Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:18 am

Le grandi corporation globali che non pagano tasse
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Google, Apple, Amazzon, Facebook, Microsoft, Hewlett Packard, Starbucks, Uber, Nike, Airbnb ...
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:19 am

PARADISI FISCALI
Il duo satirico Uthoff-Von Wagner spiega con ironia come le grandi Corporation aggirano il fisco europeo e impoveriscono il sud dell'Europa sottraendo incredibili risorse fiscali.

https://www.facebook.com/M5Scarlaruocco ... 2275982876


Paradisi Fiscali, satira tedesca
https://www.youtube.com/watch?v=vwtKX_HsOJw
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:20 am

Perché Google paga le tasse in Irlanda
Economia, Inchieste - 06/11/2012
Un sistema fiscale che avvantaggia chi mantiene le basi nei paesi esteri. Tommaso Di Tanno a Giornalettismo: "Tutto legale. Siamo noi che non siamo moderni"

http://www.giornalettismo.com/archives/582383/google-2

L’Europa non ci sta più. In questi ultimi mesi sempre più governi chiedono chiarimenti ai big della rete, sulle esigue imposte versate nelle casse statali nonostante gli utili miliardari. Colossi come Amazon e Google, tramite meccanismi e filiali, “hanno fregato” i regimi fiscali del vecchio continente. E lo hanno fatto in modo del tutto legale. Una tattica talmente vincente che sia Facebook che Apple hanno deciso di seguire i vicini di Mountain View, versando al fisco inglese solo 396 mila sterline su 15,2 milioni di fatturato. Colpa di una normativa non al passo coi tempi. Ed è giusto parlare in questi casi di evasori? “Non rubano niente, siamo semplicemente noi che non siamo moderni”, spiega Tommaso Di Tanno, revisore dei conti alla Camera e docente di diritto tributario all’Università di Siena. Se la tassa sulle notizie pubblicate da Google si è rivelata una barzelletta, in realtà le briciole sulle imposte versate peseranno non poco all’Europa intera. In alcuni paesi se si svia il concetto di “stabile organizzazione” si possono evitare gran parte delle tassazioni previste.

ESSERE O NON ESSERE – “La tassazione in un paese è legata al concetto di stabile organizzazione. Per esempio, Ryanair: non ha base in Italia, però non c’è dubbio che i suoi aerei atterrino nel nostro paese e che parte del suo personale sia italiano. Ecco in questo caso, dire che Ryanair non abbia una stabile organizzazione in Italia è piuttosto difficile”. E per Google? La cosa sembra cambiare. Nel caso dei colossi web, senza server, può essere difficile certificarsi. “Se si vende per esempio un software e una serie di servizi on line, diventa difficile definire il concetto. La stabile organizzazione era una definizione realistica prima dell’era informatica. Questo valore oggi crea reddito nel nostro paese, ma non è tangibile”.

GOOGLE POWER – Il colosso, la cui sede europea si trova a Dublino, ha dichiarato 12,5 miliardi di euro di entrate lo scorso anno e un utile (lordo) pari a 9 miliardi di euro. Eppure l’azienda ha versato solo 8 milioni di tasse. Come è possibile? Semplice, basta creare un tour di profitti, che va oltreoceano, con una società irlandese con sede alle Bermuda. La tecnica è chiamata “double irish” o “sandiwich olandese” con più varianti. L’aliquota sulle imprese in Irlanda è del 12.5%, la più bassa dell’Unione europea. E in questa maniera Google svolge una attività perfettamente legale.

IL MECCANISMO – A parlare per primo sul caso è stato Bloomberg nel lontano 2010, con una serie di dati. Il meccanismo che ha creato la scappatoia al fisco è iniziato con la vendita dei diritti della proprietà intellettuale, sviluppata negli Stati Uniti all’estero, magari ad una filiale in un paese a bassa fiscalità. L’IRS (Internal Revenue Service americana) ha dato il suo consenso alla vendita nel 2006. Con un meccanismo chiamato “transfer pricing”, i profitti vengono traslati dall’Irlanda verso società di comodo con base in paradisi come le isole Cayman o Bermuda. Nel caso di Google sarà la Google Ireland Holdings, che poi verserà alla controllata olandese. A parlarne è anche Daniela Roveda sul Sole 24 ore:

Google ha potuto versare quindi 7 miliardi di dollari alla Google Ireland Holding per l’uso della proprietà intellettuale, ma dato che questi pagamenti vengono registrati come «spese amministrative», essi sono esentasse. I pagamenti oltretutto vengono effettuati tramite un’altra Holding di Google in Olanda, e non sono soggetti quindi alla detrazione fiscale in vigore in Irlanda.

PANINI E DOPPI IRISH- Il cosiddetto “Double irish” consiste nell’interazione di due società irlandesi. Con una particolarità: una di queste ha sede fiscale in paradiso offshore. Il meccanismo consente di “evadere” e può essere affinato, creando una ulteriore società in un paese Ue. Questo perché per la legge irlandese ci sono particolari esenzioni per il transfer delle royalty in Europa. Come? La Google Ireland Holdings ha sede nelle Bermuda, con lei nel verde territorio c’è la Google Ireland Ltd, sempre irlandese nella quale arriva l’88% di tutti i profitti di Mountain View fuori dagli Stati Uniti. Un giro di affari altissimo in cui la Google Ireland Ltd paga meno dell’1% di tasse allo stato irlandese. Perché? Perché versa 5,4 miliardi di dollari (in royalties) alla Google Ireland Holdings. Ed è qui che entra in azione la società olandese. Le royalties infatti non vengono versate direttamente, ma ad una terza società, la Google Netherlands Holdings BV. Filiale, che secondo Cbs è senza dipendenti, e riceve solo pagamenti. Anche se on line, cercano personale. La Google Netherlands appena ricevuto il flusso, rigira tutto alla sede irlandese (la prima citata, con sede alle Bermuda). Alla fine del tour, Mountain View finisce di pagare al fisco irlandese solo 8 milioni di euro. Ma in realtà dallo scorso anno questo meccanismo non è più attivo: “Dal 2011 – spiega Di Tanno – vale l’aliquota del 12,50% per tutti. Questo regime non esiste più, indipendentemente dall’attività che uno svolge”.

LEGGI ANCHE: La pubblicità di Google+ sui giornali

LA BUFALA FRANCESE - Negli altri paesi come si comporta il colosso? E’ stata prontamente smentita la notizia di un contenzioso con il fisco francese, che avrebbe chiesto a Google un miliardo di euro. La news, dal settimanale francese Le Canard Enchainé spiegava:

La direzione generale delle finanze di Parigi, al termine di un’indagine sulle pratiche fiscali dell’azienda, avrebbe inviato al gigante della ricerca una lettera raccomandata nella quale avrebbe chiesto “circa un miliardo di euro per quattro esercizi contabili“.

In realtà non è arrivato nulla in sede. A confermarlo un portavoce a France Presse: “Google non ha ricevuto notifiche di correzioni fiscali da parte dell’amministrazione fiscale francese”. In Francia, secondo alcune stime, il motore di ricerca avrebbe realizzato nel 2011 tra 1,25 e 1,4 miliardi di euro, derivanti principalmente dall’attività di agenzia pubblicitaria su internet, ma avrebbe versato appena 5 milioni di euro di tasse. E i francesi sono comunque sull’attenti. A spiegare bene la vicenda è Irish Times con tanto di timeline finale, che indica le tappe del presunto contenzioso.

LEGGI ANCHE: La Francia chiede a Google un miliardo di euro

SIMILI – Altre aziende sembrano avere il “vizietto” di Google: si parla di Microsoft, Hewlett Packard, Apple. Queste tre sono state più volte citate nelle interrogazioni del Senato americano. Secondo un rapporto presentato in aula, spiegato dal senatore Carl Levin, Microsoft non avrebbe pagato le tasse sui 21 miliardi di dollari del fatturato totale, la Apple avrebbe evitato di farlo sui suoi 34,5 miliardi di dollari.

SOLUZIONI- Come arginare questi fenomeni, perlomeno in Italia? “O si mette mano alla revisione dei trattati contro le doppie imposizioni e sugli strumenti di tassazione internazionale, oppure tutti questi accertamenti con cui si cerca di tassare Google o altri, sono destinati alla sconfitta” precisa Di Tanno. “Questo perché secondo il trattato, una società americana è tassata in Italia solo se ha la stabile organizzazione. Se queste realtà evadono in Irlanda, non è un nostro problema. Finché non succede in Italia. Ma precisiamo: loro non evadono, con queste condizioni non si paga per legge”.

COLPA NOSTRA – “Il punto da rivedere è questo – prosegue Di Tanno – è un concetto vecchio che andava bene fino ai primi anni ’90. L’arm’s lenght stabilisce che il prezzo di trasferimento tra due paesi non sia libero. Questo per evitare che si trasferiscano utili o perdite da uno stato all’altro. E non c’entra con la localizzazione del redditto. Piuttosto questa metodologia fa si che i prezzi di trasferimento all’interno di uno stesso gruppo non siano giocati per far guadagnare la filiale uno piuttosto che la filiale due”. In conclusione siamo noi che dobbiamo rivedere tutto, in modo multilaterale, senza accertamenti fiscali che crollano davanti accordi vecchi da decenni: “Loro fanno un mestiere- conclude Di Tanno – che non è coperto da questi trattati. Questo è un problema che non riguarda solo l’Italia, ma Spagna e Francia legate anch’esse al concetto di stabile organizzazione. Occorre rivedere tutto per adeguare questi strumenti all’economia moderna”.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:20 am

Apple, la strategia per sfuggire al fisco in Australia: portare gli utili in Irlanda
Un'inchiesta dell'Australian Financial Review svelato l'intricata ragnatela di strategie utilizzate dalla società di Cupertino negli ultimi anni per trasferire off shore i suoi profitti e sottrarli in toto alla tassazione
di Marco Quarantelli | 12 marzo 2014
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03 ... nda/906833

Ha fatturato 27 miliardi di dollari, ma ha pagato al fisco australiano solo 176 milioni. Lo 0,7%. Una magia perfettamente legale firmata Apple, che è riuscita a trasferire in Irlanda 8,9 miliardi di utili realizzati in Oceania negli ultimi dieci anni. Un’inchiesta dell’Australian Financial Review, il più autorevole quotidiano economico del continente, ha svelato l’intricata ragnatela di strategie utilizzate dal gigante statunitense dell’hi-tech per trasferire off shore i suoi utili e sottrarli alla tassazione locale. Il segreto? Apple Sales International, compagnia della galassia di Cupertino con sede a Cork, in Irlanda, che sulla carta ha il compito di tutelare la proprietà intellettuale dei suoi prodotti in tutto il globo e in cui confluiscono tutti gli introiti che la società sottrae al fisco dei paesi in cui produce e vende. E i miliardi che sfuggono all’erario australiano – e qui sta il capolavoro – non vengono tassati né in Irlanda, né negli Usa né altrove.

Il Financial Review ha ottenuto e analizzato i conti finanziari di Apple Sales tra il 2002 e il 2013: solo negli ultimi 5 anni, la compagnia ha contabilizzato ricavi per cento miliardi di dollari e ha versato al fisco meno di 50 centesimi ogni mille dollari entrati nelle sue casse. Funziona così: tutte le divisioni Apple sparse per il globo sono tenute a versare sotto forma di copyright ad Apple Sale una parte dei profitti delle vendite effettuate. Così il braccio australiano di Cupertino, Apple Pty Ltd, prima di pagare le imposte, paga una fee ad Apple Sales per le proprietà intellettuali, consentendo così di presentare al fisco australiano profitti molto più bassi e di abbattere le tasse.

Nel caso analizzato dal Financial Review, tra il 2010 e il 2013 la divisione australiana ha dichiarato alla Australian Securities and Investments Commission, omologa della nostra Consob, vendite per un totale di 20 miliardi di dollari e un utile ante imposte di 387 milioni. Nello stesso periodo, secondo il quotidiano, ha girato circa 7,2 miliardi di profitti esentasse ad Apple Sales International. Nel 2012 i miliardi inviati in Irlanda erano stati 2,3. Lo scorso anno sono stati due. Il totale, in dieci anni, è di 8,9 miliardi. Su questi miliardi, Apple Sales International non paga tasse: “La compagnia non ha residenza fiscale in alcuna giurisdizione”, si legge in una comunicazione inviata nel 2009 alla Australian Securities and Investments Commission. Non le paga, quindi, in Irlanda dove, in base alla legge, sono tassate solo le società gestite e dirette sul territorio. Non le versa neanche in California, dove Apple ha la sede operativa, perché il fisco americano vuole soldi solo dalle compagnie che negli Usa hanno stabilito la loro sede legale. Né, ovviamente, le paga altrove.

Il mese scorso il governo irlandese è intervenuto per eliminare questa scappatoia fiscale, ma la nuova legge permetterà ancora alla compagnia di stabilire la propria residenza fiscale dovunque voglia: alle Bermuda, per esempio, paradiso fiscale dove le corporate non pagano imposte, o Singapore. Con cui Apple ha stretto un vantaggiosissimo accordo già nel 2009 e dove versa il 5% invece del 17%. Tanto che, a quanto risulta al Financial Review, i due miliardi inviati nel 2013 Apple in Irlanda sono passati con una vantaggiosissima triangolazione proprio dalla Lion City: grazie a questa operazione Cupertino ha dichiarato al fisco australiano guadagni per soli 88,5 milioni.

Così fan tutte: Apple, Google, Microsoft, Facebook, Amazon utilizzano, con qualche variante, tutte lo stesse stratagemma. Miliardi e miliardi sottratti ogni anno ai sistemi fiscali dei maggiori paesi occidentali. Il Financial Times ha calcolato che nel 2012 le prime sette web company attive nel Regno Unito hanno pagato soli 54 milioni di tasse su un totale di ricavi di oltre 15 miliardi. In Francia nel 2011 Google, Microsoft, Apple, Facebook e Amazon hanno versato all’erario 37,5 milioni: se avessero avuto il regime fiscale delle altre aziende dell’Ue, ne avrebbero pagati più di 800. E ora gli Stati, alle prese con le ristrettezze causate dalla crisi globale, cominciano a pensare alle contromisure: dall’Ue all’India, da Israele agli Stati Uniti è iniziato il dibattito per neutralizzare le agevolazioni fiscali selvagge di cui godono le corporate hi-tech.

In Italia (dove a novembre la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta sulla gestione contabile di Apple, che avrebbe sottratto al fisco un miliardo e 60 milioni di euro) l’esecutivo tenta da mesi di far passare la cosiddetta Google Tax – primo firmatario Francesco Boccia, deputato del Pd – che per costringere i giganti del web a rendere conto al Fisco italiano, prevede l’obbligo per chi acquista spazi pubblicitari online di farlo solo da soggetti dotati di partita Iva italiana. Incluso a più riprese in vari provvedimenti e puntualmente espunto, ora il testo ha rifatto capolino nella cosiddetta delega fiscale. Ma gli Stati dell’Ue da soli possono poco e lo hanno capito: la vera partita si giocherà presto a Bruxelles.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:21 am

Ma perché Facebook non deve pagare le tasse?
Pubblicato: 16/12/2013
http://www.huffingtonpost.it/federico-m ... 52832.html

Come è possibile che non impariamo mai dai nostri errori, neanche da quelli del passato prossimo? La grande crisi di questi anni ci consegna una lezione chiara: una politica sotto scacco di poteri economici e finanziari danneggia la vita dei cittadini.

Quanti danni ha prodotto un'economia diventata solo speculazione, o le produzioni industriali che hanno avvelenato la terra per tagliare i costi? Eppure, se quando si parla in generale siamo tutti bravi su questi temi, nella realtà ci sono dei soggetti che risultano intoccabili nel discorso pubblico. Sono i protagonisti del nuovo capitalismo rampante e connesso: possono fare tutto in nome del profitto ma troveranno sempre e comunque politici e giornalisti compiacenti pronti a sacrificare l'equità sull'altare di una non meglio specificata "innovazione".

Prendiamo il caso della cosiddetta "Google Tax". In questi giorni si discute proprio di questa legge che imporrebbe ai giganti della Rete di pagare le tasse sui guadagni che maturano in Italia. Sono colossi come Google, appunto, ma anche Facebook, Twitter, Apple, Amazon e simili che hanno messo in piedi un semplice schema di elusione fiscale.

Il gioco è facile: aprono una succursale in Irlanda - dove c'è una legge lassista in termini di imposizione - ma risultano residenti in paradisi fiscali. Risultato? L'Irlanda ci guadagna una sorta di mancia, qualche investimento e qualche posto di lavoro; gli altri Paesi europei non ci guadagnano nulla e i big della rete portano a casa incassi colossali.

Facebook, per esempio, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, ha versato in Irlanda 1,9 milioni di euro di tasse su 1,75 miliardi di profitti lordi. Vi rendete conto delle proporzioni? Parliamo di 1x1000 di tassazione. 1X1000 quando per i singoli cittadini (per non parlare delle partite Iva) le tasse posso arrivare al 50 per cento delle entrate, cinquecento volte di più di quanto versa Facebook. Non è un'ingiustizia. È peggio. E lo scandalo del secolo!

Si dice: "Sì ma queste aziende sono più virtuose delle vecchie multinazionali". Non mi spiego come si fa a pronunciare tale affermazione. Facebook vale ormai in borsa 130 miliardi di dollari, quasi il doppio di Nike (68 miliardi) e di Monsanto (58 miliardi). E vogliamo parlare di Apple? Vale 500 miliardi. Google ne vale 354, Amazon 175. E noi dovremmo permettere a queste multinazionali di versare 1/500 di tasse rispetto a quante ne versiamo noi lavoratori autonomi o dipendenti?

Qualcun altro dice: "Ma se li trattiamo male non investiranno più nel nostro Paese". Altra follia, sia dal punto di vista concettuale che dal punto di visto logico. Prima di tutto queste aziende non investono un beneamato nulla nel nostro Paese. Sapete quanti dipendenti ha Facebook in Italia? Uno. Sì, avete capito bene, una sola persona che si occupa "del commerciale" (persona che, anche per i giornalisti, è molto difficile da contattare). Rapporto lavoratori/clienti? Presto detto: uno ogni 22 milioni. Poco di più sono i lavoratori di Twitter, un gruppo più nutrito quello di Google.

Il risultato finale qual è? Che questi "Big della Rete" sono INESISTENTI dal punto di vista dell'assistenza ai clienti. Un'azienda, un privato, un cittadino, un genitore, un insegnante, non hanno un numero verde, un ufficio clienti al quale rivolgersi se gli viene cancellato il proprio account, se qualche maleintenzionato si intrufola nella propria mail.

E scusate, l'approccio filo-Silicon-Valley, ("Non dobbiamo dare l'impressione che siamo un Paese che rifiuta l'innovazione" ha detto Renzi schierandosi contro la Google Tax) non sta in piedi neanche dal punto di vista concettuale.

Innovazione è permettere alle multinazionali di fare quello che vogliono? Allora sono "innovazione" i contratti di lavoro di McDonald? Sono "innovazione" gli Ogm? Lo sono le "fabbriche del sudore" indiane e cinesi dove si producono, con paghe da fame, scarpe e magliette per gli "store" occidentali? Su queste ultime "innovazioni" l'opinione pubblica, la stampa, la politica, le ong, negli anni passati hanno protestato affermando il primato del bene comune sugli interessi dei privati.

Con le aziende smanettone (e spione) invece, siamo tutti buoni. Una forma di sudditanza psicologica. Che fa tanto "cool", tanto "connesso", tanto "start-up". Ma che grida vendetta davanti in un Paese nel quale - notizia di oggi - a Prato una scuola senza più soldi deve estrarre a sorte i nominativi dei professori (5 su 18) che riceveranno lo stipendio di Natale. A quello stipendio poi, i nostri professori dovranno sottrarre il 30 per cento di tasse. 300 volte di più quanto fanno Google e Facebook. Se questa è innovazione, ridatemi penna e calamaio.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:21 am

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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:22 am

Ecco come Amazon, Apple, Facebook e Google evadono le tasse
Una serie di inchieste dell'Espresso hanno svelato come gli incassi fatti in Italia da queste società vengano fatturati all'estero. Dove le aliquote sono molto più basse
di Stefano Vergine
01 settembre 2015

http://espresso.repubblica.it/attualita ... e-1.226569

Circa 8,4 milioni di euro. È il totale delle tasse versate all’Agenzia delle Entrate nel 2014 da Amazon, Apple, Google e Facebook. Una cifra irrisoria rispetto ai fatturati miliardari registrati in Italia da queste società. 
Il motivo è stato spiegato più volte da “l’Espresso”, con una serie 
di inchieste: tra le altre, una del gennaio 2013 (nell’articolo intitolato “Clicca l’evasore”) e un’altra nel novembre 2014, nell’ambito del servizio di copertina “Ecco chi scappa dal fisco italiano”. In sostanza, gli incassi derivanti dalle attività svolte in Italia vengono fatturati a società del gruppo basate in Irlanda (Facebook, Apple, Google) e Lussemburgo (Amazon), dove le aliquote sono molto più basse rispetto a quelle di Roma. Tutto regolare, è la difesa dei big del Web: le filiali italiane forniscono solo “servizi di marketing” alle società registrate a Dublino o Lussemburgo.

Una strategia utilizzata in molti altre nazioni europee. Per questo motivo l’Ue ha avviato un’inchiesta fiscale sui colossi di Internet, finiti anche sotto la lente 
di alcune Procure italiane. Ma, nonostante tutto, finora non è cambiato niente e le corporation dell’hi-tech continuano a eludere le imposte.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:23 am

Google, accordo sulle tasse evase: pagherà 320 milioni all’Italia
Accordo con il fisco
Milano, 25 febbraio 2015 - 06:59
L’azienda verserà le tasse su un imponibile di 800 milioni in 5 anni. L’inchiesta della Procura, la politica distensiva del gruppo e la regia legale di Paola Severino

http://www.corriere.it/economia/15_febb ... a2a1.shtml


Google fa pace con il Fisco italiano, la Guardia di Finanza e la Procura di Milano. Una pace da circa 320 milioni di euro di tasse su 800 che riconosce come imponibile prodotto in Italia in 5 anni.
È un colpo di scena. Perché al gigante del web non sarebbero mancati né arsenali giuridici per provare una resistenza a oltranza, né l’opportunità di aspettare a maggio l’atteso decreto legislativo fiscale che sottrarrà alla rilevanza penale proprio l’«abuso del diritto», cioè le operazioni che, pur nel rispetto formale delle norme, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

E invece, all’esito di una riunione tra penalisti, tributaristi, magistrati e GdF, l’intesa raggiunta (con la regia legale della professoressa Paola Severino) segnala che nella multinazionale americana ha pesato anche una sorta di diplomazia della distensione, la volontà di uno “Stato” (al quale i colossi come Google vengono quasi assimilati per le proprie dimensioni economiche) di ridurre contenziosi e attriti con gli Stati veri. Non senza una operazione di immagine che, d’ora in avanti in Italia, valorizzi il viaggio di ritorno entro criteri di tassazione meno esotici.
Come molti altri web-company, infatti, anche Google produce in Italia molti utili sui quali però paga le tasse non in Italia (appena 1,8 milioni nel 2013 ad esempio) ma in Paesi che presentano o addirittura programmaticamente offrono condizioni di fiscalità privilegiata. Sulla sua strada il Golia informatico ha però trovato il Davide giudiziario di una verifica fiscale del Nucleo di Polizia Tributaria della GdF di Milano, e del fascicolo di indagine del pm Isidoro Palma.

Rispetto a una controversa dinamica d’impresa in sé ampiamente nota dal punto di vista storico, pm e Gdf nel loro piccolo hanno però svolto una pignola istruttoria sui clienti italiani della pubblicità su Google, tale da documentare (anche con il sequestro di email) che, se tutto il servizio era pensato-contrattato-svolto in Italia, fatture e pagamenti venivano invece indirizzati sulla Google irlandese: questa girava i soldi sulla Google olandese sotto forma di royalties per i marchi e licenze, che poi prendevano la strada di un’altra società irlandese controllante l’iniziale Google irlandese, che a sua volta vedeva però il proprio controllo in capo ad altre due diramazioni di Google soggette a imposizione fiscale alle Bermuda. Pm e GdF hanno riconosciuto a Google la deducibilità di taluni costi, ma hanno contestato il nocciolo del meccanismo, rispetto al quale Google Italia si è infine orientata ad un accertamento per adesione attorno ai 160 milioni l’anno di imponibile dal 2008 al 2013: le tecnicalità seguiranno, ma il saldo dell’intesa stima che tra Ires (27,5%), Irap, sanzioni (pur diminuite in forza dell’adesione) e interessi, Google infine staccherà un assegno pari a circa il 40% degli 800 milioni di imponibile nei 5 anni, e cioè circa 320 milioni.
Un portavoce di Google citato senza riferimenti dall’agenzia Ansa ha specificato: «La notizia non è vera, non c’è l’accordo di cui si è scritto. Continuiamo a cooperare con le autorità fiscali». Ricostruzione che ufficialmente fa anche la Procura di Milano che in un comunicato a firma del procuratore Edmondo Bruti Liberati specifica che “è stato intrapreso il contradditorio” con i rappresentanti del gruppo Google e che “allo stato delle attività di controllo non sono state perfezionate intese con la società, che si è riservata di fornire dati ed elementi che consentano di quantificare la redditività in Italia delle proprie attività economiche. All’esito saranno tratte le valutazioni conclusive sia sotto il profilo fiscale che sotto il profilo della quantificazione penale”.
In realtà l’accordo che i legali di Google hanno raggiunto la settimana scorsa dopo una riunione in Procura a Milano con i pm dell’inchiesta, il procuratore aggiunto Francesco Greco e gli inquirenti della GdF prevede che la compagnia americana formalizzi la settimana prossima l’apposita istanza di adesione alla Agenzia delle Entrate sulla base della fotografia scattata dal processo di constatazione della Guardia di Finanza.




Denuncia choc: Google in Italia paga meno tasse di un supermercato
di Redazione

http://www.secoloditalia.it/2015/09/den ... permercato

Google nel nostro Paese paga meno di tasse di un grande supermercato. La notizia è di quelle che sorprende visto che lo Stato italiano spreme come limoni i contribuenti italiani. In 13 anni di attività in Italia Google avrebbe pagato al fisco appena 12 milioni di euro di tasse. Si tratta di un cifra minima rispetto al fatturato “reale” del’azienda, stimato in modo prudenziale dall’Agcom in circa 490 milioni nel solo ultimo esercizio. A fare i conti in tasca alla succursale italiana del colosso di Mountain View, Google Italy Srl, è Altreconomia. Secondo il mensile tra il 2002 e il 2014 la filiale del colosso del web ha corrisposto all’erario 12,08 milioni e realizzato, nello stesso periodo, utili ancor più bassi (10,6 milioni). Google, già finito nel mirino del fisco, non solo nella penisola ma anche a livello europeo, è il primo «operatore attivo nella raccolta pubblicitaria online in Italia», dove detiene «una quota superiore al 30%», come ha ricordato l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nelle Relazione annuale 2015. A differenza di altre fonti, per le quali il fatturato pubblicitario in rete sarebbe superiore ai 2 miliardi di euro, l’Authority ha quantificato in 1,63 miliardi l’ammontare dei ricavi. Di conseguenza il 30% sarebbe pari di circa 490 milioni. Il fondatore di Google, Larry Page, ha un patrimonio che sfiora i 30 miliardi di dollari ed è uno degli uomini più ricchi del mondo.

I soldi di Google Italia? Quasi tutti a Dublino

Sul tema delle tasse nell’inchiesta di Altreconomia emerge poi, dall’ultimo bilancio di Google Italy Srl, un «confronto» tra management e collegio sindacale sul tema del “transfer pricing”, ossia l’alterazione dei prezzi di vendita praticati nelle operazioni infragruppo che punta a trasferire i redditi da un Paese come il nostro a quelli a fiscalità agevolata, come l’Irlanda, dove ha sede la consociata della filiale italiana. Dei 54,4 milioni di ricavi 2014 (+10% sul 2013) di Google Italy oltre il 97% proveniva da Dublino (Google Ireland Ltd), frutto di «rapporti di natura commerciale con altre società facenti parte del gruppo». Vuol dire che la filiale che opera nel nostro Paese incamera minime commissioni dall’Irlanda, mentre l’ammontare complessivo finisce a Dublino. Il meccanismo continua a funzionare, a dispetto delle modifiche normative. La più recente risale alla Legge di stabilità 2014 e stabilisce che le società che operano nel settore della raccolta di pubblicità online devono usare indicatori di profitto diversi da quelli applicabili ai costi sostenuti per lo svolgimento della propria attività. A parere di Daniel Lawrence Martinelli, referente del Cda della Srl che ha firmato la relazione sulla gestione, la nuova regola avrebbe fatto sorgere «inevitabili incertezze» capaci di «comportare effetti rilevanti sulle determinazione dell’imponibile fiscale della società». Diverso il parere del collegio sindacale: per applicare la norma ha «chiesto durante le verifiche e via email la documentazione di transfer pricing che non è stata fornita».
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:23 am

UE: dovrete pagare le tasse dove generate utili, care Google e Amazon
Il collegio dei commissari UE oggi ha ribadito l'esigenza di una nuova norma fiscale che obbligherà le aziende a pagare le tasse dove generato utili
di Dario D'Elia @dariodelia74
27 Maggio 2015
https://www.tomshw.it/ue-dovrete-pagare ... azon-66707

La Commissione Europea non farà più sconti fiscali: l'obiettivo è garantire che le imprese siano tassate là dove vengono generati gli utili. Basta con le strategie che consentono ai colossi statunitensi di sottrarsi ai pagamenti sfruttando le debolezze dell'attuale normativa.

Il collegio dei commissari ha tenuto oggi un dibattito orientativo sulle misure volte a rendere la tassazione delle imprese più equa, più favorevole alla crescita e più trasparente. Tutti concordi sull'esigenza di contrastare con gli abusi fiscali, garantire entrate sostenibili e promuovere un migliore contesto imprenditoriale nel mercato interno.

"Vogliamo che la tassazione delle imprese sia equa e favorevole alla crescita. Tutte le imprese, grandi o piccole, devono pagare la loro parte di tasse nel luogo in cui sono generati gli utili. La tassazione delle imprese è di competenza degli Stati membri, ma l'UE deve stabilire un quadro chiaro e rinnovato per una tassazione delle imprese equa e competitiva", ha dichiarato Vicepresidente Valdis Dombrovskis, responsabile per l'euro e il dialogo sociale.

Anche Pierre Moscovici, Commissario europeo per gli Affari economici e finanziari, la fiscalità e le dogane, ha sottolineato che l'approccio fiscale attuale non riflette più la realtà di oggi. "Utilizziamo strumenti obsoleti e misure unilaterali per rispondere alle sfide di un'economia globalizzata digitalizzata", ha commentato. "Per una tassazione più equa e un mercato unico meno frammentato dobbiamo rivedere radicalmente il nostro quadro in materia di fiscalità delle imprese nell'UE. Grandi, piccole e medie imprese dovrebbero poter beneficiare del mercato interno su base paritaria".

Il percorso è stato avviato a marzo, quando la Commissione ha presentato un pacchetto di misure volte a rafforzare la trasparenza fiscale nell'UE. A giugno verrà svelato un piano d'azione che comprenderà una strategia di rilancio dei lavori relativi all'introduzione, a livello dell'Unione, di una base imponibile consolidata comune per le società (CCCTB).

"Abbiamo bisogno di maggiore equità nel mercato interno. Ferma restando la competenza degli Stati membri in materia di regimi fiscali nazionali, dovremmo intensificare l'impegno di lotta all'evasione e all'elusione fiscali per assicurare che ciascuno versi il giusto contributo", aveva dichiarato il Presidente Juncker a inizio mandato.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:24 am

Amazon apripista, ora paga le tasse in Italia e altri paesi europei
Daniele Piccinelli
25/5/2015
Dal primo maggio Amazon ha abbandonato il sistema che punta i ricavi in Lussemburgo attribuendoli a ogni paese in cui sono generati. Il colosso dell’e-commerce versa ora le tasse regolari in Italia, Regno Unito e in altri paesi dell’Unione
http://www.macitynet.it/amazon-apripist ... si-europei

Colpo di scena nel mondo dell’alta finanza: per la prima volta una multinazionale abbandona il sistema con attribuzione dei ricavi in Lussemburgo per contabilizzarli direttamente nei paesi europei in cui sono stati generati, versando così su queste operazione le normali tasse dovute. La società protagonista della svolta è Amazon, così come riporta il Wall Street Journal: il colosso dell’e-commerce ha iniziato a contabilizzare il fatturato generato in ogni paese a partire dal primo maggio.

Secondo gli osservatori la scelta di Amazon sembra sia stata praticamente obbligata: all’interno di molti stati dell’Unione Europea sono in corso indagini sulle grandi multinazionali che possono contare su strutture diversificate, filiali estere ed esperti per poter aggirare le imposizioni fiscali nazionali, riversando fatturato e utili in paradisi fiscali come l’Irlanda e il Lussemburgo. Indagini su scala ancora più vasta sono state avviate anche dalla Commissione Europea che valuta anche le possibili colpe dei singoli governi. Va ricordato che le indagini in corso sia a livello di singoli stati che a livello centrale europeo non riguardano solamente Amazon ma anche Apple, Google, Starbucks, FIAT e altri colossi in diversi settori.

A partire dal primo maggio Amazon è la prima multinazionale tra quelle sotto la lente di ingrandimento che attribuisce correttamente i ricavi generati in Italia, Spagna, Germania e Regno Unito, sottoponendoli così alle tassazioni locali vigenti. Una mossa senz’altro positiva che non mancherà di essere ben accolta nelle sale di Brussels, anche se difficilmente potrà ribaltare un eventuale verdetto negativo delle indagini in corso sulle operazioni e gestioni passate. Chissà se l’esempio di Amazon sarà seguito dagli altri colossi.
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