Falbe e bone creteghe a M. Alinei e a la TCP

Falbe e bone creteghe a M. Alinei e a la TCP

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 8:30 pm

Teoria de la Seitansa (o Continuità)
http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_del ... nuit%C3%A0

So sta voxe coalkeon el ga meso le ensoulse creteghe de on çerto Leporcaro:
...
a cu Alinei el responde kive:
http://www.torrossa.it/resources/an/2445333

Una replica di Mario Alinei a Michele Loporcaro (e a Lorenzo Renzi)
Paradigma della Continuità, dialetti preistorici, autodatazione lessicale ed altro.
Una replica a Michele Loporcaro (e a Lorenzo Renzi), di Mario Alinei:

Nel secondo capitolo del suo recente, ed ottimo, Profilo linguistico dei dialetti italiani [2009, pp. 33-58], intitolato Storia (e preistoria) dei dialetti italiani, Loporcaro dedica il paragrafo 2.3 (pp. 42-46), ad una discussione di alcuni punti fondamentali della mia teoria.
Lo ringrazio doppiamente: non solo per il tono garbato della polemica e per i numerosi complimenti che, pur nella critica, non esita a farmi; ma anche, e soprattutto, per aver capito che «di questo audace tentativo è giusto – nonché utile a fini di metodo – discutere in una trattazione generale sui dialetti italiani» (p. 42).
Credo anch’io, in effetti, che per la linguistica storica sia giunto il momento di iniziare una discussione seria sull’argomento, e di considerare chiuso il periodo dell’ostracismo e del silenzio, voluto da quegli studiosi che confondono la ricerca con la dogmatica.
Anche la pubblicazione, nel prossimo fascicolo della «Rivista Italiana di Dialettologia», del mio dialogo con Alberto Zamboni, purtroppo interrotto dalla sua scomparsa, darà, spero, un ulteriore impulso al confronto fra il paradigma tradizionale e quello nuovo che, ormai, è condiviso da non pochi, validissimi studiosi, non solo italiani (cfr. http://www.continuitas.org ).

Il paragrafo che mi dedica Loporcaro si intitola:

Dialetti italiani nella preistoria?

La sua risposta all’interrogativo è, naturalmente, negativa, ma solo per quanto riguarda la mia teoria, perché sia nei paragrafi precedenti, sia in quello successivo – intitolato, significativamente, Preistoria dei dialetti italiani –, la risposta è invece positiva.

Il paragrafo successivo, infatti, comincia con queste parole:
«È tuttavia possibile parlare, se non di dialetti nella preistoria, di una preistoria dei dialetti [enfasi mia], leggibile in filigrana […]entro la documentazione latina molto prima delle primissime attestazioni del volgare» (p. 48).
E nei paragrafi precedenti si discute soprattutto di sostrati, ovviamente preistorici.
Confesso che non capirò mai come si possa ammettere che il latino sia stato influenzato da sostrati preistorici senza essere esso stesso immerso nella preistoria.
Ma questo credo che dipenda dalla capacità di guardare le cose, come si dice in inglese, with fresh eyes. Loporcaro, nel suo manuale, dimostra di averli spesso, ma per discutermi si è forse messo gli occhiali da sole.
...

QUADERNI DI SEMANTICA / a. XXXI, n. 2, dicembre 2010, pp. 285-292.



Mario Alinei (1997)
LA TEORIA DELLA CONTINUITA’ ED ALCUNI ESEMPI DI LUNGA DURATA NEL LESSICO DIALETTALE NEOLATINO
published in “Rivista Italiana di dialettologia”, 21, 1997, pp. 73-96.

http://www.continuitas.org/texts/alinei_esempi.pdf
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Falbe creteghe a M. Alinei e a la TCP

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 9:21 pm

Replica di Mario Alinei alle critiche di Paolo Ramat e di Lorenzo Renzi
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... Zsc1E/edit

Immagine
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Re: Falbe creteghe a M. Alinei e a la TCP

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 11:24 pm

Sanna, Pittau, Alinei

http://www.gianfrancopintore.net/index. ... &Itemid=47


(1) La teoria di Alinei in Sardegna (e altrove)? L'ha avanzata per primo Vittorio Angius.
Scritto da Gigi Sanna
Domenica 10 Ottobre 2010 07:01
di Gigi Sanna

Gli studi sulla cosiddetta Teoria della continuità di Mario Alinei di cui tanto si discute da tempo, tra detrattori (da subito aspri, come il glottologo Paolo Ramat: L'Indice, febbraio 1997. V. anche, in risposta alla critica,

Alinei, 2000, Origine delle lingue d'Europa. II. Continuità dal Mesolitico all'età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche. Postfazione pp. 993 - 996) ed estimatori (come F.Benozzo, Università di Bologna), sono stati, in 'qualche modo', preceduti due secoli fa, dallo studioso Vittorio Angius (1797 - 1862).
Credo che nessuno possa mettere in discussione o negare questo dato, considerata l'evidenza documentaria (v. più avanti)..

Mario Alinei - Il suo contributo, in termini di analisi sull'origine del linguaggio dei Sardi (Lingua antica de' sardi; in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529) naturalmente è quello che è, ovvero quello non 'rigoroso' di un docente di Retorica dell'Ateneo Turritano della prima metà dell'Ottocento, di uno studioso non 'specialista' linguista; ma è pur sempre quello di un uomo coltissimo ed intelligentissimo, impegnato in ricerche approfondite di svariate discipline (etnologia, storia, geografia, scienze naturali, economia, letteratura, ecc.); di uno che comunque, 'a suo modo' ed 'in un certo modo' (cioè con i mezzi della gracile 'scienza' linguistica del tempo in Sardegna, e non solo), nega, ribadendolo con orgogliosa fermezza e con tanto di articolata argomentazione, il fatto che la lingua sarda arcaica possa essere di derivazione romana.
Tanto dotto il canonico Angius e universalmente apprezzato per i suoi contributi scientifici, che gli venne affidato il compito di collaborare, per la la voce Sardegna, al famoso ' Dizionario geografico - storico - statistico - commerciale degli Stati di S.M il Re di Sardegna '. Opera enciclopedica, ancora oggi di fondamentale importanza - com'è noto - per gli studi storici, geografici, antropologici, toponomastici, naturalistici, ecc. riguardanti la Sardegna.
Il suo enorme contributo in termini di 'scienza' sulle informazioni a tutto campo dell'Isola fu però, per così dire, 'macchiato' (si veda anche l'esordio delle pagine che di lui si presentano più avanti), così come quello di numerosi studiosi del tempo, sardi e non, dall'aver creduto alla fasulla 'documentazione' delle cosiddette 'Carte d' Arborea' (Marrocu L. (a cura di), Le Carte d'Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Cagliari 1997), falsificazione posta in essere reiteratamente, come sembra ormai definitivamente appurato, dall'archivista di Stato Ignazio Pillitto. Colpa questa che è, presumibilmente, alle origini della 'dimenticanza' dell'Alinei che mai (non fosse per altro per la consonanza della 'tesi' continuista in generale), neppure di 'striscio' – per così dire - lo cita nei due ponderosi volumi della sua opera.
Ora, come anticipazione del fatto che intendo addurre, con un prossimo articolo, non poche prove documentarie (in una certa misura l'ho fatto con il mio intervento durante la Conferenza Internazionale di Sassari del 28 Ottobre del 2006) che sia l' Angius sia l'Alinei (antepongo il nome dello studioso sardo perché è sempre bene dare giusto rilievo alla storia e alla cronologia delle ipotesi e delle idee), hanno piena ragione, propongo alcuni brani tratti dagli scritti dell'uno e dell'altro, con l'invito esplicito ad intervenire, se si vuole, ed entrare nel merito (nel 'merito' dico delle specifiche osservazioni) di quanto da parte di entrambi si afferma.
Noto infatti, con disappunto, che nel Blog di Mauro Peppino Zedda (Archeologia Nuragica) il dibattito è stato ed è pressoché nullo e nessuno sinora, purtroppo, è intervenuto sull'argomento TdC, tranne l'articolista (lo stesso Zedda) e, brevemente, Areddu, il sottoscritto e un anonimo ( 'non anonimo' per molti). Forse perché il Blog è nuovo e ancora è poco conosciuto? O forse perché detto Blog è gestito da un 'non specialista' linguista, da un ignorato e/o detestato (almeno in certi ambienti) studioso di archeoastronomia? E se così fosse, forse che nel dibattito, lunghissimo dibattito, sull'archeologia e l'epigrafia nuragica e sulla lingua sarda (in tutto quasi 600 articoli!) del Blog di Gianfranco Pintore, non sono intervenuti e non intervengono (anche da poco) archeologi e linguisti di professione? Mi chiedo quando si cesserà con certi sciocchi atteggiamenti e pregiudizi paralizzanti circa la 'deminutio', per vantaggio universale! Non fosse per altro perché sono molte le persone che in ambito non specialistico, cioè all'interno di una discussione più accessibile perché 'colloquiale' (il che non vuol dire - ripetiamo ancora una volta - che si debba trascurare un certo linguaggio, anche tecnico) vorrebbero sapere di più su di uno studio 'controcorrente' e che, se è vero che ha molti detrattori, come si è detto, ha anche molti studiosi dalla sua parte che apprezzano e talora concordano. E mica orecchianti e non specialisti! E, si può dire, di tutto il mondo.
Inizia dunque il sottoscritto a dire qualcosa (per motivi che si comprenderanno con un mio successivo intervento nel Blog di Gianfranco) con questa osservazione circa la TdC, che è poi quella che ha già fatto un critico 'aperto' come Lorenzo Renzi (RID, XXI, 1997): se fosse vero quello che sostengono Angius e Alinei, sul sardo non romano e sul cosiddetto 'italide', quella che si troverebbe più in 'difficoltà' non sarebbe tanto l'indoeuropeistica ma la romanistica. È o non è così? E aggiungo: e se le prove delle voci, quelle del lessico 'indoeuropeo latino' dell'età del bronzo sarda, aumentassero e non fossero solo quelle ricavate indirettamente, soprattutto 'dialettali' della lingua orale, ma anche quelle 'dialettali' ricavabili dai documenti nuragici scritti? Se insomma le 'prove' fossero veramente prove? Quelle che sempre chiede, anzi invoca la 'scienza'?

Scrive Mario Alinei (2000 , II, 16, La Sardegna, pp. 662 - 664 )
''Vengo ora al punto che mi interessa di più. Come abbiamo visto, i sardi che si rifugiano sulle montagne per difendere la loro libertà, sono spesso invocati per spiegare la maggiore “sardità” linguistica dell’area montana: è qui, infatti che si sono mantenute la /k/ e /g/ velari latine (cioè italidi), è qui che si parla il Sardo più vicino al Latino (leggi: Italide) in tanti aspetti, formali e semantici. Tuttavia, vi è un “piccolo” problema in questa visione. Nella teoria tradizionale, accettata da Lilliu, la lingua che i sardi del Centro montano continuano a parlare, non è - né può essere – quella latina o sua affine. Lilliu, che attinge alla linguistica degli anni Cinquanta (in mancanza di meglio, come lui stesso ci ha detto), afferma infatti che la lingua dei Sardi della montagna doveva avere «un fondamento comune libico-ibero-ligure (o mediterraneo occidentale)».
Ora, è curioso che nessuno studioso abbia finora notato la stridente contraddizione inerente a questa tesi. Se i Sardi nuragici non erano italidi, ma di ceppo etnico e linguistico anIE, quelli fra loro che si erano rifugiati sulle montagne avrebbero dovuto conservare meglio le caratteristiche linguistiche originarie del loro sostrato, e quindi avrebbero dovuto allontanarsi maggiormente dal latino o da una lingua affine. Proprio perché la conservatività del Sardo montano e l’innovatività del Sardo della pianura risultano da un confronto fatto rispetto al latino, esse sono inconciliabili con la tesi tradizionale. Diventano al contrario del tutto comprensibili e prevedibili se la lingua dei Sardi nuragici, all’epoca della ritirata sulle montagne, fosse stata italide, cioè una variante del Latino! In altri termini è l’Italide dei Sardi fuggiti in montagna che si è conservato meglio, così come è l’Italide dei Sardi “mescidati” delle pianure, che ha subito l’influsso di lingue non italidi e ha innovato. Occorre rovesciare completamente l’assunto tradizionale per dargli un senso e una logica.
e prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. Non a caso gli Indiani d'America - che Lilliu paragona volentieri ai Sardi – hanno perso la loro lingua solo quando si sono fatti assorbire e integrare culturalmente, mentre quelli che si sono ribellati, quelli delle 'riserve' menzionate da Lilliu , proprio in quanto hanno salvato qualcosa della loro cultura , sono riusciti a conservare anche la loro lingua. Anche l'esempio della religione cristiana , che dovette fare larga concessione alla spiritualità caratteristica dei sardi parla più in favore della mia tesi che di quella tradizionale . Dimostra infatti che persino di fronte alla seconda ondata innovatrice, quella cristiana dopo quella romana , i sardi continuarono a resistere con la 'loro' cultura e la 'loro' lingua. La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una stessa etnia.

E in 'Conclusione' ( p.664):
''Scopo di questa illustrazione era di mostrare come lo sviluppo culturale della Sardegna preistorica, dalla Ceramica Impressa/Cardiale fino alla civiltà nuragica, possa essere interpretato come affermazione originalissima da parte di un gruppo italide, parallelo ma indipendente sia da quello appenninico italico, che da quello medio-italiano latino e da quello franco-iberico. Il problema di fondo per la Sardegna, forse più ancora che per la Corsica, resta quello degli apporti anIE e di altri gruppi IE, da quello di eventuali adstrati peri-IE risalenti al Mesolitico se non a prima, al superstrato “orientale” dei coltivatori immigrati dalla mezzaluna Fertile, a quello celtico introdotto dal Megalitismo e dal Campaniforme, a quello greco e fenicio''.

Ma il canonico Vittorio Angius molto prima, quasi duecento anni fa (1838: Biblioteca Sarda: si veda 'Lingua antica de' Sardi' in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529 ) anticipava da un pulpito di enorme prestigio culturale e quindi anche linguistico qual era il Dizionario degli Stati di S.M:

Conosciamo la lingua de' sardi nel secolo VIII simile, fuori alcune lievi differenze, a quella che essi parlano nel secolo XII, e nessuno dubita che fosse pure quasi simile a quella che usavano al tempo di Augusto.
Ma era simile a questa, quella che parlavano avanti la dominazione romana?
Negano tutti, perché credono che la lingua sarda, tanto affine alla latina quanto tutti sanno, sia stata introdotta da' romani; ed io come ho già negato questo fatto contro l'opinione universale che credo un errore universale, lo negherò anche adesso.
Diceva nella Biblioteca Sarda (p. 312) in una notazione all'articolo letterario Su gli improvvisatori sardi: '' Qui (in Sardegna) stanziarono alcuni secoli i saraceni e non alterarono la lingua nazionale; appena hanno in essa intruso alcune parole; dominarono per quattro secoli i penisolani dell'Iberia, ragonesi, catalani, valenzani, castigliani, e se non fosse stata piantata la colonia algherese non resterebbe di quelle lingue più che alcune parole; esiste per più di 130 anni una continua pratica coi piemontesi e non so quante parole si siano prese da essi.
Che si fa da questo? Che si possono alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti opinioni, costumi, leggi, non mai la lingua''.
Soggiungeva poi: ''In Sardegna gli algheresi parlano catalano. Or tra essi intrometti mille che parlino il sardo, e pensa che avverrà nelle due lingue. Certamente i settemila algheresi non lasceranno il loro linguaggio nativo per parlare il sardo, né dissuaderanno i vocaboli della loro lingua della pluralità. Se essi nol facciano lo faranno senza dubbio i loro figli. Sia un'altra supposizione. Mischia alla popolazione algherese altrettanti sardi; ed avverrà che si abbandoni né l'uno né l'altro linguaggio, e dalla confusione ne nasca un terzo. Una terza supposizione, i settemila algheresi si fondano in quarantamila sardi, ed il catalano in breve cesserà''. Di che si ha una prova nella colonia straniera che abitava il castello di Cagliari, la quale come si confuse con gli abitatori de' quartieri bassi in breve dimenticò la lingua avita. Una dimostrazione di maggior evidenza ne abbiamo nell'Italia. In essa invasero cento orde di barbari ed alcune vi stabilirono la stanza; ma perché il loro numero era non più che il ventessimo o trentesimo della popolazione italiana, non poterono mutare la lingua che vi si parlava, affine, come quella dei sardi, alla latina, e solo le aggiunsero alcuni vocaboli e forme, che oramai tutti rigettano come barbarismi di vero nome.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere, che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
Or aggiungo: i romani imperarono anche in varie regioni della Germania e nella isola Britannica, e tuttavolta non poterono volgarizzarsi la loro lingua latina; imperarono sopra vastissime regioni orientali e la loro lingua non vi allignò.
Si introdusse però nelle Gallie e nella Spagna. Vi si introduceva non più che in Sardegna; e devo tenere il lettore che le nazioni che ebbero un dialetto latino furono germogli della stessa stirpe de' latini, parimenti che i popoli sardi.
Di più se tra i sardi quelli che restarono soggetti ai romani dovettero lasciare la lingua nativa, questa si sarebbe dovuta conservare in quelle tribù che restarono sempre indipendenti da' romani . Ma come spiegare allora questo che nelle loro alpestri contrade il linguaggio sia meglio latino, che altrove?
Per conseguenza se i romani non la introdussero essa fu la lingua antichissima dell'isola, la lingua de' primi coloni dell'isola'.
Dai quali antecedenti è posto in evidenza l'errore di quelli i quali pretendono i primi popolatori dell'isola essere stati fenici, e la popolazione essere poi cresciuta con gli africani.

Ultimo aggiornamento Domenica 10 Ottobre 2010 07:31




http://www.pittau.it/Sardo/alinei.html

LA LINGUA SARDA
secondo il prof. Mario Alinei

Debbo riconoscerlo: nella mia qualifica di già professore ordinario di Linguistica Sarda nell’Università di Sassari e soprattutto di autore che finora ha scritto e pubblicato più di tutti gli altri linguisti intorno alla «Lingua Sarda» - ormai molto più dello stesso Max Leopold Wagner – incombeva su di me l’obbligo di esprimere un parere pubblico intorno al capitolo che il prof. Mario Alinei ha dedicato alla nostra lingua, nella sua molto discussa opera “Origine delle lingue d’Europa” – II. Continuità dal Mesolitico all’età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche (Bologna 2000, cap. XVI). Se non ho espresso il mio parere sul capitolo dell’Alinei dipende dal fatto che, a lettura finita del capitolo, ho tratto la conclusione che quanto vi risulta scritto è un “disastro”. E questo è dipeso – a mio modesto avviso - dalla circostanza che l’Alinei si è infilato nell’argomento con una notevole disinformazione sia sulla preistoria, protostoria e storia della Sardegna, sia sugli ultimi 50 anni di studi linguistici sul sardo.

Avevo dunque deciso di sorvolare e di tacere. Senonché vado constatando che le tesi dell’Alinei sono state fatte proprie da alcuni intellettuali sardi – che però non sono affatto specialisti di linguistica sarda né di linguistica in generale – i quali le stanno mettendo in circolazione, sia pure non in scritti scientifici. Ed allora ho preso la decisione di esprimere pubblicamente il mio parere sulle tesi dell’Alinei, al quale io formulo le seguenti obiezioni di fondo.

1) Siccome l’Alinei è stato sempre un linguista, io gli contesto il fatto che egli abbia la competenza sufficiente per immischiarsi e discutere di questioni archeologiche, che partono addirittura dal Mesolitico (VII millennio a. C.) o anche dal Neolitico (pag. 642). Per il vero egli si rifà continuamente e solamente a un archeologo sardo, del quale però molti Sardi sanno che ha preso grossi abbagli, l’uno più grande dell’altro.

2) Anche io obietto all’Alinei che in realtà la linguistica storica non ha alcuna possibilità di andare tanto indietro nei secoli. In miei recenti interventi, che ho anche messo in circolazione in vari siti internet, ho segnalato che, rispetto agli studi sul sostrato linguistico prelatino della Sardegna, l’unica cosa quasi certa che possiamo dichiarare in termini cronologici è che un trentina di nomi di piante o fitonimi di chiara “matrice mediterranea” sono ascrivibili alla lingua o alle lingue che parlavano i “Prenuragici”. Ma questi non risultano, sul piano strettamente linguistico, tanto antichi nel tempo, posto che tra gli archeologi la data di inizio della costruzione dei nuraghi non viene riportata oltre il XVI sec. a. C.

3) L’Alinei paga il suo tributo a un “luogo comune”, che in Sardegna va avanti solamente per motivi sciovinistici, secondo cui «i Barbaricini non furono mai romanizzati» (pag. 650). Ma come è possibile che un linguista di professione sostenga una tesi di questo genere? Nei villaggi più isolati della Barbagia si parlano tuttora “dialetti neolatini” e non soltanto rispetto ai fonemi /k/, /g/ (velari), ma anche e soprattutto rispetto alla “struttura grammaticale” e al “lessico”, i quali sono campi molto più importanti e più significativi della fonetica. L’Alinei evidentemente non conosce la mia opera - molto fortunata - che si trova in tutti gli Istituti di Lingue Neolatine d’Europa, Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini (Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986). Anche nel lessico di questi dialetti latino-barbaricini i relitti prelatini sono scarsissimi. Nella mia recente opera La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari 2001 (Libreria Koinè Sassari) sono riuscito a raggranellarne solamente 350 circa. E analoghi risultati ho ottenuto nello studio di circa 20.000 toponimi della Sardegna centrale, quali risulteranno in una mia ampia opera di imminente pubblicazione: l’82,5% dei toponimi sono neolatini e solamente il 12,5% sono prelatini.

4) L’Alinei ignora il fatto, storicamente accertato, dell’esistenza del tracciato di una strada romana che attraversava, da nord a sud, non solo la Barbagia, ma anche tutto il Centro montano dell’Isola, con mansioni a Caput Tyrsi (Sant’Efis di Orune), Mamoiada (dal lat. mansio manubiata «stazione controllata»), Fonni (Sorabile), Austis (da Forum Augusti), Meana (da lat. Mediana) e Valentia (presso Nuragus). Di questi toponimi il più significativo è di certo Austis (mediev. Augustis), dato che ci assicura che proprio all’epoca di Augusto - il quale aveva avocato a sé l’amministrazione della Provincia Sardinia - risale il periodo della massima pressione dei Romani sui Barbaricini.

Evidentemente l’Alinei ignora che resti archeologici romani esistono tuttora a Sant’Efis, Sorabile, Austis e ponti romani a Illorai, Oliena, Dorgali, Galtellì, Fonni, Gavoi, Isili; che iscrizioni latine sono state trovate in tutti questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài.

Egli ignora che nel centro montano sono tuttora attestati questi cognomi e toponimi di chiara origine latina: Biteddi, Calvisi, Creschentina, Curreli, Lisini, Mameli, Marcheddine, Marongiu, Masuri, Monni, Pascasi, Prischiani, Serusi, Sisini, Useli, Valeri, Vavori, Verachi, Viriddi, Viseni, i quali sono evidentemente da riportare ai gentilizi o cognomina latini Vitellius, Calvisius, Cornelius o Currelius, Crescentinus-a, Lisinius, Mamelius, Marcellinus, Maronius, Masurius, Monnius, Paschasius, Priscianus, Selusius, Sisinius, *Uselius, Valerius, Favorius, Veracius, Virillius, Visenius (H. Solin et O. Salomies, Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim-Zürich-New York 1988), tutti - meno uno - nella forma del vocativo.

La presenza di tutto questo abbondantissimo materiale linguistico latino nel centro montano l’Alinei non la nega, ma egli la riporta all’età neolitica (VI-IV millennio a. C.) come relitto di quella che egli chiama lingua “italide”.

Senonché in tutte le discipline scientifiche si ha il dovere e pure l’interesse a optare sempre per la soluzione più ovvia e più semplice o meno costosa dei problemi ed è immensamente meno costoso riportare la latinità linguistica della Barbagia all’epoca della conquista militare e politica della Sardegna da parte dei Romani (più precisamente, dalla fine della Repubblica ai primi decenni dell’Impero) che non ai millenni lontanissimi e nebulosi del Mesolitito e del Neolitico.

D’altronde, in codesta sua ipotesi, come spiegherebbe l’Alinei le iscrizioni latine, i resti archeologici e i ponti romani che si trovano in tutta la Barbagia, perfino nei suoi siti più isolati? Anche questi risalirebbero al Mesolitico e al Neolitico?

5) Secondo l’Alinei la divisione delle «aree linguistiche Gallurese-Sassarese, Nuorese-Logudorese e Campidanese è riconoscibile fin dal Neolitico» (pag. 665). Mi dichiaro esterrefatto. Come fa a dimostrarlo?

6) Egli parla di influenze linguistiche celtiche in Sardegna (pagg. 674-678), ma non ne presenta una sola convincente.

7) Egli presenta l’area sassarese come “centro di diffusione linguistica” (pagg. 680-681). Ma Sassari non lo è mai stato, come dimostra il fatto che tutti i paesi che gli stanno attorno, anche quelli vicinissimi, parlano il “logudorese” e nient’affatto il “sassarese”.

8) Infine, premesso che l’Alinei ha ignorato quanto io avevo sostenuto, circa l’etimologia dell’appellativo protosardo nuraghe in un mio intervento nel Convegno “Per Giovanni Flechia” (Ivrea 6/12/1992) (ripubblicato dopo nella mia opera Ulisse e Nausica in Sardegna, 1994; e adesso nel mio Dizionario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico, vol. II 858), chiedo all’egregio collega, se era in vena di umorismo quando ha scritto che l’appellativo nuraghe deriva da nura «nuora» (pag. 684)...

Massimo Pittau

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Rispondo in maniera essenziale e globale agli Amici che mi hanno fatto obiezioni per quanto io ho scritto sulla tesi che il prof. Mario Alinei ha formulato sulla lingua sarda.

1) Io non intendo entrare per nulla in questioni relative al Mesolitico e al Neolitico, per il fatto che questa non è la mia specializzazione scientifica e sull’argomento non saprei dire nulla di scientifico. Però mi permetto di dire che mi fanno sorridere coloro che, solo per aver letto alcuni libri o articoli, si sentono autorizzati a manifestare adesioni e a formulare giudizi sull’argomento.

2) Io non sono specialista in “linguistica indoeuropea” e pertanto neppure in questo campo oso entrare per dire il mio parere. Dico soltanto di constatare che il prof. Alinei è stato per l’appunto criticato da linguisti indoeuropeisti. Ed anche qui dico che mi fanno sorridere coloro che, non essendo linguisti e tanto meno linguisti indoeuropeisti, osano entrare con disinvoltura e sicurezza anche su questo argomento.

3) Io non oso entrare neppure sul tema delle lingue romanze o neolatine in generale (sul quale pure il prof. Alinei è stato contestato dallo specialista prof. Lorenzo Renzi), per il fatto che io sono specialista in una sola delle lingue neolatine, il sardo. Ebbene, credo di poter affermare, con cognizione di causa, che la tesi del prof. Alinei sulla lingua sarda è completamente errata. In una eventuale nuova edizione della sua opera il prof. Alinei dovrebbe, a mio parere, togliere del tutto quel capitolo XVI. A meno che non decida di rifarlo completamente, non senza essersi prima informato su quanto è stato scritto sulla lingua sarda nell’ultimo cinquantennio, dopo le ultime opere di Max Leopold Wagner, che sono degli anni Sessanta.

4) Anche il signor Jesùs Sanchis ha letto con molta disattenzione il mio articolo, arrivando a formulare giudizi alquanto avventati. Esempio: dice che esistono zone della Romania (cioè dell’antico Impero Romano), nelle quali c’è stata una forte presenza di Romani, ma gli odierni abitanti non parlano affatto una lingua neolatina. Lo sapevo bene, basti pensare alla Grecia. Ma in Sardegna e particolarmente in Barbagia abbiamo una situazione del tutto opposta: c’è stata sicuramente una forte presenza dei Romani, perché lo dimostrano chiarissimamente tutti i suddialetti dei paesi della Barbagia, che sono totalmente e profondamente neolatini. Veda, signor Sanchis, se Lei chiede a un Sardo quale sia il villaggio della Barbagia che sia “il più barbaricino degli altri”, indubitabilmente Le risponderà Orgosolo. Io qualche anno fa ho avuto modo di interessarmi in maniera particolare del dialetto orgolese e, con mio notevole stupore, ho constatato che esso è quasi del tutto identico a quello della vicina mia città natale, Nùoro, del quale ho già citato la mia fortunata opera: Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini, Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986.

È quasi incredibile: due soli lievissimi fenomeni fonetici differenziano il dialetto di Nùoro da quello di Orgosolo: noi Nuoresi diciamo deke «dieci», luke «luce», pake «pace», mentre gli Orgolesi dicono deqe, luqe, paqe (con la lettera /q/ stiamo ormai scrivendo il “colpo di glottide” barbaricino, che non è altro che un forte iato); noi Nuoresi diciamo fémina «donna», fizu «figlio», focu «foglia», mentre gli Orgolesi dicono émina, izu, oqu (con la caduta della /f/). Questi due lievi fenomeni fonetici del dialetto orgolese e anche di tutti i suddialetti della Barbagia di Ollolai, sono gli unici resti dell’antica lingua prelatina e protosarda. Essi sono tanto lievi, che non è affatto legittimo tentare di trarne tracce e motivi di origine e derivazione. Oltre a ciò, ovviamente, è da citare un centinaio di relitti lessicali, che esistono nei suddialetti barbaricini, come in quasi tutti gli altri sardi. E pure non pochi toponimi.

Ebbene, questo carattere totalmente e profondamente latino di tutti i suddialetti barbaricini trova una sola possibile spiegazione: anche in Barbagia i Romani hanno vinto e stravinto e dominato.

E poi presento un elenco aggiornato dei ponti romani, intatti o deruti, che si trovano in Barbagia e nel centro montano: Illorai, Galtellì, Dorgali, Oliena, Fonni, Gavoi, Isili, Allai e chiedo al signor Sanchis: anche questi ponti risalgono al Neolitico?
E risalgono al Neolitico pure le iscrizioni latine che sono state trovate in questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài?
Ma non sappiamo tutti che i Romani hanno derivato il loro alfabeto da quello greco (forse anche per tramite dell’etrusco) solamente verso il VI secolo a. C. (Lapis niger 575-550)?

Massimo Pittau





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Massimo Pittau replica al prof. Mario Alinei

Riconosco che ha una certa ragione il prof. Alinei ad esprimere il suo disappunto per il fatto che io ho mosso critiche a una sua opera che risale a 10 anni fa; ma io ne ho già spiegato l’esatto motivo: io intendevo sorvolare sul capitolo che egli ha dedicato alla lingua sarda - che respingo totalmente – ma poi ho deciso di intervenire sull’argomento per il motivo che vado constatando che le sue tesi sono attualmente messe in circolazione in Sardegna da alcuni personaggi, sia pure non specialisti in linguistica sarda e neppure in linguistica in generale. Si chieda il collega Alinei se potevo restare indifferente di fronte al fatto che uno di questi personaggi, in virtù delle sue tesi, ha scritto all’ONU per chiedere di togliere alla Regione Sarda il diritto di legiferare in Gallura in tema di lingua e qualche altro intende chiedere l’indipendenza della Gallura dalla Sardegna...

1) Venendo ai singoli punti da me tracciati e seguiti dal prof. Alinei, gli spiego e preciso che io non mi sono mai atteggiato ad “archeologo”: io infatti non ho mai fatto scavi, non ho mai interloquito in questioni propriamente “archeologiche”, però ho sempre seguito con attenzione ciò che gli archeologi andavano scrivendo intorno alla civiltà nuragica. Rispetto al problema fondamentale e cruciale della “destinazione o funzione dei nuraghi” io non ho fatto l’archeologo, mentre sono intervenuto facendo perno sulla sola razionalità o sul semplice buon senso. Non occorre essere archeologi né avere una profonda conoscenza delle cose militari per notare quanto sia anacronistico - per non dire umoristico - l’uso di parole e di espressioni tipiche dell’arte militare dei tempi moderni e contemporanei, che sono state invece riferite ai tempi della civiltà nuragica e con riferimento al Nuraxi di Barumini:

«proiettili, proiettili di grosso calibro, missili, missili incendiari, munizioni, batterie, batterie d’assedio, batterie di fortini, tecnica della batteria, bocche d’arco, bocche di lancio, bocche da tiro, cortine, cortine frontali, tiro incrociato delle feritoie, piazzola di tiro, centrale di comando delle operazioni di tiro, centrale di tiro e di comando»...

Ed io nella mia opera “La Sardegna Nuragica” (pg. 17), ho commentato: «Di fronte a questo sfoggio di aggiornata terminologia militare modernissima, l'unico dubbio che verrà al lettore sarà quello di sapere se i “proiettili” che adoperavano i Nuragici erano a testata nucleare oppure all'uranio impoverito».

Questa mia fortunatissima opera - uno dei libri più letti in Sardegna (I ediz. 1977, V ristampa 1988, II ediz. 2006, ormai esaurita) - è basata solamente su argomenti di buon senso e inoltre su considerazioni di carattere storico. Ad es. ho fatto notare che Diodoro Siculo (IV 30, V 15, 2) definisce i nuraghi «templi degli dèi» e questo gli archeologi sardi lo ignorano.

In questa mia opera io non ho fatto l’”archeologo”, mentre ho fatto lo “storico”, proprio come fanno tutti i glottologi che si buttano nella direzione diacronica o storica della ricerca. Inoltre ho fatto esattamente il linguista, quando ho precisato che nella lingua italiana la custodia dei pugnali si chiama, non “faretrina”, bensì “fodero” o ”guaina”, mentre la “faretra” era la custodia delle frecce (pg. 16).

2) Scrive testualmente l’Alinei: «A mio avviso, non si dovrebbe giudicare un autore senza conoscere le sue opere principali». Ed io rispondo che almeno la sua “Origine delle lingue d’Europa” – II, ho dimostrato di conoscerla, mentre lui ha dimostrato di non conoscerne nessuna mia, dato che nessuna ne ha mai citato neppure in bibliografia.

3) La frase “i Barbaricini (cioè i Sardi mai romanizzati)” l’ha scritta tale e quale l’Alinei, senza nessuna attenuazione e non valgono per nulla le attenuazioni che egli ha tentato di aggiungere nella sua risposta. Ebbene, questa frase è contraddetta totalmente dalla linguistica, dalla storiografia e dalla archeologia.

4) Sì, l’Alinei l’ha scritto parecchie volte che in Sardegna c’è stata “una prima latinizzazione, che risale al Neolitico”, ma egli non l’ha dimostrata mai, proprio come non ha mai dimostrato una tale “prima latinizzazione” per l’intera Romània.

5) La distinzione linguistica fra Nuorese, Logudorese e Campidanese è fondata su chiare e accertate distinzioni diacroniche e geografiche del latino parlato a Roma e in Africa settentrionale, distinzioni che invece l’Alinei non ha per nulla fornito per il Neolitico. E sorvolo sul gallurese-sassarese, le cui prime attestazioni storiche risalgono appena al XIV secolo dopo Cristo. Come dimostra in maniera del tutto chiara il bellissimo «Condaghe di San Pietro di Silki», in epoca medioevale a Sassari si parlava il logudorese di forma arcaica, quasi del tutto uguale al Nuorese odierno.

6) I linguisti specialisti che hanno approfondito l’argomento del sostrato prelatino esistente in Sardegna sono Max Leopold Wagner, Johannes Hubschmid e Massimo Pittau: ebbene nessuno di questi ha mai parlato di un solo relitto celtico esistente in Sardegna.

7) L’Alinei ha accettato la mia obiezione sul fatto che Sassari non è mai stato un “centro di diffusione linguistica”, come dimostra il fatto che tutti i paesi che gli stanno attorno, anche quelli vicinissimi, parlano il “logudorese” e nient’affatto il “sassarese”. Io però sono caduto in una svista: esiste un paese vicino in cui si parla il sassarese, Sorso.

8) Dunque l’Alinei non diceva una barzelletta, ma esponeva una sua tesi seria, quando ha scritto che “nuraghe” deriva da “nura” «nuora».
E anche questa volta ha dimostrato di non avere letto quanto io ho scritto sulla etimologia di questo appellativo in tre miei scritti, che pure gli avevo segnalato. È l’Alinei dunque che si deve informare prima di intervenire e obiettare ad un suo collega.

Massimo Pittau
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Re: Falbe e bone creteghe a M. Alinei e a la TCP

Messaggioda Berto » mar dic 31, 2013 7:03 am

Anca mi a go da farghe na bona cretega al laoro de Alinei:

par somexo la so etimoloja de la voxe marangon ke lè coela tradisional ma laorà a la luxe de la TCP (Teoria de la Continuità etno-lengoestega dal Paleoletego) par mi no la sta en pìe, però no parsiò retegno xbajà l'enpianto teorego de la TCP:

El Marangon (etimołoja)
http://www.centrostudilaruna.it/forum/v ... 2441#p2441
Moła/maxena/makina, mułin/mołin, mołinaro/mułinaro, munaro, miller, muller, mołeta/gusamołeta, mara, marangon, mortaro
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... RWMEE/edit
Immagine


El marangon de Mario Alinei

5.2. Il marangone, falegname palafitticolo (pajna 890, de L’Origine delle Lingue d’Europa)

Il tipo marangone «falegname» è diffuso in tutto il Nord-Est d'Italia. Come è noto [REW 5528; Frey 1962, 43 ss., Marcato 1982 s.v.], esso deriva dal nome dello «smergo» o «cormorano», uccello tuffatore che in Italiano si può chiamare anche marangone (attestato fin dal Trecento [DELI] ), e di cui esistono diverse varianti dialettali: sic. maraguni marancuni marguni [VS], cal. marguni [Rohlfs], log. margone, prov. margon, gen. magrun [REW 5528], ver. margon smargon [Marcato 1982, 9931, ecc., tutti corrispondenti al lat. *mergo, -onis.
In Latino classico sono attestate le varianti mergus, mergulus, mergula, mergunculus «smergo», dal verbo mergo
«immergere, tuffare» (cfr. mergorae «secchi per attingere acqua dai pozzi» [Gloss. DELL]). Il tipo *mergo, -onis, dopo aver subito anaptissi vocalica e epentesi di nasale, sarebbe diventato "mer(e) (n )go -oni s e, con il passaggio ad -a- della vocale che precede -r- avrebbe acquistato il suo aspetto attuale [diversamente in DELI].
L’epentesi nasale ha un parallelo nel tipo parangon «paragone» dei dialetti veneti attuali.
Per l'anaptissi vocalica si potrebbe ipotizzare un influsso venetico, dato che in venetico essa sembra documentata nel tipo *petar «petra» [Prosdocimi 1978, 301] ???.
Inoltre, la presenza di vocali nasalizzate in Venetico è considerata «probabile» [ibidem, 327], e le formazioni in on- appaiono in alcuni toponimi veneti di probabile derivazione venetica: Pordenone < Naonis portus, Gemona < Glemona, Ragogna, Reunia, Cormons < Cormones ecc. [ibidem, 350-352].

Per quanto riguarda la semantica, la ricerca ha ipotizzato una sequenza di sviluppo che parte dal nome dell'uccello tuffatore, per passare prima al nome del «palombaro» che si tuffa in mare per effettuare operazioni subacquee, poi a quello di chi effettua riparazioni alle parti subacquee della nave, e infine a quella di qualunque lavoro in legno, anche in casa: come si diceva in veneziano, marangoni de nave, marangoni de case.
Il contesto ipotizzato è dunque quello del successo della marineria della repubblica di Venezia, che chiamava marangoni le persone addette ai lavori subacquei nell'Arsenale, e conobbe una corporazione dei marangoni che riuniva tutti i lavoratori del legno.

Per gli aspetti generici, questa ricostruzione della sequenza è impeccabile (???).
Ma nella TC cambiano radicalmente la cronologia e lo scenario.
Anzitutto, come aveva già notato Frey, la metafora dell'uccello tuffatore per il palombaro non è esclusivamente veneziana [Frey 1962, 44]: il significato di «palombaro» è attestato anche a Genova (gen. magron), in Sicilia (v oltre), in Provenza (marsigl. mourgoun «plongeur qui va chercher au fond de la mer ce qui tombe des galères» FEW), e in Italia, a partire dal XIII secolo [DEI].
Inoltre, nei dialetti siciliani il nome dell'uccello significa non solo «palombaro, sommozzatore» [VS], ma anche «chi guada un torrente, trasportando sulle spalle i viandanti» [VS s.v maraguni; cfr. REW], nozione la cui importanza è confermata dall'esistenza di un altro tipo lessicale, maraunieri (pl. ), che designa «coloro che per mestiere trasportavano a guado le persone da una sponda all'altra del fiume» [VS].
Ovviamente, si tratta di uno sviluppo locale, anche se ispirato da modelli settentrionali.
Ed è inutile ricordare che la stessa metafora ricorre nel termine stesso palombaro, almeno se si accoglie l'etimologia secondo cui a motivazione originaria di questo nome è lo «sparviero».
Ciò che è esclusivamente veneto, invece, è lo sviluppo del senso di «falegname» [cfr. Frey 1962, 45].
Senso che dovette diffondersi ben presto fuori Venezia, se lo troviamo già attestato in Toscana nel Trecento [ibidem], e fino a poco fa era diffuso come nome dialettale del falegname in Emilia, e fuori d'Italia in Greco moderno e in Turco [DEI] .
Al contesto veneziano tradizionale, la TC contrappone quello della grande tradizione palafitticola del Nord-Est italiano, nel Bronzo antico e medio (che a mio parere costituisce anche l'antefatto della costruzione stessa di Venezia).
L'ipotesi si basa sull'osservazione che i villaggi palafitticoli del Bronzo antico e medio, concentrati nel Nord-Est italiano, risultano composti nella maggior parte non solo di una parte asciutta, costruita sulla sponda dei laghi con travi, tronchi a reticolo e pali infissi, ma anche di una «parte poggiante su acqua [...] format[a] da un solaio sostenuto da una fondazione complessa di pali con plinti, longheroni e coppie di travi», e da altre forme di bonifica a «cassonatura» [Cardarelli 1992, 375].

Per poter costruire e riparare queste complesse strutture subacquee occorreva certamente una falegnameria e carpenteria estremamente specializzata, necessariamente subacquea (???).

Gli archeologi hanno notato infatti le «imponenti e sofisticate opere strutturali venute in luce nelle «palafitte» e negli altri insediamenti di riva, soprattutto perilacustri», e la «straordinaria perizia tecnica» e la «sorprendente varietà di esperienze e conoscenze» che in esse si manifestano [Peroni 1996, 104]. Una designazione come quella dell'uccello tuffatore per il falegname sarebbe stata molto più plausibile nel contesto delle società palafitticole delle età dei Metalli che non in quella della marineria veneziana.

E sarebbe proprio questa tradizione che si sarebbe poi continuata localmente, fino alla fondazione di Venezia e allo sviluppo della sua marineria. Anche la diffusione del marangone «falegname» in Emilia è difficilmente spiegabile in termini di storia veneziana moderna, mentre sarebbe perfettamente logica se riflettesse gli stretti contatti fra tecnici palafitticoli e terramaricoli.


Node mie:
Xe da dir kel marangon o mastro de marangona o menara o asia el fa asè fadiga a laorar sotoacoa e ke li nostri avi palafitari no li ndava drento l'acoa a scavar buxe par piantar i pali e gnanca li laorava i pali soto acoa; provè valtri, se si boni, a doprar la marangona o mara o menara sotoacoa:

Marangona:
ImmagineImmagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... angona.jpg
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Piantar pali:
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... tipalo.jpg
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... angona.jpg


Casonadure de i vilàj:
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... upin-6.jpg




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Venetego -petar- de -petaris ekupetaris:

Ekupetaris
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... psU2s/edit
Immagine
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