Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Re: Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » dom nov 25, 2018 9:51 am

L'idiozia che si possa finanziarsi e pagare il debito stampando moneta


Voce di Lucca - Perché lo Stato deve prendere a prestito la moneta?
Cristofani Comunicazione

http://www.lavocedilucca.it/post.asp?id=68055

Usiamo un denaro non convertibile, in oro o altro, che trae valore dal solo fatto che noi lo accettiamo e spendiamo a nostra volta per pagare, prima di tutto, le tasse. Perché mai lo Stato, che ci rappresenta tutti, dovrebbe prenderlo a prestito e pagare interessi a banche private (per lo più estere), che lo creano dal nulla senza costi? Invece di emettere il denaro direttamente?
Paghiamo circa 70 miliardi annui di soli interessi sul debito pubblico. Siamo forse popoli ingenui e ignoranti?
Lo dice persino uno del Fondo Monetario Internazionale:
“Lo Stato può battere moneta. Può quindi finanziare il proprio deficit (la propria spesa) o prendendo a prestito o stampando moneta. Fa una bella differenza: se per finanziare il proprio deficit lo Stato si indebita, paga un interesse e deve preoccuparsi di rinnovare i prestiti in scadenza. Se batte moneta non deve preoccuparsi di tutto questo.” (C. Cottarelli - Il Macigno - Feltrinelli 2016)
Uscire dal sistema dell’emissione a debito è una priorità.
A proposito dell'inflazione, solo eventualmente creata dall'emissione, ricordiamo che lo Stato può sempre togliere dalla circolazione la eventuale moneta creata in eccesso, attraverso le tasse, neutralizzando l'effetto inflattivo.
Mentre invece la banca (il sistema bancario in generale) ha tutto l'interesse ad aumentare di continuo la massa monetaria, e quindi il debito, perchè lucra gli interessi su un volume sempre maggiore, a prescindere dalla crescita del PIL.



Debito pubblico, chi lo crea stampando moneta e chi lo paga con le tasse
Loretta Napoleoni - Economista

5 gennaio 2014

https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/0 ... sse/832248

Nel 2014 diventerà operativo il fiscal compact, per chi voglia rinfrescarsi la memoria ecco la definizione che riporta Wikipedia:

“Il Patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, conosciuto anche con l’anglicismo Fiscal compact (letteralmente riduzione fiscale), è un accordo approvato con un trattato internazionale il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 stati membri dell’Unione europea, entrato in vigore il 1º gennaio 2013.”

L’accordo contiene le regole d’oro della gestione fiscale degli stati membri, tra queste c’è l’impegno del nostro paese a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al 60 per cento attraverso una maxi manovra finanziaria all’anno per i prossimi 20 anni, la prima avverrà quest’anno. Dato che al momento questo rapporto supera il 132 per cento (equivalente a 2080 miliardi di euro circa) bisogna ridurlo di almeno 900 miliardi di euro, il che equivale a circa 45 miliardi l’anno per due decadi. Per chi voglia cifre aggiornate al nano secondo sul debito pubblico qui trovate dove il conteggio avviene in tempo reale.

Naturalmente nel dibattito italiano non si parla del fiscal compact, ma di questo non dobbiamo sorprenderci, se ne parlerà a josa quando bisognerà tirar fuori i soldi per rispettarlo, tra qualche mese. In pratica il pagamento dei 45 miliardi avverrà o attraverso l’aumento delle tasse o attraverso la contrazione della spesa pubblica, che può comprende sia la riduzione dell’occupazione che dei salari pubblici, o in tutti e due i modi. Morale: saremo più poveri perché dobbiamo tirare la cinghia ulteriormente per ridurre il volume totale dei nostri debiti.

La prima domanda da porre ai lettori di questo giornale ed a tutti coloro che commentano quasi religiosamente i suoi articoli è la seguente: a chi dobbiamo restituire questi soldi? La risposta più semplice è la seguente: alla banche straniere che ce li hanno prestati. Ma dal 2011 in poi la percentuale delle banche straniere nostre creditrici è scesa ed oggi è inferiore al 40 per cento. Chi ha in portafoglio gran parte del nostro debito pubblico sono le banche italiane, tra le quale c’è anche il Monte dei Paschi, che deve allo Stato, e cioè a noi poveri debitori, 4 miliardi di euro.

Creditori e debitori sono le stesse persone, direte voi, perché fanno tutti parte dello Stato, della collettività. Ma questa spiegazione non è del tutto corretta perché né lo Stato dei contribuenti né le banche nazionali controllano la massa monetaria, detto in parole povere, non stampano moneta. Entrambi la ricevono dalla banca centrale attraverso il debito. Assurdo? Succede in quasi tutto il mondo a pare qualche eccezione, come la Svezia e la Cina dove la banca centrale è di proprietà dello Stato, quindi si potrebbe dire che la collettività si indebita con se stessa.

La Banca Centrale Europea è l’unico organismo che ha il diritto di stampare moneta, lo dovrebbe fare secondo parametri fissi ma data la crisi Draghi è riuscito ad aggirarli ed è lui alla fine che stabilisce quanta moneta cartacea si stampa. Da notare che nessuno di noi europei lo ha eletto. La Bce è una banca privata, di proprietà degli azionisti delle banche centrali dell’Eu, tutti enti ed organismi non statali, tra costoro ci sono anche alcune delle nostre banche.

Come funziona il meccanismo? La Bce crea dal nulla euro, nel gergo comune trasforma carta straccia in banconote, questi soldi vengono dati in prestito, oggi a tassi vicini allo zero, alle banche di Eurolandia. Con questi soldi le banche acquistano i buoni del Tesoro dello Stato con i quali i governi nostrani ripagano ogni anno solo gli interessi sul debito pubblico, di più infatti non si riesce a fare. Idealmente questi soldi dovrebbero alimentare l’economia e farla crescere: prestiti all’industria, per l’innovazione o per le opere pubbliche ecc. La crescita economica dovrebbe far aumentare il gettito fiscale con il quale ripagare il prestito. Ma non è così nel nostro caso, e questo lo sanno tutti ormai, l’austerità taglia le gambe alla crescita quindi il circolo virtuale appena descritto diventa un circolo vizioso di impoverimento.

Il punto cruciale su cui i lettori di questo giornale dovrebbero riflette è il seguente: perché la Bce e non lo Stato o l’Ue ha il diritto di produrre dal nulla il bene denaro? E perché i contribuenti in crisi di Eurolandia devono ripagare questo bene creato dal nulla, in un momento in cui per farlo si rischia di finire nella depressione economica, alla Bce – tutti i soldi alla fine lì infatti finiscono dato che la banca centrale, ed i sui azionisti privati, sono il solo creditore dell’intero sistema? Dato che dietro gli euro, come dietro qualsiasi moneta cartacea non c’è nulla, ma solo la fiducia di chi queste banconote le continua ad usare indebitandosi, cioè noi, e dato che il diritto a stampare moneta dal nulla alla Bce glielo abbiamo dato noi, cittadini di sistemi democratici, attraverso la delega ai nostri governanti, perché non azzerare questo debito e ripartire da zero? In passato ciò è avvenuto con le guerre, oggi si potrebbe farlo per evitarle.



Soldi e carta moneta: stampate pure, tanto non si crea debito ...
Giuseppe Brianza
2017/01/23

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/0 ... to/3329847

Nei lontani anni ’50, studiavo al Politecnico di Milano Ingegneria meccanica: dovetti affrontare alcuni esami di analisi matematica, geometria proiettiva e fisica nei quali ebbi modo di imparare che tutte (nessuna esclusa) le leggi di queste materie – leggi dalla logica perfetta, sublime – avevano valore soltanto all’interno di un “intorno” ben definito. Come esci da quell’intorno, sgarrano.

Perfino in fisica-ottica una legge perfetta come quella di Huygens, sulla diffrazione del raggio luminoso nel passaggio attraverso una lente, richiama l’attenzione sul fatto che questa perfezione “vale” però soltanto dentro un certo “intorno” centrale del corpo della lente, al di fuori del quale il raggio luminoso se ne frega delle leggi e cambia strada.

Sono stato educato così e ne sono tuttora contento. Sarà per questa ragione che ho sempre nutrito un profondo sospetto nei confronti di tutti coloro che dicono che uno Stato sovrano può stampare moneta quanta ne vuole, tanto “non crea debito“. Mi sembra una teoria piuttosto bislacca. Da Paese del Bengodi.

Mi vengono alla mente quei poverissimi Paesi africani: ma che sciocchini! Perché permanere in quella miseria endemica quando stampando moneta possono diventare più ricchi e prosperi? Tanto non creerebbero debito, secondo le note teorie… Quando sento un “monetarista” – anche illustre e ossequiato – che spara questa fandonia mi viene una profonda rabbia. Sta giocando con le parole. Il mio atroce sospetto è che esista un “intorno” dentro al quale questa teoria regge: se ne esce, collassa e fa disastri. Proviamo a ricostruirne il percorso logico.

Tutto parte dallo Stato sovrano che ha bisogno di denaro (soldi sonanti) per pagare la Pubblica amministrazione e le Opere pubbliche. Quel denaro se lo può procurare in tre modi (quattro se lo Stato fa pure l’imprenditore, come al tempo delle partecipazioni statali): con le tasse (metodo principe), con le alienazioni di beni erariali e con l’indebitamento.

Quello delle tasse è un percorso che può diventare pericoloso: se si esagera (Stato democratico o autoritario) possono nascere rivolte. Con le alienazioni, lo Stato si comporta come quella famiglia che, andata in rosso, vende i propri gioielli per raccattare liquidità. Un atto spiacevole, ma lecito.

Resta l’indebitamento. Come vedete, inizio usando la parolina aborrita dai monetaristi, ma non me ne vogliano per il momento. Lo Stato ricorre all’indebitamento utilizzando una tecnica “speciale”, ma sempre “indebitamento” è. Stampa della carta (titoli) e la cede a se stesso. O, meglio, li cede alla Banca centrale che può essere sua propria o di terzi (come la Banca d’Italia). Ma anche quando è di terzi la Banca centrale deve operare come una dipendenza dello Stato sovrano in merito.

La Banca centrale è demandata a produrre e diffondere la “carta-moneta”: che può essere “carta” o “metallo”, ma la Banca centrale dispone di una fabbrica (la Zecca) alla quale passa gli ordini di stampa (sia di carta-moneta che di moneta metallica). Una parte della carta stampata torna allo Stato Sovrano che, con questa, “paga” le fatture dei fornitori e le spettanze della Pubblica amministrazione.

A questo punto i famosi “titoli” dello Stato risultano – verso di questi e da parte della Banca Centrale – “pagati“. Si è così creata una “magia”: lo Stato ha avuto del denaro sonante (carta) con cui placa le ansie della Pubblica amministrazione e dei fornitori. Questo denaro (“carta”) esce dalle stanze statali ed entra nel corpo produttivo dell’economia reale. La Banca centrale si è dichiarata “paga” dello scambio “titoli/carta-moneta” e lo Stato non ha debiti verso la Banca centrale.

Ora il pallino passa alla Banca Centrale, che di quei titoli non sa che farsene e ha solo una possibilità: cederli dietro compenso (venderli) a terzi. A chi? Al mondo del risparmio, al mondo dell’economia reale, alla domanda estera.

E qui scatta l’inghippo: si rivolge alle banche operative (le banche-retail) perché “vendano” quei titoli ad acquirenti privati, italiani ed esteri, che paghino con denaro reale quel che fino a quel momento era “carta”. Siamo così arrivati al famoso “intorno” di ingegneristica memoria. A questo punto scatta la celebre giaculatoria: “Il cavallo beve”, “il cavallo non beve”.

Tutte le “bolle” finanziarie corrono lo stesso rischio: se la domanda di quei titoli è insufficiente, scatta il percorso a ritroso. Dicono i famosi monetaristi: “Sì, però lo Stato non è tenuto a rifondere nulla, non ha debiti”. Già, il problema diventa la Banca centrale che si ritrova con titoli del suo Stato invenduti (o venduti male – vedi il celebre spread) e senza denaro solido, creato dall’economia reale. Il sistema-giochino è a questo punto uscito dall’intorno, e tutto il Paese, Stato compreso, ne deve subire le conseguenze.

La situazione, a questo punto, è davvero brutta: o il Sistema-Paese riesce a fare ripartire l’economia reale, oppure il costo di questa situazione viene pagato dai ceti più poveri, in primis dal mondo del lavoro. E non c’è Quantitative easing che tenga: altra carta-moneta stampata non fa che peggiorare la situazione. Nel frattempo, a scadenza, ‘quei’ titoli statali vanno all’incasso: chi paga con denaro vero e non con carta stampata ad hoc sull’unghia?


Quando un Paese stampa più moneta per poter ripagare il proprio debito, l’inflazione aumenta automaticamente?

https://it.quora.com/Quando-un-Paese-st ... aticamente

Attenzione ad alcuni punti chiave.

Primo: oramai in genere non sono i Paesi a “stampare” moneta, ma le Banche Centrali: nei Paesi avanzati infatti le Banche Centrali sono indipendenti dagli Stati. Quindi nei paesi avanzati le Banche Centrali non stampano moneta per pagare i debiti degli Stati.
Oramai infatti è evidentemente chiaro che stampare moneta per ripagare il debito pubblico equivale a svalutarla, pertanto gli Stati hanno saggiamente scelto di rinunciarvi.

Secondo: quando si stampa nuova moneta l’inflazione è causata dalla svalutazione della moneta stessa. Tuttavia se non si verifica svalutazione non si provoca nemmeno inflazione. Infatti se la nuova moneta non viene semplicemente immessa nel mercato, ma viene ad esempio utilizzata dalle Banche Centrali per acquistare titoli (e quindi non per ripagare debiti), non si svaluta. Questo è il principio su cui ad esempio sono basati i recenti QE (in cui viene a tutti gli effetti “stampata” nuova moneta).

Detto questo possiamo affermare che nei paesi, in genere non avanzati, in cui è lo Stato e non una Banca Centrale indipendente a poter creare nuovo denaro, qualora lo Stato decidesse di creare nuovo denaro per pagare i propri debiti la moneta inevitabilmente si svaluta, generando inflazione.


Perché per uno Stato sarebbe un errore battere ulteriore moneta al fine di azzerare il proprio debito, includendo una politica di conservazione dei prezzi per non creare inflazione?

https://it.quora.com/Perch%C3%A9-per-un ... inflazione

Comincerei col lodare la domanda, in quanto parte stabilendo un assunto corretto, stampare più moneta crea tendenzialmente inflazione, e l’alta inflazione è un indiscusso male dell’attività economica e del benessere.

Con “politica di conservazione dei prezzi” credo si intendano prezzi bloccati per legge e contingentamenti. Non sei certo il primo ad averlo pensato, ma empiricamente sappiamo che cercare di interferire dall’alto sull’equilibrio di mercato dei prezzi, normalmente finisce male.

L’incontro di domanda ed offerta è un sistema estremamente semplice ed efficace per l’impostazione dei prezzi, lo si dovrebbe stuzzicare solo in casi di assoluta necessità e per situazioni marginali.

Prezzi bloccati dallo stato significa sostanzialmente andare incontro a diverse immediate conseguenze. Il prezzo di un bene non è limitato al denaro, se questo è scarso ed ha un prezzo inferiore a quello che i compratori sono disposti a spendere per averlo, quel bene verrà pagato in termini di tempo, tempo in coda per la precisione nel migliore dei casi.

Al fine di ridurre questo fattore, si è costretti a passare a contingentamenti, il che vuol dire in parole povere, che chi prima arriva non può acquistare più di un certo numero di prodotti per evitare un esaurimento prematuro. I contingentamenti danno luogo al mercato nero, infatti c’è comunque chi vorrebbe avere accesso ad una quantità maggiore di beni di quanto lo stato dica sia sufficiente o non ha disponibilità in termini di tempo per accedervi, ed è disposto a pagare di più per questo in termini monetari, tecnicamente il prezzo di mercato.

Nel momento in cui un mercato nero inizia a funzionare, il mercato regolamentato se la vede male, in quanto il mercato nero è preferito da tutti gli operatori.

Prezzi controllati significa anche che qualcuno è costretto a produrre sottocosto, o che lo stato è disposto a ripianare le perdite delle attività economiche, cosa estremamente controproducente per le finanze pubbliche e per gli incentivi alla produzione, infatti se lo stato non rimborsa abbastanza si andrà incontro ad una sottoproduzione, se troppo ad una sovraproduzione, mentre risorse devono essere costantemente drenate da altre attività del paese riducendo gli incentivi a parteciparvi.

Se qualcuno è convinto che sia possibile controllare tutto questo, deve essere cosciente che l’Unione Sovietica, il paese con il più formidabile servizio segreto della storia, non vi è riuscito, nonostante controlli ferrei e milioni di morti sul percorso.

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La moneta non va battuta per ripagare debiti esteri perché sennò i creditori rivenderebbero allo scoperto la moneta che inonderebbe il mercato. E si riproduce il fenomeno Weimar.

La moneta va battuta per raggiungere lo scopo della piena occupazione.
È il lavoro della gente che produce ricchezza tangibile che rende una moneta credibile, perché la copre con gli asset prodotti, beni, servizi ecc.

Poi bisogna capire cosa è debito.

Perché un deficit dello Stato verso i propri cittadini non è un debito, ma lo Stato funziona così, lui ha un deficit e i suoi cittadini hanno ricchezza al netto.
Per cui il debito verso i cittadini va rinominato in Ricchezza al netto del settore privato.
È un’idiozia che lo Stato debba pareggiare un bilancio, perché NON deve agire come azienda o famiglia virtuosa, lo Stato deve avere la sua banca centrale e vi può ricorrere tutte le volte che serve, azienda e famiglia non hanno la rotativa in cantina con la quale si stampano i soldi.

Riguardo all’attuale situazione italiana l’aggregato M0 ossia tutta la moneta circolante in banconote ed elettronica al netto delle monete matalliche (che sono una quantità trascurabile), sono solo €1680 miliardi, a fronte di debiti pubblico+privato di €3200 miliardi.

Per cui bisogna battere moneta almeno in misura sufficiente ad eguagliare queste variabili.

Inoltre anche la voce Wikipedia relativa all’inflazione dice chiaramente che questa inizia quando la moneta circolante supera la quantità di beni che ci si possono acquistare.
Con l’enorme abbondanza di beni nei negozi, ce ne vorrà di tempo prima di avere inflazione…

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Sarebbe sicuramente un errore, perché battere moneta aumenta il debito dello stato invece di diminuirlo.

La banca centrale non può battere moneta quando vuole. Può farlo solo a seguito dell’emissione di titoli di debito da parte dello stato e solo dopo che questi titoli sono passati attraverso le mani di un privato (banche, cittadini, aziende, etc).

Ecco cosa succede:

Lo stato emette titoli di debito (BOT, CCT, etc) e li offre ai privati
I privati acquistano il debito, dando i soldi allo stato
Se i privati vendono i i titoli che hanno acquistato dallo stato, la banca centrale può decidere di intervenire comprandoli e così facendo crea nuova moneta e aumenta quindi il circolante.
Lo stato poi recupererà la valuta per pagare i debiti in scadenza attraverso le tasse.

E’ spiegato qui: Moneta - Wikipedia

Siccome i titoli di debito generano un interesse passivo per lo stato, ogni volta che si batte moneta si aumenta il debito, quindi non ha senso pensare di abbattere il debito creando più denaro.

Esiste un solo modo per diminuire il debito pubblico senza diminuire troppo il circolante di uno stato: ricomprarlo in valuta estera ottenuta tramite le esportazioni.

Questo però non abbassa il debito a livello globale, perché lo stato importatore dovrà a sua volta battere nuova moneta per compensare quella uscita durante l’acquisto delle merci importate e quindi aumenterà il proprio debito pubblico.

Ecco perché praticamente tutti i paesi del mondo hanno il debito pubblico: Stati per debito pubblico

Ci sono solo 5 notabili eccezioni, ma sono tutti stati che vivono esclusivamente di esportazioni o turismo e che quindi hanno continue e massicce entrate di valuta estera. L’elenco aggiornato al 2014 è qui: I paesi che non hanno debito

L’inflazione però ha effetto sul debito pubblico. Siccome il debito pubblico è normalmente denominato nella valuta dello stato che lo ha emesso, se l’inflazione aumenta serve meno valuta estera per ricomprarselo.

Quindi, se non è esagerata e se il paese ha una bilancia delle esportazioni in attivo, l’inflazione abbassa il valore del debito pubblico. Se però l’inflazione diventa troppo alta, lo stato rischia comunque il default.

Esiste infatti un’altra variabile ancora più importante per valutare il debito pubblico, che è la fiducia. Dato che i certificati di debito devono essere comprati dai privati, è importante che questi privati abbiano fiducia nella capacità dello stato di restituirgli gli interessi, altrimenti non comprano.

Se i privati non comprano, lo stato dovrà alzare gli interessi del debito che emette per invogliarne l’acquisto (da qui si origina lo Spread, che è il differenziale di costo tra i certificati di debito di uno stato e quelli di un altro stato di riferimento) e la banca centrale dovrà necessariamente emettere moneta per ricomprarli ed aumentare il circolante, altrimenti il gettito della tassazione non sarà più sufficiente per pagare i titoli a scadenza. Si creerà quindi molta valuta e perciò molta inflazione. Ma una inflazione troppo alta diminuisce la fiducia.

Si creerebbe così un circolo vizioso e ci sarebbe il rischio che le cose si mettano molto male, come è successo in passato in Argentina e come sta succedendo ora in Venezuela.

Nella immagine successiva, si può vedere l’andamento del debito pubblico in Italia dal 1861. Come si può notare, l’unica riduzione significativa del debito c’è stata al termine della seconda guerra mondiale.

C’è una unica eccezione a tutto questo ragionamento, che sono le monete commemorative.

Le monete commemorative possono essere coniate direttamente dalla zecca dello stato senza passare attraverso l’emissione di debito.

Teoricamente quindi uno stato potrebbe emettere una unica moneta commemorativa del valore dell’intero debito pubblico, conservarla nei caveau della propria banca centrale ed affermare che il debito pubblico è interamente garantito da quella moneta.

Contabilmente funzionerebbe, ma ovviamente sarebbe solo un trucco contabile e sicuramente non servirebbe ad aumentare il livello di fiducia dei mercati in quello stato :-)

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Non riesco a capire come può uno stato battere tutta la moneta che vuole e poi stare bene : Perché questo miracolo non lo diciamo al Venezuela ? C’è la Crisi in Venezuela allora è facile mettere sul mercato tanta ma tanta moneta( le monete di carta non costano nulla ) ; Dimmi perchè non si fa questo ? Eppure è facile far funzionare tutte le tipografie di Italia e distribuire magari 10 miliardi di Lire ( la nuova moneta dopo l’uscita dall'euro ) a persona . Ti vuoi prenotare ? Quanti soldi di servono ? Io ho scherzato la tipografia sotto casa mia ti può regalare anche 100 miliardi di lire ( mi dispiace ma gli euro non li stampa perchè i tedeschi non vogliono ) . Tu chiedi e avrai tutte le monete stampate ( o meglio tutte le lire ) che vuoi . Peccato che prima dell’euro con le lire non si stampavano tutte le monete necessarie se si stampavano molte banconote allora l’inflazione si mangiava e rendeva nulla il valore delle lire . A proposito in Turchia Erdogan ha molti problemi per mancanza di soldi . La Turchia può stampare tutti i soldi che vuole ma non lo fa :Perché? Forse I turchi non lo sanno che possono fare tutti i debiti che vogliono e poi fanno una banconota da 100 miliardi di lire turche e Voilà ….il debito turco scompare . Penso che i turchi non conoscono questi miracoli ..cosa facciamo lo fai sapere tu ai turchi oppure devo scrivere io a Erdgan ?

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Semplicemente perché stampando moneta in maniera eccessiva come conseguenza non avviene solo l’azzeramento del Debito, fosse così facile mi viene difficile credere che qualcuno non lo abbia già fatto. Ma stampando moneta si genera un loop che comprende inflazione, e periodo di crisi e falsamento dei prezzi. Aumentano i prezzi non le quantità a disposizioni dei beni. L’intervento dello stato è politica è politica oramai equivale ad un aumento di danni.

Il valore della moneta viene spezzettato è ridotto inoltre viene aumentata della liquidità che rimane in deposito stagnante e anzi il debito viene aumentato proprio da queste politiche inflazionistiche, come il quantitative easing. Così come la mossa chiamata helicopter money cioè dare i soldi direttamente nei conti corrente a imprese e famiglie senza passare per le banche mandando un messaggio rischioso. Agganciandosi a questo si è proposto di non passare per le banche per la creazione di moneta ma attraverso lo stato per non creare denaro come detto prima dal nulla e innescando meccanismi di debito.

Ci sono opinioni contrastanti ma una immissione esagerata sarebbe come gonfiare una bolla e prima o poi la bolla scoppia. Bisognerebbe vedere come introdurre il giusto quantitativo senza scatenare una crisi e instillando fiducia. Si vedrà cosa succederà a fine del mandato Draghi ma sarà un periodo molto delicato di transizione.

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Perché il debito di uno stato è un anticipo sulle tasse future per la maggior parte. Le tasse sono ricchezza e stampare moneta non crea ricchezza, solo il lavoro crea ricchezza (mi sono lasciato prendere la mano…).

Facciamo un esempio. Io guadagno/spendo 100 e sono uno stato A. Tu guadagni/spendi 102 e sei uno stato B. Abbiamo 100 monetine a testa. Ogni monetina rappresenta una parte della nostra economia.

Io sono insoddisfatto della mia condizione e faccio debito per poter spendere quanto te. Guadagno 100 e spendo 102. Lo faccio per 10 anni. Adesso ho un debito di 20.

Lo ripago stampando moneta! Adesso ho 120 monetine in giro, ma la mia economia sempre cento produce. Quindi ora che ci facciamo con ste 120 monetine? Ai miei occhi cambia poco, ho sempre 100, solo che ora si legge 120. Detto meglio, in termini reali quello che compravo ieri, lo compro anche oggi, solo che costa di più. Ma anche il mio stipendio vale di più. Agli occhi di B pure. La mia moneta ha perso il 20% ed il mio 120 per lui vale sempre 100 in valuta di B.

Fin qui tutto bene, giusto? Poi però c’è il fatto che chi mi ha prestato i soldi non sarà molto contento che gli renda il 20% in meno. Quindi mi chiederà interessi più alti per compensare. E qui iniziano i dolori. Perché se ora devi pagare 20 monetine di interessi, la tua ricchezza netta non è più 100, ma 80. Ovvero hai fatto viver bene le generazioni passate a danno di quelle presenti.

Giustamente dici, perché non blocchiamo l’inflazione? Come ti hanno già risposto, i prezzi li decidono le persone in base alla scarsità delle risorse. Puoi dire che tutti hanno diritto ad una Ferrari, ma se di Ferrari non ce ne sono per tutti e tutti le vogliono, la gente baratterà una casa per una Ferrari. Quindi imporre i prezzi è patetico e ridicolo. Mettere quote un filino meglio, ma stai comunque creando un mercato (i tassisti lo sanno bene).

Lo puoi fare in maniera molto filantropico come si faceva nel XX secolo. In Italia la soluzione fu: si lavora di più e si paga la gente di meno, ma introduciamo un po’ di stato sociale. Un po’ di nutriente olio di ricino a chi dissente. In Russia idem, ma deportiamo anche qua e là che il corroborante fresco siberiano è un toccasana contro la calura moscovita estiva.

Anche perché ti ricordi che sopra dicevo che ad A cambia poco perché stipendio e beni sono tutti rivalutati? Non é più così. Adesso i beni costano 120 ed io guadagno 100, di cui 20 li spendo in interessi. Dopo il freddo siberiano, ora sento il calore tropicale del Venezuela.

In sostanza, salvo imporre grandi sofferenze alla popolazione, se stampi moneta per ripagare il debito fai solo danni.

Eccetto… eccetto il caso di uno stato molto autonomo e che ha avanzi primari. Che vuol dire? Vuol dire uno stato che non ha scambi commerciali coll’estero (né materie prime né prodotti finiti) e che quindi se ne frega del cambio e non avendo bisogno di soldi dall’estero per coprire le spese ordinarie se ne frega pure dei tassi di interesse reali. Cioè uno che si è indebitato tanto ma che allo stato attuale non ne avrebbe più bisogno. Storicamente l’unione sovietica e la sua “Unione doganale” è la cosa che più si è avvicinata a questo. Ma anche loro, durante le carestie andavano sul mercato estero a vender petrolio per comprar grano. Come sistema non riuscì a mantenere la produttività necessaria a creare abbastanza ricchezza da distribuirne ed alla fine, si sciolse. Però durò comunque 70 anni con alti e bassi.

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Semplicemente perché non funziona e nan ha mai funzionato. Da quando la moneta è più legata all’oro è legata alla fiducia di chi presta i soldi allo Stato comprando titoli… se non c’è fiducia (che può derivare da buona amministrazione, potenza militare, materie prime o altro) ti puoi inventare tutto quello che vuoi ma anche stampando moneta non riesci a pagare il debito, a meno di non aver più bisogno di fare nuovo debito, allora sei libero di pagare il vecchio con carta straccia, consapevole che nessuno ti farà nuovi prestiti o lo farà a condizioni molto onerose…

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Perché per uno Stato sarebbe un errore battere ulteriore moneta al fine di azzerare il proprio debito, includendo una politica di conservazione dei prezzi per non creare inflazione?

Lo Stato non può battere la moneta. Semmai è la banca centrale.

Il fine di azzerare il debito pubblico è fine inutile.

Un debito di uno è un credito di un altro. Se vuoi puoi fallire e non pagare i tuoi creditori, poi auguri a cercare di finanziare nuovo debito, che irrimediabilmente sarà necessario, perchè non hai messo a posto i conti.

La politica di “conservazione dei prezzi” non esiste per niente, basta vedere negli ultimi mesi quanto valgono il peso argentino o la lira turca.

L’economia è questa qui, non ci si possono inventare soluzioni. Se funzionassero, ci avrebbero già provato, no?

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Perché puoi moltiplicare i soldi a volontà, ma non puoi moltiplicare la roba da comprare. I prezzi fissi servirebbero solo a creare un florido mercato nero.

La trovata geniale della MMT (modern monetary theory) di stampare soldi a volontà e alzare i tassi in caso di inflazione funzionerebbe per un po', ma a parte che deprimerebbe l'economia reale, oltre un certo limite i tassi diventerebbero una barzelletta. Nessuno prenderebbe più a prestito e smetterebbero di avere effetto, e l'inflazione a quel punto esploderebbe. IMHO.

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » gio mag 30, 2019 8:57 pm

Chi ha ingrassato il debito pubblico?
di Rocco Todero
2017/11/13

https://www.ilfoglio.it/pensieri-non-co ... xndS7Jzk0E

Qualche settimana fa abbiamo ricevuto la lieta novella di un debito pubblico nazionale che ha sforato l’ennesimo record. Si è raggiunta l’astronomica cifra di 2.300 miliardi di euro, più del 130% del PIL, oltre 35.000 euro di debito a testa per il i 60 milioni di italiani che vivono nella penisola.

È una cifra impressionante, una percentuale da economia post conflitto bellico che nella storia italiana si era registrata infatti solo nel periodo tra il 1919 e il 1924.

Un organismo mostruoso, oltre ogni soglia di obesità, il debito pubblico è cresciuto nel corso del tempo con ritmi e cadenze alterne: pesava tra il 25 ed il 35% del PIL negli anni sessanta, era già il 40% del 1971, il 65% nel 1982, è balzato al 92,6% nel 1988, al 120% nel 1994, al 130% nel 2008. È prevalentemente il risultato della bulimia delle amministrazioni centrali dello Stato, dei deficit registrati nel mezzogiorno d’Italia (dal 1963 al 1994 deficit territoriale costante fra il 20 ed il 35%) e dovremo restituirlo in gran parte ai nostri concittadini che ne detengono circa i 2/3 del totale. Oggi ci costa ogni anno una montagna di interessi di quasi 80 miliardi di euro che vanifica gli sforzi di ogni immaginabile avanzo primario.

Ma com’è nata questa creatura gigantesca? Com’è cresciuta? Perché è ingrassata così tanto da rappresentare oggi un serio pericolo per l’intero Paese?

Abbiamo interrogato parte della storiografia e della letteratura di settore e abbiamo squadernato le fonti a beneficio di chi vorrà consultarle, verificarle e rigirarsele fra le mani per provare l’ebbrezza di un viaggio fra alcuni risvolti della nostra storia patria sempre troppo trascurati. I titoli delle opere consultate sono questi: “L’arte del non governo” di Piero Craveri, “La Grande slavina” di Luciano Cafagna, “La democrazia distributiva” di Loreto Di Nucci, “Storia della Repubblica” di Guido Crainz, “Il Macigno” di Carlo Cottarelli, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” di Franco Debenedetti.

Le conclusioni cui è pervenuta la ricerca storiografica appaiono granitiche e per questa ragione possono essere considerate un sicuro punto d’approdo: il debito pubblico è il risultato di un’avversione politica al capitalismo e al liberismo che si radica nelle culture dominanti del Bel Paese all’indomani della seconda guerra mondiale. Nel 1946 s’incontrano “due solidarismi”, quello democratico cristiano e quello comunista; entrambi raccolgono l’eredita fascista del paternalismo di Stato e del partito che si deve fare Stato attraverso un’opera di occupazione che annichilisce l’autonomia e l’imparzialità delle istituzioni repubblicane. Il mercato è considerato un’idea astratta, il suo funzionamento attribuisce vantaggi agli individui, non alle organizzazioni politiche e quindi deve essere combattuto. Rappresenta un’aspirazione che alberga solo nella mente di Sturzo, Einaudi e De Gasperi, ma avranno da subito la meglio i La Pira, i Dossetti, i Fanfani i Moro e, manco a dirlo, i Togliatti.

La miseria si taglia a fette nel dopoguerra, la disoccupazione è di 1,6 milioni di persone ed il consenso elettorale si conquista con le prebende della spesa pubblica. Il rischio che il fronte delle sinistre ottenga il favore della maggioranza degli elettori e sconquassi l’assetto geopolitico mondiale deciso a Yalta costringe la democrazia cristiana per prima a non andare troppo per il sottile: si deve aiutare la povera gente e lo si può fare con il deficit e il debito che si accumula. L’effetto immediato è pari a zero; nessuno lo vede perché alla sottoscrizione del debito pubblico non corrisponderà mai l’equivalente aumento della tassazione. La pace sociale è assicurata.

Ad una prima fase di spesa pubblica a debito giustificata per contrastare gli andamenti ciclici dell’economia subentra una prassi da costituzione materiale che, sopratutto a partire dagli anni settanta, costringerà la Democrazia Cristiana ad inseguire il gioco al rilancio del Partito Comunista e dei sindacati collaterali; si devono ampliare senza limiti le basi dello Stato sociale, questa è la minaccia. Altrimenti? Altrimenti sarà rivoluzione o sciopero generale ad oltranza o occupazione delle fabbriche o tensione sociale strisciante e continua o qualcos’altro che non darà pace a nessuno. Gli anni settanta sono un incubo di agitazioni sociali. Alla democrazia cristiana non dispiace di certo occupare lo Stato e tutto quanto possa trasformare potere politico in consenso elettorale. Il parastato si accolla i cosiddetti “oneri impropri”, mantiene cioè in vita aziende fuori mercato che aprono i cancelli la mattina solo per impiegare gente che produce perdite di danari pubblici la sera. Nel 1981, però, Beniamino Andreatta consuma uno strappo definitivo: elimina l’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico che rimangono invenduti sul mercato. D’ora in poi per convincere gli acquirenti dei titoli di Stato a comprarsi tutto il cocuzzaro ci vogliono tassi d’interesse a due cifre. L’effetto è l’onomatopea che si legge spesso nei fumetti che raccontano le catastrofi delle battaglie dei super eroi: boom! 1988: debito pubblico vicino al 100 del PIL!

Il resto è storia recente. Negli ultimi venti anni davanti allo scoglio della presunta coesione sociale si sono infranti i flutti riformatori del centro destra e del centro sinistra. Nessuno ha voluto rischiare di perdere il consenso di un popolo che sulla spesa pubblica si è allegramente raccontato di essere benestante. Non è stato un caso che le riforme ed i principali tagli alla spesa sono stati opera di tecnici prestati alla politica che non hanno coltivato ambizioni elettorali: Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e, fino ad un certo punto, Mario Monti. Ad ogni modo, anno 2017, debito pubblico pari a 2.300 miliardi di euro.

Se osserviamo la storia da un altro punto di vista, quello della sequenza dei principali provvedimenti che hanno ingrassato il debito pubblico, possiamo apprezzarne meglio il ritmo, la cadenza e gli effetti. Nel 1949 si parte già con 250.000 persone impiegate nei cantieri scuola. Presto diventeranno 356.000 e costeranno prima 15 poi 22 miliardi di lire l’anno. Nel 1953 il testo unico per i pubblici dipendenti consentirà il pensionamento degli uomini a 25 anni e delle donne a 20 con pensione retributiva e non contributiva. Parte la corsa alla pensione facile dunque (anche a quella baby) che diventerà sempre più un diritto sociale indipendente dall’andamento economico e perderà il suo connotato naturale di retribuzione differita. Pensione per tutti, anche per gli agricoltori che dichiarano autonomamente le giornate di lavoro. Tra il 1960 ed il 1976 le pensioni d’invalidità cresceranno del 400%, sopratutto nel Sud Italia. Nel 1969 si abbandona definitivamente il criterio contributivo.
Sempre nel 1976 la legge n. 285 permetterà a decine di migliaia di giovani di entrare senza concorso negli enti locali e negli uffici periferici delle amministrano statali, istituzionalizzando la categoria dei “precari tutta la vita” e nello stesso periodo si conteranno già 700.000 dipendenti delle imprese a partecipazione statale.

Nel frattempo l’interventismo statale in economia ha prosciugato le risorse che il mercato dei capitali avrebbe potuto destinare alle aziende private: il credito destinato al settore pubblico, infatti, passa dal 30% del totale erogato degli anni sessanta, al 60% degli anni settanta e in 23 anni (dal 1960 al 1983) la spesa pubblica passa dal 31,2% al 62,5% quando la pressione fiscale nello stesso periodo aumenta solo dal 26 al 41%. Quello che manca è tutto debito pubblico. È la pace sociale, bellezza!
All fine degli sessanta l’autofinanziamento delle aziende pubbliche era già sceso sotto il 50%, nel 1971 è pari solo ad un misero 19%. Nel 1989, infine, Bruxelles accerterà che gli aiuti concessi dallo Stato italiano alle imprese rappresentano il 55% del totale degli aiuti statali nell’intera Comunità, mentre nel 1991 gli addetti al settore pubblico allargato contano 4,2 milioni di persone ed il 18% del totale degli occupati.

Ma quali erano le riflessioni della nostra classe dirigente mentre il Paese soffocava sempre più sotto il peso di questo enorme debito pubblico? Erano pensieri di politici, banchieri ed imprenditori tutti consapevoli ma impotenti, come intrappolati dalla forza di una legge universale della politica: ad una minore spesa pubblica corrisponde un’insopportabile perdita di consenso elettorale.. È impressionante leggere le riflessioni di alcuni protagonisti di quella stagione.

Già nel 1963 Amintore Fanfani si rendeva conto che le richieste di aumentare la spesa sociale erano illimitate senza che nessuno si chiedesse tuttavia chi fosse a pagare. Ma erano ben consapevoli anche Guido Carli, che notava come i salari fossero diventati una variabile indipendente, ed Ugo La Malfa, che osservava come l’eccessivo peso dello Stato in economia lo stesse facendo scivolare “verso una situazione minacciosa”.

Nel 1973 in un rapporto del Censis si poteva leggere che la spesa pubblica è diventata “il ventre molle verso cui tutte le pressioni e gli attacchi si sono esercitati”. Sbalorditiva l’ammissione di Francesco Cossiga: “non potevano innestare nella contrapposizione politica anche la lotta sociale. Quindi i famosi assegni d’invalidità …erano in realtà allocati dal ministro dell’interno per tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.” Ma ebbe consapevolezza del baratro, senza tuttavia tentare mai d’invertire la rotta, anche Bettino Craxi, il quale chiese al Ministro del Tesoro Giovanni Goria di “glissare” sulla cifra dell’indebitamento annuo di circa 100 miliardi di lire perché quel numero era “politicamente impresentabile al Parlamento” e nel 1992 ad un convegno organizzato dal quotidiano “Repubblica” ammise: “Se c’è una critica da fare a noi stessi è di avere ereditato una situazione economica positiva e di non avere saputo utilizzare i risultati di quegli anni di vacche grasse per ridurre davvero il deficit sociale”.

Ma la confessione più incredibile rimane quella dell’allora immarcescibile Giulio Andreotti, che in occasione della conclusione del Consiglio europeo di Maastricht, annotava nel suo diario l’ignavia, l’impotenza e la complicità di un intero Paese:”Il Trattato sarà la linea guida per le politiche interne; deve essere per noi quello che non è stato l’art. 81 della Costituzione le cui violazioni oggi pesano”. Chissà se vale ancora il vecchio insegnamento latino Historia magistra vitae.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » lun dic 02, 2019 7:22 am

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Re: Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » lun dic 02, 2019 7:24 am

MES - Meccanismo europeo di stabilità



La preoccupazione del Colle: il premier trovi una soluzione
Massimiliano Scafi - Dom, 01/12/2019

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... G2HRtldBaA

Mattarella non vuole essere coinvolto, ma teme per l'isolamento in Europa. Solo il voto se cade l'esecutivo

E ora tocca a Giuseppe Conte. È lui il premier, dicono dal Colle, è lui che deve mediare, smussare, trovare la sintesi, prendere le decisioni.

Se il caso, e se è capace, imporsi. Sergio Mattarella non interverrà: potrà dare consigli, curare qualche rapporto internazionale, però niente di più perché questo non è il governo del presidente, è un governo politico. Se cade, si va al voto.

Dopo l'ultimatum, ecco l'ultima mediazione, che forse sarà la penultima, o magari la terzultima. Oggi in programma a Palazzo Chigi un vertice di maggioranza per cercare una soluzione sul Mes salva-Stati, se davvero c'è spazio per un compromesso. Ma la domanda è: quanto si può andare avanti così? A quante altre crisi può reggere l'alleanza giallorossa? Mattarella, allibito, osserva la situazione. Il capo dello Stato è «istituzionalmente preoccupato» però non è particolarmente angosciato. L'esecutivo andrà avanti finché avrà una maggioranza parlamentare che lo sostiene, che sembra una banalità ma che invece è l'essenza della democrazia per come viene vista dal presidente. La divisione dei ruoli e delle competenze è un aspetto fondamentale. Quando ci sono dei contrasti politici, spetta al premier e non al capo dello Stato negoziare.

Quindi Conte si dia da fare, batta un colpo, tiri fuori la stoffa. Prenda la situazione in mano e risolva in qualche modo il caso Mes, la riforma del fondo europeo salva-Stati, senza aspettarsi l'aiutino quirinalizio. Mattarella non vuole essere coinvolto nella vicenda che spacca la maggioranza perché la materia esula dal suo ambito di competenze. Resta sullo sfondo un certo timore generale, in caso vinca la linea del rinvio, per un eventuale isolamento italiano nell'Unione. Però non farà nulla: deve sbrigarsela il premier.

Eppure solo due giorni fa Matteo Salvini ha provato a coinvolgerlo: un sì alla Mes sarebbe «un attentato alla sovranità del Paese e all'autonomia del Parlamento», quindi «il garante della Costituzione deve intervenire». Il Quirinale ha risposto con un glaciale silenzio: tutti i leader di partito sono benvenuti in udienza, se chiedono di essere ricevuti, però il segretario della Lega non può pretendere di fissare pure l'agenda del colloquio. Tanto più se si tratta di un argomento non di competenza del Colle. Stessa risposta per la maggioranza. Nessuno tra i giallorossi ha finora chiesto una mediazione, o soltanto un consiglio, al capo dello Stato. Ma interventi diretti di Mattarella sul Mes sono esclusi. Tutti gli occhi sono quindi sul presidente del Consiglio. Riuscirà Conte a mettere d'accordo Luigi Di Maio, che non vuole «firmare al buio» e minaccia di staccare la spina, con Delrio e Franceschini, secondo i quali «è in gioco la credibilità dell'Italia»? Domani è il giorno chiave, ma il premier ostenta sicurezza: «Il governo andrà avanti perché ci sono tanti problemi strutturali da risolvere». Parole apprezzate dal Quirinale: basta liti inutili, che la gente non capisce - sostiene da tempo Mattarella - piuttosto concentratevi sulle riforme da fare e sulle necessità dei cittadini.


Mattarella, almeno dieci motivi per mettere Conte alla porta
sabato 30 novembre
Francesco Storace

https://www.secoloditalia.it/2019/11/di ... Zqvsvh0dbc

Sono almeno dieci le campane che suonano a morto per il governo Conte. C’è una maggioranza dilaniata su tutto, che è tenuta assieme solo da questo bluff di una coalizione parlamentare autorizzata dal Quirinale a fregarsene degli orientamenti popolari. È il teorema di Mattarella, con cui è nato il secondo e già sbilenco governo Conte con la coperta istituzionale. Ma anche il capo dello Stato non può ignorare a lungo il nostro popolo. Ne va del decoro della Nazione, della credibilità delle istituzioni. Perché lo scontro è praticamente su tutto.

Mattarella vuole starne fuori, ma questo governo e questo premier sono opera sua. Stanno compiendo autentici disastri.

I disastri di Conte e la coperta di Mattarella

Botte da orbi sul SalvaStati e meraviglia che non ci sia al Colle qualcuno che consigli Conte di non dire sciocchezze. Salvini, all’epoca del caso Diciotti, fu “salvato” da una decisione condivisa dalla sua maggioranza e dall’opposizione di centrodestra. Conte si adeguò forse per opportunismo? Spieghi invece con molta chiarezza e senza minacce, il premier, perché ha impegnato l’Italia a sborsare 125 miliardi all’Europa senza averne nulla in ritorno.

Ex Ilva, Landini: "ArcelorMittal deve rispettare accordi"


Mes, adesso Conte trema: ecco cosa rischia il premier
Federico Giuliani - Dom, 01/12/2019

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 91904.html

Dall’articolo 264 del codice penale alla legge Moavero: ecco le possibili violazioni imputate a Giuseppe Conte in merito alla riforma del Mes

L’articolo 264 del codice penale, la legge Moavero e alcuni articoli della Costituzione italiana: queste sono le violazioni principali che potrebbero essere imputate a Giuseppe Conte in merito alla riforma del Mes.

Il premier, accusato di aver avallato la riforma del Mes senza prima aver avvisato il Parlamento, “dovrà cercarsi un avvocato”, come ha dichiarato ieri Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa. Già, perché a quanto pare la Lega intende andare fino in fondo e inchiodare Conte di fronte alle proprie eventuali responsabilità. Come sottolineato dal quotidiano La Verità, il segretario del Carroccio ha più volte parlato di “attentato alla sovranità nazionale” in relazione alla mossa del presidente del Consiglio di aver dato il via libera alla modifica del Meccanismo europeo di stabilità. Il presidente della commissione Bilancio, il leghista Claudio Borghi, ha perfino rincarato la dose: “Conte riferisca in Parlamento oppure lo porteremo in tribunale”.

Detto, fatto. Pare che gli avvocati della Lega siano a lavoro per studiare come presentare nel migliore dei modi un esposto “ai danni del governo e di Conte”. Ma quali norme avrebbe violato il premier e a quali rischi va incontro? Cerchiamo di fare ordine. Intanto l’"alto tradimento" più volte invocato in questi giorni non può riferirsi al premier ma, come recita l’articolo 90 della Costituzione, riguarda il presidente della Repubblica. Per puntare il dito contro il presidente del Consiglio, semmai, bisogna riferirsi all’articolo 96, che recita quanto segue: “Il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell' esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria”.


Le tre possibili violazioni

Per quanto riguarda le violazioni a cui sarebbe andato incontro il governo Conte, il via libera sul Mes, o meglio la divisione sulla base dei parametri discrezionali per l’accesso ai fondi dello stesso Meccanismo europeo di stabilità, potrebbe aver cozzato le “condizioni di parità con gli altri Stati” riportate nell’articolo 11 della Costituzione italiana, fondamentali per garantire la sovranità ai singoli Paesi. C’è poi da considerare l’articolo 264 del codice penale, secondo il quale “chiunque, incaricato dal governo italiano di trattare all' estero affari di Stato, si rende infedele al mandato è punito, se dal fatto possa derivare nocumento all' interesse nazionale, con la reclusione non inferiore a cinque anni”. Da segnalare, inoltre, la possibile violazione della legge Moavero che, durante la negoziazione di accordi finanziari o monetari, obbliga l’esecutivo a tenere “conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere”. Nel nostro caso, la risoluzione del 19 giugno con il quale si chiedeva a Conte di riferire le proposte di modifica al trattato Mes così da “consentire al Parlamento di esprimersi”.



Gentiloni: «Il Salva-Stati non è un rischio. E a Bruxelles non ci sono complotti contro l’Italia»
Paolo Valentino, inviato a Strasburgo
1 12 2019

https://www.corriere.it/esteri/19_dicem ... 0c1c.shtml

«L’Europa non può aspettare la prossima crisi, per prendere delle decisioni sul completamento dell’Unione monetaria e il coordinamento delle proprie politiche di bilancio». Da oggi Paolo Gentiloni assume l’incarico di Commissario per gli Affari economici e monetari dell’Unione europea.

La Commissione è stata votata a Strasburgo da una maggioranza più forte di quella che in luglio votò Ursula von der Leyen, ma anche più eclettica e dunque fragile. Non è un rischio per questo nuovo esecutivo europeo?
«È una maggioranza meno automatica e scontata rispetto al passato, che avrà bisogno di una manutenzione politica costante. Ma il fatto di dover avere rapporti intensi con il Parlamento a me fa piacere. Paradossalmente questa frammentazione può far crescere il ruolo dell’Europarlamento, che potrà avere più voce in capitolo».

Alla vigilia del voto, Francia e Germania hanno fatto trapelare un paper sulla convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa, che fra l’altro era già fra le proposte di Ursula von der Leyen. Che tipo di segnale è per il vostro lavoro?
«La nuova stagione dell’Europa deve partire all’insegna dell’ambizione. Nel mondo c’è un nuovo Grande Gioco geopolitico, nel quale molti protagonisti globali ma anche alcuni attori interni in nome del nazionalismo hanno interesse a indebolire l’Unione europea. In questo quadro l’Ue è potenzialmente quello che io definisco l’unico possibile “gigante buono”, in grado di battersi per apertura economica, crescita sostenibile, clima, democrazia liberale. A condizione che il suo cammino non si fermi e anzi proceda più velocemente. La Conferenza è un’inversione di tendenza rispetto alla deriva intergovernativa degli ultimi anni. Il contributo franco-tedesco è utile, tanto più in un momento nel quale i due Paesi hanno visioni che non sempre coincidono. Penso che tra l’ambizione francese e la prudenza tedesca ci possa essere anche una forte iniziativa italiana. L’attuale governo ha lasciato alle spalle le tendenze all’isolamento. Fra queste, la ripresa dell’ipotesi di un trattato bilaterale con la Francia, che era stata messa in un cassetto».

Lei parla di tendenza all’isolamento alle spalle, ma il ministro Di Maio ha minacciato la crisi di governo se l’Italia non chiederà un rinvio sul Mes, il fondo salva-Stati. Quali rischi comporta per l’Italia l’approvazione di questo nuovo strumento?
«La posizione italiana la chiarirà il presidente del Consiglio lunedì alle Camere. Da commissario europeo posso dire che la riforma di cui si parla è stata fatta per introdurre un ombrello protettivo in caso di crisi bancarie non gestibili con gli strumenti attuali. Si tratta di un obiettivo positivo. Le modalità sono state negoziate tra l’autunno del 2018 e il giugno 2019. L’ultima parola spetterà ai Parlamenti. Sull’Italia mi limito a dire che non ha bisogno di ombrelli, né per le sue banche, né per il suo debito, che va ridotto ma è perfettamente sostenibile. Invece, descrivere l’intesa sul Mes come un rischio o addirittura un complotto contro l’Italia può alimentare rischi sui mercati che oggi non esistono».

Ma voi come Commissione fareste una proposta di compromesso sul Mes se si creasse una situazione di stallo?
«Il compromesso è stato raggiunto nel giugno scorso. E ripeto non c’è alcun motivo tecnico o politico per definire quell’intesa un rischio per l’Italia».

Se l’Italia dovesse chiedere un rinvio, bloccando l’accordo, l’Europa come reagirebbe?
«Non vedo ragioni che possano spingere un singolo Paese a bloccare l’intesa sul Mes».

Collegato al Mes, c’è il tema dell’Unione bancaria su cui si registra una importante novità dalla Germania: il ministro delle Finanze Scholz si è detto favorevole a un’assicurazione comune sui depositi bancari, subordinandola però a una drastica riduzione dei titoli di Stati nei portafogli delle banche, misura di fatto mirata in primo luogo all’Italia. Il ministro Gualtieri l’ha respinta. Qual è la sua posizione?
«Penso che la proposta di Scholz sia utile perché è la prima volta che da parte tedesca si apre alla condivisione del rischio finora sempre esclusa. Penso anche che alcune delle condizioni poste non siano condivisibili per alcuni Paesi, tra cui l’Italia, come ha chiarito Gualtieri. La discussione non sarà semplice, né breve. Ma sarebbe sbagliato ignorare l’apertura».

Anche se ora con la sconfitta odierna di Scholz nella Spd, tutto potrebbe cambiare. Ci potrebbe essere una crisi di governo in Germania.
«Aspettiamo il congresso della Spd per capire se il cambio di leadership porterà a una fine della Grosse Koalition. Certo il risultato riflette il logoramento della strategia socialdemocratica».

Per Alitalia e Ilva sempre più si profila un coinvolgimento in qualche forma dello Stato nel loro salvataggio. La Commissione potrebbe accettarlo o no?
«Innanzitutto è bene trovare soluzioni ragionevoli e in grado di reggere alla prova dei mercati. Non spetta a me prospettarle, ma credo che il governo sia perfettamente consapevole dei vincoli e delle regole europee».

Questa Commissione scommette sulla crescita. E molte delle sue proposte sono legate al Quadro pluriennale finanziario per i prossimi sette anni, sul quale però c’è un fronte di Paesi che non vogliono dotarlo di maggiori risorse, superando l’1% delle risorse proprie. Come si risolve questa contraddizione?
«Una cosa deve essere chiara ai cittadini europei: l’influenza economica delle decisioni della Commissione va bene al di là del bilancio della Ue, che è molto limitato nelle dimensioni. In realtà la nostra azione può innescare cambiamenti economici rilevanti,che non vanno letti solo con la lente del bilancio, che certo bisogna irrobustire. Parlo di scelte regolatrici, priorità, decisioni in materia fiscale, concorrenza».

Siete preoccupati dai rischi di una recessione?
«No. Ma siamo di fronte a un rallentamento della crescita che nel 2019, dopo aver viaggiato per alcuni anni sul 2%, sarà poco più dell’1%. Quanto prolungato sarà, è l’interrogativo sul quale lavoriamo. Esso deriva dai problemi del commercio internazionale e dalle difficoltà del settore manifatturiero. Certo di fronte a questo rallentamento, gli strumenti della politica monetaria utilizzati con successo da Mario Draghi, continuano ad essere necessari ma non saranno più sufficienti».

E come intendete muovervi?
«Su due grandi linee. Primo la transizione ambientale, che orienterà tutto, l’uso dell’energia, i modelli di consumo,le scelte strategiche di interi settori produttivi, qualcosa di simile a quanto successe negli Anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. La Commissione, con il coordinamento di Frans Timmermans, proporrà incentivi e disincentivi, misure fiscali e regolatorie per favorire questa transizione. Sarà necessario un grande piano di investimenti pubblici e privati. La cabina di regia sarà sotto la mia responsabilità e si articolerà su due progetti: Invest Eu e Sustainable Europe, il primo dedicato ai diversi settori dell’innovazione, il secondo concentrato sul pacchetto climatico. Nel loro insieme — tra fondi europei, della Bei, delle casse depositi e prestiti dei vari Paesi e privati — dovrebbero mobilitare risorse nell’ordine di oltre 200 miliardi di euro l’anno. Il secondo capitolo riguarda le regole delle politiche di bilancio e la discussione non sarà semplice. Occorreranno passi in avanti sulla struttura dell’Unione monetaria: e qui torniamo all’assicurazione comune sui depositi, il bilancio dell’Eurozona, gli eurobond e non ultimo a un meccanismo di riassicurazione sulla disoccupazione, che proporrò nei primi mesi del prossimi anno e dovrebbe aiutare i Paesi in fasi di crisi occupazionale straordinarie. Il mio primo impegno politico sarà di ridurre le distanze con i Paesi che negli ultimi anni hanno ostacolato passi in avanti in questa direzione».

Come giudica la manovra italiana?
«La Commissione ha registrato per la prima volta che nessun Paese è sopra il 3% del rapporto deficit/pil, risultato positivo delle politiche di sorveglianza. Ci sono ancora squilibri rilevanti. In particolare ci sono alcuni Paesi, fra questi l’Italia, che devono indicare percorsi convincenti sulla questione del debito. Altri Paesi come Germania e Olanda che hanno surplus di bilancio notevoli che invece andrebbero utilizzati. Nel complesso la Commissione non ha respinto nessun bilancio, tantomeno quello italiano. Ma le sue valutazioni, che verranno sottoposte alla ratifica dell’Eurogruppo, andranno prese molto sul serio».

Si può immaginare che si arrivi a procedure di infrazione nei confronti dei Paesi in surplus, così come le si avvia per quelli in deficit?
«Il coordinamento delle politiche di bilancio in una Unione monetaria andrebbe rafforzato. Ma sono il primo a sapere che non sarà un obiettivo raggiungibile in poco tempo. Ci sono da ridurre differenze, e pregiudizi, avvicinare opinioni consolidate e visioni del mondo divergenti. Mi sembra però che di fronte al rischio di un rallentamento prolungato della crescita, questa esigenza sia più forte che in passato».


Mes: spinge al default. Il Governo non ha mandato a firmare, riconosca la funzione del Parlamento
1 dicembre 2019

https://www.huffingtonpost.it/entry/mes ... 49f730d9b5

Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) non è nel programma sul quale il Governo Conte ha avuto la fiducia di Camera e Senato. Il Pd eviti forzature. Sul Mes, il Parlamento italiano non “si è svegliato tardi”. Al contrario, il 19 Giugno scorso, ha impegnato in modo molto chiaro il governo a “render note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato.” Come noto, il Parlamento non è stato chiamato a pronunciarsi nel merito. Non vi può essere stata, quindi, nessuna determinazione definitiva, né può esservi il 13 Dicembre. Senza ulteriori drammatizzazioni, il governo riconosca che non ha avuto e non ha il mandato per firmare il Trattato. Si impegni per riaprire il negoziato, in stretto rapporto con gli altri due capitoli del “pacchetto”: l’Unione bancaria e lo strumento di bilancio per l’euro-zona. Poi, si metta il Parlamento nelle condizioni di fare un’approfondita valutazione complessiva.

Nella discussione del Mes, è autolesionistica la rappresentazione alimentata da parte dell’intellighenzia progressista e dal Pd come scontro tra europeisti responsabili, da una parte, e irresponsabili sovranisti o inaffidabili populasti dall’altra; tra chi vuole salvaguardare la continuità dell’Italia nella Ue e nell’eurozona e chi vuole rompere. Va, invece, valutato il testo del Trattato e il contesto politico e macroeconomico nel quale opererà, nel tentativo di stare nel gorgo europeo con un minimo di autonomia culturale e politica e attenzione alle fasce sociali più deboli.

In estrema sintesi, il testo, per Paesi in condizioni di finanza pubblica come l’Italia, elimina le possibilità di sostegno finanziario senza dover ristrutturare il debito pubblico, quindi determina un enorme rischio di default che si auto-avvera. La ristrutturazione del debito pubblico non è più un evento possibile, ma improbabile, estremo, da scongiurare con ogni mezzo (dal “whatever it takes”, all’Omt e relativo programma di aggiustamenti strutturali): diventa, invece, uno strumento ordinario, previsto e disciplinato con tanto di clausole (le single limb Cacs) per evitare anche a larghe maggioranze di risparmiatori al dettaglio di bloccare l’offerta di tagli al capitale investito.

Gli articoli più pericolosi sono il 13 e il 14, integrati dall’Annex III, del testo ridefinito: rispetto alla versione in vigore, l’Italia è esclusa anche formalmente dalla linea di credito precauzionale (Precautionary Conditioned Credit Line), ma è di fatto esclusa anche dalla seconda linea di credito (Enhanced Conditions Credit Line), poiché per l’attivazione di quest’ultima è previsto un debito sostenibile e la capacità di ripagamento dei prestiti, la cui valutazione è affidata esclusivamente al board del Mes.

Gli articoli 13 e 14 sono diretta conseguenza di alcuni punti della premessa: il punto 12), dove è scritto che “il Mes può facilitare il dialogo tra un Paese membro e i suoi creditori privati, su basi volontarie, informali, non vincolanti, temporanee e riservate”; il punto 12A) dove, come ricordato sopra, è affermata la responsabilità esclusiva del Mes stesso a valutare la capacità di un Paese di ripagare il prestito ricevuto (in altri termini, la Commissione europea ha l’ultima parola sulla sostenibilità del debito pubblico di chi è in difficoltà, ma è il Mes, in realtà, a decidere se il malcapitato può ricevere aiuto senza ristrutturare il suo debito pubblico); il punto 12B), dove è prevista “in casi eccezionali, un’adeguata e proporzionata forma di coinvolgimento del settore privato quando è concesso il supporto finanziario per la stabilità”. Insomma, come è stato efficacemente sottolineato da Vladimiro Giacchè, Presidente del CER, in audizione in Commissione Bilancio alla Camera, viene definito un quadro da “Comma 22”: si predispone un efficace meccanismo di sostegno finanziario per i Paesi in difficoltà di finanza pubblica per evitar la ristrutturazione del debito; ma se sei un Paese in difficoltà di finanza pubblica, non puoi accedere al meccanismo finanziario a causa delle condizionalità ex ante. Allora, qual è il senso di policy del revisionato Trattato: innalzare la funzione disciplinante dei mercati finanziari in aiuto alle normative del Fiscal Compact aggirate nella loro efficacia dalla cosiddette clausole di flessibilità.

Ma c’è il backstop per le banche in difficoltà, insistono dal Mef. Vero. Ma per l’Italia, è una “protezione” virtuale, a parte il fatto che, più che una generosa concessione a noi, è una potenziale garanzia alle banche tedesche già salvate una volta dai contribuenti nazionali ed europei prima dell’avvio del bail-in. Come ha descritto qualche giorno fa il noto bocconiano anti-europeista prof Alessandro Penati, il backstop scatterebbe soltanto dopo aver azzerato azionisti, obbligazionisti subordinati e senior e i depositi bancari per la porzione superiore ai 100.000 euro: in sostanza, dopo un cataclisma che per noi implicherebbe, comunque, inesorabilmente, la ristrutturazione del debito pubblico.

Oltre al testo, rileva il contesto. Il testo è un fiammifero acceso vicino a un lago di benzina: ossia, la prospettiva di stagnazione economica, l’innalzamento dei tassi di interesse e inflazione zero. È pessimismo esagerato? Purtroppo, no. Perché? Primo elemento di contesto: siamo prigionieri di un’agenda di cronica anemia di domanda aggregata, determinata dalla resistenza a invertire la rotta di politica economica di fronte agli impedimenti strutturali alle esportazioni. Il mercantilismo praticato da un quarto di secolo in forma estrema dalla Ue e dall’eurozona determina, inevitabilmente, i dazi del Presidente Trump. Sarebbe necessaria e urgente una svolta keynesiana per alimentare la domanda interna attraverso investimenti pubblici per la riconversione ecologica dell’economia, ma la neo-Presidente della Commissione europea ha ribadito, subito dopo la “fiducia” data dal Parlamento di Strasburgo alla sua Commissione, il no senza se e senza ma all’esclusione dal calcolo del deficit della spesa green in conto capitale.

Secondo elemento di contesto: le pressioni tedesche e della cosiddetta “Lega anseatica” per invertire il segno della politica monetaria della Bce. La scorsa settimana, Moody’s ha rivisto da stabili a negative le valutazioni prospettiche per le banche tedesche in relazione alla loro scarsa redditività causata, in primo luogo, dai previsti tassi di interesse negativi. Insomma, il dopo Draghi, nonostante la resistenza di Ms Lagarde, va verso la fine del Quantitative easing e il ripristino della “normalità”.

Terzo elemento di contesto, la restrizione, più o meno accentuata, delle possibilità acquisto di titoli sovrani da parte delle banche, condizione posta da Berlino per il completamento dell’Unione bancaria. Qui, siamo di fronte al concreto esempio della definizione di stupidità di Carlo Maria Cipolla: una siffatta Unione bancaria sarebbe meglio perderla che trovarla, perché determinerebbe non soltanto un innalzamento dei tassi di interesse su titoli di debito pubblico, in particolare per noi, ma aumenti di capitale per l’intero mondo bancario, incluse le malmesse banche tedesche.

In conclusione, è vero quanto sostiene il Ministro Gualtieri: aspetti negativi erano inclusi anche nella versione del Mes ancora in vigore. È vero anche che, le proposte iniziali di Germania e Paesi nordici erano ancora più pericolose in quanto prevedevano ufficialmente un’automatismo per la ristrutturazione del debito. Ma sono argomenti deboli. “Poteva andare peggio, accontentiamoci”, è un principio-guida perdente e deleterio per l’interesse nazionale, come hanno dovuto riconoscere, ex-post, per il bail-in tanti sedicenti europeisti responsabili. Nella fase storica in corso e alla luce degli evidenti fallimenti dell’agenda mercantilista europea, sia sul versante dell’economia reale che di finanza pubblica, sarebbe necessaria un’inversione di rotta. O, almeno, non peggiorare il terreno di gioco. Invece, il Trattato revisionato conferma e aggrava un impianto insostenibile per l’Italia, ma anche per i paesi core, a partire dalle banche della virtuosa Germania.




Danilo Zaffarini
2 dicembre 2019

https://www.facebook.com/danilo.zaffari ... 4827274069

Il MES (meccanismo europeo di stabilità, alias fondo salva stati) è un fondo europeo, a carico di tutti gli stati membri, noi compresi, che dovrebbe servire a sostenere con dei prestiti gli stati in difficoltà economiche.

Ma gli stati europei, in genere, si finanziano da soli, con i BTP, o equivalenti : non hanno bisogno di un MES, a meno che ....a meno che le aste dei BTP non vadano deserte, o quasi, mettendo a rischio la solvibilità dello Stato, a causa del suo debito pubblico.

La riforma del MES pone delle condizioni per l'accesso a questo fondo, condizioni che implicano un'ingerenza europea nei conti del paese che lo richiede, con misure anche di ristrutturazione del debito, a carico di ... di chi? Dei cittadini, perché lo Stato, di SUO, non possiede nulla, se non attraverso contributi (tasse, diritti, imposte) e patrimoni dei cittadini.

E tutto il centro destra è insorto contro questo riforma, che implica per l'Italia esborsi certi, se qualcun altro facesse uso del MES, e ricavi incerti, se ne facesse uso l'Italia, perché sottoposti ad una condizione di "amministrazione controllata" del paese, in stile greco.
Quando chiedi un prestito, infatti, lo fai perché sei in difficoltà economiche, non perché navighi nell'oro.

Ma se tu, Italia, sei in difficoltà economiche, perché io, Europa, dovrei darti soldi europei per coprire i tuoi buchi di bilancio, la tua perdita di credibilità finanziaria, ecc, senza che tu faccia qualcosa per mostrarti degna di fiducia ai fini della restituzione di questo prestito ?
Siamo nel bel mezzo di una palese contraddizione, che esprime una drammatica realtà : se il normale accesso al credito (BTP) non funziona più, un paese è virtualmente in stato fallimentare ed è chiaro che chi paga di tasca propria può essere solo quel paese, attraverso i suoi cittadini, non i cittadini di altri paesi, che ti prestano dei soldi, ma vogliono anche delle garanzie.

E noi QUALI garanzie siamo in grado di prestare ?
PARLIAMOCI CHIARO : le sole garanzie reali sono i nostri patrimoni, come cittadini, i soldi sui nostri CC, i nostri immobili o i soldi investiti in buoni del tesoro.
Se le aste dei BTP andassero deserte, i primi a rimetterci sarebbero gli investitori in BTP, non più rimborsabili alla scadenza. E chi li detiene, a larga maggioranza ? Le nostre banche. E se quei BTP diventano carta straccia, cosa accade alle nostre banche ? Ed ai nostri CC, il cui saldo altro non è che un debito della banca nei nostri confronti ?

Vi state spaventando ? Fate bene a spaventarvi.
Questa vicenda DEVE SERVIRE A FARVI SPALANCARE GLI OCCHI SU COSA SIGNIFICHI STARE SEDUTI SUL NOSTRO IMMENSO DEBITO PUBBLICO !
Paghiamo noi tutti, di tasca nostra, non altri .... non lo stato ...
La nostra salvezza passa dalla CHIUSURA RAPIDA DEI RUBINETTI DI SPESA DELLO STATO, bloccando tutte le uscite che non siano per pensioni e sanità, la sola spesa VITALE per decine di milioni di italiani.
E serve un GOVERNO DI RESPONSABILITA' NAZIONALE, con i migliori professionisti che il Paese può mettere in campo, allontanando dalla stanza dei bottoni TUTTA la politica nazionale, e ristrutturando a fondo la macchina amministrativa dello Stato e degli enti locali.
Se non lo faremo, la CATASTROFE sarà di tale portata che il terremoto dell'Umbria, al confronto, ci parrà la vibrazione di un telefonino.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » mer apr 14, 2021 7:16 am

???

Magdi Cristiano Allam
3 dicembre 2019

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... __tn__=K-R

La riforma del Mes, Meccanismo di stabilità europea, mira a aiutare le banche tedesche e francesi intossicate dai titoli derivati. Liberiamoci dalla dittatura finanziaria rimettendo al centro l’economia reale

Cari amici, così come nel 2011 l’impennata dello spread, il differenziale tra i titoli decennali tedeschi ed italiani, culminò nell’allontanamento forzoso del governo eletto di Silvio Berlusconi e nell’imposizione del governo di Mario Monti, il promotore della dittatura finanziaria con la regia di Giorgio Napolitano, stiamo ora assistendo alla volontà di consolidare lo strapotere della grande finanza speculativa globalizzata, che porrà del tutto fine non solo alla nostra sovranità nazionale ma anche alla nostra civiltà, attraverso la riforma del Mes, il “Meccanismo di stabilità europea”, detto anche detto Fondo Salva-Stati.
Si tratta di un istituto finanziario sovranazionale costituito in seno all’Unione Europea nel 2012, il cui obiettivo è “quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del Mes che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della Zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri”.
Il capitale su cui può contare il Mes è di 700 miliardi di euro di cui gli stati membri hanno iniziato a versare 80 miliardi di euro. La Germania, con una quota del 27%, è il primo contributore. La quota dell’Italia è del 18%, concretamente ha finora versato 14 miliardi e 331 milioni euro, e si è impegnata a versare fino a 125 miliardi di euro in caso di necessità. Ad oggi il Mes ha concesso prestiti a Cipro (6,3 miliardi), Grecia (61,9 miliardi) e Spagna (41,3 miliardi).
A dicembre dovrebbe entrare in vigore una riforma del Mes, che deve essere approvata dai parlamenti degli Stati dell’Unione Europea, ma che non può essere modificata. L’aspetto della riforma che sta suscitando maggiori perplessità è l’istituzione di una linea di credito indicata attualmente in 70 miliardi di euro per aiutare le banche in difficoltà.
Ebbene il problema è straordinariamente grave perché a livello mondiale c’è un ammontare di titoli derivati, valuta virtuale speculativa, pari a 2,2 milioni di miliardi di euro, cioè l’equivalente di 33 volte il valore il Pil mondiale. A livello dei ventotto Stati dell’Unione Europea, l’ammontare dei titoli derivati è di 660 mila miliardi di euro, pari a 44 volte il Pil dell’Unione Europea. Le banche tedesche e francesi sono quelle più intossicate dai titoli derivati e di conseguenza quelle più a rischio. Solo la Deutsche Bank detiene 48,26 mila miliardi di euro di titoli derivati, pari a 14 volte il Pil della Germania.
Cari amici, questi sono i numeri che sostanziano la dittatura finanziaria a cui siamo sottomessi e da cui dobbiamo affrancarci, liberandoci dello strapotere della grande finanza speculativa globalizzata rimettendo al centro l’economia reale che produce bene e servizi, incentrata sulla persona e sul lavoro, fondata su valori e regole, finalizzata al bene della comunità locale e al legittimo interesse nazionale.





Volevo fare una considerazione sul MES, perchè mi pare che ci sia molta disinformazione in giro.
Marco Faedo
7 aprile 2020

https://www.facebook.com/marco.faedo.56 ... 8066540332


Oggi l’Europa, per venire incontro alle richieste italiane, ha sospeso il patto di stabilità; cosa vuol dire? Vuol dire che l’Italia oggi è libera di fare debito (oltre i 2500 miliardi che già abbiamo) per potere fare fronte alle emergenze, emette BOT e CCT senza alcun controllo da parte dell’Europa.
Oggi l’affidabilità dell’Italia è stimata molto poco, ed il rating dell’Italia è BBB, in continua discesa, questo,vuole dire che, con un rating BBB, pagheremo interessi MOLTO ALTI.

Il MES è un fondo europeo garantito e finanziato da tutti gli stati europei ed ha oggi una grossa capacità di intervento e, soprattutto, ha un Rating AAA, si parla quindi di interessi BASSI.

È ovvio quindi che l’Italia preferisca farsi dare i soldi dal MES piuttosto che dal mercato, paga molto meno di interessi.
Ma perchè il MES ha un rating alto? Perchè:
a) tutti gli stati lo garantiscono e se i garanti sono forti (Germania, Olanda,...) la affidabilità del debitore è garantita.
b) per prestare i soldi ad uno stato in difficoltà il MES si garantisce che lo stato “usi bene” i soldi che il MES gli presta, ed è comprensibile: io ti do i soldi e devi darmi garanzie del fatto che li userai bene e non te li sputtanerai per osterie.

E proprio questo due punti sono i punti chiave: la Germania dice: io garantisco il tuo debito, vuol dire che se tu vai in fallimento i soldi ce li rimetto io, allora voglio essere sicuro che tu investa bene i soldi che il MES ti presta, se non ho questa garanzia, io i soldi non te li do.

Detto in parole povere, se l’Italia prende i soldi dal MES per l’emergenza Coronavirus, non puó (con quei sold) finanziare il reddito di nullafacenza, Quota 100, 80 euro e tutti gli sperperi clientelari cui i nostri politicanti ci hanno abituato.

Ed è questo che i nostri politici non vogliono, non vogliono essere controllati nelle spese, gli salta il ghiribizzo di nazionalizzare Alitalia? Non vogliono essere controllati dall’Europa che puó dire: NO CARO, TU LI USI PER L’EMERGENZA CORONAVIRUS.

Io, stante il livello di irresponsabilità dei politici italiani (di destra e di sinistra) che da sempre fanno crescere il nostro debito pubblico, preferisco che l’Europa controlli ed impedisca, agli scellerati che ci governano (gialloverdi o giallorossi che siano) di farci saltare a piè pari nel baratro.



Grazie Euro, Grazie GERMANIA
Raffaele Pallotto
3 aprile 2020

https://www.immoderati.it/grazie-euro-grazie-germania/

Sostengo da tempo che indistintamente tutti i personaggi con ruoli primari nella politica di questo Paese dovrebbero sparire dal panorama mondiale. Per questo articolo prendo spunto dalle critiche che ho ricevuto da uno stimato amico il quale, qualche giorno fa, su FB mi ha invitato a studiare meglio la storia economica.

Molto di ciò che segue è preso da uno straordinario thread del Prof. Sandro Brusco via Twitter di domenica scorsa.

Sandro Brusco insegna (ed è attualmente direttore) al Dipartimento di Economia della State University of New York a Stony Brook, USA. Si occupa di teoria dei giochi; teoria delle aste e dei meccanismi di vendita; federalismo fiscale e sistemi elettorali. È laureato cum Laude alla Bocconi e ha un Ph.D. in Economic Analysis and Policy dalla Stanford University.

Non si tratta di un giornalista con preparazione abborracciata e nemmeno un professore che insegna all’Università di Pescaracas (tanto per iniziare ad essere chiari).

“Iniziamo partendo dal periodo che va dal 1992 in avanti ed esaminiamo alcuni fatti che non sono noti come dovrebbero esserlo (chissà perché).

Cerchiamo anzitutto di capire perché la legislatura 2001-2006 fu determinante. L’Italia aveva, per un pelo, scampato la bancarotta nel 1992. La classe politica si era spaventata e aveva iniziato un sentiero di rientro dall’enorme debito accumulato negli anni ’80. Quegli sforzi furono più spostati sull’aumento delle entrate che sulla riduzione della spesa, per i miei gusti, ma produssero ottimi risultati. Ci consentirono di entrare nell’euro e ottenere una drastica riduzione degli interessi pagati sul debito. Veramente drastica.

Ecco la spesa per interessi sul PIL. Passa dal 11,1% nel 1995 al 6,1% nel 2001. 5 punti! Altro che differenza tra 2,4 e 2,04! Questo è il dividendo dell’euro. Che è continuato per tutti gli anni a venire.

In breve all’inizio del secolo ci fu una di quelle rare finestre di opportunità in cui la situazione economica permetteva serie riforme strutturali che avrebbero cambiato la storia del paese.

La Germania usò quella finestra. Vi ricordo che a quei tempi era descritta come il malato d’Europa. Aveva sopportato costi pesantissimi per l’unificazione. Giusto così, ma un cambio di rotta era necessario. La loro risposta fu un programma di riforme strutturali soprattutto nel mercato del lavoro e nel sistema di welfare, il Piano Hartz.

L’occasione gettata al vento

E l’Italia? Nel 2001 va al potere il centrodestra. L’emergenza di finanza pubblica è finita. È il momento delle riforme strutturali. Riformare la pubblica amministrazione, ridurre la spesa corrente e le tasse, mettere in modo definitivo il debito su un sentiero sostenibile.

Non succede niente di tutto questo. Invece, si sfrutta il calo della spesa per interessi per aumentare la spesa corrente. Usciti dall’emergenza si torna alle vecchie abitudini clientelari di comprare voti con spesa pubblica.

La spesa totale passa dal 47,5 al 47,6%. Nessun beneficio dal calo della spesa per interessi, che in quel periodo passò dal 6,1% al 4,4%. La ragione è che il calo della spesa per interessi fu più che compensato dall’aumento della spesa primaria. Passò dal 41,4% al 43,2%.

Di riforme strutturali naturalmente manco a parlarne. Abbiamo dovuto aspettare il governo Monti per un intervento serio sulla spesa pensionistica. Il fisco è rimasto vorace, caotico e vessatorio. Nessun serio intervento su amministrazione pubblica e tanti altri pezzi dello stato e degli enti locali.

La ciliegina sulla torta fu la riforma elettorale di fine 2005, pochi mesi prima delle elezioni politiche. Dicendo l’unica cosa intelligente della sua carriera, Calderoli la chiamò ”una porcata”. Da cui il nome Porcellum. Ha garantito governi deboli da allora in poi.

Il centrosinistra avrebbe fatto meglio? Probabilmente no. Ma la storia non si fa con i se e i ma. Le azioni hanno conseguenze e le responsabilità vanno assegnate a chi quelle azioni ha intrapreso. I governi di centrodestra del 2001-2006 furono un’autentica ignominia.”

Concludo dicendo che:

1) Forse è qualcun’altro che deve dare una ripassatina alla storia economica.
2) È solo grazie all’euro ed anche alla Germania che non siamo ancora falliti.
3) Tutto l’arco politico di ogni colore da 30 anni ad oggi dovrebbe sparire per sempre.
4) Tutto il settore pubblico italiano va completamente riformato e rifondato destinando ad altra occupazione almeno il 40% dello stesso perché non serve a nulla se non a portare voti a chi deve sparire (punto 3).
5) Le associazioni di categoria (parastato) devono subire stesso trattamento di cui al punto 4).
6) La magistratura e la giustizia vedi punto 4).
7) Sistema pensionistico completamente riformato per metterlo in equilibrio attuariale.
8) Nella sanità va iniettata una robusta dose di efficienza con manager a guidare le ASL invece dei servi di partito e i primari nominati per capacita’ e non per fedelta’.
9) Ai sindacati va applicato il metodo Thatcher verso i minatori inglesi nel lontano 1984/1985.
10) Superata la crisi economica scatenata da COVID19 la politica economica italiana dovrà perseguire questa semplice formula: Meno spesa pubblica; Meno debito pubblico; Meno tasse! Conseguentemente vi sarà più crescita e maggiore produttività. Tradotto: più Mercato e meno stato (la s minuscola è voluta).




Euro: cos’è successo all’Italia nei primi 20 anni di moneta unica, in 10 grafici
Francesco Sorrentino
23 maggio 2019

https://www.ilsole24ore.com/art/come-e- ... ro-ACGqP8E

Colpa dell’Europa, colpa dell’euro. Dopo le contorsioni di Brexit, sono frasi che non si sentono più, almeno non con la forza di prima. Gli scettici hanno un po’ cambiato registro, chiedono una riforma radicale dell’Unione e, soprattutto, del suo regime monetario, ma non più una vera e propria uscita in nome di un malinteso sovranismo economico. La sostanza, però, cambia poco: le forze populiste restano decisamente euroscettiche e in Italia, tra l’ansia per lo spread e la brama per maggiori spese pubbliche, la vis polemica resta in ogni caso forte. I dati macroeconomici, però, raccontano una storia un po’ più articolata rispetto agli slogan politici.

Disoccupazione in calo
LA DISOCCUPAZIONE

Dati in percentuale sulla forza lavoro (Fonte: Eurostat)

Cosa è successo all’Italia con l’ingresso nell’euro? Qualcosa di molto positivo, innanzitutto: un forte calo della disoccupazione, scesa da persistenti livelli superiori all’11% fino a un minimo del 5,8% nell’aprile del 2007. Hanno aiutato probabilmente i tassi di interesse relativamente bassi, forse più bassi di quanto le condizioni dell’economia italiana richiedessero. Solo la Grande recessione, che è stata qualcosa in più di una mera contrazione ciclica dell’attività economica, ha riportato la disoccupazione a livelli elevati. A quel punto l’Italia non è stata più in grado di recuperare, malgrado tassi a zero e quantitative easing della banca centrale.

Produttività stagnante
PRODUTTIVITÀ MULTIFATTORIALE

Variazione annua (linea blu) e trend (linea rossa). Dati in percentuale (Fonte: University of Groningen - Fred, St. Louis Fred)

Il problema è la produttività, che resta stagnante da tempo, e costringe quindi anche i salari reali a restare fermi. Il problema viene da lontano. Dati raccolti da un’analisi dell’Università di Groningen sulla produttività multifattoriale, che misura la capacità di un Paese di “mettere insieme” in modo efficiente capitale e lavoro (e quindi soprattutto innovazione tecnologica e competenze dei lavoratori), mostrano un lungo rallentamento, dopo la crescita del periodo del “miracolo economico”, una lunga fase di stasi e poi una ripresa della decelerazione che ben presto si trasforma in una vera e propria marcia indietro in coincidenza dell’introduzione dell’euro quando, secondo alcune analisi - a cominciare da quelle di Gita Gopinath, oggi capoeconomista del Fondo monetario internazionale - un costo del credito troppo basso ha mantenuto in vita, nel nostro Paese come in altre economie del Sud Europa, aziende inefficienti che sarebbero altrimenti fallite. Non è certo questo l’unico fattore di freno alla produttività, ma sarebbe sbagliato sottovalutarlo.

Export in crescita
ITALIA, EXPORT IN TERMINI REALI

Dati annuali in milioni di euro. (Fonte Eurostat)

Non si può dire, però, che abbia sofferto la “competitività” dell’Italia (ammesso che questo concetto abbia senso per un’intera economia). Le esportazioni, in volumi, sono infatti aumentate, a un ritmo medio dello 0,9% mensile prima della crisi e dello 0,85% nel tormentato periodo successivo. Segno che le aziende italiane aperte alla concorrenza internazionale sono in grado di competere senza grandi difficoltà malgrado l’assenza di una moneta e cambi nazionali.

Inflazione sotto controllo
INFLAZIONE AL CONSUMO

Incremento annuale dell'indice dei prezzi in percentuale, dati mensili (Fonte Istat)

L’ingresso nell’euro, con la conseguente “cessione” alla Banca centrale europea, del compito di gestire la politica monetaria ha portato a una forte flessione dell’inflazione, in un Paese particolarmente incline alle fiammate sui prezzi (soprattutto prima del divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia). La dinamica del costo della vita, prima della grande recessione, è rimasta un po’ più vivace rispetto alla media di Eurolandia - un altro segnale, forse, di tassi troppo bassi - ma non si è mai tornati ai livelli precedente. Un buon risultato per lavoratori dipendenti (l’inflazione, oltretutto, morde di più chi è meno abbiente) e risparmiatori.

Basso costo del credito
TASSI ALLE IMPRESE
Tassi armonizzati sui prestiti alle imprese non finanziarie, in percentuale. (Fonte: Banca d'Italia)

L’ingresso in Eurolandia ha anche permesso alle banche di concedere alle imprese prestiti a tassi decisamente più bassi rispetto al periodo precedente. A ottobre 2008, con i prezzi surriscaldati per il rialzo del petrolio, il costo del credito aveva raggiunto il livello abbandonato a fine ’98, ma nulla di più. Meno lineare l’andamento dei tassi reali, soprattutto nel periodo 2012-2017, ma in questo caso è ancora più evidente che il costo del credito è rimasto a livelli inferiori a quelli del periodo pre-euro.

Prestiti in difficoltà nel dopo crisi
PRESTITI ALLE IMPRESE NON FINANZIARIE

Dati in milioni di euro. (Fonte: Bce)

In questo modo, non si è avvertita nessuna soluzione di continuità, tra il periodo precedente e quello successivo all’ingresso nell’euro, nell’andamento dello stock di prestiti concessi alle imprese. Persino la Grande recessione ha visto solo un rallentamento, seguito dal tentativo di riprendere il trend originale. La crisi esplosa in Grecia nel 2010, però, ha visto una stasi nella concessione del credito seguita da una flessione dello stock che continua fino a oggi e segnala le difficoltà del sistema produttivo e bancario italiano.

Rendimenti in calo
I RENDIMENTI DEI BTP DECENNALI

Media mensile, dati in percentuale. (Fonte: Eurostat)

L’andamento di tassi bancari e prestiti è sicuramente legato a quello dei rendimenti dei titoli di Stato, che costituiscono un “pavimento” per il costo del credito. L’ingresso nell’euro ha visto una flessione dei rendimenti dei decennali, che per diversi anni hanno oscillato tra il 4 e il 5% circa, per poi risalire fino a sfiorare il 6% durante la crisi del debito sovrano, che ha visto l’Italia particolarmente vulnerabile. Nel periodo precedente l’ingresso in Eurolandia, ed escludendo la fase finale di convergenza, i rendimenti dei decennali non erano mai scesi sotto l’8,8%. Prima della Grande recessione, l’Italia ha anche goduto di uno spread con i Bund decennali vicinissimo allo zero, salvo poi assistere a una sua impennata con la crisi. Fuori dell’euro lo stesso differenziale non era mai calato, nelle medie mensili, sotto quota 257.

L’austerità-che-non-c’è
SPESE PUBBLICHE

Dati in milioni di euro. (Fonte: Eurostat)

Gran parte delle polemiche contro Bruxelles riguarda però la gestione della spesa pubblica. Si è parlato spesso di austerità, ma di questa non vi è traccia. La spesa pubblica in Italia ha continuato ad aumentare a un ritmo invariato fino alla Grande recessione, quando il limitato spazio fiscale e il nervosismo dei mercati ha imposto il rallentamento. Nei dati annuali - rilevati però ogni trimestre - si è assistito in alcuni casi a una flessione, ma si è sempre trattato di eventi isolati, prontamente corretti, mai di una tendenza.

L’equivoco della crescita
DEFICIT E CRESCITA

Dati in milioni di euro

Non si può neanche dare troppa importanza - sul piano strettamente economico - ai vincoli di bilancio imposti dalla Ue; e non solo perché la reazione dei mercati è immediata e ineludibile. Il dibattito pubblico italiano si fonda tutto sull’idea sbagliata che il deficit statale sia un fattore (anzi: “il” fattore) di crescita economica. In realtà non è così, ha concluso la ricerca: le politiche fiscali possono sostenere la domanda durante le recessioni e poco più. Anche a uno sguardo superficiale, il rapporto tra il disavanzo e la variazione del Pil mostra addirittura che aumentando il deficit la crescita annua del Pil - in termini assoluti - diminuisce. Eliminare l’outlier, il dato anomalo del 2009, isolare alcuni anni pre-crisi, e prendere in considerazione, per la crescita, un periodo di due anni, non cambia davvero i risultati. La spesa pubblica può dunque avere una funzione sociale, mentre il mondo politico può illudersi che abbia anche un ruolo nelle elezioni (che però a volte si perdono comunque); la crescita è però figlia di lavoro, capitale, tecnologia, competenze, e un ambiente (anche aziendale) favorevole.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » mer apr 14, 2021 7:16 am

I 4 pilastri dell’accordo all’Eurogruppo: Mes, Bei, Sure e fondo per ripresa: ecco cosa sono
10 apr 2020

https://www.corriere.it/economia/finanz ... resh_ce-cp


Accordo all'Eurogruppo, i 4 pilastri: Mes, Bei, Sure e fondo per ripresa Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo (Epa)

Quello emerso dall’Eurogruppo giovedì notte è un accordo basato su un pacchetto di misure che si basa su tre reti di sicurezza: per i lavoratori, per le imprese, per i paesi, alle prese con la grave crisi economica scatenata dalla pandemia da coronavirus. A questo si aggiunge l’impegno a lavorare al fondo per la ripresa economica in cui un ruolo centrale sarà svolto dal prossimo Quadro finanziario pluriennale, il bilancio 2021-2027 dell’Unione europea.
Si tratta di un pacchetto di aiuti da 1.000 miliardi di euro. Il commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni ha sottolineato che si tratta di «un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese» e per evitare una divergenza tra le economie più colpite dal virus.


I 4 pilastri

In pratica, i pilastri dell’accordo tra i ministri europei dell’area economica e finanziaria sono quattro: la Bei, la banca europea degli investimenti, prestatore e garante di fondi e liquidità per le aziende; il Sure, ovvero la nuova formula di cassa integrazione e assicurazione per i lavoratori che possono perdere il lavoro perdono per la grave crisi economica; il Mes, per sfruttare i finanziamenti del fondo per «sostenere l’assistenza sanitaria diretta e indiretta così come i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi provocata dal Covid 19»; infine, è stata accolta la proposta francese di creare un fondo finanziato da obbligazioni comuni per finanziare il rilancio dell’economia: si tratta del fondo per la ripresa economica.


Fondo Bei da 25 miliardi (per 200 miliardi di finanziamenti)

Nel testo che è uscito dai lavori si legge che i ministri accolgono con favore l’iniziativa del gruppo Bei (la Banca europea per gli investimenti) «di creare un fondo di garanzia paneuropeo di 25 miliardi di euro, che potrebbe sostenere finanziamenti di 200 miliardi di euro per le aziende», soprattutto le Pmi, in tutta l’Ue, anche attraverso le banche promozionali nazionali. «Invitiamo la Bei a rendere operativa la sua proposta il più presto possibile e siamo pronti a metterla in atto senza indugio, garantendo al contempo la complementarità con altre iniziative dell’Ue e il futuro programma Invest Ue», si legge ancora nel testo.


Mes: utilizzo fondi «senza condizioni»

Per quanto riguarda il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) si potrà attivare per spese per cure e prevenzione sanitaria, i ministri sottolineano che «è dotato di strumenti che potrebbero essere utilizzati, se necessario, in modo adattato alla natura dello choc simmetrico causato da Covid-19». L’Italia ha sottolineato che non ha chiesto l’attivazione del Meccanismo di stabilità europeo: «L’Italia non ha deciso di fare ricorso al Mes, ma ha solo concorso a definire un rapporto che prevede la possibilità di istituire quattro nuovi strumenti per affrontare la crisi del Covid19», dicono dal ministero dell’Economia. Fonti del Mef, dopo l’Eurogruppo di giovedì notte, hanno aggiunto che la nuova linea di credito per le spese per cure e prevenzione sanitaria legate al Covid-19 è «senza alcuna condizionalità» e attivabile da qualsiasi paese membro che lo voglia».
«Sul Mes è stata eliminata ogni condizionalità, si è introdotto uno strumento facoltativo, una linea di liquidità fino al 2% del pil, che può essere attivato senza condizione», ha detto il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, veerdì mattina in un intervento alla trasmissione tv Uno Mattina.


Il meccanismo (nuovo) del Mes

I ministri propongono di istituire un sostegno basato sull’esistente linea di credito Eccl, il programma di assistenza precauzionale, quale garanzia pertinente per gli Stati membri dell’area dell’euro interessati da questo choc esterno. «Sarebbe disponibile per tutti gli Stati membri dell’area dell’euro durante questi periodi di crisi, con condizioni standardizzate concordate in anticipo dagli organi direttivi del Mes, che riflettano le sfide attuali, sulla base di valutazioni iniziali delle istituzioni europee. L’unico requisito per accedere alla linea di credito sarà che gli Stati membri dell’area dell’euro che richiedono assistenza si impegnino a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento interno dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta, i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi Covid 19», si legge nel documento. I ministri hanno concordato sul fatto che l’accesso concesso sarà il 2 per cento del Pil del paese alla fine del 2019, come parametro di riferimento. Questo strumento sara’ resto disponibile entro due settimane, nel rispetto delle procedure nazionali e dei requisiti costituzionali.


Il terzo elemento: il «Sure» per i lavoratori

Terzo elemento, il Sure. «Accogliamo con favore la proposta della Commissione del 2 aprile di istituire uno strumento temporaneo a sostegno degli Stati membri per proteggere l’occupazione nelle specifiche circostanze di emergenza della crisi Covid 19.

Fornirebbe assistenza finanziaria durante il periodo della crisi, sotto forma di prestiti concessi a condizioni favorevoli dall’Ue agli Stati membri, fino a un massimo di 100 miliardi di euro, basandosi il più possibile sul bilancio dell’Ue, garantendo al contempo sufficienti capacità di sostegno alla bilancia dei pagamenti e garanzie fornite dagli Stati membri al bilancio dell’Ue.
Lo strumento potrebbe principalmente sostenere gli sforzi per proteggere i lavoratori e l’occupazione, nel rispetto delle competenze nazionali nel settore dei sistemi di sicurezza sociale e alcune misure connesse alla salute», ha stabilito l’Eurogruppo.


Fondo per la ripresa

Il quarto elemento del pacchetto è l’impegno a lavorare «su un fondo di recupero per preparare e sostenere la ripresa, fornendo finanziamenti attraverso il bilancio dell’Ue a programmi progettati per rilanciare l’economia in linea con le priorità europee e garantire la solidarietà dell’Ue con gli Stati membri più colpiti. Tale fondo per la ripresa sarebbe temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi».


Solidarietà economica italiana ed europea al tempo della crisi da coronavirus.
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 7962899328

Il Italia la prima solidarietà deve venire tra gli italiani e solo dopo si può chiedere e pretendere quella tra europei, cittadini della UE.
Gli italiani debbono dimostrare all'Europa di aver fatto tutto il possibile di loro spettanza, competenza e responsabilità per attenuare o risolvere la crisi economica; sicuramente se non facessero ciò non avrebbero alcun diritto di chiedere solidarietà all'Europa e sacrifici agli altri europei; per pretendere dagli altri bisogna sempre dare il buon esempio.
Chi non è capace di assumersi le proprie responsabilità non ha alcun diritto di chiedere agli altri di fare dei sacrifici per lui.


COVID-19, NESSUNA EMERGENZA SI SUPERA GRATUITAMENTE
di MATTEO CORSINI
29 marzo 2020

https://www.miglioverde.eu/covid-19-nes ... uitamente/

In questi giorni di emergenza da Covid-19, non è raro sentire appelli alle forze politiche per mettere da parte le divisioni e collaborare “per il bene del Paese”. Non mi ha stupito che l’argomento su cui tradizionalmente c’è stata meno discordia sia quello dei soldi da spendere in deficit da parte del governo. Uno potrebbe dire: ma come, anche di fronte alla situazione attuale sei contrario all’aumento del deficit?
Purtroppo ci si trova in braghe di tela ad affrontare questa situazione perché, anche quando l’emergenza Covid-19 non c’era, l’unica ricetta che chiunque chiede il voto agli italiani sa proporre consiste nel deficit spending.
Ora, non voglio sembrare cinico o insensibile, ma credo che dovrebbero essere lette con preoccupazione le dichiarazioni (a ruota libera) di maggioranza e opposizione (oltre ai già commentati interventi restrittivi della libertà individuale adottati a getto continuo dal governo). Per esempio, ecco Vito Crimi del M5S, in merito al limite del rapporto tra deficit e Pil:
“Non ci dovrebbe essere più il concetto di tetto, la situazione è talmente straordinaria che non è più possibile parlare di numeretti, bisogna stanziare quello che serve. Noi usciremo presto da questa situazione e daremo agli altri Paese d’Europa la linea da seguire.”
A seguire, Matteo Salvini, alla domanda se ci siano i 50 miliardi che dice sia necessario spendere:
“Hai voglia. Noi non chiediamo i 300 miliardi che usò la Germania per salvare le sue banche, ma gli italiani devono essere garantiti.”
Purtroppo la realtà non cambia: le spese che uno Stato si può permettere non sono niente altro che tasse. I sognatori della via alla prosperità a mezzo deficit pare considerino il fatto di non tassare subito come se non si dovesse tassare mai. Ma ogni euro di deficit in più oggi corrisponderà a un euro di tasse (più interessi) in un futuro che, per quanto si cerchi di calciarlo in avanti, prima o poi arriverà.
Non nego l’emergenza, tanto sanitaria quanto economica. Credo però che si debba essere consapevoli e non si debba illudere nessuno che quello che si spende oggi sia un pasto gratis.



L''Italia prima di chiedere aiuto agli altri, all'Europa e agli altri stati europei più ricchi,

deve ridurre tutte le criminali alte paghe dei dirigenti pubblici e del para stato,
deve ridurre le immonde pensioni d'oro e d'argento,
deve ridurre gli scandalosi compensi dei politici e dei magistrati a cominciare dalla Corte Costituzionale,
deve eliminare le immonde spese per i parassiti cronici delinquenziali,
deve eliminare gli sprechi e il sottobosco della corruzione,
...
poi deve attingere ai risparmi e ai patrimoni dei cittadini a partire da una certa soglia specialmente in quelli che sono stati realizzati alimentando il debito pubblico,
poi deve vendere il vendibile dei suoi patrimoni pubblici e/o darli in garanzia per ulteriori debiti, come se occorre deve dare in garanzia anche i patrimoni dei cittadini italiani.
Solo dopo aver fatto tutto ciò può avere i diritto di chiedere la solidarietà a fondo perduto di chi in Europa ha di più.
I debiti si pagano anche con i sacrifici, con forti sacrifici che debbono essere fatti innanzitutto da chi ha beneficiato dei debiti stessi e non certo da chi ha concesso i prestiti specialmente se prestatori non italiani.
No a chi vuole far saltare il banco per non pagare i debiti e no a chi vuole vivere a spese degli altri!


Solidarietà economica al tempo della crisi da coronavirus
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Il debito pubblico italiano - una mostruosità mondiale

Messaggioda Berto » mer apr 14, 2021 7:17 am

Saltato l'equilibrio tra contribuenti e "consumatori di tasse", l'Italia rischia di affondare
Marco Faraci
14 aprile 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... affondare/

Ogni paese sviluppato è costantemente alle prese con il problema del bilanciamento della sua spesa pubblica, tendenzialmente crescente, con la capacità dei suoi contribuenti di sostenerla. L’Italia è da sempre, da questo punto di vista, uno dei paesi messi peggio in assoluto, essendo altissimo da noi il peso della spesa statale rispetto al Pil.

Le ragioni del declino dello Stivale sono tante, ma la principale è legata alla dinamica demografica tra tax producers – i “produttori di tasse”, cioè i contribuenti – e i tax consumers – i consumatori di tasse, cioè chi vive di spesa pubblica. Le dinamiche di spesa del pubblico impiego, della ridistribuzione territoriale e del sistema pensionistico negli anni hanno fatto sì che sempre più persone vivessero di tasse e sempre meno persone fossero messe nelle condizioni di generarle.

Una volta che si entra in questo tipo di percorso, è molto difficile invertire la rotta ed è molto più facile invece continuare ad accentuarlo, perché il peso fiscale diviene tale da diminuire la praticabilità e l’appetibilità dell’attività “nel mercato” – e simmetricamente rende sempre più conveniente essersi posizionati dalla parte del posto fisso e della rendita assistenziale.

Il Covid è entrato prepotentemente in questa dinamica da tempo avviata, colpendo selettivamente l’Italia che lavora nel mercato, fermando o riducendo ai minimi termini moltissime attività economiche private. Questo ha non solo colpito in modo diretto il reddito di tantissime persone, ma evidentemente ha anche ridotto considerevolmente la base fiscale del Paese. Al tempo stesso tutti coloro che sono stipendiati dal settore pubblico hanno mantenuto in pieno il loro salario e nessun costo dello Stato si è ridotto a fronte delle minori entrate fiscali; anzi, lo Stato si è messo addirittura a spendere di più “per gestire l’emergenza”.

Si è quindi creato un drammatico squilibrio tra entrate e uscite delle casse pubbliche. Di fronte a questa situazione, la politica ha continuato a professare la convinzione che all’orizzonte ci sia una “ripresa a V”, cioè che la crisi del Covid resti circoscritta nel tempo e negli effetti e che quindi sia destinata ad essere recuperata pienamente – e che tutto quello che occorre sia semplicemente “passà ‘a nuttata” attraverso l’opportuno ricorso ad una fase di indebitamento.

In realtà, le molteplici previsioni secondo cui l’Italia recupererebbe gli effetti della crisi a fine 2022, cioè nel giro tutto sommato di poco tempo, appaiono purtroppo eccessivamente ottimistiche. Esse si basano sulla semplicistica concezione che le progressive riaperture corrispondano a riaccensioni di interrutori che sostanzialmente ripristinano lo status quo ante.

Ma la realtà non funziona così: l’orologio della storia non può mai essere riportato indietro. I danni arrecati al tessuto economico, sociale e civile del Paese sono in gran parte per sempre. Molte piccole e medie attività, stroncate da questi due anni di chiusure non riapriranno più, ma anche i settori non colpiti in maniera diretta dalle chiusure potrebbero vedere il loro giro d’affari fortemente ridotto per l’effetto della minore domanda di un Paese impoverito.

La crisi del coronavirus potrebbe anche aver portato dei cambiamenti permanenti alle abitudine degli utenti e dei consumatori, da un lato accelerando in modo particolare l’obsolescenza di alcuni settori dell’economia tradizionale (dai piccoli esercizi ai cinema), dall’altro riducendo in termini generali l’attitudine alla spesa, al movimento e al rischio.

Il nostro Paese appare, peraltro, meno attrezzato degli altri per poter innescare un recupero di più alti livelli di attività economica. Tra le varie cose, la rigidità del nostro mercato del lavoro – e il tentativo politico di “accanimento terapeutico” su molte attività economiche non più recuperabili – renderanno improbabile che la domanda e l’offerta di lavoro possano incontrarsi nuovamente in maniera efficiente.

Insomma, è del tutto improbabile che, almeno in Italia, la crisi sia l’occasione per una qualche palingenesi economica che porti a tagliare i rami secchi ed a concentrare le risorse verso attività a più alta produttività e valore aggiunto.

Alla fine, è del tutto credibile che il Pil del nostro Paese possa consolidarsi a livelli strutturalmente inferiori anche di un 10-15 per cento rispetto ai livelli pre-crisi. Evidentemente a ciò corrisponderebbero introiti fiscali destinati ad assestarsi strutturalmente a livelli significativamente più bassi di quelli che abbiamo conosciuto finora.

La classe politica continua ad eludere questa fondamentale questione che pure si porrà quanto prima in tutta la sua drammaticità. Come intende finanziare l’Italia una spesa pubblica che non solo non si è ridotta proporzionalmente con la diminuzione delle entrate fiscali, ma si è addirittura accresciuta? Davvero uno dei paesi con il debito pubblico più alto del mondo pensa di andare avanti registrando, nei prossimi anni, un 15-20 per cento annuo di deficit rispetto al Pil? Davvero l’Italia può continuare a pretendere di sostenere una spesa pubblica di livelli svedesi o danesi con un Pil che potrebbe realisticamente attestarsi su livelli portoghesi o estoni?

Si dovrebbe cominciare a riflettere su una strategia di drastico contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, per riportarla a livelli che siano nuovamente sostenibili. E invece dà bene l’idea del degrado del nostro quadro politico-culturale il fatto che si continui a veicolare l’impressione che questo sia per lo Stato addirittura un momento di “vacche grasse” – con il Recovery Fund a rappresentare un insperato tesoretto con cui poter fare ulteriore spesa pubblica ideologica, clientelare ed assistenziale. Non c’è che dire. Il risveglio sarà brusco.
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