Hong Kong: l’ex colonia divenuta modello di libertà economica (1° parte)
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Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano la prima parte dell’articolo Freedom Works: The Case of Hong Kong, apparso nel Novembre 2008 sulla rivista The Freeman (pubblicata dalla Foundation for Economic Education), da parte di Andrew P. Morriss, docente di diritto e professore di business all’University of Alabama. (Traduzione di Luca Fusari)
Hong Kong ha una notevole reputazione per la libertà economica e per le sue virtù liberali classiche. In una serie di articoli, Milton Friedman utilizzò Hong Kong per mostrare come il potere del libero mercato, in combinazione con poco altro, sia in grado di creare ricchezza, sottolineando che il suo reddito pro-capite è passato dal 28% nel 1960 al 137% nel 1996 sempre sotto la Gran Bretagna.
Come Friedman scrisse nel 1998, «confrontate la Gran Bretagna, il luogo di nascita della rivoluzione industriale, la superpotenza economica del XIX° secolo sul quale impero il sole non tramontava mai, con Hong Kong, una lingua di terra sovraffollata, senza risorse ad eccezione di un grande porto. Eppure nel giro di quattro decenni gli abitanti di questa lingua di terra sovraffollata hanno raggiunto un livello di reddito superiore di un terzo rispetto ai residenti della sua ex madrepatria».
La valutazione di Friedman corrisponde al ranking costante di Hong Kong in cima all’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation e all’Economic Freedom of the World del Fraser Institute. Ad esempio nell’Index 2008 Hong Kong ha ottenuto più del 90% in sette dei dieci parametri di libertà economica. Notevole come il punteggio più debole di Hong Kong (la libertà dalla corruzione, dove si collocava alla 13° posizione su 180 Paesi valutati nel 2006 da Transparency International) fosse davanti a quello degli Stati Uniti (nel 2008 il 5° Paese più libero nel suo complesso, 20° sulla libertà dalla corruzione).
Perché Hong Kong è così libera? Hong Kong non sarebbe mai divenuta la potenza economica che è oggi se i politici di alto livello, sia inglesi che cinesi, avessero avuto voce in capitolo. La Gran Bretagna acquisì l’isola di Hong Kong nel 1842 (ulteriore territorio è venuto in seguito), attraverso un accordo tra il rappresentante britannico, il capitano Charles Elliot, e il negoziatore cinese, il marchese Ch’i-ying, per risolvere una piccola guerra che era scoppiata per questioni commerciali (fu un indennizzo per un sequestro cinese di oppio britannico, ma la controversia era più ampia rispetto alla questione dell’oppio, e studi recenti tendono a mettere in dubbio l’etichettatura convenzionale della cosiddetta ‘guerra dell’oppio’).
L’accordo risultante fu impopolare sia presso la corte imperiale cinese che presso il governo britannico. Alle autorità cinesi non piaceva qualsiasi cessione di territorio ai britannici, ed erano preoccupati per l’impatto sui ricavi tariffari derivanti dalla creazione di un porto da questi controllato. Inoltre, i cinesi disprezzavano l’ossessione britannica per il commercio.
Il governo britannico ritenne Hong Kong una location povera rispetto alle possibili alternative, come Formosa. Tuttavia i limiti alla comunicazione nel XIX° secolo costrinsero i due governi a delegare l’autorità per risolvere la controversia ai loro rappresentanti in loco. Come ha scritto Frank Welsh in un suo eccellente volume A History of Hong Kong, fu «una fonte di imbarazzo e fastidio per i suoi progenitori fin dalla sua prima apparizione sulla scena internazionale» (se non diversamente indicato, le citazioni sono tratte dal libro di Welsh).
STORIA INIZIALE
Le valutazioni iniziali sul potenziale di Hong Kong furono pessimiste. Lord Palmerston, nella peggiore previsione mai fatta da un diplomatico britannico, concluse che era «un’isola sterile, che non sarà mai un luogo per il commercio». Il tesoriere coloniale, Robert Montgomery Martin, uno scrittore prolifico sul possedimenti d’oltremare della Gran Bretagna (compresi i cinque volumi sulla History of the British Colonies pubblicati nel 1840), al pari della valutazione di Lord Palmerston del 1844, ritenne che «non c’è un commercio notevole di qualsiasi dimensione a Hong Kong. (…) C’è solo un’azienda nell’isola, ma bisognerebbe (…) essere contenti se si riavesse indietro la metà dei soldi spesi nella colonia e ritirarsi da essa. (…) Ad ogni modo, non sembra esserci la minima probabilità che Hong Kong diventerà mai un luogo di scambi commerciali».
Tuttavia alcuni commerci cominciarono a seguito della creazione di depositi mercantili britannici. Ma le prime politiche britanniche sul loro nuovo territorio fecero poco per promuovere la crescita economica. In una indagine parlamentare del 1847 sulla situazione economica di Hong Kong, si scoprì che il governo britannico aveva inizialmente posto un’innalzamento «il più grande possibile sul reddito» e che questo aveva danneggiato il commercio, concludendo che le restrizioni istituite sul commercio dai primi amministratori britannici, allo scopo di aumentare le entrate, significavano che «danneggiarono Hong Kong».
Hong Kong fisicamente venne ampliata due volte durante il XIX° secolo. Il territorio sulla terraferma di fronte all’isola di Hong Kong, Kowloon, fu acquisito in modo “casuale” per 500 talleri durante un conflitto sino-britannica nel 1859 in un accordo tra un console britannico e un funzionario Ch’ing. Nel 1898 la Gran Bretagna ottenne in leasing per 99 anni i Nuovi Territori: il territorio continentale aggiuntivo oltre ad alcune isole.
In entrambi i casi, la logica d’espansione fu quella di proteggere il porto dalla serie di cannoni situati sulla terraferma. Anche se gli inglesi speravano che i Nuovi Territori affittati divenissero una sistemazione più stabile, il loro accordo per un contratto di locazione anziché per una cessione permanente svolse un ruolo importante nel ritorno di tutto il territorio alla Repubblica Popolare Cinese nel 1997.
La Gran Bretagna fece relativamente poco con la sua nuova colonia, al di là di stabilire l’ordine pubblico e l’estensione della rule of law. Il risultato fu essenzialmente un porto franco, molto simile a quelli che le potenze europee stabilirono sulla terraferma con il trattato di Nanchino nel 1842-1843. Uno dei motivi di tale politica di relativo laissez-faire da parte della Gran Bretagna fu la persistenza del punto di vista maturato dai primi funzionari coloniali che i residenti cinesi non volessero o non apprezzassero la legislazione britannica.
Questo atteggiamento è evidente nella testimonianza di una commissione parlamentare della metà del diciannovesimo secolo, esaminando l’amministrazione della colonia, il colonnello John Malcolm, un collaboratore del governatore, disse ai parlamentari britannici che «i cinesi sono un popolo particolare, a cui non piace essere disturbato. Loro non ci capiscono, non possono capire le nostre vie, e quando gli viene detto che devono fare prima una cosa e poi un’altra, risultano spaventati e fuggono da noi».
Che si trattasse o no di una caratteristica “peculiare” dei cinesi avere antipatia per un governo arbitrario, al fine di evitare conflitti durante il mandato, la tendenza generale fu quella di lasciare sole le persone, le politiche adottate in ottica del commercio diede alla colonia fin dall’inizio il beneficio della rule of law.
Continua…