La granda menxogna de l'Onta Goera Mondial

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Messaggioda Berto » mar mag 26, 2015 7:23 am

La granda menxogna de l'Onta Goera Mondial
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... gna-kw.jpg


La grande menzogna” della Prima guerra mondiale
Cento anni fa l'Italia entrava in guerra al fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali. Una scelta che ha segnato per sempre i destini del nostro Paese.
Ne parliamo con tre studiosi, due giornalisti (Valerio Gigante e Luca Kocci) e uno storico (Sergio Tanzarella), autori di un bel volume, critico, dal titolo La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla I guerra mondiale, Ed. Dissensi, Viareggio 2015. (http://www.dissensi.it)

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... refresh_ce

23 maggio 2015

Il 24 maggio, nel nostro Paese, si fa “memoria” dei cento anni dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo grande conflitto mondiale. Tutti i protagonisti sono morti: vittime e carnefici. Ma non è morta la retorica “nazionalista” che mistifica, ancora oggi, la verità. L’ufficialità afferma che la “grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese, perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti gli italiani” (così l’allora sottosegretario Paolo Peluffo)”. Una tesi vuota e stantia. Al quale voi, nel vostro libro, replicate che questa è la “grande menzogna”. Perché?

Valerio Gigante:
Si tratta di contrapporre ad un’ideologia e ad una retorica funzionale a trasmettere l’idea di una storia nazionale senza cesure e contraddizioni, vissuta nell’ottica dell’unità di intenti e della ricerca di una fantomatica unità, o “bene comune” (che il nazionalismo e l’idea di patria spesso suggeriscono), interclassista e irredentista, un approccio critico, che dia consapevolezza a chi non ha vissuto quegli eventi, ma ne è figlio sia per storia familiare che collettiva, che quella guerra ha drammaticamente segnato l’immaginario, la cultura, la politica e la storia del nostro Paese. E che ha inciso la carne stessa delle centinaia di migliaia di vittime, mutilati, feriti, prigionieri (terribile fu la sorte dei prigionieri italiani, che non ebbero dal nostro governo alcun sostegno materiale, perché considerati vili o disertori). La guerra ha colpito chi l’ha combattuta allo stesso modo delle famiglie a cui queste persone sono state sottratte per essere restituite cadaveri, o non essere restituite affatto; o restituite a volte con devastazioni fisiche e psicologiche inimmaginabili. Perché nella I guerra mondiale tutti gli strumenti di distruzione disponibili (gas, mitragliatori, aerei, artiglieria, lanciafiamme, proiettili dum-dum, sommergibili) furono utilizzati su larga scala e senza limiti.

Veniamo alla guerra. Ancora oggi non sappiamo, se non in modo approssimativo, i numeri dei morti, dei feriti, dei civili deceduti (direttamente e indirettamente a causa della guerra), dei prigionieri abbandonati dall’Italia, dei soldati impazziti al fronte. E’ possibile dare qualche cifra?

Luca Kocci:
In effetti i numeri non si conoscono con precisione, e già questo dà il segno della brutalità e della violenza della guerra. Secondo gli studi più attendibili, durante i 5 anni di guerra, su un totale di 74 milioni di soldati mobilitati dai Paesi belligeranti, vi furono complessivamente 10 milioni di morti (e dispersi), 21 milioni di feriti – fra cui 8 milioni di mutilati ed invalidi, quindi feriti permanenti – e 8 milioni di prigionieri su tutti i fronti. Per quanto riguarda l’Italia – e anche qui i numeri sono incerti, molto probabilmente sottostimati rispetto alla realtà – si contano oltre 650mila morti, di cui 400mila al fronte, 100mila in prigionia e i restanti a causa di malattie contratte durante la guerra. Inoltre in 500mila tornarono dal fronte mutilati, invalidi o gravemente feriti e oltre 40mila con gravissime patologie psichiche dopo anni di trincea.

L’entrata in guerra fu anche un “grande affare” per i gruppi industriali italiani che ha alimentato la grande truffa delle spese di guerra. Episodio, questo, totalmente occultato. . Un ignobile arricchimento fatto sulla pelle delle migliaia di italiani mandati a morire. Come si è sviluppata questa truffa? Chi sono stati i responsabili rimasti impuniti?

Sergio Tanzarella:
Si trattò allora della prova generale della corruzione sistemica che avrebbe caratterizzato il nostro Stato. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra fortemente voluta da Giolitti raccolse, seppure a fatica, una documentazione imponente. Non ci fu un settore delle commesse di guerra che non fosse stato coinvolto dalla corruzione. Fatture pagate per materiali mai consegnati o solo in parte consegnati, fatture pagate due volte, forniture di materiali di pessima qualità e, finita la guerra, riacquisto a bassissimo costo di quanto non era stato nemmeno consegnato. La guerra costò in alcuni settori anche il 400% in più del dovuto, si può ben comprendere con che danno irreparabile per la casse dello Stato. Un debito enorme che l’Italia si sarebbe trascinata per decenni fin dentro la vita repubblicana. La cattiva qualità delle forniture provocò disagi gravissimi dagli armamenti fino alle stoffe delle divise che avide d’acqua ghiacciarono negli inverni di trincea o alle scarpe che duravano in media da 4 giorni a 2 mesi.

La guerra si trasformò in una colossale truffa per lo Stato. Anche l’acquisto di quadrupedi negli Stati Uniti divenne occasione di corruzione, gli ufficiali addetti comprarono a caro prezzo migliaia di cavalli e di muli di età veneranda, pronti a morire ancora nel viaggio di consegna. La commissione fu di fatto neutralizzata da Mussolini, intanto arrivato al potere, e i risultati dei suoi lavori sconosciuti e inapplicati. L’industria italiana che tanto aveva sostenuto gli interventisti trasse profitti illeciti ed enormi. Fra le industrie più note l’Ansaldo che fatturò due volte e si fece pagare due volte una intera fornitura di cannoni o l’Ilva che aveva investito centinaia di milioni per finanziare la stampa nazionale e locale perché creasse nell’opinione pubblica un clima di complessivo consenso alla guerra.

La guerra è stata “preparata” anche dall’opinione pubblica di allora. Una enorme macchina propagandistica al servizio della politica interventista. Poche sono state le voci critiche. Chi si è distinto in questo è stato è stato il Pontefice Benedetto XV. Un profeta inascoltato…E’ così?

Valerio Gigante:
Tra la fine del 1914 e il maggio del 1915, in pochi mesi l’Italia passò dal più convinto neutralismo al più acceso nazionalismo. Trascinando gran parte dell’opinione pubblica su posizioni belligeranti. Un risultato del genere non può che essere attuato attraverso una capillare organizzazione del consenso, una delle prime attuate in maniera così sistematica e capillare in Italia, che coinvolgeva scrittori e testate giornalistiche, riviste letterarie e singoli intellettuali. Una circostanza che dovrebbe far riflettere sull’efficacia della propaganda nelle società di massa. All’interno di questo panorama culturale, intellettuale e anche religioso di sostanziale esaltazione, o almeno di acritica accettazione della guerra, emerge la figura di Benedetto XV…

Sergio Tanzarella:
...il quale ebbe il coraggio di esprimere da subito una condanna totale e ferma nei confronti della guerra di cui intuì le straordinarie capacità mortifere. Le righe da lui dedicate alla guerra nella sua prima enciclica del 1° novembre 1915 Ad beatissimi sono di una chiarezza esemplare. Scontentò tutti con questa posizione e ancor più con le proposte di pace o almeno di armistizio che più volte concretamente avanzò. Nessuno le prese in considerazione e per questa sua posizione fu condannato alla cancellazione nella storia del ’900 tanto che possiamo definirlo il papa sconosciuto. Ma non si limitò soltanto alla condanna e alla possibilità di tregua, armistizio e pace, promosse forme di assistenza ai prigionieri di guerra e di collegamento e informazione tra prigionieri e famiglie. Un’opera silenziosa e preziosa soprattutto quando l’Italia decise di abbandonare i propri militari prigionieri considerandoli disertori.

Nel vostro libro analizzate anche la figura molto controversa di Padre Agostino Gemelli. Un frate totalmente asservito alla propaganda guerrafondaia. Qual era il suo ruolo?

Sergio Tanzarella:
Gemelli era capitano medico assegnato al Comando Supremo. In quel ruolo fu uno dei più ascoltati consulenti di Cadorna. Come psicologo si propose di trovare i modi per abbassare ogni forma di resistenza tra i soldati rispetto alla morte che li attendeva negli inutili assalti. Alla stessa morte Gemelli attribuiva una valenza religiosa in grado di convincere i fanti che si trattava della condivisione con la missione salvifica del Cristo. Gli articoli di Gemelli di quegli anni e il suo libro Il nostro soldato sono un’abominevole raccolta di pensieri raccapriccianti dove la fede viene posta a servizio di una causa di morte. Gemelli scriveva che la conversione del soldato si realizzava sul letto dell’ospedale prima di morire, ma era cominciata al fronte e ad essa aveva dato un contributo decisivo una singolare forza di catechesi, la catechesi del cannone. Pertanto la guerra era compresa come provvidenziale occasione di rinascita cristiana. Gemelli fu molto abile a preparare un intruglio di edificazione-rassegnazione di fronte alla catastrofe della guerra offrendo ad essa una mistica consolatrice come quando scrive: «Per noi che rimaniamo, per le spose, per le madri, per i figli, per le sorelle, per gli amici, per i compagni d’armi, per quanti siamo in lutto in queste giornate di prova la morte dei nostri giovani è ragione di conforto. Essi hanno accettato di morire, perché hanno sentito la bellezza cristiana del sacrificio per la patria. Essi hanno fatto di più: hanno fatto risuonare nella morte questa dolce voce della speranza cristiana che consola, che rende forte, che sprona al sacrificio, che ci fa degni insomma dell’ora della prova che oggi viviamo»

Altra figura negativa è stata quella del generale Cadorna (insieme al Comando supremo). In cosa si è “distinto”?

Sergio Tanzarella:
Dal punto di vista strategico per la totale incompetenza a comprendere le caratteristiche della nuova guerra dove gli assalti ripetuti alle trincee nemiche erano destinati al totale fallimento, le nuove armi permettevano di difendere le trincee dalle ondate di fanti che egli mandava incurante a morire. Una scelta folle che mostrò progressivamente il totale disprezzo che aveva per la vita umana. Ma l’incapacità strategica apparve sin da subito quando, dichiarata la guerra da parte italiana, Cadorna temporeggiò tanto da lasciare agli austriaci tutto il tempo di rinforzare le fortificazione fino a renderle inespugnabili. A questo si accompagnò il ben più grave sistema repressivo per costringere con ogni mezzo i soldati ad andare a morire. Qualsiasi dubbio sulla guerra e ogni forma di protesta fu repressa nel sangue con processi farsa, con sentenze che ebbero immediata applicazione, con tribunali speciali fino alle esecuzioni sul posto (lasciando ai comandanti totale arbitrio di vita e di morte nei confronti dei sottoposti). Altro sistema largamente diffuso furono le decimazioni tra i soldati fortemente volute da Cadorna per instaurare un regime di terrore nella truppa. Cadorna era un cattolico devoto e assunse questo ruolo di spietato carnefice come personale missione a servizio della guerra. L’obbedienza cieca divenne elemento della una mistica di guerra nella quale il campo di battaglia e di morte divenne il luogo del pericolo e dell’onore.

Altro inganno fu la propaganda costruita sulla Vittoria. Perché?

Luca Kocci:
Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati. Infatti i nuovi monumenti ai caduti spesso abbandonano le connotazioni troppo veriste per assumere quelle dei guerrieri nudi della classicità, rafforzando così i tratti eroici e trasformando il soldato-contadino in fante-guerriero, attorniato da fasci littori, scudi e daghe. A partire dal 1928, poi, il regime vieta la costruzione di monumenti di iniziativa locale e attribuisce al governo centrale la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il nuovo sacrario militare di Redipuglia – che sostituisce il precedente Cimitero degli invitti che a Mussolini non piaceva proprio perché poco eroico – è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei “martiri fascisti”, a cui quindi vengono equiparati i caduti della I guerra mondiale.

Ultima domanda: Quel conflitto è stato un orrore, tutta la tecnologia di allora asservita alla macchina infernale della guerra, eppure viene “celebrato”. A cento anni di distanza lo spirito critico fatica ad emergere. Come costruire una nuova memoria storica?

Valerio Gigante:
Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della I guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre. È per questa ragione che oggi l’ideologia dominante celebra ancora il falso “mito” della I guerra mondiale. Per rendere le masse più disponibili ad accettare come l’orizzonte della guerra esista ancora. Che esso faccia in qualche modo parte del nostro Dna. Che non è bella, ma a volte è necessaria. Va invece suscitato – ed il nostro libro si pone appunto questo obiettivo – un orrore lucido e razionale nei confronti di quella guerra come di tutte le altre, un orrore generatore di pensiero e non unicamente emotivo – nei confronti della “grande menzogna” che continua anche oggi. Certo, la memoria è corta. E la storia non ha quasi mai insegnato nulla a chi l’ha studiata distrattamente, accontentandosi di attingere al senso comune ed alle fonti di “sistema”. Ma l’esercizio critico è una delle (poche) armi che ancora abbiamo a disposizione se non per trasformare la realtà almeno per comprenderla, che è poi la pre-condizione per tentare di cambiarla
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Re: La granda menxogna

Messaggioda Berto » mar mag 26, 2015 8:11 am

L’entrata dell’Italia nella Grande Guerra? Fu un colpo di Stato
L’opinione pubblica era contraria, Giolitti pure. Come mai allora entrammo in guerra?


23/05/2015
Giacomo Properzj
http://www.linkiesta.it/intervento-ital ... o-di-stato


Per quali ragioni un Paese in pace, appena uscito da una guerra che gli aveva vuotato le casse e i magazzini, afflitto da una crisi finanziaria, con un Parlamento a larghissima maggioranza contrario all'intervento in guerra, così come l'opinione pubblica; per quali ragioni questo Paese, l'Italia, si trovò a partecipare ad una guerra europea di enorme portata militare? Una guerra in corso già da quasi un anno, per di più, in cui si potevano constatare sul fronte francese e su quello polacco già un milione di morti tra i contendenti, nuove e terribili armi a disposizione delle milizie, spese enormi per il mantenimento delle operazioni.

Alla base di questa scelta c’è il problema storico e politico che caratterizza non solo l'intervento dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale, ma anche le seguenti involuzioni della politica italiana dopo la guerra: la scomparsa dello spirito liberale e risorgimentale, il Fascismo, la distruzione morale e materiale del Paese nella Seconda Guerra Mondiale, la rinascita sotto altre vesti che più poco avevano a che fare con il Risorgimento nazionale, la lunga e quasi inarrestabile decadenza politica e culturale a cui le nostre generazioni hanno assistito. Tutto questo ha inizio con la forzatura, qualcuno dice “colpo di stato”, con cui l'Italia fu portata a partecipare alla Grande Guerra.

All'inizio, subito dopo lo scoppio della guerra nell'agosto del '14, solo partiti marginali e poco rappresentativi, come i nazionalisti e i repubblicani, chiesero l'intervento, peraltro su fronti opposti, poiché i nazionalisti erano per confermare la Triplice Alleanza, mentre i repubblicani per la conquista dei territori irredenti in Austria.

Poi, per strade sottotraccia, l'interventismo si sviluppò ed ebbe in ottobre una forte sua affermazione con la nascita del Popolo d'Italia e la secessione di Mussolini dai socialisti, l'azione provocatrice e goliardica dei futuristi, l'aggregazione a questo fronte di formazioni di estrema destra come i nazionalisti e di estrema sinistra come una parte degli anarchici e i sindacalisti di Filippo Corridoni.

Pochi ufficiali non potevano tenere a bada molti proletari armati a cui la divisa non avrebbe tolto lo spirito rivoluzionario, pensava giustamente Lenin.

Già, i rivoluzionari. Il motto era “Guerra o rivoluzione!” e voleva dire che queste forze politiche, espressione di una cultura soreliana e vitalistica, pensavano che attraverso la guerra sarebbe potuta nascere una rivolta. Anche nel suo esilio svizzero, Lenin aveva la stessa idea, ricordava il tentativo rivoluzionario di dieci anni prima durante la guerra russo giapponese e la mancanza nel popolo insorgente di armi contro la polizia e i cosacchi, ben più organizzati. La rivoluzione romantica e ottocentesca era finita, il popolo disarmato non era più in grado, con la sola sua sollevazione, di vincere. Le forze dell'ordine avevano ormai un armamento tale che non poteva essere superato dalla buona volontà dei giovani delle barricate ma, se questi giovani fossero stati chiamati alle armi, e avessero tutti in mano un fucile, il discorso sarebbe stato assai diverso. Pochi ufficiali non potevano tenere a bada molti proletari armati a cui la divisa non aveva tolto lo spirito rivoluzionario, pensava giustamente Lenin.

In Italia, la commistione di partiti di destra e la partecipazione di forze borghesi, ancorché giovanili, toglieva a questo discorso il rigore bolscevico che esso aveva, ma, come si vedrà nel corso della guerra, non toglieva necessariamente a chi era armato, e si sentiva padrone della situazione, la volontà di prendere il potere e di cambiare le cose. Fare cioè una rivoluzione ideologicamente indistinta, collegata solo con la violenza del ribaltamento delle classi dirigenti: oggi la chiameremmo “rottamazione”.

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Che questo non piacesse ai governanti, e anzi in qualche modo li impaurisse, era chiaro anche dal rigore con cui le forze dell'ordine e i militari reprimevano, per lo meno fino al dicembre 1914, le manifestazioni interventiste. Ma il discorso non si fermava qui perché forze sociali precise avevano interesse a partecipare alla guerra a partire dai cosiddetti ambienti militari. Soprattutto gli industriali, che speravano con la guerra di potere avere finalmente una spinta energica per le loro produzioni, come stava avvenendo in Francia, in Germania e in Inghilterra. Perfino il Belgio sconfitto e occupato sviluppava, sotto il controllo dei tedeschi, una forte attività industriale. Ricordiamo che in quella guerra non c'era ancora un'aviazione così sviluppata da poter radere al suolo intere comunità industriali, quindi passato il fronte, allontanatasi l'artiglieria, tutto riprendeva a grande ritmo, pur sotto altri padroni.



E poi c'erano i giornali.

Il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari.

Abbiamo detto che il Secolo d'Italia di Mussolini era stato il pungolo dell'interventismo che aveva avuto da subito un grande successo editoriale, ma il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, ben più diffuso in tutta Italia e modernamente organizzato. Luigi Albertini era il suo attivissimo direttore, intelligente, molto capace nelle relazioni sociali, talvolta pettegolo, non sempre attendibile, ma efficace. Molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari. L'Ansaldo di Genova era l'industria più grossa nel settore degli armamenti, ma lo sviluppo che la guerra avrebbe dato all'industria non si limitava ai soli armamenti. La più grande impresa italiana dell'epoca era la Pirelli dove i due fratelli Alberto e Piero avevano ereditato la gestione dal padre Giovanbattista. Alberto era colto, intelligente, volitivo, interventista e, probabilmente come il padre, massone. La massoneria francese, seguita a ruota da quella inglese, che agiva particolarmente su Sidney Sonnino, si dava un gran da fare, soprattutto a Milano dove interventista era diventato anche Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace oltre che Gran Maestro del Grande Oriente.

Fu allora e solo allora, quando gli interventisti rivoluzionari erano quasi sconfitti, che questo movimento di interessi, coinvolto re Vittorio Emanuele, prese in mano la situazione e, attraverso l'ambasciatore d'Italia marchese Guglielmo Imperiali, si iniziarono nel mese di febbraio del 1915 le trattative che portarono alla firma del cosiddetto Patto di Londra. Patto frettoloso, fatto in forza di una valutazione, condivisa in Inghilterra solo da Churchill e in Francia da pochi altri, che doveva, attraverso lo sbarco nella penisola di Gallipoli delle forze inglesi e in Grecia di una divisione francese, facilmente far risalire i Balcani alle truppe Alleate. Intanto le divisioni russe avanzavano, come sembrava, dal nord, avendo occupato Leopoli e sconfitto gravemente gli austriaci. A questo punto, con un rapido intervento dell'Italia, l'Austria ancora impreparata su quel fronte, si sarebbero facilmente potuti congiungere questi salienti militari e fare fuori l'impero Asburgico.

Cadorna, che non aveva armi e neppure abiti per vestire i coscritti, né munizioni, chiese qualche mese di tempo

Nulla di men vero. Cadorna, che non aveva armi e neppure abiti per vestire i coscritti, né munizioni, chiese qualche mese di tempo. Il Governo, che sapeva essere la maggioranza degli italiani contraria all'intervento, fu favorevole a prolungare per quanto possibile i tempi. E i tempi affondarono il bel sogno churchilliano, perché in Turchia i soldati australiani e neozelandesi, malgrado i grandi sacrifici, non riuscirono a stare abbarbicati ai promontori di Gallipoli e la divisione francese si mosse lentamente, impensierita da una instabile situazione politica greca, dove per arrivare alla guerra si era dovuto far un colpo di stato contro il Re. Ma soprattutto i russi furono fermati dagli austriaci in Galizia con uno scontro vittorioso presso Glorice-Tarnow, e i tempi lunghi dell'intervento italiano permisero agli austriaci di predisporre difese nell'alto Veneto efficaci e rispondenti ai nuovi criteri militari.

Intanto in Italia si organizzò, con l'avvento della primavera, un'enorme campagna pubblicitaria a favore dell'intervento. I carabinieri non attaccarono più i cortei interventisti, che del resto erano formati da tutte le categorie borghesi con le loro pagliette in testa. Per galvanizzare questo pubblico, fu recuperato D'Annunzio che stava in Francia oppresso dai debiti che gli furono d'un colpo risanati. Venne in Italia e fece uno discorso dallo scoglio di Quarto da dove erano partiti i Mille. La retorica nelle sue mani raggiunge anche vette poetiche e infiammò i presenti, molti per i tempi di allora dove si parlava senza altoparlante, ma pochi se si fosse dovuto votare. D'Annunzio non si limitò al discorso di Quarto, cominciò a percorrere tutta l'Italia ma soprattutto Roma, accentuando anche la polemica contro i neutralisti in genere e in particolare contro Giolitti. Fu necessario che uno squadrone di cavalleggeri venisse inviato davanti alla casa dell'uomo politico piemontese prima che una colonna dannunziana si presentasse con scale e corde per salire fino al balcone dello statista. Il Prefetto di Roma sconsigliò a Giolitti di stare ancora in quella città. Il Re ebbe un incontro di due ore con Giolitti che era un vecchio servitore dello Stato e della monarchia piemontese e non avrebbe mai preso una posizione contro il Re. Il politico piemontese prese dunque un treno e si ritirò alla sua casa a Cavour, non facendosi più vedere fino a Caporetto.

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La battaglia interventista ben difficilmente avrebbe vinto, se non con l'aiuto della forza di pochi uomini interessati ma potenti che peraltro sbagliavano tutto credendo, come diceva Cadorna, che “la guerra si sarebbe risolta entro l'estate”.
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Re: La granda menxogna

Messaggioda Berto » mar mag 26, 2015 12:28 pm

Straje de ła I goera mondial ente l'ara veneta
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Re: La granda menxogna de l'Onta Goera Mondial

Messaggioda Berto » ven gen 27, 2017 5:32 pm

???

Comitato Bandiera Italiana 17 marzo

1904-1915. TRADIMENTO ED AGGRESSIONE DELL’AUSTRIA ALL’ITALIA

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4376608894


Si sente talora accusare l’Italia d’aver commesso con l’ingresso nella prima guerra mondiale un presunto ed indimostrato “tradimento” dell’alleanza con l’Austria-Ungheria, il che in realtà non avvenne. È necessario conoscere e comprendere ciò che era avvenuto prima del 1915, altrimenti la decisione italiana d’entrare nel conflitto sarebbe incomprensibile.

In estrema sintesi, lo stato italiano aveva accettato già alla fine del secolo XIX d’aderire all’alleanza con l’Austria per due ragioni fondamentali: la prima era la speranza di mitigare l’opera di snazionalizzazione sistematica (vero e proprio genocidio culturale) di cui erano vittime gli Italiani del Trentino, della Venezia Giulia e della Dalmazia ad opera dell’impero; la seconda, correlata alla prima, era l’aspirazione ad ottenere le terre irredente, od almeno parte di esse, per via diplomatica. Infatti un articolo della Triplice Alleanza l’articolo VII stabiliva che l’Italia aveva diritto a compensi territoriali dall’impero asburgico nel caso che esso si espandesse nei Balcani.

Non solo ambedue queste speranza furono disattese, ma in più l’Austria violò ripetutamente ed in modo gravissimo le norme del trattato d’alleanza, anche con azioni che si possono configurare quali veri e propri atti di guerra contro l’Italia.
1) Il 13 ottobre 1904 Aehrenthal, ambasciatore asburgico a san Pietroburgo, e Lamsordv, ministro degli esteri zarista, firmarono un trattato segreto, che impegnava i due paesi a proseguire nella loro collaborazione politica, imperniata sulla volontà di conservare lo status quo nei Balcani e sull’impegno a mantenere la neutralità assoluta nel caso che una delle due parti contraenti si fosse trovata in conflitto con una terza potenza. Questo patto segreto con la Russia non fu comunicato dall’impero asburgico all’Italia, ma solo alla Germania, poiché, come spiegò Francesco Giuseppe in una sua lettera a Guglielmo II spedita il 1 novembre 1904, esso aveva proprio una finalità anti-italiana. Esso costituiva una prima violazione delle norme delle Triplice.

[Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989, documenti della seconda sezione, dd. 112, 162, 186, 195, 197, 204, 221, 234; la lettera di Francesco Giuseppe all’imperatore tedesco è invece conservata in “Die Grosse Politik der Europaischen Kabinette 1871-1914”, Berlin, Deutsche Verlagsgesellschaft fur Politik und Geschichte”, 1922-1927].
2) il capo di stato maggiore asburgico, Conrad von Hötzendorf, richiese per due volte un attacco a sorpresa ed a tradimento contro l’Italia, paese alleato, precisamente dopo il terremoto di Messina del 1908 (la prima volta) e durante la guerra di Libia nel 1911 (la seconda volta). Il Conrad ammette questi suoi progetti persino nelle sue memorie: Feldmarschall Conrad, “Aus meiner Dienstzeit”, Wien-Berlin, 1921. Famigerata è la nota inviata dal Conrad ad Aehrenthal il 24 settembre 1911, proponendo che l’impero asburgico si lanciasse in una guerra a tradimento contro l’Italia approfittando del conflitto italo-turco (che sapevano essere prossimo: fu proclamato il 29 dello stesse mese), od in alternativa alla distruzione della Serbia ovvero alla conquista d’altri territori balcanici.

Conrad von Hötzendorf comunque chiese con insistenza un attacco all’Italia per tutto il periodo 1906-1914, trovando in questo il sostegno e l’appoggio di Francesco Ferdinando, l’erede al trono (che ormai costituiva di fatto il vertice dell’impero in considerazione della tarda età di Francesco Giuseppe), degli ambienti di corte e dello stato maggiore, oltre al consenso di larga parte dell’opinione pubblica. La definizione di “italofobo” riferita a von Hötzendorf è dalla biografia su questo personaggio scritta da Lawrence Sondhaus, probabilmente il più grande storico militare vivente americano sul tema Austria/Ungheria. Sondhaus nel suo libro “Franz Conrad Von Hötzendorf: Architect of the Apocalypse” accomuna sia von Hötzendorf sia Francesco Ferdinando d’Asburgo in questa “italofobia”, ed aggiunge che costoro non erano gli unici a pensarla in tal modo (“Francis Ferdinand, an italophobe and no friend of the Triple Alliance. They were not alone in their thinking”).
Il generale Hötzendorf era ossessionato anche dall’idea di una guerra d’aggressione, per quanto ritenuta “preventiva”, anche contro la Serbia, che egli propose nel 1906, nel 1908, nel 1912, nel 1913 ed ancora nel 1914.

Se l’Austria non attaccò, a sorpresa ed a tradimento, l’Italia, approfittando in un caso del terremoto di Messina, nell’altro della guerra italo-turca, ciò fu solo perché la Germania, consultata in proposito, lo impedì.
[Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989, “Note des chefs des Generalstabs Conrad”, 24 settembre 1911, d. 2644; Hew Strachan, La Prima Guerra Mondiale, Milano, 2005; Vezio Vascotto, La guerra Italo-Turca, su Storia Militare n° 226, Luglio 2012, pag 26-39].

3) la crisi internazionale provocata dalla decisione unilaterale della Duplice Monarchia d’annettere la Bosnia, che era divenuta un protettorato (non un possesso diretto) nel 1878, con l’obbligo sottoscritto dall’impero asburgico di non annetterla, è stata oggetto di molti studi esaustivi, fra cui si possono ricordare Albertini, Duce, Tommasini fra gli italiani, e Nincic e Schmitt fra gli stranieri.
La crisi incominciò con la decisione asburgica d’annettere quello che era soltanto un protettorato (che per di più aveva opposto resistenza all’invasione imperiale nel 1878), in contrasto con gli impegni internazionali presi dal governo di Vienna nell’anno dell’occupazione della Bosnia-Erzegovina. Si andò vicini ad una guerra con Serbia e Russia, che alla fine arretrarono soltanto per le minacce della Germania, che di fatto impose l’accettazione dell’annessione (la crisi durò dall’ottobre 1908 al marzo 1909). L’annessione del protettorato della Bosnia costituiva quindi una violazione degli impegni presi dall’impero asburgico nel 1878 con la Russia e la Serbia, che prevedevano che questa regione non fosse annessa.

Inoltre costituiva anche una violazione degli accordi presi con l’Italia. Nel 1904 il ministro degli esteri asburgico, Goluchowski, si incontrò con il suo omologo italiano ad Abbazia, nel Quarnero, per trovare un accordo fra i due governi al fine d’evitare tensioni riguardanti i Balcani. Tittoni assicurò Goluchowski che l’Italia non aveva intenzione d’intervenire nei Balcani, ed il ministro degli esteri asburgico fece lo stesso nei suoi confronti, assicurando che non si sarebbe modificato lo status quo esistente, inclusa la condizione della Bosnia, che sarebbe rimasta un protettorato, ma non sarebbe stata annessa. L’unica variazione che, assicurava Goluchowski, avrebbe potuto essere apportata sarebbe stata l’occupazione del sangiaccato di Novi Bazar, ma non l’annessione della Bosnia. [Aufzeichnung über eine Unterredung Seiner Excellens des Herrn Ministers Grafen Goluchowski mit dem königlich italienischen Minister des Aussern Tittoni”, in Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989]

Comunque, per ciò che riguarda la Triplice Alleanza, l’articolo VII stabiliva che l’Italia aveva diritto a compensi territoriali dall’Austria nel caso che essa si espandesse nei Balcani, il che era avvenuto con l’annessione unilaterale della Bosnia-Erzegovina. Il ministro degli esteri italiani Guicciardini si mise pertanto in contatto con i suoi omologhi di Austria e Germania; il 2 gennaio 1910 s’incontrò con l’ambasciatore austriaco Lützow, ricordandogli che bisognava applicare e precisare i contenuti dell’articolo VII; poi parlò direttamente col nuovo cancelliere della Germania, Bethmann-Hollweg, ricordandogli che era necessario procedere con l’articolo VII, in seguito all’annessione austriaca della Bosnia. Il cancelliere tedesco ammise che ciò era giusto, sostenendo però che prima di prevedere quanti territori l’Austria dovesse cedere bisognasse prima stabilire quanti territori avesse occupato (sic). In seguito, il nuovo ministro degli Esteri italiano, Antonio di San Giuliano, si incontrò con il nuovo ministro degli esteri austriaco, il Merey. Anch’egli, come già aveva fatto il cancelliere tedesco, ammise che secondo l’articolo VII l’Austria avrebbe dovuto, avendo annesso la Bosnia, cedere suoi territori all’Italia come compenso, però chiese che si aspettasse sino al prossimo rinnovo del trattato. Per farla breve, sia la Germania, sia l’Austria doverono riconoscere che in base all’articolo VII, dopo l’annessione della Bosnia-Erzegovina l’Italia avrebbe avuto diritto a compensi territoriali, ma si rifiutarono di procedere in tale direzione, cercando pretesti e cavilli. [“Documenti diplomatici Italiani”, Roma, Libreria dello stato-Istituto poligrafico dello Stato, 1933; Die Grosse, cit., Aufzeichnung der Reichskanzler von Bethmann-Hollweg, 5 aprile 1910; “Österreich-Ungarns Aussenpolitik von der Bosnischen Krise 1980 bis zum Kriegsaubruch 1914”, Wien, Österreichischer Bundesverlag 1930-, d. 2171, Merey ad Aehrenthal, 13 maggio 1910].

4) L’impero asburgico si rese responsabile negli anni precedenti al conflitto di almeno tre autentici ATTI DI GUERRA contro l’Italia, compiuti secondo modalità che oggigiorno sarebbero definite di “guerra sporca”, in modo indiretto ed il più segretamente possibile.
A) Durante la guerra italo-turca l’Austria non solo progettò d’attaccare, senza motivo ed a tradimento, l’alleata Italia (il che non avvenne solo per merito della Germania), ma diede appoggio politico e militare nascosto alla Turchia, incitando Istanbul a continuare il conflitto e fornendogli armi e finanziamenti. In Libia era la Germania che, sia direttamente con suoi agenti segreti ed ufficiali, sia indirettamente e per il tramite della Turchia, mandava istruttori militari, armi ed oro, per alimentare la guerriglia contro l’Italia e suscitare l’insurrezione.
B) in Albania l'Austria, impossibilitata dalla guerra a dispiegare un'azione aperta, inviava segretamente armi e denari, fomentando le insurrezioni locali.
C) In Abissinia era ancora l'Austria che esercitava un'opera d'accanita sobillazione ai nostri danni presso il Negus (con cui si era in piena pace), incitandolo ad invadere Eritrea e fornendolo d'artiglierie.
Questi furono soltanto i fatti più gravi, ma ne furono molti altri perpetrati dagli austro-tedeschi nel periodo di neutralità che erano comunque contrari al diritto internazionale e lesivi della sovranità nazionale italiana.

Questi erano ATTI DI GUERRA, che ponevano l’Austria e la Germania in stato di guerra di fatto, ma non dichiarata, con l’Italia, quando essa era ancora neutrale ed erano in corso trattative diplomatiche. Anche se formalmente è stata l’Italia a dichiarare guerra all’Austria ed alla Germania, di fatto sono stati questi due imperi ad iniziarla, aggredendo proditoriamente lo stato italiano.
5) A tutto questo s’aggiunga il regime di guerra di fatto attuato dall’impero asburgico sin dal lontano 1866, non contro lo stato italiano ma contro la nazione italiana, a causa delle gravissime misure persecutorie contro gli Italiani sudditi dell’imperatore che vivevano in Dalmazia, Venezia Giulia, Trentino, con la finalità (da parte dell’impero) di cancellarne l’esistenza culturale e l’identità nazionale. Sono state, tutte, violazioni del trattato della Triplice da parte dell’Austria, avvenute ben prima del 1915 e tali da configurare un autentico TRADIMENTO.

Non può esistere dubbio alcuno pertanto su cui abbia tradito il patto della Triplice Alleanza: l’impero asburgico. L’Austria temeva ed avversava l’Italia e si comportò con autentica perfidia (etimologicamente “mancanza di fedeltà”) in diversi modi, tradendo ripetutamente le clausole d’alleanza e perpetrando inoltre atti di guerra ed aggressione contro lo stato italiano e le sue forze armate, per molti anni e ben prima della dichiarazione di guerra italiana.
L’intervento in guerra italiano nel 1915 fu praticamente reso inevitabile dalle continue aggressioni imperiali e dalla minaccia costante portata da Vienna all’esistenza dello stato e dello stesso popolo italiani.

di M.V.


Xe da dir ke el Trentin, ła Venesia Julia, ła Dalmasia no łe xe mai stà tere tałiane, caxo mai łe gheva fato parte dei domegni romani vudi co l'envaxion militar de ła Retia, Dalmasia e Istria;
se xonte ke sta goera ła ga desfà el Veneto (co ła Furlania) e xa coesto lè pì ke bastansa par retegner sta goera n'ato criminal contro łe xenti venete.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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