Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » dom feb 26, 2017 11:21 pm

Morire di Amazon: così l’e-commerce farà sparire i negozi
di Fabrizio Patti
25 Feb 2017

http://www.linkiesta.it/it/article/2017 ... gozi/33349

Ne ha parlato Obama, mentre Warren Buffet ha venduto quasi tutte le sue azioni di WalMart. Secondo uno studio inglese un terzo dei lavoratori del retail sparirà entro il 2025. La strada per le catene di negozi però è sviluppare di più il proprio e-commerce e farlo convivere con i punti vendita
Mall Cliente

La rivoluzione tecnologica ha già colpito il lavoro nel manifatturiero, si appresta a farlo nel mondo delle banche e nei servizi avanzati. Potrà risparmiare il mondo del retail, cioè nei negozi e supermercati? In molti pensano di no. Sono di qualche giorno fa le parole dell’ex presidente Usa Barack Obama: «L’innovazione è inarrestabile e sta accelerando. Avete visto cos’è successo ai negozi, alle vendite dello scorso Natale. Amazon e le vendite online stanno uccidendo il retail tradizionale, e quello che è vero lì, sta per diventare vero attraverso tutta la nostra economia». Le ha pronunciate al termine di un’intervista in cui ha provato a spiegare che è la tecnologia, molto più della concorrenza del Messico o della Cina, a mettere a rischio il lavoro, e della necessità di trovare dei modi nuovi e creativi per gestire questo cambiamento, da affiancare alle tradizionali lotte sindacali.

Pochi giorni dopo è stato il turno di Warren Buffet, l’Oracolo di Omaha. Nel 2005 aveva comprato, con la sua società Berkshire Hathaway, azioni di WalMart per centinaia di milioni di dollari. Il 14 febbraio l’annuncio che era stato venduto il 90% delle azioni, con una dismissione che è durata qualche mese. Lo scorso dicembre, al meeting degli azionisti della sua società, aveva evocato Amazon quasi come un fenomeno naturale. «È una grande, grande forza, e ha già distrutto (disrupted) un sacco di persone e ne distruggerà di più».

È un’analisi riferita a una sola azienda, WalMart (che però nel 2017 ha annunciato l’assunzione di ben 10mila lavoratori) ma che si potrebbe estendere a tutto il settore. Gli scorsi mesi sono stati un annuncio dopo l’altro di chiusure o forti ridimensionamenti di catene (Business Insider ha parlato di “onda gigantesca”). Macy’s (un department store, equivalente di Rinascente) sta chiudendo 68 negozi e tagliando 10mila lavoratori e Limited sta abbassando tutte le sue 250 saracinesche, con un impatto su 4mila lavoratori. Kohl's, Sears, Kmart e CVS hanno annunciato altre centinaia di chiusure. Altre catene alle prese con piani pluriennali di riduzione dei negozi sono American Eagle, Chicos, Finish Line, Men's Wearhouse e The Children's Place. L’effetto si vede anche nei mall, dove il traffico è in continuo calo almeno dalla metà del 2014.

Cosa porterà questo trend nel lungo periodo è questione di previsioni. Una l’ha fatta, nel Regno Unito, il British Retail Consortium, federazione dei negozianti britannici: entro il 2025 un terzo dei lavoratori del settore perderà il lavoro. In numeri fa 900mila persone e a essere colpite saranno soprattutto le piccole imprese del commercio e le aree più povere. La ricerca è un po’ viziata dal fatto di essere accompagnata dalla suggestione che tale dinamica sarà avvantaggiata dalla previsione di un salario minimo nel settore, da poco deciso dal governo britannico.

L’indiziato responsabile del futuro svuotamento del lavoro nella distribuzione, grande e piccola, nelle varie analisi rimane lo stesso: l’e-commerce in generale e Amazon in particolare. Sempre più comodo, sempre più affidabile nelle consegne e rassicurante nelle politiche di resi. Tra i suoi oppositori c’è l’Institute for Local Self-Reliance (ILSR), che negli Stati Uniti in una ricerca ha dato il senso della questione: se i negozi fisici, in media, impiegano 49 persone per ogni 10 milioni di vendite, nel caso di Amazon si scende a 23 persone, sempre per ogni 10 milioni di ricavi. Alla perdita di lavoro si dovrebbe aggiungere quella di gettito fiscale locale. Un’altra ricerca, "Amazon and Empty Storefronts", condotta dalla società di ricerche Civic Economics, ha stimato in 222mila i posti di lavoro netti persi a causa dell’impatto di Amazon nel 2015. Stime difficili da verificare ma che hanno controbilanciato l’enfasi del fresco annuncio di Amazon sulla futura creazione di 100mila nuovi posti di lavoro negli States.

I tagli nei numeri

Se questi sono gli scenari futuri, che cosa dice il presente? Che, nonostante gli annunci delle chiusure, è presto per parlare di catastrofi. A gennaio negli Stati Uniti sono stati creati 39.400 lavori nel retail, secondo la National Retail Federation americana. Su una media di tre mesi, l’associazione dei negozianti calcola un incremento di 16.600 posizioni e su base annuale di 161mila posizioni. Numeri che ridimensionano gli allarmi lanciati da Challenger, Gray & Christmas, una società specializzata nell’outplacement. A dicembre Challenger aveva segnalato un calo delle assunzioni nella stagione natalizia: -9% nel 2016, il terzo anno consecutivo di discesa. Ed è significativo guardare al numero dei licenziamenti durante tutto il 2016 e il 2015: se si esclude l’annus horribilis 2009, sono state le annate con più layoff.

Una nota della stessa Challenger sui tagli effettuati a gennaio (22mila, stesso livello del 2016), racconta di come ci siano dinamiche in atto tutt’altro che positive. «Un’impennata di licenziamenti nel retail a gennaio è diventata uno standard. La maggior parte dei retailer incrementano le assunzioni negli ultimi tre mesi dell’anno per gestire la corsa delle Feste. Comunque, visto che i consumatori vanno fanno acquisti sempre più online, i retailer non stanno solo dismettendo temporaneamente lavoratori stagionali, ma anche aumentando le chiusure dei negozi e lasciando a casa personale permanente».

Negli Stati Uniti i consumi crescono ma quelli online al ritmo doppio. Secondo le statistiche della National Retail Federation americana, il numero di shopper online durante il ponte del Black Friday ha superato di 10 milioni quelli fisici.

Questi sono gli Usa. E l’Italia? Qui i consumi sono molto meno vivaci e la crisi si è sentita eccome. I dati li ha calcolati l’ufficio studi di Confcommercio, su base Istat. Dal 2007 al 2016 gli occupati nel commercio sono scesi del 7%, mentre nel totale dell‘economia scendevano del 5,5% (nella ristorazione sono invece saliti del 5%). A essere colpiti, più che i dipendenti (-3,5%, ossia -63mila dipendenti), sono stati gli indipendenti. È stato come un meteorite: 193mila posti di lavoro in meno, pari al 10,4 per cento. Molti di questi sono riusciti a trasformarsi in dipendenti: il macellaio con il negozietto si è fatto assumere al banco del supermercato.

Gli ultimi mesi hanno visto casi di cronaca gravi. Tre su tutti: il licenziamento da parte di Carrefour di 600 persone. La crisi di Unicoop Tirreno. E la messa all’asta di Mercatone Uno. Come mostrano i dati elaborati per Linkiesta dal sindacato Fisascat-Cisl, al di là dei casi eclatanti, ci sono stati dimagrimenti anche da parte di altre catene di supermercati, come Auchan e Panorama-Pam. Mentre, in controtendenza, sono andati Esselunga e Lidl (ed Eurospin, non monitorata nella tabella).

Un’analisi di Mediobanca di gennaio ha invece mostrato come la quota di lavoratori per mille metri quadrati sia rimasta stabile. Oltre ai licenziamenti, spiega Vincenzo Dell’Orefice, segretario nazionale della Fisascat, uno degli effetti della prolungata stagnazione dei consumi degli ultimi anni è stato il progressivo salire della quota di lavoratori con contratti part-time tra i supermercati. «La crisi in primo luogo si è manifestata con una forte flessibilità funzionale - spiega -. Il part-time medio è di 20 ore, che vengono portate a 40 ore nei periodi in cui le cose vanno bene, come le feste natalizie. La prassi prevede ormai il full-time solo per alcune figure, come i capi turno e i cosiddetti “produttori”, come i macellai. Tutti gli altri, come i cassieri, sono part-time. In un formato come l’ipermercato il tasso di partecipazione part-time è ormai del 70 per cento. Tutto questo, se ha limitato i licenziamenti, ha prodotto una questione sul reddito».
La cura dell’omnicanalità

Se queste sono le fotografie dell’esistente, tutte le analisi, da qualsiasi parte giungano, arrivano alla stessa conclusione: le battaglie di retroguardia non servono e l’unico modo per “non morire di Amazon” è fare i conti con la realtà. Una strada è quella di aumentare l’apprezzamento per il servizio dei commessi, che dovranno per questo essere maggiormente formati. Una seconda è quello di un vero patto con l’e-commerce. Lo spiega Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi di Confcommercio: «Come in tutti i casi del passato, penso che ci saranno effetti negativi nel breve periodo e positivi nel lungo. Non dobbiamo temere la tecnologia. Stiamo lavorando per far capire agli associati di non fare battaglie di retroguardia. La strada da seguire è quella della multicanalità: le imprese potranno avere uno showroom e poi vendere online. È un messaggio che sta passando, abbiamo già fatto un accordo con Amazon per fare aprire le vetrine dei negozi fisici sul sito».

La strada della multicanalità e ancor più dell’omnicanalità è emersa come strada obbligata dalle ricerche di Exane Bnp Paribas e The Boston Consulting Group per Altagamma, presentata nei giorni scorsi. Secondo l’analisi di Exane, limitata a sei grandi marchi di alta moda, la media di incremento del network dei negozi a livello mondiale è scesa dall’8 e 9% degli anni precedenti al 2% del 2016. La dinamica è stata ancora più in frenata nel caso della Cina, dove hanno ridotto la rete marchi come Celine, Prada, Bottega Veneta, Louis Vuitton e Zegna e dove solo due marchi, Gucci e Versace, sono stati in forte espansione, più di dieci nuovi negozi. Il 2016, è stato raccontato sul palco dell’“Altagamma Consumer and Retail Insight”, è stato il primo anno in cui i monomarca chiusi sono stati pari a quelli aperti. Questo non significa che il negozio monomarca sia meno centrale. Solo, diventa il perno di un sistema che si gioca sulla omnicanalità. Diventa cioè una vetrina dove far vedere e toccare i vestiti e dove dare consigli. Le vendite potranno avvenire in negozio o online. C’è spazio per tutti: chi compra sia online che nel canale fisico spende il 40% in più di chi compra solo nel canale fisico. Certo, è un quadro un po’ preoccupante per il mondo del franchising.

Il caso di Macy’s è indicativo che questa strada è già seguita nei percorsi di ristrutturazione. La strategia messa in atto dalla catena è piuttosto di un taglio dei costi unito a un forte investimento nelle operazioni online. Diecimila lavoratori sacrificati potrebbero salvare gli altri, almeno per un certo periodo.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » mar feb 28, 2017 9:16 pm

???

LA DITTATURA DELL’IGNORANZA ALLA BASE DEL FALLIMENTO ECONOMICO ITALIANO
febbraio 28, 2017
Il mostruoso scenario dello stupidario che domina il quadro politico italiano e che tutto pervade potrà essere sconfitto solo dai territori liberati dallo stato che sapranno conquistare la propria indipendenza e vincere le sfide della modernità

Il dramma italiano è dato anche – e forse soprattutto – dal totale dominio dell’ignoranza che pervade tutto il campo politico e che vede i partiti e singoli politici anche all’interno di ogni partito fare a gara a chi dimostra più nescienza arrogantemente spesso nemmeno autoconsapevole e sempre irresponsabile.

Ciò avviene praticamente in ogni ambito, economia, scienza, tecnologia in primis. I politici italiani – e di conseguenza la stragrande maggioranza degli italiani (il pesce puzza sempre prima dalla testa) – non sanno proprio fare i conti: non è cattiveria, sono proprio ignoranti. Anche l’esaltazione della cultura umanistica diventa solo strumentale per smarcarsi proprio dalla scienza e dal sapere che maggiore sviluppo hanno proprio in ambito lavorativo e di sviluppo economico.

Anche sul fronte della scuola sono ancora forti le vestali del liceo classico, istituzione assurda e priva di qualsiasi oggettivo legame con la cultura moderna, in cui la matematica diventa una materia quasi opzionale. Come se il far di conto fosse un lusso per un diplomato, indipendentemente dal suo indirizzo. Far di conto non è un lusso per un diplomato e non lo è nemmeno per qualsiasi cittadino che voglia vivere da cittadino libero.

Avviene così che mentre i Paesi più avanzati del mondo fanno leva sulle STEM, Science, Technology, Engineering e Mathematics, quali discipline che permettono agli studenti di trovare un impiego in un mondo che entro un paio di decenni, grazie al progresso scientifico e tecnologico e all’intelligenza artificiale, vedrà sparire un lavoro su due tra quelli che oggi esistono, secondo le stime più ottimistiche, nello stato italiano vi sono molti che invece difendono un’impostazione legata ad un secolo fa. Sembra che il ministro dell’istruzione sia ancora Giovanni Gentile, insomma. E l’Italia è sempre più un’assurda Arcadia della cultura.

In questo panorama si inserisce in modo naturale e del tutto consequenziale tutto il mostruoso scenario dello stupidario che domina il quadro politico italiano e che tutto pervade.

Dalla questione dell’euro, che vede i sovranisti arrampicarsi in improbabili teorie apocalittiche basate proprio sull’ignoranza (e sulla disonestà intellettuale), al socialismo strisciante, che spazia dal reddito di cittadinanza, al lavoro di cittadinanza, fino all’assurdo di oggi, le pensioni di cittadinanza – sic! – per i giovani, dal debito pubblico alimentato dalla spesa pubblica (che finanzia ovviamente solo sottosviluppo e clientelismo per voto di scambio), all’opposizione a Uber e ad ogni idea di liberalizzazione dei mercati, in particolare nei settori e nelle imprese occupati militarmente dalla pubblica amministrazione e dalle corporazioni professionali infausta eredità del fascismo, dalla lotta all’Unione Europea e alla sua presunta euroburocrazia, che tutta insieme ha meno addetti del comune di Napoli, o di Roma, alla irrazionale opposizione ai trattati di libero commercio internazionale con il Canada (il famoso CETA), che secondo i detrattori aprirebbe i nostri mercati ai “veleni” dell’OGM (mentre in realtà è vero esattamente il contrario, ovvero sarebbe il Canada ad aprirsi ai nostri prodotti agroalimentari di qualità).

???

Questa irrazionale e disinformata avversione poi rasenta il massimo quando si tratta di osteggiare le “multinazionali straniere”, che appaiono quali mostri alieni pronte ad uccidere la nostra identità, le nostre culture, sotto la direzione di potentati occulti, di “grandi vecchi” pronti a ridurci tutti in schiavitù.

Se pensiamo solo al fatto che le aziende e i marchi di più grande capitalizzazione pochi decenni fa nemmeno esistevano e che spesso sono state create da ragazzini di 20 anni, o poco più, ci rendiamo conto dell’assurdità della visione di queste paure, basate essenzialmente sull’ignoranza. A renderci infatti schiavi non sono certo le multinazionali, che anzi spesso hanno messo a disposizione dei consumatori prodotti, beni e servizi di consumo a prezzi sempre più bassi e con caratteristiche e funzioni sempre più ricche, bensì gli stati e le amministrazioni pubbliche, in particolare in Italia, che hanno aumentato la pressione fiscale in modo impressionante, a fronte di servizi pubblici sempre più scadenti. In particolare per il Veneto, che vanta un differenziale impressionante e vergognoso tra soldi pagati in tasse e servizi forniti.

Paradossale è poi che tale predominio odierno dell’ignoranza, in particolare dell’ignoranza matematica, purtroppo sia esattamente in contraddizione a ciò che portò invece la cultura italiana alla supremazia nel suo momento di più alta gloria storica, il Rinascimento (quando non esisteva uno stato unitario italiano): la rabbia allora aumenta ancor di più.

Il tempio della finanza londinese ancor oggi si chiama infatti Lombard Street, in riconoscimento di ciò. Così come la partita doppia fu inventata dai Veneziani. E la prima banca al mondo fu Toscana (la stessa che oggi le fondazioni del pd hanno portato sul baratro).

Ricordiamo allora ancora una volta che il primo libro di matematica – e una delle prime opere scientifiche in assoluto – mai stampato al mondo vide la luce a Treviso, nel 1478. Il titolo del libro è “L’arte dell’abaco” (noto in lingua inglese anche come “Treviso Arithmetic”). L’autore è anonimo, con tutta probabilità un religioso. Il libro è scritto in lingua veneta ed è facilmente leggibile ancor oggi. Il testo completo può essere scaricato da questo collegamento.

Si tratta di un’opera divulgativa, dedicata alle applicazioni commerciali dell’aritmetica, destinato all’utilizzo degli operatori. Esso aiutò a porre fine al monopolio della conoscenza matematica e diede grande impulso alla sua diffusione presso la classe media. Non era rivolto ad un pubblico esteso, bensì destinato ad insegnare la matematica a chi doveva utilizzarla quotidianamente.

Il libro stampato a Treviso, è uno dei circa 30 libri di aritmetica stampati prima della fine del XV Secolo, metà dei quali ancora in latino. Nel periodo in cui uscì il libro le attività commerciali della Serenissima Repubblica di Venezia erano più che mai floride e l’ambiente era ideale allo sviluppo dell’attività della stampa: pensiamo che su circa settanta stamperie esistenti al tempo in Europa circa cinquanta erano attive nella sola Repubblica Veneta e di queste, tredici erano site nella città di Treviso.

Alla luce di tale gloriosa tradizione, si capisce bene quanto l’ignoranza matematica di oggi sia una colpa ancora più grave e che senz’altro fa meritare all’Italia il suo viatico verso il fallimento come stato unitario.

Solo il ritorno alla responsabilizzazione finanziaria territoriale – e quindi a un recupero del dominio della cultura scientifica a partire proprio dal “saper far di conto” che proprio attraverso l’indipendenza delle aree più mature potrà prendere forma, riporterà l’area geografica italiana ad un nuovo ciclo virtuoso: non più quindi lo stato italiano, violento, vigliacco e guerrafondaio, che sparirà – com’è giusto che sia – quale entità unitaria, ma i suoi territori liberati che sapranno conquistare la meritata indipendenza potranno raccogliere e vincere le sfide della modernità.

Gianluca Busato
Presidente – Plebiscito.eu


Comenti:

Alberto Pento
Me despiaxe ma Uber no vol dir lebertà de marcà e de concorensa.

Sora i sovranisti del torno a ła lira e a ła soranedà monedara de i falsari tałiani a so d'acordo:
Il falso mito della sovranità monetaria
viewtopic.php?f=94&t=2490

Greg Farronato
le tasse mica le paga il tassista, ma il consumatore (cioè tu) sotto forma di ricarico sulla corsa, per quello Uber costa meno... e se posso usufruire dello stesso servizio ma sborsando meno dei miei soldi allo stato ladro taglian, e tenendomi in tasca la differenza, ben venga Uber!!

Alberto Pento
Bon cusì da oncò tute le inprexe no ghe pagarà pì tase pa i laoradori e gnaon laorador aotonomo co partida iva, el pagarà pì tase a li enti pioveghi e no li pagarà gnanca pi contribusion par l'asistensa sanedara e par la pension.
Entanto a te ghè da enparar na roba ke no a te ghe gnancora capio: ke el consumador lè on paron e ki ke ghe fa on servizio lè on laorador e xe justo ke el paron/cliente/consumador el ghe paghe come ke fa ogni bon paron tuto coel kel ga da pagar par far vivar ben el so laorador ke no lè on s.ciavo.
O ti vuristo on mondo endoe ke i paroni (clienti, consumadori) łi fa coel ke łi vol a spexe e a dano de łi altri magari reduxendołi en s.ciavetù?

El bon conçeto del laoro no lè ciavar el prosimo, ciapandoło pal coło e istitusionalixando el caporalà.
La concorensa ła ga da esar regołà par tuti e ła lebartà de marcà e de concorensa no vol dir mancansa de regołe, a ghe mancaria.



Mario Sandrin
Alberto , il punto non è , se Uber è giusto o sbagliato, non voglio entrare nel merito; il punto sono le sfide e le opportunità che i tempi ti costringono ad affrontare, diventare una riserva sempre più povera, come risposta alle proprie inefficiente di sistema, dove si tutelano categorie sempre più ristrette di privilegiati è perdente. Il mondo è ingiusto e la modernità dei tempi propongono sempre più rapidi stravolgimenti dei scenari socioeconomici. Se stiamo discutendo, se un umilissimo tassinaro sia o non sia un privilegiato ti da l'idea della miseria e del fallimento in cui siamo. Questa considerazione è uno dei più piccoli motivi, per cui mi voglio liberare di questo Stato inqualificabile.

Alberto Pento
Varda come ca le xe enpostà le economie de l'Olanda, la Danemarca, la Norveja, la Xvesia, la Finlandia, la Xvisara, l'Aostria, Ixrael e come ka li funsione li so stati. El primo valor le el bon laoro e 'l respeto de ki ke laora kel ga da poder vivar e farse na fameja e mantegnerse na caxa, se no ghè sto valor e sto respeto non ghe pì gnente, non ghè bona soçetà, bona economia, bon stado, bon diman.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » gio apr 06, 2017 1:56 pm

BOYCOTT SUCCESS: Starbucks BEGS Conservatives to Come Back

La stampa comunista italiana ovviamente non ne parla, ma noi abbiamo altre fonti per cui scopriamo che la catena Starbucks, quella che aveva detto che avrebbe assunto diecimila risorse per fare dispetto a Trump, sta subendo un autentico collasso nelle vendite a causa del boicottaggio fatto dai suoi ex-clienti di destra.

http://theblacksphere.net/2017/04/boyco ... -come-back

Proving that playing politics isn’t good business, the designer coffee giant concedes defeat.
Politically divisive leadership at the helm of Starbucks left conservatives out in the cold for years. And now Starbucks pays a heavy price.
Five straight quarters of decreased sales prove that the Conservative dollar matters. Starbucks’ CEO Howard Schulz’ repeated attacks on Conservatives hit the coffee giant where it hurts the most…in the pocketbook.
Starbucks knows why their sales have fallen, and it’s not a softening of the market. To admit that would mean to admit that Obama’s economy wasn’t working.
Although Obama is partly to blame, the bigger impact to Starbuck’s bottom line was abandonment by Conservatives. And Wall Street agrees.


Migranti, i sostenitori di Trump pronti a boicottare Starbucks
La società assumerà 10mila rifugiati. Sui social sostegno, ma anche polemiche
Lucio Di Marzo - Mar, 31/01/2017
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/mig ... 57911.html


Usa: Trump, boicottate Starbucks
Colosso caffè elimina decorazioni natalizie
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/n ... b0dba.html

(ANSA) - NEW YORK, 10 NOV - Donald Trump non risparmia nemmeno il simbolo del caffè americano: alla vigilia del quarto dibattito tra i candidati repubblicani alle primarie per Usa 2016 il miliardario newyorkese ha suggerito di boicottare Starbucks per aver eliminato le tazze con le decorazioni natalizie. Il re del mattone dice di essere pronto a chiudere anche il suo negozio all'interno della Trump Tower a Manhattan: "E' la fine di quel contratto, ma chi se ne importa", ha ironizzato durante un comizio in Illinois.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » ven apr 07, 2017 7:23 pm

Uber "fa concorrenza sleale", il tribunale di Roma blocca i servizi e i tassisti esultano
Venerdì 7 Aprile

http://www.ilgazzettino.it/economia/ube ... m=facebook

Il Tribunale di Roma accoglie un ricorso dei tassisti e blocca Uber. I giudici della nona sezione civile hanno ordinato il blocco, entro 10 giorni, dei servizi offerti dal gruppo che gestisce l'applicazione che consente di trovare un auto con autista con losmartphone. I servizi bloccati dal tribunale sono Uber Black, ossia le berline nere con autista attive a Milano e nella Capitale, e le analoghe app Uber-Lux, Uber-Suv, Uber-X, Uber-XL, UberSelect, Uber-Van. In pratica tutte le attività della società in Italia. I giudici hanno accolto un ricorso per concorrenza sleale delle associazioni di categoria dei tassisti assistite da un pool di legali coordinato dall'avvocato Marco Giustiniani dello Studio Pavia e Ansaldo e composto da Moravia, Gigliotti, Massari e Fabbi.

La decisione arriva dopo che già due anni fa a Milano, sempre accogliendo un ricorso cautelare dei tassisti, i giudici avevano disposto il blocco della app UberPop, uno dei servizi messi a disposizione dalla multinazionale americana e che permette a chiunque di fare il tassista senza licenza. Un blocco, poi, confermato nelle scorse settimane anche dal Tribunale di Torino.

Con la sentenza depositata oggi, invece, il Tribunale di Roma, «accertata la condotta di concorrenza sleale», ha inibito a Uber «di porre in essere il servizio di trasporto pubblico non di linea con l'uso della app Uber Black» e di «analoghe» app, «disponendo il blocco di dette applicazioni con riferimento alle richieste provenienti dal territorio italiano, nonché di effettuare la promozione e pubblicizzazione di detti servizi sul territorio nazionale».

Il giudice Alfredo Landi, inoltre, oltre a disporre la «pubblicazione» della sentenza sul sito di Uber, ha fissato anche una penale di 10mila euro «per ogni giorno di ritardo nell'adempimento» del blocco «a decorrere dal decimo giorno successivo» alla pubblicazione della sentenza, ossia da oggi. «A seguito di questa pronuncia del Tribunale di Roma - ha spiegato l'avvocato Giustiniani - la multinazionale Uber rischia di dover interrompere ogni attività in Italia, in quanto i servizi ad oggi offerti sono stati riconosciuti in contrasto con il diritto nazionale e in concorrenza sleale con gli altri operatori del settore».

«Siamo allibiti per quanto annunciato dall'ordinanza che va nella direzione opposta rispetto al decreto Milleproroghe e alla normativa europea. Faremo appello contro questa decisione, basata su una legge vecchia di 25 anni e che non rispecchia più i tempi, per permettere a migliaia di autisti professionisti di continuare a lavorare grazie all'app di Uber e alle persone di avere maggiore scelta». Così Uber Italia commenta la decisione del tribunale di Roma. «Ora il governo - afferma - non può perdere altro tempo ma deve decidere se rimanere ancorato al passato, tutelando rendite di posizione, o permettere agli italiani di beneficiare di nuove tecnologie come Uber».

Le norme che disciplinano «il servizio pubblico di trasporto non di linea» non limitano «la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori» e non favoriscono «posizioni di privilegio e monopolio», mentre «gli autisti Uber» svolgendo la loro attività «in contrasto» con la normativa si mettono in una posizione di «indebito vantaggio» rispetto ai tassisti, sottolinea il Tribunale di Roma nel provvedimento con cui oggi ha disposto il blocco. Il giudice Alfredo Landi, in prima battuta, chiarisce in cosa consiste Uber Black: è un «sistema» che consente agli utenti «che hanno scaricato l'app sul proprio telefonino, di entrare direttamente in contatto con autisti provvisti di autorizzazione ncc (noleggio con conducente, ndr)» che hanno sottoscritto un contratto con Uber.

Gli autisti delle "berline nere" Uber, però, a differenza dei tassisti, spiega il giudice, non sono soggetti «a tariffe predeterminate dalle competenti autorità amministrative» e possono così fare «prezzi più competitivi» a seconda «delle esigenze del mercato». E ciò perché non rispettano, a detta del giudice, le regole «a danno di coloro che esercitano il servizio di taxi o di noleggio con conducente» rispettandole. Secondo il giudice, inoltre, anche con le regole attuali ben si potrebbe utilizzare «la nuova tecnologia in modo rispettoso della normativa pubblica», consentendo ad esempio agli utenti di rintracciare tramite la app «invece che il singolo autista», come accade, «la rimessa di noleggio con conducente più vicina».

«Tribunale Roma decide inibizione Uber in Italia entro 10 giorni. I consumatori ringraziano, ora Governo eviti al paese questa brutta figura», commenta su Twitter Sergio Boccadutri, deputato del Partito democratico.

In una nota, Ugl Taxi, Federtaxi Cisal, Uil Trasporti, Fit Cisl e Associazione tutela legale taxi esultano per il successo «in questa battaglia contro una grossa multinazionale che ha lavorato in Italia violando le leggi esistenti». «Un sentito ringraziamento va anche alla magistratura - conclude la nota dei sindacati - che si è confermata come l'unico Potere degno di portare questo nome nel nostro paese».

«Dopo tante battaglie combattute insieme, finalmente Fratelli d'Italia e i tassisti possono esultare: il Tribunale civile di Roma ha infatti oggi accolto il ricorso per concorrenza sleale proposto dalle maggiori sigle sindacali del settore taxi contro il gruppo Uber per il servizio di noleggio con conducente Uber Black». Lo afferma Riccardo De Corato, ex vicesindaco e capogruppo di Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale in Regione Lombardia. «Finalmente giustizia è stata fatta, siamo stati ripagati di tante battaglie, nelle istituzioni, nelle piazze e nei tribunali - ha aggiunto De Corato - Fratelli d'Italia è sempre stata al fianco dei tassisti, soprattutto in Regione Lombardia, dove avevamo presentato un Pdl per regolamentare gli Ncc e debellare la concorrenza sleale. Peccato però che nel 2014 il Progetto di Legge 187 sia stato fermato in Commissione».

«Una decisione abnorme che riporta l'Italia al Medioevo», afferma il Codacons, commentando in una nota «Con il blocco dei servizi Uber tramite app l'Italia viene rispedita indietro di decenni, mentre tutti gli altri paesi vanno avanti e si adeguano alle nuove offerte del mercato - afferma il Codacons -. A fare le spese di tale decisione saranno gli utenti, le cui possibilità di scelta saranno fortemente limitate, e che senza una reale concorrenza subiranno senza dubbio rincari delle tariffe per il trasporto non di linea. Invece di adeguare la normativa sui trasporti alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, in modo da offrire garanzie e certezze a tutte le parti in causa, si sceglie di danneggiare i consumatori paralizzando il mercato e l'evoluzione - prosegue l'associazione - e il Governo avrebbe dovuto già da tempo varare norme per introdurre in Italia servizi come Uber e farli convivere con i taxi tradizionali, così come avviene nel resto del mondo».


Uber multinazionale del caporalato
viewtopic.php?f=94&t=2576
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » ven apr 28, 2017 7:02 pm

???

Inchiesta su Amazon: avrebbe evaso imposte per 130 milioni di euro
Angelo Mincuzzi

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... m=facebook

Amazon avrebbe evaso 130 milioni di euro di Ires nel periodo 2009-2014 attraverso una «stabile organizzazione occulta» operante in Italia. Sono le conclusioni alle quali è giunto il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano guidato dal colonnello Vito Giordano al termine di una verifica fiscale compiuta nella sede italiana del colosso del commercio elettronico di Seattle. Nel processo verbale di constatazione, trasmesso qualche settimana fa alla procura di Milano, la Gdf avrebbe accertato la presunta evasione fiscale dell'imposta sulle società commessa da Amazon, sulla quale sta indagando da più di un anno il sostituto procuratore Adriano Scudieri. Un manager della casa madre lussemburghese di Amazon era stato iscritto nel 2016 nel registro degli indagati.

La procedura in atto prevede che il «processo verbale di constatazione» venga trasmesso su autorizzazione della stessa procura all'Agenzia delle Entrate che potrà decidere di avviare un accertamento con adesione nei confronti di Amazon. È la procedura già seguita per Apple (che ha versato 318 milioni di euro nelle casse del Fisco alla fine del 2015) e da Google (il cui accertamento per adesione dovrebbe essere firmato nei prossimi giorni). La procura di Milano, guidata dal procuratore Francesco Greco, ha avviato da tempo una strategia che punta a far incassare allo Stato italiano le imposte non versate dai giganti del web. Sotto inchiesta a Milano c'è anche la società italiana controllata da Facebook.

Dall’Italia al Lussemburgo
Il verbale che gli investigatori delle Fiamme Gialle hanno consegnato alla procura di Milano descrive il meccanismo attraverso il quale i ricavi italiani di Amazon prendevano la strada del Lussemburgo, dove venivano fatturati. Il sistema ideato da Amazon e rivelato dalla verifica della Gdf è praticamente simile a quello di Google, un “sistema fotocopia” con alcune differenze a cominciare dalla destinazione geografica dei ricavi che per Google è l'Irlanda e per Amazon è il Lussemburgo.
Nell'inchiesta della procura di Milano a carico di Amazon viene ipotizzato il reato di omessa dichiarazione dei redditi. I magistrati si sono concentrati sull'attività della filiale del Lussemburgo dove sarebbero stati contabilizzati i profitti realizzati in Italia in modo da aggirare il fisco. La cifra contestata come presunta evasione farebbe riferimento a cinque anni, tra il 2009 e il 2014, ed è stata accertata, appunto, nell'ambito del processo verbale di constatazione.

In una nota Amazon afferma che la società «paga tutte le imposte che sono dovute in ogni paese in cui opera. Le imposte sulle società sono basate sugli utili, non sui ricavi, e i nostri utili sono rimasti bassi a seguito degli ingenti investimenti e del fatto che il business retail è altamente competitivo e offre margini bassi. Abbiamo investito in Italia più di 800 milioni di euro dal 2010 e attualmente abbiamo una forza lavoro a tempo indeterminato di oltre 2.000 dipendenti».

Le altre indagini a Milano
Per quanto riguarda, invece, gli altri fronti delle indagini milanesi, lo scorso ottobre c’erano stati degli sviluppi nell’inchiesta a carico di alcuni manager di Apple. Michael O'Sullivan, legale rappresentante della società irlandese Apple Sales International, aveva patteggiato sei mesi convertiti in 45mila euro di multa. O'Sullivan rispondeva di omessa dichiarazione dei redditi così come altri due manager italiani per i quali, però, i pm hanno avanzato un'istanza di archiviazione. La richiesta di patteggiamento, con l'accordo dei pm, era arrivata soltanto dopo che il colosso di Cupertino, nel dicembre 2015, aveva chiuso il contenzioso tributario con l’Agenzia delle Entrate, versando al Fisco circa 318 milioni di euro. L'ipotesi era quella di un omesso versamento dell'Ires per un totale di circa 879 milioni di euro in cinque anni.

Nel febbraio 2016, invece, la procura milanese ha tirato le fila dell'inchiesta che riguarda Google. La società era accusata, secondo i calcoli del Nucleo tributario della Gdf, di aver sottratto all'Erario italiano, tra il 2009 e il 2013, redditi imponibili per circa 227 milioni di euro, grazie ad uno schema elusivo che coinvolge una serie di società dislocate tra Irlanda, Paesi Bassi e Bermuda. Il pm Isidoro Palma ha chiuso le indagini a carico di cinque manager (due irlandesi, un inglese, un americano e un cittadino di Taiwan) del gruppo di Mountain View, ai quali però ha potuto contestare, come penalmente rilevante, solo un mancato versamento dell'Ires, l'imposta sui redditi delle imprese, relativa a un imponibile di 98,2 milioni di euro.

Nel 2014 Amazon era finita sotto la lente della commissione europea, che aveva aperto un'indagine per aiuti di Stato proprio da parte delle autorità del Lussemburgo. Secondo Bruxelles il tax ruling, cioé l'accordo fiscale raggiunto nel 2003 tra Amazon e il Lussemburgo per far pagare meno tasse al colosso di Seattle maschererebbe un aiuto di Stato. Si trattarebbe di circa 400 milioni di euro di imposte evase.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » mar mag 02, 2017 10:59 am

Apple siede su un tesoretto record da 250 miliardi di dollari: pronto superdividendo o acquisizioni?
Pierangelo Soldavini
2017-05-02

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnolog ... 1454.shtml

Quando stasera, dopo la chiusura di Wall Street Apple diffonderà la trimestrale, con ogni probabilità si confermerà la società più liquida del mondo con un tesoretto record che potrebbe superare la soglia dei 250 miliardi di dollari. Una cifra che le permetterebbe di comprare in contanti la Chevron, seconda petrolifera Usa, e cinque volte l'italiana Eni o la Tesla, il costruttore Usa diventato numero uno per capitalizzazione. Ma anche, tanto per fare un raffronto, un valore equivalente al Pil di paesi come la Finlandia o la Giamaica o alle riserve valutarie britanniche.

Il dato non mancherà di sollevare nuove polemiche, soprattutto alla luce della recente proposta di Donald Trump, a favore di un “condono” per le aziende Usa disposte a riportare in patria il cash - si parla di un totale vicino ai duemila miliardi di dollari -, parcheggiato all'estero esentasse tramite società offshore. Sì, perché buona parte di quel quarto di miliardo di dollari è detenuto anche da Apple all'estero, per oltre il 90%, stando a quanto sostiene il Wall Street Journal.

Ora Tim Cook potrebbe prepararsi a rimpatriare gli utili accumulati offshore e a distribuire un maxidividendo straordinario, come alcuni analisti sono propensi a ritenere. Oppure a fare una acquisizione di peso nel mondo dei contenuti - recentemente si era vociferato di Time Warner e di Disney - oppure nei nuovi business, come la tanto citata Tesla, che di miliardi nel vale poco più di 52.

Secondo la rilevazione di Bloomberg gli analisti si attendono per il trimestre di Apple un utile per azione di 2,023 dollari e un fatturato di oltre 53 miliardi, sostenuto dalle buone performance della divisione servizi e delle vendite di iPhone. Il titolo continua a navigare con il vento in poppa, vicina ai massimi storici, con una capitalizzazione di 769 miliardi.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » ven mag 28, 2021 7:14 am

Amazon "gioca sporco". Le accuse della Commissione europea
Claudia Vago
18.11.2020

https://valori.it/accuse-commissione-eu ... ncorrenza/

Amazon, il gigante delle vendite on line, è sia venditore di prodotti propri che piattaforma al servizio di venditori terzi (il cosiddetto marketplace). Ed è proprio sfruttando questa duplice natura che, secondo la Commissione europea, avrebbe infranto le leggi sulla concorrenza in Francia e Germania. In un modo molto semplice: avrebbe utilizzato i dati privati dei rivenditori che si appoggiano alla sua piattaforma per favorire i propri prodotti a discapito di quelli degli altri.

L’accusa è stata formalizzata dalla Commissione europea il 10 novembre, ma era attesa da quando, un anno fa, era stata aperta un’inchiesta approfondita sul comportamento del gigante statunitense. Ed è arrivata in un momento in cui, a causa della crisi sanitaria da Covid-19, le vendite on line hanno visto una vera e propria esplosione in tutto il mondo.

Con i dati raccolti ha un vantaggio sulla concorrenza

Le transazioni di venditori terzi che utilizzano la piattaforma di Amazon rappresentano circa il 60% del volume totale di vendite dell’azienda di Jeff Bezos. E generano un’enorme quantità di dati: sui prodotti, sui prezzi, sui pareri dei clienti. Dati che «alimentano sistematicamente il suo algoritmo», permettendo così un vantaggio concorrenziale per «targettizzare la vendita dei propri prodotti», ha spiegato la commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager.

Con i dati di 800mila venditori attivi che gestiscono vendite di oltre un miliardo di prodotti, Amazon dispone di uno studio di mercato permanente e gratuito. Per questo, secondo Margrethe Vestager, «occorre vigilare affinché le piattaforme che svolgono una doppia funzione e che detengono un enorme potere di mercato non falsino la concorrenza. I dati relativi alle attività dei venditori terzi non dovrebbero essere utilizzati a beneficio di Amazon, poiché questa agisce, appunto, come un concorrente».
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Dall’impegno a raggiungere zero emissioni di CO2 entro il 2040 all’etichetta Climate Pledge Friendly per i prodotti sostenibili. Amazon promuove la sostenibilità. Ma resta insostenibile
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D’altra parte, mancava solo Amazon alla lista dei colossi del web colpiti dalla vigilanza europea sulla concorrenza. La multa che rischia alla fine dell’inchiesta formale che è stata aperta e che vedrà fine nel 2021 è potenzialmente colossale.

Amazon rifiuta le accuse con l’argomento classico: sostiene di non abusare della propria posizione dominante perché non si trova in posizione dominante. «Amazon rappresenta meno dell’1% del mercato al dettaglio mondiale, e in ogni Paese in cui operiamo esistono venditori al dettaglio più grandi di noi. Nessuna azienda più di Amazon si preoccupa delle piccole impreso o ha agito in loro sostegno nel corso degli ultimi due decenni», si legge in un comunicato del gruppo.
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La Commissione europea rilancia

Ma le accuse della Commissione europea non si fermano qui: è stata annunciata l’intenzione di aprire una seconda inchiesta formale per pratiche anticoncorrenziali. In questo caso il sospetto è che la piattaforma creata da Jeff Bezos favorisca le proprie vendite e quelle di coloro che utilizzano i suoi servizi di consegna.

Le accuse da parte di Bruxelles a Amazon fanno seguito a quelle che nel 2017 hanno portato a una multa di 2,42 miliardi di euro comminata a Google Shopping. Ma ha una specificità che ne ha già fatto un caso di scuola e i cui effetti andranno oltre la sola Amazon: si tratta infatti della prima volta in cui al centro dell’accusa c’è un gigante del web il cui business si basa sulla raccolta e lo sfruttamento dei dati di partner commerciali.

A inizio dicembre il commissario per il Mercato interno Thierry Breton presenterà l’attesissimo “Digital Service Act”, un insieme di testi che ha lo scopo di inquadrare meglio le attività dei giganti del web. Vi si troveranno in particolare divieti più restrittivi per i gatekeepers, quelle piattaforme come Amazon e Google che hanno un peso e un ruolo strutturali. Nell’anticipazione del documento trapelata a ottobre vi si trovava il futuro divieto di «utilizzare dati generati e raccolti su una piattaforma a beneficio delle proprie attività commerciali destinate ai consumatori di detta piattaforma». A meno di ristabilire una giusta concorrenza «rendendo accessibili quei dati» agli altri venditori. Scopo del Digital Service Act, dunque, sarebbe quello di elencare meglio e in anticipo tutte le pratiche vietate per non dover correre ai ripari, come nel caso di Amazon, a danno fatto.


Scatta la causa contro Amazon: "Danneggia la concorrenza e gonfia i prezzi"
27 Maggio 2021

https://www.ilparagone.it/attualita/sca ... -i-prezzi/

Amazon, il colosso dell’e-commerce da tempo al centro di feloci polemiche per il trattamento inumano riservato ai dipendenti e la facilità con cui continua a schivare il Fisco, sarà al centro di una causa legale annunciata in queste ore dal procuratore generale di Washington D.C., Karl Racine, che ha puntato il dito contro le pratiche attuate dall’azienda e che avrebbero finito per danneggiato la libera concorrenza, facendo lievitare i prezzi in maniera ingiustificata e ostacolando l’innovazione.

L’annuncio della causa è stato dato dall’emittente Cnbc, che ha spiegato come la denuncia sarebbe stata già depositata al Tribunale superiore del Distretto di Columbia. In base all’accusa, Amazon avrebbe mantenuto illegalmente una posizione di monopolio utilizzando termini di contratto che impediscono ai rivenditori di offrire i propri prodotti a prezzi inferiori su altre piattaforme di e-commerce. Contratti che, secondo il procuratore generale, creano “prezzi artificialmente alti nel mercato al dettaglio online” e allo stesso tempo “danneggiano sia i consumatori che i rivenditori riducendo competitività,, innovazione e possibilità di scelta”.

Stando alla ricostruzione della procura di Washington, Amazon avrebbe sì rimosso negli scorsi anni la clausola nei contratti con i rivenditori che proibisce a questi ultimi di offrire i propri prodotti su piattaforme rivali a un prezzo inferiori, come ordinato per legge, ma l’avrebbe sostituita con una clausola identica chiamata “politica del giusto prezzo”. In questo modo, sostanzialmente, sarebbe riuscita ad aggirare le restrizioni imposte.

Un’azione legale, quella intentanta da Washington D.C., che si aggiunge alla lista di quelle già promosse negli scorsi mesi sul territorio americano contro altri due colossi del digitale come Google e Facebook, anche in questo caso per violazioni alla legge antitrust.
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