Ƚa bona teoria de ła seitansa

Ƚa bona teoria de ła seitansa

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 4:26 am

Teoria de ła Seitansa – Ƚengoa e Diałeto
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Ƚe orixeni pristorego-storeghe de łe łengoe dite diałeti e caouxa de ła vargogna
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« Albero» e «onda» o evoluzione genetica e diffusione geografica nel mutamento linguistico
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Conservasion e mutasion entel xlengoar
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L’enfloensa del “catastrofixmo” so ƚa ƚengoestega storega
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Na tenega par catar
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Prinçipo de onidà
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ƚa bona teoria de ła seitansa

Messaggioda Berto » lun mar 07, 2016 6:54 pm

Dalla linguistica romanza alla linguistica neoitalide
Francesco Benozzo - Mario Alinei

http://www.continuitas.org/texts/alinei ... omanza.pdf

0. Premessa

La riflessione che vorremmo proporre oggi parte da una considerazione di per sé piuttosto banale: come studenti, docenti e ricercatori, sappiamo che le nozioni di linguistica storica che insegniamo e che costituiscono l’oggetto di studio della filologia e della linguistica romanza sono la conquista di alcuni grandi studiosi, i quali, per rispondere adeguatamente all’esigenza di spiegare la formazione delle lingue europee che allora si cominciavano a studiare su base scientifica, riuscirono mirabilmente a conciliare le acquisizioni dell’archeologia e della storiografia loro contemporanee, filtrate attraverso l’insegnamento della nascente indeuropeistica. Il quadro di riferimento che i nostri maestri proposero risultava innovativo e geniale proprio in que- sto: nel far coincidere i risultati di sintesi di tipo archeologico e storico con il metodo storico-comparativo della linguistica. E le sintesi archeologiche di fine Ottocento ritenevano, appunto – in linea con il paradigma “romanzo” della romanizzazione-latinizzazione dei territori detti appunto neo latini – che la storia delle popolazioni europee quali noi le conosciamo dovesse essere compressa nell’arco di pochi millenni, e non avesse nulla a che fare con la preistoria pre-metallurgica, la quale riguardava, invece, le popolazioni cosiddette pre-indeuropee. Il grande insegnamento che i nostri maestri, i fondatori della lingui- stica romanza, ci hanno lasciato è evidentemente proprio questo: la ca- pacità di allargare gli orizzonti, la necessità di confrontarsi con i risultati delle altre discipline storiche. Se non fosse stato così, le tesi di Gilles Ménage sulla stretta dipendenza delle lingue romanze dal Greco – attraverso il Latino – (in una cornice pre-darwiniana che datava con certezza l’origine di tutte le lingue al 5 maggio del 1491 a.C., secondo calcoli fatti sulla cronologia biblica) 1 , non sarebbero mai state superate dalla visione di Raynouard. Se non fosse stato così, la visione di Raynouard di una “lingua romana” parlata dal VII al IX secolo, da lui identificata col Provenzale, come filtro tra Latino e lingue romanze 2 , non sarebbe mai stata superata da Friedrich Diez. Se non fosse stato così, l’identificazione dello stesso Diez di sei sole lingue romanze e la sua classificazione su base unicamente letteraria 3 non sarebbe mai stata superata dalla sistemazione, ancora oggi vigente, di Meyer-Lübke 4 . Ebbene, il primo volume della grammatica delle lingue romanze di Meyer-Lübke è del 1890, risale cioè a 120 anni fa. Vista la sede in cui parliamo oggi, crediamo di potere e dovere cominciare col chiederci: cosa farebbe oggi un grande maestro come Meyer-Lübke se dovesse per la prima volta spiegare la formazione delle lingue romanze all’interno di un quadro coerentemente allineato ai risultati delle discipline contermini che si occupano di origini europee? Ciascuno darà la sua risposta. La nostra impressione è che, dal momento che non l’ha fatto allora, nemmeno oggi si chiuderebbe nella difesa ad oltranza delle acquisizioni note della disciplina da lui professata, la linguistica appunto. La nostra opinione è che, senza trascurare i grandi risultati ottenuti dalla linguistica, se Meyer-Lübke ricercasse e scrivesse nel 2009 si interesserebbe anzitutto delle risposte date dalle varie discipline: in primo luogo l’archeologia e la storia, e poi quelle scienze che 120 anni fa non esistevano, in particolare la genetica delle popolazioni. Continuare a fornire le stesse risposte del 1890, ignorando i 120 anni di dibattito e soprattutto gli enormi passi avanti compiuti negli ultimi due decenni sulle origini europee significa, secondo noi, far torto agli stessi maestri che fondarono la Filologia romanza e soprattutto al metodo e all’approccio che essi indicarono. Poiché abbiamo parlato di maestri della linguistica, vale la pena citare a questo proposito una frase di Benvenuto Terracini, il quale, in una Lettera aperta a Giacomo Devoto del 1933, dal titolo Linguistica ed archeologia , scriveva: «l’archeologia, la filologia e la linguistica […] non sono tanto […] tre sorelle che vadano a braccetto, ma una persona sola, se pure con tre aspetti ed attitudini alquanto diverse; e questa persona potremo chiamare tanto per intenderci: storia della cultura, la quale a sua volta, è semplicemente storia» 5 . In molti casi, invece, si assiste da parte dei linguisti e dei filologi a un’autentica “reificazione” del loro oggetto di studio: reificazione che ha portato a una visione chiusa e autoreferenziale 6 , e, oltretutto, alla strana convinzione che il linguaggio (e di conseguenza la scienza che se ne occupa) sia una realtà a se stante, un sistema che cresce e si modifica in modo autonomo, per forza interna, la cui storia è altra cosa rispetto alla storia in quanto tale (come se un archeologo pensasse che i templi greci, gli archi e i teatri romani, i ripostigli dell’età del Bronzo, le palafitte calcolitiche, le capanne neolitiche, i sepolcri mesolitici e gli utensili paleolitici si siano fatti e disfatti da sé, per una specie di forza magmatica della terra) 7 .

1. Problemi del paradigma romanzo tradizionale
Si possono indicare alcuni fatti salienti, sui quali a nostro modo di vedere il romanista non può fare a meno di riflettere.

1.1. Aporie

Anzitutto bisognerebbe prendere atto di alcune evidenti aporie del paradigma tradizionale, di cui ci limitiamo a ricordare tre esempi: il primo è la visione secondo la quale la frammentazione dialettale dell’intera Corsica – latinizzata dai Romani a partire dal 259 a.C. – sa- rebbe da attribuire al dominio pisano (o, secondo altri studiosi, a quello lucchese), cioè a un influsso tardomedievale, quando (a tacer d’altro) innumerevoli peculiarità lessicali corse relative all’agricoltura sono del tutto diverse da quelle pisane e lucchesi 8 , e i toponimi dell’isola appartenenti agli strati più arcaici (non certo medievali!), vale a dire gli oronimi e gli idronimi, mostrano già evidenti caratteristiche di tipo toscano-tirrenico 9 .

Il secondo esempio, sempre su un piano geolinguistico, è rappre- sentato dal fatto che nella visione tradizionale resta senza spiegazione, ma va comunque obbligatoriamente postulato, come il Latino sia penetrato così profondamente negli usi delle popolazioni indigene della Dacia (già William Denis Elcock si domandava: «se il Latino non è riuscito a insediarsi durevolmente a nord delle Alpi né in Britannia, dove la romanizzazione si è prolungata per quattro secoli ed è riuscita a penetrare più profondamente nella vita e negli usi delle popolazioni indigene, come spiegare la sua apparente sopravvivenza in un avamposto tanto remoto e precario?») 10 , così come restano misteriosi i modi e le ragioni dell’invisibile diaspora rumena, che avrebbe proiettato Istrorumeni in Istria, Arumeni in Albania, Grecia e Macedonia, e Meglenorumeni nella frontiera tra Grecia e Bulgaria. Concordiamo con Alexandru Nicolescu, quando afferma che «ciascuna generazione di ricercatori ‹ha› il dovere di porsi il fondamentale problema della storia della lingua romena, e di verificare con altri metodi […] le asserzioni precedenti» 11 .
Come terzo esempio citiamo una questione di tipo grammaticale: la formazione del futuro perifrastico. Affinché “tenga” il modello genetico-derivativo dal Latino alle parlate neolatine, si è costretti a parlare, per questo costrutto che è attestato in quasi tutte le aree romanze, di “innovazione tarda”: il buon senso, evidentemente, stante la vastità del suo areale di diffusione (proprio il contrario della sporadicità tipica delle “innovazioni tarde”) obbliga invece a considerarlo come la variante originale e più diffusa di futuro.

1.2. Acquisizioni recenti dell’etnodialettologia

Ma lasciamo stare le contraddizioni della visione tradizionale. Passando a un piano etnodialettologico si deve sottolineare che la ricerca più recente ha evidenziato l’esistenza, nei dialetti d’Europa – e tra questi, in particolare, nei dialetti romanzi – di parole e di aspetti semantici e cognitivi attribuibili con sicurezza a visioni del mondo preistoriche e ignoti al Latino, da cui tali dialetti dovrebbero invece derivare: ad esempio gli aspetti totemici e tabuistici dei nomi di animali e di fenomeni atmosferici 12 , o l’aderenza dei nomi alle tecniche dell’agropastorizia neolitica 13 , o le connessioni semantiche attestate nei diversi dialetti per parole che significano al tempo stesso ‘sognare’, ‘guarire’, ‘comporre poesie’ – traccia evidente di una visione del mondo di tipo sciamanico 14 .

Anche qui, sempre per restare in contatto il più possibile con i maestri, si ricorderà quanto profondo e imprescindibile è stato, fin dagli inizi, l’apporto della dialettologia agli sviluppi della filologia romanza 15 . E, per inciso, questo aspetto fondamentale relativo all’arcaicità dei dialetti era comunque già noto alla romanistica (che tuttavia non ha saputo trarne le conseguenze necessarie) anche prima delle acquisizioni più recenti: i dialetti parlati oggi sono stati spesso utilizzati, ad esempio, per ricostruire voci di lingue pre-romane (quali il Gallico, l’Osco-Umbro, il Venetico ecc.). Non a caso, poi, il romanista che ricostruisce voci latine non attestate lo fa a partire dai dialetti viventi; basterebbe questa apparentemente strana commistione (rappresentata dal fatto che a ricostruire forme latine non attestate non è il latinista o l’indeuropeista, ma il dialettologo specializzato nell’area neolatina contemporanea) per rendersi conto della necessità di ridiscutere l’assunto genetico-derivativo della romanistica tradizionale, per il quale la variante di prestigio, che è necessariamente l’unica ad essere attestata in forma scritta (e cioè anche anticamente), viene assunta come originaria, e cioè posta all’origine delle altre varianti. Su scala diversa, è fondamentalmente lo stesso errore di prospettiva che aveva compiuto Raynouard col Provenzale, con la differenza che di una vera e propria romanizzazione esiste, come tutti sanno, un’inconfutabile evidenza storica, la quale è stata evidentemente ritenuta sufficiente per garantire un paradigma di riferimento, e un fondamento teorico, all’intera teoria romanistica. È non a caso coerente con questa visione la già menzionata stravagante spiegazione della toscanità dei dialetti corsi come esito di un influsso pisano tardo- medievale (influsso che anche in questo caso è certamente documentato storicamente). Seguendo la stessa logica, bisognerebbe postulare il runico (attestato in Islanda fin dal II secolo) all’origine di tutte le lingue germaniche, appoggiandosi all’evidenza storica delle varie calate da nord delle diverse tribù dei Germani, o considerare l’irlandese antico, attestato in scrittura ogamica fin dal III sec., come madre di tutte le lingue celtiche, magari seguendo i ben documentati viaggi dei missionari irlandesi in Europa. Ed effettivamente, a scanso di equivoci, le ultime due tesi sono state sostenute, in passato, da alcuni linguisti 16, che (in questo caso fortunatamente) non hanno goduto dell’appoggio delle rispettive comunità scientifiche. Senza contare le teorie – non a caso nate, proprio come quella della latinizzazione, sull’onda del catastrofismo e dell’invasionismo, cioè dell’unico paradigma archeologico in voga fino ai primi del Novecento – che hanno postulato, nel corso degli ultimi secoli, un’origine delle lingue d’Europa ora dall’Olandese (Goropius Becanus) ora dall’Irlandese (Parsons), ora, soprattutto, dal Greco 17 .


1.3. Il problema della romanizzazione

Un altro aspetto di cui la romanistica dovrebbe incominciare a tener conto riguarda i recenti punti di vista sui modi in cui si attuò il processo di romanizzazione. La storiografia più recente ha insistito molto non soltanto (ed era già noto) sul fatto che la civiltà romana generalmente non obbligava le popolazioni autoctone all’uso della lingua, del diritto e della religione romane, ma soprattutto – grazie a ricerche condotte congiuntamente con gli archeologi – sulla bassissima entità numerica dei coloni inviati dal Senato nei territori assoggettati 18 , la cui presenza nelle Gallie è stata paragonata da Richard Hingley a quella dei prefetti di oggi in Francia e Italia 19 . Sullo stesso piano, si deve citare la recente acquisizione dell’ équipe di Guido Barbujani, uno dei maggiori specialisti mondiali di genetica delle popolazioni 20 , secondo il quale «there is no evidence that Roman colo- nization entailed massive immigration» 21 . La visione tradizionale della colonizzazione romana, che – non dimentichiamolo – è la versione ufficiale tramandata dagli storici dell’Impero, cozza insomma in molti punti con l’evidenza archeologica, storiografica e genetica.
Anche al di là di questi aggiornamenti della ricerca, bisognerebbe riflettere più di quanto si faccia generalmente – dando per scontato il paradigma invasionista – sul fatto che gli episodi di invasione offerti dalla storia antica e moderna indicano che i casi di sostituzione lin- guistica totale sono rarissimi e che, in particolare, sono generalmente associati a un genocidio. Le culture e le lingue precedenti, inoltre, anche in questi casi sporadici, sopravvivono sempre, magari in forma di minoranze o piccole sacche: si pensi ai tanti casi della storia più re- cente, dove, oltretutto, la sopravvivenza delle lingue dei popoli assoggettati si verifica nonostante il forte iato di cultura tra i colonizzatori europei (di livello cioè industriale) e i popoli colonizzati, il cui livello è stato confrontato con gli stadi del Paleolitico Superiore (cioè popoli caratterizzati dal sistema di caccia e raccolta: Nuova Guinea, Australia, Africa), del Neolitico (cioè il sistema di coltivatori agricoltori: Africa, Centro e Sud America), o al massimo dei Metalli (artigianato specialistico, o urbano: Nord Africa, India, Asia). Non è certa- mente di questo tipo, come tutti sappiamo, la disparità culturale stadiale tra i Romani imperiali e i popoli che si sarebbero estinti, insieme alle loro lingue, a contatto con loro: sia i Romani imperiali che i vari popoli misteriosamente cancellati dalla faccia dell’Europa nei primi secoli della nostra era appartengono, come lo stesso paradigma tradizionale riconosce, allo stesso sistema di cultura, cioè quello stratificato dell’età del Ferro e successivo ad essa.

1.4. Il Greco Miceneo come prova di una differenziazione indeuro- pea nell’età del Bronzo

Guardando fuori dall’orizzonte neolatino, il fatto decisivo su cui riflettere è la decifrazione, da parte di Michael Ventris (un architetto appassionato di linguistica), dell’alfabeto sillabico cosiddetto “Lineare B”, cioè la clamorosa scoperta linguistica, avvenuta nel 1952, che nel Bronzo (ca. 1500 a.C.) esisteva già il Greco Miceneo 22 . Tale scoperta – che costituisce una testimonianza sicura di una differenziazione già avvenuta, all’epoca, delle lingue indeuropee – dovrebbe imporre l’introduzione, nel quadro epistemologico delle rispettive discipline di studio, di un Germanico dell’età del Bronzo, di un Celtico dell’età del Bronzo, di uno Slavo dell’età del Bronzo, e così via, fino, naturalmente, al riconoscimento dell’esistenza di un Latino dell’età del Bronzo, che vuole dire, ovviamente, un Latino pre-romano.

Già Giacomo Devoto aveva compreso che dopo lo «scossone miceneo […] diventava lecito ammettere che infiltrazioni indeuropee fossero state attratte in età corrispondente ‹(cioè nel II millennio a.C.)› anche verso l’Italia e, proprio perché durate a lungo nel tempo, fossero rimaste invisibili»; e aveva aggiunto: «Non si tratta di sole astratte possibilità, ma di esigenze che impongono un certo quale innalzamento della cronologia. In base a riferimenti archeologici, […] dal punto di vista linguistico, si sente la necessità di ambientare in Italia tradizioni indeuropee arcaiche, e precisamente indeuropeismi periferici, che per forza possono essere connessi solo con la civiltà ‹(neolitica)› di Matera, non con civiltà più recenti. In seconda linea, una indeuropeità meno arcaica è riconoscibile nell’arrivo di nuclei indeuropei nell’area delle Terremare. In terza linea, indeuropeismi ancora più recenti trovano corrispondenza e ambientamento nella civiltà piceno-adriatica. […] A monte del “latino di Roma” ci sono fasi storico- culturali complesse. […] La mia tesi è che le varietà indeuropee con- fluite in Italia sono “infinite”, e al massimo raggruppabili in un sistema “italoide”, che ha i tre focolai principali citati: uno nella pianura padana, l’altro nelle Puglie, l’altro fra l’Appennino marchigiano e il mare» 23 .

Figura 1. Michael Ventris

Se un indeuropeista del calibro di Devoto fu subito pronto ad accettare la possibilità di modificare e smentire le proprie tesi, alle quali aveva lavorato per la sua intera vita di studioso, perché non dovrebbero farlo i romanisti di oggi?

1.5. Acquisizioni archeologiche

Un altro fatto decisivo che dovrebbe in qualche modo importare al romanista è che l’archeologia da oltre due decenni non fa che ripetere che gli assetti geografici, urbani, sociali ed etnici dell’età protostorica e storica in tutta Europa, e in particolare in Italia, sono stati già raggiunti, definitivamente, nell’età del Bronzo 24 . Le aree culturali dell’età del Bronzo in Italia e in Europa prefigurano cioè, da un punto di vista sociale, territoriale, etnico ed economico, quelle protostoriche e storiche. Parallelamente, la ricerca archeologica insiste da più de- cenni sulla dimostrabile sostanziale continuità delle culture del Bronzo dal Neolitico.

1.6. Un dato emblematico: l’antropizzazione delle Alpi

Un sesto fatto, anch’esso clamoroso per le conseguenze sulla teoria della romanizzazione, è la recente dimostrazione, da parte degli archeologi italiani, che l’antropizzazione stabile delle Alpi comincia nel IV millennio; che i successivi movimenti di graduale occupazione delle valli pedemontane e alpine possono essere seguiti – con sempre maggiore precisione – dal IV millennio fino all’età storica; e che Roma non contribuisce quasi per nulla al tessuto socio-economico delle valli alpine 25 .

1.7. La demolizione del modello indeuropeo tradizionale

1.7.1. Il paradigma neolitico

E veniamo al punto più importante, cioè la necessità di approfondire linguisticamente l’avvenuta demolizione del modello indeuropeo tradizionale (vale a dire l’invasione recente, nell’età del Rame, degli Indeuropei) ad opera della ricerca archeologica, in primis da parte di Colin Renfrew (il cui libro di sintesi, Archaeology and Language , del 1987, è stato tradotto in italiano proprio 20 anni fa, e cioè due anni dopo la sua pubblicazione, nel 1989) 26 e, parallelamente, da parte di studi sulla genetica delle popolazioni, in particolare – ma non solo – la scuola di Ammermann e Cavalli-Sforza. Secondo il paradigma che è stato chiamato della “dispersione neolitica”, la diaspora indeuropea coincide con la diffusione e l’espansione dell’agricoltura (cioè dell’ad- domesticamento e della coltivazione intensiva e stanziale di cereali) e delle popolazioni che per prime la praticarono, supposte di lingua indeuropea, intorno all’VIII-VII millennio a.C. a partire dall’Anatolia. Questa indeuropeizzazione pacifica dell’Eurasia da parte di coltivatori anatolici, che sostituisce il modello dell’invasione guerriera nel Calcolitico, si appoggia alla teoria delle onde di diffusione genica ricostruite da Ammerman e Cavalli-Sforza 27 . Ora, come ha notato per primo Renfrew, che vi ha costruito la propria teoria, le aree delle principali culture neolitiche dell’Europa meridionale e continentale corrispondono da vicino alle principali aree linguistiche dell’Europa di oggi. Per quanto riguarda la cultura archeologica che dovrebbe interessare i romanisti, si tratta della cultura della Ceramica Cardiale del- l’VIII millennio a.C., il primo complesso neolitico dell’area neolatina (che nel quadro del paradigma paleolitico è in continuità con il com- plesso epigravettiano del XXIV millennio a.C., il quale presenta uno sviluppo areale quasi esattamente sovrapponibile ad esso) 28 .

1.7.2. Il paradigma paleolitico

La visione di Renfrew presenta numerosi limiti e diverse contraddizioni, sia sul versante linguistico che su quello archeologico 29 e genetico 30 , delle quali per la verità lo stesso Renfrew ha preso atto, continuando incessantemente a correggere in alcuni punti la propria teoria 31 . Per provare a superare queste contraddizioni, e soprattutto per allinearsi alle conquiste della ricerca archeologica più recente, nell’ultimo decennio si è delineato un nuovo paradigma paleolitico, che retrodata ulteriormente l’emergere dell’Indeuropeo fino al Paleo- litico Superiore: poiché tuttavia le conseguenze per una linguistica ro- manza finalmente pronta ad adattare il proprio quadro epistemologico alle nuove cronologie non muterebbero troppo scegliendo il modello di Renfrew e Cavalli-Sforza o quello paleolitico formulato in primo luogo da M. Otte, M. Alinei e G. Costa 32 , non perdiamo qui tempo a illustrare le principali acquisizioni della Teoria della Continuità e ci accontentiamo di fermarci all’ipotesi della dispersione neolitica.

Figura 3. La cultura paleolitica dell’Epigravettiano (XXIV millennio a.C.)

Citiamo però un esempio su cui riflettere o possibilmente avviare un dibattito, relativo alla penisola iberica nord-occidentale: in alcuni studi che abbiamo congiuntamente condotto su questo territorio negli scorsi cinque anni 33 , abbiamo provato a dimostrare che l’attuale Galizia appartiene a un’area linguistica di insediamento protoceltico. Tutti gli indizi schierati (toponomastici, fonetici, morfologici, lessicali, archeologici, etnologici) descrivono, sulla base di una indubitabile cumulative evidence , una celticità originaria dell’area lusitano-gallaica, ben più antica di quella del Celtiberico, e più arcaica di quella attestata dalle parlate galliche della Francia attuale. Questo dato non è spiegabile in alcun modo nel quadro tradizionale. L’unica possibilità per giu- stificare le connessioni celto-atlantiche originarie dell’area galiziana è quella di identificare quest’area come una propaggine sud-occidentale della patria originaria dei popoli di lingua celtica, e di retrodatare la presenza celtica a un’epoca quantomeno mesolitica. Ciò che sappiamo del Paleolitico iberico nord-occidentale, poi, con le sue tracce di una evidente continuità dall’industria paleolitica dei cantos tallados fino ai siti neolitici e ai giacimenti di epoca romana, e con la totale assenza di tracce di invasioni in epoca mesolitica-neolitica 34 , consente di proiettare la situazione appena descritta al Paleolitico Superiore, quando compaiono le testimonianze più evidenti di una presenza di sapiens sapiens nella fascia settentrionale cantabrica-galiziana-lusitana. L’area gallega-portoghese sarebbe insomma di superstrato italide ma di fondo celtico, presentando forti affinità linguistiche e archeologiche soprattutto con l’area irlandese e gallese; l’ultima romanizzazione, quella che per la teoria tradizionale avrebbe provocato la nascita delle parlate “romanze” della penisola iberica, non fece altro che acuire questa situazione millenaria di interrelazione tra Celtico e Italide, completando l’italidizzazione delle zone nord-occidentali. Ebbene, nel dicembre dello stesso anno (il 2006) in cui, a maggio, abbiamo presentato e discusso, a Santiago de Compostela, questa nostra ipotesi di ricerca, è venuta una straordinaria e inattesa conferma dalla ricerca genetica:
l’ équipe oxfordiana di B. Sykes ha infatti dimostrato che il tipo genetico degli attuali abitanti della Penisola Iberica nord-occidentale è lo stesso degli abitanti del Galles e dell’Irlanda; questo aplogruppo genetico, inoltre (chiamato oggi Atlantic Modal Haplotype ), rimonta al Paleolitico superiore 35 . Più recentemente, questa tesi è stata ulteriormente confermata dallo studio della distribuzione dell’aplo- gruppo R1b (gli aplogruppi possono essere immaginati come i grandi rami dell’albero genealogico della componente maschile della specie Homo Sapiens ); nella sua mutazione M343, tale aplogruppo compare in Europa già 40000 anni fa con l’ uomo di Cro-Magnon, diretto progenitore degli attuali europei, ma si attesta verosimilmente solo dopo l’ultima era glaciale: esso si trova nelle popolazioni celtiche delle isole, con un suo graduale affievolirsi da Nord-Ovest a Sud-Est (in perfetta coerenza con quanto – in opposizione alla teoria tradizionale – sostiene il paradigma paleolitico circa la diffusione dei Celti, già nel Mesolitico, da Nord-Ovest a Sud-Est) 36 .

Figura 4. Distribuzione dell’aplogruppo R1b in Europa

La “convergenza paleolitica” dei dati studiati dalla ricerca archeo- logica, linguistica, genetica ed etnofilologica è in questo caso fuori di- scussione.

2. Conseguenze dei nuovi paradigmi per la linguistica “romanza”: dialetti “romanzi” moderni come dialetti “italidi” pre-romani

Fino a poco tempo fa il modello della dispersione neolitica era stato accettato, da parte di quegli archeologi che non vi si erano opposti, con un’importante modifica: l’inconfutabile arrivo, in Europa, a cominciare dalla penisola balcanica, italiana e iberica, dei primi coltivatori mediorientali, non andava visto come un processo di “colonizzazione”, bensì come la semplice “introduzione” del “pacchetto” delle innovazioni agropastorali, che sarebbe stato poi “adottato” dagli autoctoni. Le parole immigrazione e colonizzazione , tanto per essere chiari, sono state sostituite (da parte dello stesso Renfrew) con le parole “convergenza” e “contatto” (questa modifica, fra l’altro, è tuttora uno degli argomenti principali del paradigma paleolitico) 37 . Proprio in queste settimane, però, si è assistito alla presa di posizione di due archeologi italiani (Andrea Pessina e Vincenzo Tiné, nel manuale Archeologia del Neolitico ), in favore della tesi della colonizzazione su vasta scala, secondo il modello originale di Renfrew e Cavalli Sforza 38 . Se questa tendenza si affermasse, cioè se il Neolitico europeo venisse visto come il risultato di una massiccia colonizzazione, in pratica questo significherebbe l’adozione generalizzata del modello di Renfrew, secondo cui l’introduzione dell’agropastoriza in Europa coincide con l’arrivo degli Indeuropei. Tutta la linguistica storica, cioè, a cominciare da quella romanza, dovrebbe seguire le ulteriori conclusioni di Renfrew, che sono inconfutabili se si accetta la premessa della colonizzazione. Dal punto di vista della filologia romanza le conseguenze sarebbero enormi, di poco divergenti da quelle a cui porterebbe l’adozione del paradigma paleolitico 39 .

La prima e più importante, quella su cui vogliamo insistere in questo scritto, è che i dialetti “romanzi moderni” dovrebbero necessariamente essere considerati, a questo punto, i relitti di lingue preromane affini al Latino, facenti parte di un gruppo indeuropeo che si può definire “Italide”. Roma, cioè, avrebbe un ruolo secondario e recenziore, che riguarderebbe la sola diffusione del latino di Roma, dato che un Latino più arcaico, o meglio diversi Latini più arcaici, e come tali più vicini a quello che noi chiamiamo “Latino volgare”, dovevano essere già presenti nell’area fin dal Neolitico, assieme alle varianti orali delle lingue affini che noi conosciamo nella variante scritta elitaria, cioè osco-umbro, venetico, ligure, e assieme alle molte altre, a noi ignote, ma anch’esse affini (di una di esse sembra esservi traccia nell’iscrizione paleoitalica da Tortora) 40 . Senza troppi giri di parole, insomma, l’orizzonte cronologico romanzo si trasforma in un orizzonte tardo-indeuropeo, orizzonte nel quale deve avere giocato un ruolo fondamentale la dialettica tra élites e ceti subordinati: in termini linguistici, cioè, bisogna sempre considerare l’esistenza di una dialettica tra norme elitarie e parlate subordinate pre-romane, non attestate, ma coesistenti, e pertanto preesistenti. Così come i dialetti italiani sono preesistenti all’italiano (ex-fiorentino), e presuppongono l’esistenza di dialetti già del latino di Roma, i dialetti stessi del latino di Roma, preesistono al latino ed hanno le loro radici nelle età preromane dei Metalli. Se invece applicassimo alla situazione dialettale italia- na un paradigma simile a quello tradizionale, dovremmo sostenere che i dialetti italiani “sono nati” dal fiorentino!

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