%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4% (+138 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,5 punti.

Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni mostra un lieve calo nell'ultimo mese (-0,1%), rimanendo su valori prossimi a quelli dei tre mesi precedenti. Il tasso di inattività si mantiene stabile al 36,0%. Su base annua gli inattivi diminuiscono dell'1,0% (-140 mila) e il tasso di inattivita' di 0,2 punti. Rispetto ai tre mesi precedenti, nel periodo gennaio-marzo 2015 risultano in calo sia il tasso di occupazione (-0,1 punti percentuali) sia il tasso di disoccupazione (-0,2 punti), a fronte di una crescita del tasso di inattivita' (+0,2 punti).
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » dom ago 30, 2015 3:09 pm

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I migranti che arrivano non hanno un lavoro e nella stragran maggioranza non possono trovarne uno perché il lavoro non c'è.
Il lavoro che viene loro offerto dalle associazioni assistenziali non è un vero lavoro produttivo, ma un lavoro assistito e finto che grava sulla casse pubbliche o sottrae di fatto il lavoro ai cittadini italici che si ritrovano disoccupati come nel caso di quel comune che anziché appaltare la pulizia delle strade alle imprese locali che impiegano lavoratori di quel comune l'affida a delle coperative che occupano questi "migranti irregolari e profughi".
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » dom ago 30, 2015 3:11 pm

Quanti sono i poveri in Italia
E cosa vuol dire, da un punto di vista economico e statistico, essere "poveri": i nuovi dati dell'ISTAT - 15 luglio 2015
http://www.ilpost.it/2015/07/15/quanti- ... -in-italia

Mercoledì 15 luglio l’ISTAT ha pubblicato un rapporto sulla povertà in Italia relativa al 2014. Dai dati risulta che il 5,7 per cento delle famiglie residenti in Italia si trova in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone: il 6,8 per cento della popolazione residente. Dopo due anni di aumento, l’incidenza della povertà assoluta si è mantenuta sostanzialmente stabile rispetto al 2013. Anche la povertà relativa risulta stabile e coinvolge, nel 2014, il 10,3 per cento delle famiglie e il 12,9 per cento delle persone residenti, per un totale di 7 milioni e 815 mila persone. Le persone più povere sono donne, minori, anziani e residenti al sud.

Cosa significano povertà assoluta e povertà relativa
Le stime diffuse dall’ISTAT provengono dall’Indagine sulle spese delle famiglie, che ha l’obiettivo di rilevare «la struttura e il livello della spesa per consumi secondo le principali caratteristiche sociali, economiche e territoriali delle famiglie residenti». In pratica vengono rilevate tutte le spese sostenute dalle famiglie residenti per acquistare beni e servizi destinati al consumo familiare: generi alimentari, utenze, arredamenti, elettrodomestici, abbigliamento e calzature, medicinali e altri servizi sanitari, trasporti, comunicazioni, spettacoli, istruzione, vacanze, e così via. Ogni altra spesa effettuata per scopo diverso dal consumo è invece esclusa dalla rilevazione (per esempio le spese legate al lavoro).

La povertà assoluta classifica quindi le famiglie in base all’incapacità di acquisire determinati beni e servizi che vengono considerati essenziali per vivere in modo minimamente accettabile. Viene misurata in base alla valutazione monetaria di quei beni e servizi che vengono considerati essenziali. L’ipotesi di partenza è che i bisogni primari e i beni e i servizi che hanno a che fare con i bisogni primari siano omogenei su tutto il territorio nazionale, tenendo però conto del fatto che i costi sono variabili tra le varie zone del paese. L’unità di riferimento è la famiglia, considerata in base alle caratteristiche dei singoli componenti. I bisogni primari sono divisi in tre aree: alimentare, abitazione, residuale. Hanno cioè a che fare con un’alimentazione adeguata, un’abitazione che deve corrispondere alla dimensione della famiglia, che deve essere riscaldata e fornita dei principali servizi, e una serie di altri parametri che hanno a che fare con il minimo necessario per vestirsi, comunicare, informarsi, muoversi sul territorio, istruirsi e mantenersi in buona salute.

Il valore monetario dell’insieme dei bisogni primari corrisponde alla soglia di povertà assoluta: la spesa minima necessaria per acquisire i beni e i servizi essenziali. La soglia di povertà assoluta varia in base alla dimensione della famiglia, alla sua composizione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza.

La misura di povertà relativa dà invece una valutazione «della disuguaglianza nella distribuzione della spesa per consumi e individua le famiglie povere tra quelle che presentano una condizione di svantaggio (peggiore) rispetto alle altre. Viene definita povera una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o pari alla spesa media per consumi pro-capite». La soglia di povertà, per una famiglia di due componenti, è pari alla spesa media per persona nel paese e si ottiene dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti. Nel 2014 questa spesa è risultata pari a 1.041,91 euro mensili. Per le famiglie formate da più di due persone viene utilizzata una scala di equivalenza.

Per entrambe le misure di povertà (assoluta e relativa), si ipotizza che le risorse familiari vengano condivise in modo equo tra tutti i componenti: «Di conseguenza gli individui appartenenti a una famiglia povera sono tutti ugualmente poveri».

Povertà assoluta
Nel 2014, 1 milione e 470 mila famiglie (5,7 per cento di quelle residenti) è in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone (6,8 per cento della popolazione residente). Tra loro: 1 milione 866 mila risiedono nel Mezzogiorno (il 9 per cento), 2 milioni 44 mila sono donne (6,6 per cento), 1 milione 45 mila sono minori (10 per cento), 857 mila hanno un’età compresa tra 18 e 34 anni (8,1 per cento) e 590 mila sono anziani (4,5 per cento).


Dopo due anni di aumento, l’incidenza è sostanzialmente stabile, anche sul territorio: 4,2 per cento al nord, 4,8 per cento al centro e 8,6 per cento al sud.

Migliora la situazione delle coppie con figli (tra quelle che ne hanno due l’incidenza di povertà assoluta è passata dall’8,6 al 5,9 per cento), e delle famiglie con a capo una persona tra i 45 e i 54 anni (dal 7,4 al 6 per cento); la povertà assoluta è diminuita anche tra le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione (dal 23,7 al 16,2 per cento), e questo perché sempre più spesso, rispetto al 2013, queste famiglie hanno al proprio interno occupati o ritirati dal lavoro.

Nonostante il calo (dal 12,1 al 9,2 per cento), la povertà assoluta rimane quasi doppia nei piccoli comuni del sud rispetto a quella rilevata nelle aree metropolitane sempre del sud (5,8 per cento). Al nord, invece, si è verificato un movimento contrario: la povertà assoluta è più elevata nelle aree metropolitane (7,4 per cento) rispetto ai comuni (3,2 per cento tra i grandi, 3,9 per cento tra i piccoli).

Tra le famiglie con stranieri la povertà assoluta è più diffusa che nelle famiglie composte solamente da italiani: 4,3 per cento nelle famiglie composta da italiani, 12,9 per cento per le famiglie miste, 23,4 per cento per quelle composte da soli stranieri. Al nord e al centro la povertà tra le famiglie di stranieri è più di sei volte superiore a quella delle famiglie di soli italiani, al sud è di circa il triplo.

L’incidenza di povertà assoluta scende all’aumentare del titolo di studio: se la persona di riferimento è almeno diplomata, l’incidenza (3,2 per cento) è quasi un terzo di quella rilevata per chi ha la licenza elementare (8,4 per cento). Infine: la povertà assoluta riguarda in misura marginale le famiglie con a capo imprenditori, liberi professionisti o dirigenti (l’incidenza è inferiore al 2 per cento), è al di sotto della media tra le famiglie di ritirati dal lavoro (4,4 per cento), sale al 9,7 per cento tra le famiglie di operai e raggiunge il valore massimo tra quelle con la persona di riferimento in cerca di occupazione (16,2 per cento).


Povertà relativa
Come quella assoluta, la povertà relativa risulta stabile e riguarda, nel 2014, il 10,3% delle famiglie e il 12,9% delle persone residenti, per un totale di 2 milioni 654 mila famiglie e di 7 milioni 815 mila persone. Tra loro: 3 milioni 879 mila sono donne (l’incidenza è del 12,5 per cento), 1 milione e 986 mila sono minori (19 per cento) e 1 milione 281 mila sono anziani (9,8 per cento).


Il Trentino Alto Adige (3,8 per cento), la Lombardia (4 per cento) e l’EmiliaRomagna (4,2 per cento) presentano i valori più bassi dell’incidenza di povertà relativa. A eccezione dell’Abruzzo (12,7 per cento), dove il valore dell’incidenza non è statisticamente diverso dalla media nazionale, in tutte le regioni del sud la povertà è più diffusa rispetto al resto del paese. Le situazioni più gravi sono in Calabria (26,9 per cento), Basilicata (25,5 per cento) e Sicilia (25,2 per cento).

La diffusione della povertà relativa tra le famiglie con a capo un operaio o simili (15,5 per cento) è decisamente superiore a quella osservata tra le famiglie di lavoratori autonomi (8,1 per cento), in particolare di imprenditori e liberi professionisti (3,7 per cento). I valori più elevati si trovano tra le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione (23,9 per cento).

Tra le famiglie con stranieri l’incidenza di povertà relativa è decisamente più elevata rispetto a quella delle famiglie composte da soli italiani: dall’8,9 per cento di queste ultime si passa al 19,1 per cento tra le miste e si arriva al 28,6 per cento tra le famiglie composte da soli stranieri. Le differenze tra italiani e stranieri sono molto più marcate nel Centro-Nord, anche se i livelli di povertà sono comunque più contenuti rispetto al Sud.

I quasi poveri
La classificazione delle famiglie in povere e non povere, ottenuta attraverso la soglia, è stata articolata utilizzando soglie aggiuntive. Risulta che il 5,6 per cento delle famiglie residenti in Italia è “appena” povero (cioè ha una spesa inferiore alla soglia di non oltre il 20 per cento). È “quasi povero” il 6,8 per cento delle famiglie (cioè ha una spesa superiore alla soglia di non oltre il 20 per cento) e il 3,3 per cento ha valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre il 10 per cento. Le famiglie “sicuramente” non povere, infine, sono l’82,9 per cento del totale, con valori pari al 90,7 per cento del Nord, all’88,2 per cento del Centro e al 67,6 per cento del Mezzogiorno.
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » dom ago 30, 2015 3:11 pm

Residuo fiscale
https://it.wikipedia.org/wiki/Residuo_fiscale

Il residuo fiscale è la differenza tra tutte le entrate (fiscali e di altra natura come alienazione di beni patrimoniali pubblici e riscossione di crediti) che le Pubbliche Amministrazioni (sia statali che locali) prelevano da un determinato territorio e le risorse che in quel territorio vengono spese.
Nel caso delle regioni il residuo fiscale è calcolato come differenza tra le tasse pagate (al netto di entrate regionali anche non fiscali a seconda di come viene calcolato) e la spesa pubblica complessiva ricevuta, ad esempio sotto forma di trasferimenti o in generali di servizi pubblici.

RESIDUI FISCALI COMPLESSIVI: LOMBARDIA IN ATTIVO RECORD PER 56,5 MILIARDI

Il Nord presenta un Residuo Fiscale attivo per quasi 95 miliardi di Euro, l’Italia centrale di 8, il Mezzogiorno un passivo di 63.

La Lombardia da sola ottiene un saldo attivo di oltre 56,5 miliardi, Emilia Romagna e Veneto circa 15.

Tra le regioni in passivo: Sicilia e Campania 16 miliardi, Puglia 12,5 e Calabria quasi 9 miliardi.

SALDI IN % SUL PIL: LOMBARDIA HA UN RESIDUO FISCALE RECORD PARI AL 17% DEL SUO PIL, IL MEZZOGIORNO UN PASSIVO DEL 17% DEL PROPRIO PIL

Il Nord presenta un Residuo Fiscale attivo dell’11% del PIL (la Germania è al 2% come saldo primario attivo), l’Italia centrale al 2,4%, il Mezzogiorno un passivo del 17%.

La Lombardia da sola ottiene un saldo attivo del residuo fiscale del 17% del proprio PIL, Emilia Romagna 11%, Veneto 10%.

Tra le regioni in passivo: la Calabria ha un deficit del 26% del proprio PIL, la Sicilia 19%, Campania e Puglia sul 17%.

SALDI PROCAPITE: OGNI LOMBARDO CEDE AL RESTO D’ITALIA QUASI 6.000 EURO, NEL MEZZOGIORNO OGNI CITTADINO RICEVE IN MEDIA TRA 3.000 E 4.000 EURO DI SPESA PUBBLICA IN PIU’ DELLE TASSE CHE PAGA

Il Nord presenta un residuo fiscale attivo di quasi 3.500 Euro pro-capite, l’Italia centrale 700, il Mezzogiorno un passivo di oltre 3.000 euro a testa.
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » dom ago 30, 2015 3:14 pm

Non si confondano i foresti residenti che lavorano con i clandestini, i disoccupati e i parassiti
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » lun ago 31, 2015 10:45 am

Le balle sugli immigrati: loro una risorsa? E' falso
L'inchiesta. Cifre alla mano, ecco perché impoveriranno ulteriormente l'Italia. I numeri su lavoro, pensioni e la super crescita demografica
06 Ottobre 2011
http://www.liberoquotidiano.it/news/lib ... -loro.html

In queste settimane il dibattito si infuoca attorno alla manovra economica e tutti hanno suggerimenti su dove e come ridurre le spese. Nessuno però dice mai di intervenire su una delle voragini che si inghiottono i soldi della comunità: l’immigrazione.
È stata abilmente fatta passare l’idea che gli immigrati siano una risorsa, una ricchezza, che siano quasi i soli a contribuire in positivo alle dissestate casse comuni. Sull’immigrazione è stata fatta una colossale opera di disinformazione.

I principali gruppi di motivazioni che vengono solitamente tirati fuori per giustificare l’immigrazione sono:

1) che i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni,
2) che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare,
3) che gli immigrati sono una risorsa economica,
4) che sono una ricchezza sociale,
5) che pongono rimedio alla nostra denatalità,
6) che abbiamo il dovere della solidarietà.

Vediamo di esaminare soprattutto i punti aventi incidenza economica, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa.

Il fenomeno è cruciale ma le informazioni per conoscerlo e governarlo sono approssimative. I soli dati ufficiali che si hanno a disposizione sono quelli che riguardano i regolarizzati. Restano vaghi i numeri di quelli appena arrivati o che vivono nel mondo dell’illegalità. Ci si deve perciò affidare principalmente alle informazioni della Caritas-Migrantes che, pur ricevendo finanziamenti pubblici, è una struttura privata che svolge i compiti che toccherebbero allo Stato, ma è anche e soprattutto una organizzazione di parte e questo non la aiuta a fornire le garanzie di imparzialità che la struttura pubblica, pur nelle sue lentezze e inefficienze, dovrebbe invece garantire. La Caritas è anche condizionata dalle sue scelte ideologiche, dal suo evidente schieramento a favore dell’immigrazione e dell’accoglienza a qualsiasi costo e condizione, oltre che dal non trascurabile dettaglio che proprio dall’ambaradan dell’immigrazione trae sostanziosi finanziamenti.

Secondo il Dossier statistico 2010 della Caritas-Migrantes, ci sarebbero in Italia all’inizio del 2010 4.235.000 stranieri residenti, o 4.919.000 considerando quelli non ancora iscritti all’anagrafe. Gli stranieri sono triplicati in un decennio e aumentati di quasi un milione nell’ultimo biennio. I clandestini sono stimati fra i 500 e i 700 mila, ma non è certo scorretto pensare che siano almeno il doppio. Si arriva perciò a una cifra di più di 6 milioni di persone (quasi l’11% della popolazione residente, uno straniero ogni 9 italiani), cui vanno aggiunti circa 500 mila naturalizzati italiani negli ultimi anni. Metà circa degli immigrati sono donne. Nel 2007 gli stranieri erano 3.690.000, il 5,6% della popolazione.

PAGANO LE PENSIONI?
Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si riproporrà anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che - come detto - il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale.

Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando - secondo la Caritas - gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere. Ci sarebbe così un saldo attivo di qualche miliardo. Occorre notare che il bilancio è migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia.

I DATI NON TORNANO
Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi.

I numeri non tornano. Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010) che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici. É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese.

di Gilberto Oneto
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » lun ago 31, 2015 10:50 am

Regaliamo agli immigrati la pensione sociale E loro tornano in patria a vivere come nababbi
Per la legge bisogna avere la residenza stabile in Italia. Ma gli immigrati si mettono in tasca i soldi e se ne vanno. E l'Agenzia delle entrate non può neppure controllare se sono davvero poveri
Matteo Carnieletto - Lun, 02/03/2015
http://www.ilgiornale.it/news/regaliamo ... 00608.html


Si godono la vecchiaia a casa loro, campando alle spese dello Stato italiano. Gli stranieri che ottengono l'assegno sociale e poi tornano nel proprio Paese sono sempre di più.

Anche perché è facile: basta una semplice autocertificazione. E anche se l'Inps scopre che qualcuno è scappato in patria, può farci poco o nulla.

Molto spesso gli immigrati conoscono la legge (e i suoi benefici) meglio degli italiani.
Sanno come aggirare le regole e come piegarle ai propri interessi. Accade anche con l'assegno sociale, una prestazione economica che viene concessa ai cittadini, italiani e stranieri, che si trovano in condizioni economiche particolarmente gravi. Il reddito annuo di chi lo richiede non deve superare 5.800 euro. Ottenerlo, soprattutto per gli stranieri, è abbastanza facile. Basta avere residenza stabile e abituale da dieci anni in un Comune italiano, essere titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, non superare la soglia di reddito richiesta e, ovviamente, avere compiuto 65 anni. Solo in Lombardia, come ci assicura una fonte dell'Inps, sono circa 5mila gli stranieri che hanno richiesto questo tipo di assegno. Gran parte di questi, però, una volta intascato il malloppo, è tornata nel proprio Paese d'origine, dove ha potuto condurre - anzi, conduce tuttora - una vita da nababbo alle nostre spalle.

Quando un italiano fa richiesta per poter ottenere l'assegno sociale, invece, scattano tutti i controlli di routine. Vengono setacciati i dati dell'Agenzia delle entrate, della Camera di commercio e dell'Inps e si verifica che chi ha richiesto l'assegno sia in regola. Con gli stranieri questi controlli sono tecnicamente impossibili perché non sempre all'estero - soprattutto nei paesi dell'Est Europa e del Nord Africa - esistono banche dati. La valutazione dei limiti di reddito di chi ne fa richiesta si basa quindi su una semplice (e incontestabile) autocertificazione. E quando l'Inps chiama gli stranieri a rapporto, ecco che arrivano le scuse più disparate: «Ho perso il passaporto», «non riesco più a tornare in Italia», «un mio parente è malato gravemente». Ma se c'è qualcuno che proprio non riesce a trovare i documenti per rientrare c'è anche, come ci racconta una fonte, chi ha più passaporti (italiano, straniero, rinnovato) e presenta all'Inps quello che conviene maggiormente, ovvero quello che non certifica l'espatrio. Se paragoniamo, poi, l'assegno sociale alle cosiddette «pensioni minime» si nota che chi usufruisce dell'assegno sociale - ovvero chi non ha lavorato o non è riuscito a versare contributi adeguati - prende all'incirca quanto chi ha lavorato tutta una vita e che, magari, percepisce la pensione minima: 448,52 euro contro 501. Poco più di 50 euro di differenza. A 70 anni scatta però la maggiorazione sociale e, così, la forbice si riduce ulteriormente. Per il 2013, per esempio, la differenza è stata di soli 13 euro.

Ma c'è un'altra beffa per i lavoratori italiani: la legge Fornero stabilisce che un uomo vada in pensione a 66 anni e 3 mesi. Ben un anno in più rispetto a quanto richiesto per l'assegno sociale. Significa che uno straniero che magari non abita nemmeno in Italia possa godere della pensione prima di un nostro connazionale.

Come tamponare questo enorme flusso di denaro? Si potrebbe usare la tessera sanitaria regionale, che ha sostituito il vecchio codice fiscale e che viene impiegata anche come carta nazionale dei servizi, da «strisciare» alla frontiera un po' come si fa quando si timbra il cartellino al lavoro. In questo modo si potrebbe attivare un sistema di allerta nei data base dell'Inps che, in automatico, bloccherebbero la prestazione assistenziale. Un'alternativa potrebbe essere introdurre l'obbligo del ritiro in contanti del denaro (solo per gli stranieri, sia chiaro) abolendo la possibilità di accrediti sui conti correnti bancari o postali, così da certificare mensilmente, con firma al ritiro, la dimora effettiva e abituale nello Stato italiano. Infine, una terza ipotesi: stilare un vademecum di controlli per gli uffici, in modo da sottrarre l'iniziativa al libero arbitrio dei funzionari e facilitare l'accesso alle (poche) banche dati esistenti. Intanto, però, il saccheggio continua.
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » lun ago 31, 2015 10:53 am

L'ultima sentenza di Mattarella: pensione d'invalidità anche agli immigrati senza carta di soggiorno

Spunta l'ultimo atto di Mattarella da giudice costituzionale: lo Stato deve pagare la pensione di invalidità agli immigrati anche se non hanno la carta di soggiorno
Sergio Rame - Dom, 01/03/2015
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 00541.html
"Agli stranieri senza carta di soggiorno, ma legalmente presenti in Italia, non può essere negata la pensione di invalidità, in particolare se questa è grave come la cecità".

Tra i firmatari della sentenza numero 22 depositata il 27 febbraio ci sono Sergio Mattarella e Giuliano Amato. Il relatore era Paolo Grossi. La decisione della Corte costituzionale, che risale al 27 gennaio, è l'ultimo "atto" da giudice della Corte costituzionale del neo presidente della Repubblica. La chiamata al Quirinale è, infatti, arrivata il 13 gennaio, quattro giorni dopo appunto.

Come racconta Libero, prima di lasciare la Consulta, Mattarella ha sentenziato che è discriminante (e, quindi, incostituzionale) escludere da prestazioni assistenziali, come l’indennità di accompagnamento, gli immigrati anche quando questi sono sprovvisto della carta di soggiorno, un particolare permesso di soggiorno a tempo indeterminato che può essere richiesto solo da chi possiede un permesso in corso di validità da almeno cinque anni. La Consulta accogli così il ricorso alla Corte d’appello di Bologna di un cittadino pakistano che nel 2009 si era appellato al tribunale di Reggio Emilia per vedersi riconosciuto il diritto alla pensione ed all’indennità di accompagnamento in quanto "cieco civile con residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi". L’Inps si era opposto perché, sebbene fosse legalmente in Italia, all'immigrato mancava la carta di soggiorno.

Con la sentenza firmata anche da Mattarella, la Consulta stabilisce che anche gli immigrati senza la carta di soggiorno hanno non solo diritto alla pensione ma anche alle indennità accessorie. La vicenda apre ora una voragine. Quanti sono, infatti, gli stranieri senza carta di soggiorno, ma legalmente presenti in Italia, che nei prossimi mesi faranno domanda all'Inps per godere della pensione di invalidità? Non solo. C'è, infatti, un atro problemino: non è necessario che sia stata contratta o diagnosticata in Italia. Quanto costerà questo scherzetto alle casse dell'istituto di previdenza? La sentenza potrebbe incidere pesantemente sui conti già traballanti dell’istituto pubblico.
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » mar set 01, 2015 1:40 pm

???

I migranti invisibili che vengono dal futuro

http://www.limesonline.com/i-migranti-i ... turo/83135

Immagine
[Carta di Laura Canali]

22/07/2015

Tendiamo a concentrarci su paese di provenienza e di arrivo, dimenticando che durante il viaggio chi è in transito non smette di essere umano.
di Lorenzo Declich

Ultimamente gli Stati costruiscono muri, li allungano o li rinforzano. Ma costruire muri, corredarli di strumenti di controllo sempre più sofisticati (guardie armate, telecamere, rilevazione satellitare) o dotarli di mezzi particolarmente crudeli di dissuasione (fossi, fili spinati, lame) ha un’utilità ridottissima.

Come rilevato qualche anno fa dai ricercatori di L’Espace Politique, i muri non fermano i flussi di migranti. Li deviano, casomai, spesso in maniera non permanente. Soprattutto: i flussi non cambiano in relazione all’erezione o al rafforzamento dei muri. È la sorgente – una nuova guerra, la nuova fase di una vecchia guerra, una carestia, l’acuirsi di condizioni climatiche sfavorevoli – a determinarne la portata.

I muri, d’altra parte, hanno una funzione simbolica: sono segnali politici. Ricordano ai governanti dei paesi confinanti che c’è un’entità nazionale non disposta, per motivi vari, al dialogo o alla cooperazione sul tema delle migrazioni. Annunciano ai cittadini la volontà di risolvere con metodi decisi e definitivi “il problema”.

Se i muri reali sono prima di tutto simboli, nella lingua – lo spazio simbolico per eccellenza – troviamo diversi muri lessicali che separano noi dai migranti ovvero coloro che, in questo mondo, devono peritarsi nell’arte di superar barriere. Lo racconta Franco Mezzadra nel suo Il lessico sulle migrazioni alla prova dei fatti e della soggettività. Il ricercatore osserva che «troppo spesso i termini “illegale”, “economico”, “umanitario”, “volontario”, “forzato” non tengono in considerazione elementi fondamentali che sottostanno alla base della scelta migratoria e che uniscono in un continuum paesi di partenza e paesi di destinazione, secondo quelle logiche di globalizzazione che ci obbligano a ridefinire concetti e divisioni non più utili a comprenderne la reale portata.»

Immaginiamo una persona che parte e appendiamo su di essa un’etichetta che serve quasi soltanto a determinarne i destini nel luogo d’arrivo (che al momento della partenza è spesso indefinito, immaginato, desiderato). Non vediamo questa persona durante il viaggio. Stabiliamo chi sia in base a cosa succede nel luogo di partenza (ad esempio una guerra) e nel luogo di arrivo (ad esempio un’ondata di sbarchi), ma non le diamo uno status giuridico “durante il tragitto”.

Così la rendiamo invisibile per giorni, mesi o anche anni. La rendiamo vittima designata. Il muro lessicale, che trova spazio infinito nei media o nelle schermaglie politiche, nasconde dunque una grande ipocrisia. Soprattutto, ha una corrispondenza nel mondo reale: a quel lessico corrispondono regolamenti, procedure, trattamenti a causa dei quali le organizzazioni umanitarie incontrano sempre maggior difficoltà nel raggiungere e nell’aiutare le persone. Gli ordini di problemi, per quelle organizzazioni, sono essenzialmente due: informativo e logistico. Risolvere il primo significa sapere cosa si ha di fronte, una realtà per sua natura mutevole.

“Ci sono sempre più persone in movimento”, dice la mia fonte, “ma quello che è cambiato davvero sono le percezioni e le consapevolezze di chi decide di muoversi. I conflitti ci sono sempre stati, alcuni si sono accesi, altri si sono spenti, altri sono rimasti tali per tanto tempo. Quello che è cambiato è la coscienza del migrante che, anche in ragione del fatto che non vede la possibilità di un ritorno o una speranza nel luogo in cui si trova, ha maturato l’opzione di migrare verso luoghi più sicuri”.

I flussi cambiano. Rotte fino a ieri frequentate, ad esempio quella dell’Africa Occidentale che termina in Spagna (via Canarie, dove i migranti rimangono per mesi, o via Melilla, attraversando il Marocco), registrano oggi numeri bassi – anche in questo i muri falliscono: non servono più a nulla. Nuove rotte, ad esempio quella dei profughi afghani per il Mar Nero via nave verso Bulgaria e Romania, diventano progressivamente più importanti.

Zone più calde, come la Libia, sono in assetto perennemente variabile. Qui i siriani non vanno più a causa della mancanza di sicurezza (i siriani che fanno “il viaggio” generalmente hanno possibilità economiche relativamente buone e intendono rischiare il meno possibile) e perché il Libano ultimamente non rilascia più visti ai siriani per fare il tragitto Marocco-Libia.

In mezzo ci sono i trafficanti ma, soprattutto, gli Stati. Nei paesi di origine e transito si determinano situazioni sempre diverse: migranti e appunto trafficanti vi si adattano. Dovendo seguire le vicissitudini dei diversi paesi, anche gli aiuti devono essere portati in maniera di volta in volta diversa, vanno riconfigurati continuamente. Senza contare l’influenza delle politiche di accoglienza dei paesi di arrivo: “In Italia e in Grecia, ad esempio, Dublino III non viene quasi applicato e quindi i migranti, diretti altrove in Europa, hanno quei paesi come primo obiettivo”. Anche gli strumenti per monitorare i flussi segnano il passo: le varie fonti ufficiali (Unhcr, Frontex, governi) li suddividono in base a tipologie di arrivi (migranti “economici”, richiedenti asilo…) che spesso tuttavia non tengono conto degli “invisibili” ovvero di quelle categorie di migranti che i paesi di transito non “vedono” perché non vogliono vedere.

Per incontrare gli invisibili, che spesso sono maggioranza, bisogna far ricorso agli attivisti, alle organizzazioni umanitarie che lavorano, con maggiore o minore riconoscimento da parte dei paesi che le ospitano, a livello locale. E soprattutto al network che si crea fra i migranti stessi, che sono al corrente delle situazioni che incontrano e spesso danno le informazioni più affidabili.

I flussi vanno ricalcolati in base a queste fonti non istituzionali. Di qui la necessità, non rilevata dalle istituzioni, di avere i migranti stessi come fonte di infomazione: “Una volta realizzato che i dati ufficiali non sono realistici si è dovuto procedere a nuove metodologie per estrarre numeri e dati”, altrimenti “perdi il contatto con la situazione reale … una delle cose più importanti da fare se si vuole lavorare per le persone in movimento è proprio la creazione di un network: le agenzie ufficiali hanno presa sulle istituzioni e forse sull’opinione pubblica ma non fotografano bene la situazione… volendo davvero portare aiuto si deve far ricorso a fonti non istituzionali, il network è centrale”.

I nodi vengono al pettine. Arriviamo al problema politico: “I paesi di transito, in molti casi, possono essere interessati a speculare politicamente sulla presenza di migranti in viaggio e quindi la creazione di questo network diventa più difficile, metterlo in piedi rischia di compromettere le azioni di supporto o gli stessi partner locali che sono fondamentali per avere le informazioni ma anche per dare una continuità sostenibile al lavoro di supporto”. Il tutto mette a rischio i migranti stessi, quindi una strategia di basso profilo diventa necessaria ad esempio in Serbia, paese le cui “politiche migratorie rispetto ai non regolari, cioè rispetto a chi non chiede asilo in Serbia, sono molto dure”.

Un riflettore umanitario su queste “persone irregolari” le metterebbe in pericolo: “le arrestano, chiedono soldi per rilasciarle e viene dato loro un foglio di via valido 20 giorni, al termine dei quali vengono riarrestate”. Il risultato è che in Serbia i migranti devono essere invisibili per non incappare in questo sistema vessatorio, motivo per cui i numeri di Belgrado sono “completamente sballati”. Nonostante ufficialmente ci sia un aumento del 8-900% dei richiedenti asilo, la maggioranza dei migranti che passano nel territorio serbo non richiede asilo e vuole andarsene il prima possibile. In questo caso l’unica soluzione, per un’organizzazione che vuole aiutare i migranti, “è essere autonoma e indipendente politicamente, ridurre gli intoppi burocratici e istituzionali e cercare di garantire dignità a una maggioranza che vuole continuare a viaggiare, agevolando il più possibile la fase di transito”.

La Serbia è solo un esempio, neanche il peggiore. Quasi tutti gli attori umanitari coinvolti nelle migrazioni vengono pilotati verso coloro che richiedono asilo mentre tutti gli altri, che intendono dare supporto agli irregolari, vengono osteggiati. Molte piccole realtà non riescono a sopravvivere a questa “persecuzione” e la cosa è agevolata dal fatto che “non esiste per gli Stati la figura del migrante rifugiato che vuole andare da qualche parte, non c’è una figura giuridica per queste persone quindi nemmeno una legislazione che permetta di portargli aiuto, laddove queste sono le persone che invece hanno più necessità, sono i gruppi più vulnerabili e i più numerosi”. Insomma, la maggior parte dei fondi viene utilizzata per affrontare il problema conosciuto ma, oggi, più piccolo.

Si arriva al paradosso che organizzazioni umanitarie di tutti i livelli, dalla più grande e internazionale alla più piccola e locale, devono infrangere le leggi per garantire, per quanto possibile, aiuto ai migranti. Alla struttura “tradizionale” della gestione delle emergenze e di più ampi aiuti umanitari – una struttura ormai stabilizzata nei suoi problemi e nelle sue soluzioni – si aggiunge questo nuovo aspetto che pone una sfida completamente nuova sia dal punto di vista della logistica, che richiede nuovi approcci e una certa creatività – che dal punto di vista etico.

Se per avere informazioni è necessaria la costruzione di un network del tutto nuovo, immerso fin quasi alla gola nell’informale, per aiutare le persone in cammino ci vuole un mix fra abilità/scaltrezza operativa e creatività. Allo studio, ad esempio, c’è un numero telefonico unico e una app che permettano di trasmettere nel più breve tempo possibile le coordinate di chi è in viaggio.

Ma la vera nuova tecnologia dell’aiuto umanitario non è digitale: è un “kit di transito” il più possibile leggero che contiene beni primari di vitale importanza e di sopravvivenza. È configurato in ordine a questo scopo, in base alle rotte che il migrante deve affrontare, e deve adattarsi di volta in volta alle esigenze del passaggio in un particolare ambiente, in un particolare momento dell’anno, in una particolare fase politica.

È uno zainetto sempre più leggero, immaginato come “salvavita in cammino”. È anonimo, per eludere i controlli di chi, individuata l’organizzazione che lo fornisce, potrebbe impedire a questa di operare, espellerla dal paese, farle terra bruciata intorno, accusarla di “ingerenza umanitaria”. Contiene sempre prodotti per l’igiene personale con particolare attenzione agli inverni gelidi – i materiali liquidi si congelerebbero. Se per attraversare le foreste serbe d’inverno, dove la temperatura può scendere fino a meno 20 gradi, sono necessari un pasto caldo, un fuoco e una coperta isotermica, per affrontare l’estate greca, durante la quale i migranti transitano sulle isole prima di raggiungere i confini macedoni, i bisogni cambiano radicalmente: cibi e bevande energetiche, un sacco a pelo. Altra costante dello zainetto, essendo necessità primaria, è la presenza al suo interno di materiale informativo.

Nei kit la geografia entra nella forma di una mappa, la politica nella forma di depliant informativi di tipo legale, medico, logistico (soprattutto relativo alle possibilità di trasporto). Uno zainetto pesa dai 500 grammi ai 2 chili. Individuare i tempi e i luoghi della sua distribuzione è uno dei rebus da sciogliere: “Se quell’uomo o quella donna o quel bambino non esistono, come fai a salvavargli la vita dandogli un kit di sopravvivenza?”.

Qui ritorna l’importanza del network. Le distribuzioni possono avere logistiche e problematiche differenti in zone diverse di uno solo paese. Ai confini con la Fyrom, per esempio, per poter ricevere le distribuzioni i migranti devono uscire dalle foreste nelle quali si nascondono per sfuggire alla polizia greca. Le distribuzioni sono il più possibile “rapide, in assetto mobile, per non compromettere la sicurezza dei migranti”. Al contrario, nel contesto estivo del turistico Dodecanneso, “le autorità ti pregheranno di distribuire e fornire assistenza ai migranti per non generare un disordine che sarebbe evidente anche ai villeggianti”.

Lo zainetto è uno strumento povero, come il migrante. Ma può poco o nulla per risolvere l’altro grande problema della persona in viaggio: la salute mentale. Durante il cammino il migrante può perdersi, perdere l’obiettivo che lo ha spinto a partire o a fuggire. Può passare settimane, mesi, anni in stato di estrema prostrazione, subire detenzioni e torture. La salute mentale viene indicata come priorità dalla mia fonte, ma è qualcosa che “in viaggio” è davvero difficile curare. All’arrivo deve essere valutata attentamente.

I migranti non sono tutti uguali, anzi. Uno degli elementi che li differenzia è la “velocità di migrazione”. I percorsi migratori implicano in base al budget di ognuno e alle occasioni, alla fortuna, all’accesso alle informazioni, ai legami con altre persone che hanno fatto la stessa cosa o a familiari sparsi nel mondo, una “velocità” o “lentezza” che determina la loro vulnerabilità fisica e mentale. Ciò fa di loro degli “esperimenti”, delle “vite”, delle “persone” che non hanno identità classiche, come la nazionalità.

Il 7 maggio 2015 è andata in onda in simultanea su quattro canali televisivi la prima puntata di una serie di fantascienza prodotta da BBC Worldwide e Altremedia dal titolo Refugiados. Il mondo si sveglia un giorno e si trova davanti la più grande emergenza della storia: dal nulla si materializzano 3 miliardi di rifugiati. La tensione narrativa dell’intera puntata è tutta giocata sul fattore “caos” generato dall’invasione. Nella storia, subito drammatica, i rifugiati invadono un mondo ricco e tranquillo; non parlano, hanno paura, destabilizzano l’equilibrio di comunità piccole e grandi.

Le reazioni sono quelle che vediamo sempre più rappresentate nei media: c’è chi si mette ad aiutare, chi cerca di rimanere lontano dall’evento, chi pensa che si debba reagire con la forza e spazzare via il pericolo usando tutti i mezzi necessari. L’invasione avviene tutta d’un colpo, da un giorno all’altro, e i “normali cittadini” non possono che adeguarsi. Scopriamo la provenienza dei rifugiati alle prime battute. In una fattoria immersa nei boschi uno dei protagonisti – uno dei rifugiati – chiede aiuto a una famiglia composta da madre, padre e figlia. Alla domanda “chi sei?”, risponde: “Io non sono l’unico, siamo dovuti scappare per sopravvivere. Veniamo dal futuro”.

In un certo senso i migranti che arrivano oggi in Europa vengono dal futuro. Sono persone sulle quali si concentrano tutte le contraddizioni di un mondo che viaggia a velocità diverse. Sono vera, tangibile avvisaglia di un mondo globalizzato che è cambiato molto più velocemente e molto più in profondità di quanto non siano cambiate le istituzioni nazionali e internazionali che dovrebbero governarlo. E che si manifesta, per questo, in forme disordinate e imprevedibili.

Il migrante, che leggi e trattati codificano a stento, che tante persone vorrebbero invisibile o lontano, è in effetti un portatore di futuro. Un qualcosa che, volenti o nolenti, occuperà il campo molto più di quanto non faccia oggi ma del quale ci si interessa spesso nella forma peggiore possibile – inserendo il problema alla fine delle agende politiche, usando strumenti conoscitivi insufficienti e poi gestendo l’emergenza in relazione alle contingenze della propaganda politica.


???
Pochi si sono accorti che i migranti sono il più importante serbatoio al mondo di intelligence.
???
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Re: I dixocupai no produxe PIL e non łi paga łe pension

Messaggioda Berto » ven set 04, 2015 7:00 am

Il costo vero degli immigrati? Nessuno lo sa
venerdì 28 agosto 2015
http://blog.ilgiornale.it/porro/2015/08 ... suno-lo-sa

Aveva ragione un grande liberale come Sergio Ricossa che scriveva: Gli intellettuali di sinistra amano il popolo come astrazione, lo guardano dall’alto, da un palco. Oggi quelle lenti astratte con cui si guarda al popolo si chiamano austerity. In funzione della quale si sono commessi i peggiori crimini fiscali. Che si tratti di un’astrazione e del fatto che siamo osservati dall’alto, lo dimostra con tutta evidenza il caso della violenta ondata di immigrazione che l’Italia sta subendo. Facciamo un passo indietro. Abbiamo reintrodotto la tassa sulla prima casa poiché, si diceva, stavamo fallendo o in alternativa si affermava che eravamo gli unici a non averla. Si tollera un sistema di welfare sui più deboli e senza lavoro da terzo mondo, poiché c’è un vincolo di bilancio che non permette di avere la manica più larga. Si affrontano le emergenze, dalle frane ai recenti tornado in Veneto, con l’occhio attento del contabile.
Non siamo impazziti. Non amiamo la spesa pubblica e continuiamo a ritenere che lo Stato migliore sia quello minimo. Non vogliamo più spesa pubblica, per il semplice e banale fatto che siamo noi a finanziarla con le tasse. Per questo ci chiediamo una cosa semplice, aritmetica. Perché esiste, nel nostro paese, un vincolo di bilancio su tutto: dal welfare ai terremoti, e non esiste un tetto alla spesa per l’immigrazione? È banale, ma è mai possibile che nessun documento ufficiale, nessuna dichiarazione ministeriale ci ha mai fatto capire quanto l’Italia, complessivamente, ha messo a bilancio per affrontare il problema immigrati. In questo caso sembrano venire meno i medesimi vincoli di bilancio, che esistono per ogni altra attività pubblica. Il diritto da tutelare (l’accoglienza degli immigrati) è forse sovraordinato a tutti gli altri diffusi bisogni che oggi la collettività che paga le tasse sente suoi?
Perché la politica riduce tutto ad un dato ragioneristico e non altrettanto avviene sull’immigrazione? Ci hanno spigato che sanità, pensioni, stipendi, scuole, giustizia, polizia devono contenere le loro richieste entro limiti fissati. Esiste un confine economico alla spesa per l’accoglienza? Non porsi il problema è volerlo nascondere. Gli intellettuali dal loro palco ci diranno che siamo dei cinici economisti. In realtà ribaltiamo esattamente lo stesso ragionamento che essi ci fanno quando chiediamo di mettere un po’ di benzina nel motore di un’economia che non gira: se ogni attività pubblica oggi cade sotto la mannaia della dura legge dell’austerity perché ce ne è una al di fuori del ...
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