Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 9:24 am

Steve Wozniak «Apple dovrebbe pagare il 50% di tasse come faccio io»
di Daniele Piccinelli | 22/4/2016

http://www.macitynet.it/steve-wozniak-a ... sse-faccio

“Apple e tutte le società dovrebbero pagare il 50% di tasse come faccio io“: in una intervista Steve Wozniak si dichiara infastidito dagli schemi fiscali elusivi delle grandi corporation

Apple, così come tutte le società, dovrebbero pagare il 50% di tasse, come fanno le persone. Lo ha dichiarato Steve Wozniak ch,e intervistato dalla BBC, esprime il suo punto di vista non solo sulla questione fiscale e gli schemi di elusione delle grandi corporation, ma dice la sua anche sulla possibile fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Alla domanda del giornalista sull’argomento elusione fiscale, per cui è in corso una indagine su Apple da parte della Commissione europea, Steve Wozniak risponde come sua abitudine senza mezze parole «Non mi piace l’idea che Apple possa essere scorretta, non pagando le tasse come faccio io come persona».
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 12:21 pm

L'Ue alle multinazionali Usa: pagate le tasse correttamente
Dijsselbloem: tempo di voltare pagina, preparatevi. Moscovici: in arrivo proposta su imponibile
ANSA BRATISLAVA
10 settembre 2016
http://www.ansa.it/sito/notizie/economi ... 984da.html

"Il mio messaggio alle multinazionali è: state combattendo la battaglia sbagliata. E' tempo di voltare di pagina, i tempi stanno cambiando. Dovete pagare le tasse in modo corretto, parte negli Usa e parte nell'Ue. Preparatevi a farlo": lo ha detto il presidente dell'Eurogruppo e ministro delle finanze olandese, Jeroen Dijsselbloem, a margine dell'Ecofin. Dijsselbloem ha spiegato di non condividere la posizione di quanti vedono un'intromissione eccessiva da parte della Commissione sul fisco dopo la vicenda Apple: "Ha un mandato a indagare sugli aiuti di Stato anche nel campo della politica fiscale. Quindi, aspettiamo il giudizio della Corte. Le multinazionali hanno il dovere di pagare le tasse in modo equo. Tutti noi dobbiamo lavorare insieme per assicurarci che lo facciano", ha aggiunto.

Il commissario agli affari economici Pierre Moscovici ha confermato che tra fine ottobre e metà novembre presenterà la proposta che punta a creare una base imponibile comune (Common consolidated corporate tax base o CCCTB). "Non c'è un momento migliore per rilanciarla, so che la frustrazione dei cittadini cresce", ha detto Moscovici, ribadendo che la decisione sulla Apple "manda il segnale chiaro che gli anni dell'evasione sono finiti e non si possono aggirare le regole degli aiuti di Stato". Tutte le aziende, di qualunque origine, "devono pagare la giusta quota di tasse sui profitti, dove vengono fatti". Al termine dell'Ecofin, che ha discusso anche di fisco, Moscovici ha spiegato di aver trovato gli Stati piuttosto "favorevoli a progredire in questo momento", anche se non sono d'accordo su tutto". Ma ha ricordato che per approvare la proposta serve l'unanimità.


Non solo Google, perché le multinazionali non pagano le tasse in Europa
La crisi ha spinto molti governi a cercare di incassare gli importi evasi, ma le regole che permettono queste anomalie non sono state modificate
2 febbraio 2016

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q= ... GdSvDWVi0g

Dopo Apple è toccato a Google. E così le autorità fiscali di svariati paesi europei si sono scagliate contro un altro colosso americano accusandolo di aver evaso centinaia di milioni di euro. "Google rispetta le normative fiscali in tutti i Paesi in cui opera", continuano a ripetere i portavoce della compagnia in Italia, Francia e Inghilterra. Eppure, dopo anni di inchieste, le multe stanno per essere quantificate, e Larry Page e Sergey Brin dovranno prima o poi trovare un accordo sul pagamento delle stesse. L'Italia ha chiesto 300 milioni di euro, la Francia 500, l'Inghilterra "solo" 170.

- LEGGI ANCHE: La maxi nulta di Apple
- LEGGI ANCHE: Quanti soldi dovrà restituire Google all'Italia

Mentre i governi cantano vittoria per aver finalmente messo le mani su un evasore d'oro, resta da capire come effettivamente verranno chiusi i contenziosi fiscali con il motore di ricerca più famoso del mondo e, ancora più importante, come sarà possibile evitare che problemi come questi si ripresentino in futuro.

Perché le multinazionali non pagano le tasse

Il punto è questo: le multinazionali sempre più spesso approfittano del fatto di poter contare su più filiali localizzate in paesi diversi per spostare liberamente fondi, investimenti e profitti laddove trovano conveniente farlo. In un contesto come quello europeo, quindi, una parte dei profitti viene regolarmente tassata nella nazione in cui la filiale è effettivamente registrata, una parte viene spostata (da chi può permettersi di farlo) nei paradisi fiscali di volta in volta più accessibili o compiacenti, e una parte può essere registrata come profitto maturato da un'altra succursale e, di conseguenza, tassato nel paese in cui si trova quest'ultima (che, guarda caso, di solito ha anche il livello di tassazione sui redditi d'impresa più basso).

Europa e tasse

Non è quindi così strano che tra gli imputati principali in questo processo contro l'evasione delle multinazionali ci sia l'Irlanda. Dublino impone infatti un livello di tassazione sui redditi d'impresa pari al 12,5 per cento. Molto meno dell'Inghilterra (20), dell'Italia (27,5), della Germania (30/33) e della Francia (33,33). Quindi mentre Londra, Roma, Berlino e Parigi gridano allo scandalo per gli introiti perduti, l'Irlanda resta in silenzio perché, dal suo punto di vista, si è ritrovata ad incassare molto di più.

E' tutto un problema di regole

Come spiega bene The Economist, non basta l'accanimento di un paio di governi per risolvere il problema delle evasioni fiscali delle multinazionali. Italia, Francia e Inghilterra hanno fatto benissimo a sollevare il problema ed ad aprire le loro inchieste, perché in questo modo hanno portato in superficie un problema che esiste da anni. Ora, però, per non perdere il vantaggio accumulato, dovrebbero trovare un modo per collaborare. Smettendo di concentrarsi sulle singole multe da incassare e mettendo a punto nuove regole sulla tassazione dei redditi d'impresa che possano funzionare in tutta l'Europa.

Le normative cui continuiamo a fare riferimento oggi risalgono a svariati decenni fa e sono state pensate per un'epoca in cui la crescita globale era trainata dall'industria, non dalle aziende tecnologiche. L'espansione di queste ultime attraverso l'e-commerce ha finito col rendere la normativa vigente facilmente aggirabile, quindi inutile, e nessuno fino ad oggi ha mai considerato urgente provvedere a un aggiornamento della stessa.

Trasparenza vs illegalità

Le multinazionali incriminate operano al limite dell'illegalità, è vero, ma è proprio questa mancanza di chiarezza a rendere possibili i vari trasferimenti di risorse e profitti. Italia, Francia e Inghilterra sembrano oggi propendere per un'interpretazione restrittiva del concetto di multinazionale. Ovvero sembrano essere d'accordo sul fatto di considerarne le singole filiali come entità autonome, i cui introiti vanno dunque tassati nel paese in cui si trovano. Questo approccio, però, rischia di creare vantaggi immediati in termini fiscali, ma nel medio periodo può finire col creare una nuvola di regole eterogenee che prima o poi verranno di nuovo aggirate.

Cosa può fare l'Europa

In più, non è facile negare che le multinazionali siano una entità unica. Ecco perché l'Europa farebbe bene a sfruttare questo momento per decidere in maniera collegiale come agire. Un'ipotesi potrebbe essere quella di pensare a una tassa complessiva che i vari paesi in cui l'azienda è presente potranno poi spartirsi in base al peso della compagnia in questione nel loro paese (calcolabile, ad esempio, con una media ponderata del valore degli asset, dell’ammontare delle vendite, del numero di lavoratori assunti e via dicendo). Le eventuali perdite nel breve periodo verrebbero rapidamente ricompensate dai vantaggi di medio e lungo periodo creati da una normativa più chiara, equa e trasparente. Resta però da vedere se i singoli paesi europei avranno voglia lavorare per raggiungere un compromesso che, al momento, pare (tanto per cambiare) impossibile.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 12:21 pm

L'evasione fiscale delle multinazionali

http://www.gabrielesannino.com/stampa2.asp?st=303

L'evasione fiscale non riguarda solo il "contante" come Report ci ha "insegnato" e come in genere si pensa: anzi, dato che il denaro contante e' un estrema minoranza rispetto al denaro scritturale - o meglio virtuale - e' naturale che su quest'ultimo si concentri la maggior parte dell'evasione, attraverso vari espedienti contabili di cui le multinazionali sono sempre piu' esperte e soprattutto protagoniste.
Le imprese multinazionali, infatti, proprio per via della loro presenza trasversale in piu' nazioni, e' come se fossero dappertutto ma nel contempo da nessuna parte. Specie dal punto di vista fiscale.
Aziende come Pepsi, Starbucks, Apple, Intel sono molto attente alla loro immagine, ma quando si tratta di fiscalita' e di pagare le tasse sono altrettanto attente ad eludere certi meccanismi.
Secondo gli esperti fiscali internazionali, Apple, per esempio, ha pagato nel 2011 la miseria di 130 milioni di dollari - circa 102 milioni di euro - rispetto a 13 miliardi di dollari DICHIARATI.
La Microsoft ha pagato 1,7 miliardi a fronte dei 15 guadagnati, mentre Amazon, solo in Europa, ha dichiarato utili per appena 20 milioni di euro contro un giro mondiale di affari stimato intorno ai 38 miliardi di euro.
I trucchi contabili sono quasi sempre gli stessi: si crea una complicata rete di societa' affiliate, consociate e reti di vendita a livello internazionale, in modo da confondere volutamente gli ispettori fiscali di un determinato paese.
La tattica piu' sfruttata e' quella di spostare gli utili e i costi nei paesi dove la tassazione e' maggiore - dunque imprese in rosso che in un determinato paese non pagheranno tasse - portando invece gli utili in tutti quei paesi dove il regime di tassazione e' vicino se non prossimo allo zero.
Dato che secondo l'Ocse - l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico - il 60% del commercio mondiale passa ormai per questi monopolisti internazionali autorizzati, si pu ben immaginare, quindi, il lutto economico per tutte o quasi le casse degli Stati.
La tassazione, in buona sostanza, viene proiettata sempre piu' sulla piccola e media azienda, la quale non riesce a competere con i "giganti economici" dai prezzi ma soprattutto dalle tasse stracciate.
Altri metodi di elusione sono i diritti di licenza d'uso - una consociata che sfrutta il nome della multinazionale e versa parte dei ricavi dove conviene alla "casa madre" - i diritti sui marchi depositati e i brevetti - piu' o meno stesso principio - nonche' il trasferimento dei ricavi nei paradisi fiscali.
Per risolvere questa situazione, si dovrebbero in ambito europeo almeno stabilire degli standard comuni su fiscalita', interessi, diritti di licenza d'uso - in pratica una vera e propria unione fiscale - ma i governi e le istituzioni europee sono piene di "infiltrati" pagati profumatamente dalle multinazionali affinche' niente di tutto cio' possa mai accadere.
Si calcola che "l'ottimizzazione fiscale" di queste imprese rubi agli Stati europei ogni anno qualcosa come almeno 20 miliardi di euro: ora, se si pensa che i centri commerciali sono sempre di piu' le vetrine o meglio il "salone espositivo" delle multinazionali, siamo tutti partecipi - di fatto - di una mega anzi gigantesca evasione fiscale.

Fonte dati: Internazionale
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 12:38 pm

Queste Holding, Multinazionali, Corporation sono contro Trump perché Trump vuole far loro pagare le tasse.
Questo non è il vero e buon capitalismo



Le multinazionali in guerra contro Trump hanno la coscienza pulita?
http://www.la7.it/la-gabbia/video/le-mu ... 017-204074
Perchè tante reazioni al muslim ban negli usa, è solo solidarietà? (Gabriele Carracoy)


Multinazionali, maxi-condono per finanziare Trump
di FEDERICO RAMPINI
(28 novembre 2016)

http://www.repubblica.it/economia/affar ... -153059215

Gli europei devono sbrigarsi a mettere le mani sul tesoro di Apple: ora lo vuole Donald Trump. Mi riferisco alle tasse arretrate che Apple deve pagare all'Irlanda, in virtù della decisione dell'antitrust europeo. La questione si allarga alle montagne di cash che da anni diverse multinazionali Usa hanno accumulato nei paradisi fiscali europei, Irlanda Olanda Inghilterra. La commissaria Ue all'antitrust ha stabilito un precedente importante nel caso Apple: le aliquote incredibilmente basse offerte da Dublino (0,2%) sono una distorsione della concorrenza. Che c'entra Trump?
Una delle sue promesse elettorali è il famoso piano di investimenti da 1.000 miliardi per le infrastrutture.
Non sarà facile far digerire 1.000 miliardi di spesa pubblica ai parlamentari repubblicani, tradizionalmente avversi all'intervento statale in deficit. Trump ha già accennato alla soluzione: quegli investimenti potrebbero non venire tutti dal bilancio federale, almeno in parte potrebbero essere finanziati dai privati.
Un'idea che Trump ha ventilato, è la possibilità di finanziare questo New Deal con il rimpatrio di capitali parcheggiati all'estero.
Apple, più tante multinazionali che hanno seguito il suo esempio. Il presidente eletto pensa di offrirgli una sorta di condono: un'aliquota secca del 10% sugli utili fatti all'estero, invece del 35% attualmente in vigore. Uno sconto allettante potrebbe convincere tante multinazionali Usa a riportare capitali in patria. Però, trattandosi di una tassazione forfettaria dei profitti, potrebbe entrare in conflitto col tentativo europeo di recuperare le imposte eluse per anni dalle stesse multinazionali. In teoria, l'Europa vuole far pagare le tasse solo per i profitti che Apple (e consorelle) hanno realizzato sui mercati europei. Nella realtà, le multinazionali fanno delle acrobazie contabili raffinate per trasferire virtualmente i profitti a questo o quel Paese. In Irlanda la filiale locale di Apple si è vista attribuire profitti fatti anche sul mercato americano perché così conveniva. Se passa il condono con l'aliquota al 10%, Apple e sorelle potrebbe rifare lo stesso gioco a rovescia, cioè far figurare come profitti americani utili realizzati in Europa. Risultato: il New Deal delle infrastrutture Usa lo finanzierebbe il contribuente europeo, che si vedrebbe sfilare tante tasse che le multinazionali Usa avrebbero dovuto pagare sul Vecchio Continente.


Duro colpo per globalisti e multinazionali: Donald Trump ha firmato contro il TTP voluto da Obama

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tru ... 54941.html

Il presidente Donald Trump ha mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale e prende a calci i Globalisti e le multinazionali. Cancellato il decreto voluto da Obama per il libero scambio commerciale, il Ttp.

Lo aveva promesso, ed è stato subito di parola. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato il decreto per il ritiro di Washington dal Ttp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio tra gli Usa e il Canada e altri 10 Paesi del Pacifico (Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam).
L’accordo, perfezionato ad Atlanta nell’ottobre 2015, aveva come scopo l’abbattimento delle barriere al commercio tra le nazioni che rappresentano circa il 40% della produzione economica mondiale. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale Trump aveva individuato il Ttp (così come il Ttip con l’Europa, poi saltato) e il Nafta (North American Free Trade Agreement) tra i propri bersagli, al fine di rilanciare la produzione interna agli Stati Uniti.

“Ne abbiamo parlato per molto tempo”, ha detto Trump parlando dallo Studio ovale della Casa Bianca: “Così facendo, facciamo grandi cose per i lavoratori americani“, ha aggiunto. L’obiettivo della nuova amministrazione americana, come spiegato varie volte da Trump, è siglare accordi bilaterali con le nazioni asiatiche.

Oggi Trump ha incontrato diversi manager dell’industria manufatturiera americana: “Vogliamo iniziare a produrre di nuovo i nostri prodotti”, è l’esortazione che ha rivolto loro. “Noi taglieremo le tasse in modo massiccio sia al ceto medio che alle compagnie, sarà massiccio, stiamo tentando di abbassarle tra il 15 e il 20%”. Ma non ha parlato solo del taglio delle tasse ma anche dell’eliminazione di misure e regolamenti che, a sua detta, “in questo momento di vi impediscono di fare qualsiasi cosa”. “La cosa più grande è che noi taglieremo i regolamenti in modo massiccio, credo che li taglieremo del 75%”. E ancora: “Se qualcuno vuole creare una fabbrica, tutto sarà veloce, si dovrà affrontare una procedura ma sarà veloce, ci prenderemo cura dell’ambiente, della sicurezza, ma voi svolgerete un enorme servizio”.

Nel salutare Michael Dell, di Dell Technologies, Trump ha poi aggiunto: “Quando Dell vorrà realizzare qualcosa di mostruoso o speciale, noi daremo la nostra approvazione molto velocemente”. Ma poi ha rivolto un monito alle compagnie che producono all’estero, tornando a minacciare dazi: “Imporremo una tasse di confine molto più pesante quando faranno entrare i prodotti”.


Multinazionali e radical chic contro Trump
03 Febbraio 2017 di Michele Crudelini

http://www.elzeviro.eu/affari-di-palazz ... html?pag=1

Adesso è ufficiale. Radical chic, ex comunisti e le multinazionali giocano nella stessa squadra. Già da tempo immemore noi abbiamo denunciato come esponenti di quella che, una volta, poteva essere chiamata sinistra, si siano venduti totalmente al capitale. Ora però non c'è più spazio per il dubbio. La nuova amministrazione americana targata Trump e le sue prime azioni stanno smascherando un'alleanza che era in piedi già da tempo. Le multinazionali Starbucks, Nike, Google e Airbnb hanno preso una netta posizione contro il "muslim ban", adducendo alla protesta motivi moralistici.

Inutile sottolineare quanto sia grottesco e tragicomico che una multinazionale, che per natura contrattuale, ha come unica morale la massimizzazione del profitto, si permetta di dare lezioni di moralità ed etica a chicchessia. Da Starbucks, Nike, Google e Airbnb potremmo accettare lezioni su come si massimizzano i profitti, socializzando i rischi. Ovvero come scaricare sulla popolazione tutti i rischi dovuti alla produzione. O ancora lezioni su come aggirare plurime volte le leggi di stati sovrani nazionali per sfruttare manodopera a basso costo e distruggere l'ambiente.

La Nike per esempio, che oggi dichiara che "i nostri valori sono minacciati dal recente decreto", potrebbe insegnarci come è stato possibile pagare i suoi operai vietnamiti, indonesiani e thailandesi, 50 centesimi al giorno. Sfruttandone la manodopera per oltre 12 ore giornaliere, con la possibilità di impiegare minori. Oppure come ha fatto a scatenare uno dei più grandi scioperi della storia recente, che vide 20.000 operai vietnamiti in strada, perché la Nike non riusciva a dare più di 40 euro mensili agli stessi. Una cifra inferiore al prezzo di un comune paio di scarpe. Povera Nike che non riesce a dare più di 40 euro mensili, pur avendo un fatturato annuo di 30,601 miliardi di dollari.

Meno male che ci pensano loro a dare lezioni di moralità. Starbucks potrebbe invece insegnarci come si sia supinamente piegata al volere dell'Arabia Saudita, quando un anno fa poneva all'ingresso di un locale di Ryad la scritta "Qui le donne non possono entrare". I muri di Trump non piacciono a Starbucks, quelli di genere sì.

D'altra parte Airbnb ci potrebbe spiegare come si costruisce un mercato monopolistico che va contro i principi basilari di una libera concorrenza. Trovando modi e sotterfugi legislativi che gli permettano di subire una lievissima imposizione fiscale. In effetti ne hanno proprio bisogno di pagare meno tasse per sopravvivere, visto che il loro fatturaro annuo si aggira sui 24 miliardi di dollari.

Tutte queste multinazionali sono in allarme perché l'isolazionismo americano può davvero creare un effetto a catena tale da risollevare il ruolo degli Stati nazionali e dei loro confini naturali. Lo Stato nazionale e le sue leggi sono i primi ostacoli alla volontà di profitto delle multinazionali. Se Trump chiude ai paesi arabi, anche i paesi arabi chiuderanno a Trump e alle multinazionali che negli States hanno la sede, come tutte le sopracitate.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 12:59 pm

Il Ceo di Uber lascia il consiglio dei consulenti di Trump
Una decisione presa per distanziare la società dal decreto sull’immigrazione del presidente
2017/02/03
http://www.lastampa.it/2017/02/03/tecno ... agina.html

L’amministratore delegato di Uber, Travis Kalanick, si è dimesso come consigliere economico del presidente Donald Trump. Lo ha comunicato con un’email ai dipendenti rimbalzata sui social media.

«Oggi ho parlato brevemente con il presidente del suo ordine esecutivo sull’immigrazione e delle implicazioni per la nostra società - ha scritto Kalanick - e gli ho fatto sapere che non sono in grado di poter essere parte del suo consiglio economico. Far parte del gruppo non doveva rappresentare un endorsement del presidente o della sua agenda ma, sfortunatamente, è andata esattamente così», ha detto il Ceo di Uber oggetto di pesanti critiche online e di campagne per il boicottaggio della sua società, soprattutto dopo che la Casa Bianca ha messo al bando gli immigrati da 7 Paesi a maggioranza islamica.

Kalanick era uno dei 16 consiglieri del forum strategico che ha in calendario la sua prima riunione proprio nella giornata di oggi. Tra gli altri, nel fanno parte il Ceo di General Motors, Mary Barra, Elon Musk di Tesla e Larry Fink di Blackrock.




Uber e le tasse dei "tassisti per caso"
Scritto da Dario Stevanato
Lunedì 20 Aprile 2015

http://www.giustiziafiscale.com/economi ... -per-casoq

Uber, multinazionale americana che fornisce da qualche anno un servizio di trasporto automobilistico attraverso un’applicazione software che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti, è come noto sbarcata anche in alcune città italiane, sollevando polemiche e dubbi in ordine al rispetto delle leggi in materia di trasporto pubblico e noleggio con conducente. Nella sua versione “UberPOP”, il servizio fornito ai clienti si basa su autisti non professionisti, cioè privati dotati di semplice licenza di guida che impiegano la propria autovettura.

Qui non mi voglio però occupare dei profili di legalità del servizio, quanto analizzarne il regime fiscale, non tanto in capo alla società di gestione del servizio stesso, cioè Uber, che pagherà le imposte – in assenza di stabili organizzazioni in altri territori - esclusivamente nello Stato di residenza (pare che la controparte contrattuale dell’utente italiano sia sita in Olanda), quanto per le ricadute sui “Fornitori dei Servizi di Trasporto” (come vengono chiamati nel sito di Uber).

Nel caso di UberPOP, si tratta come detto di privati, i quali, una volta registrati al servizio, possono decidere di quando in quando di mettersi “on line”, ed a quel punto liberamente accettare o meno le richieste di servizio pervenute. In caso di accettazione, questa viene notificata dall’applicazione al cliente, che paga il servizio all’intermediario mediante carta di credito. Uber, a propria volta, trattenuta una quota del corrispettivo (il 20%), versa la differenza sul conto corrente del Fornitore del Servizio, cioè l’autista non professionista, il quale non rilascia alcun tipo di ricevuta al cliente per il servizio di trasporto eseguito, né riceve dallo stesso alcuna somma di denaro.

Con riguardo al trattamento delle somme versate da Uber agli autisti, circola la convinzione che si tratti per essi di un mero “rimborso spese”, privo di rilevanza reddituale e dunque da non dichiarare al fisco italiano. Nel blog di Uber si legge che il servizio UberPOP appartiene alla “sharing economy” per migliorare la vita dei cittadini, permettendo inoltre “di coprire i costi della propria auto mettendo il proprio veicolo a disposizione della città e divertendosi a condividerlo con gli altri cittadini”. Questa presentazione, che fa perno sui concetti non profit di ride sharing, condivisione, economia collaborativa, e così via, non sembra però totalmente rispondente alla realtà dei fatti: gli autisti non professionisti che partecipano ad Uber sembrano infatti non tanto dei buontemponi che vogliono divertirsi nel condividere con gli altri la propria auto, quanto cittadini desiderosi di arrotondare, a tempo perso, le proprie (magari magre) entrate.

Ciò detto, la tesi secondo cui gli autisti riceverebbero dei meri “rimborsi spesi” non tassabili mi sembra tutta da verificare. Anzitutto, perché non mi pare esservi un rimborso delle spese di diretta imputazione, sia pure calcolate con criteri forfettari. Il riferimento alle tabelle ACI, che Uber dichiara di utilizzare per “rimborsare” gli autisti, comporta la riconversione del corrispettivo pagato dal cliente, che si basa anche sulla durata della corsa in minuti, in una traduzione in termini di distanza percorsa. Inoltre il rimborso chilometrico dipende dal tipo di auto, mentre le tariffe praticate ai clienti di UberPOP non dipendono dal mezzo utilizzato. E ancora, le tariffe Aci si basano su un utilizzo anno della singola auto pari a 15 mila Km, e andrebbe allora verificato se nel rimborso erogato da Uber il parametro della percorrenza effettiva annua sia tenuto in considerazione. Sarebbe poi da chiedersi perché mai qualcuno dovrebbe andare in giro con la propria auto per portare passeggeri da una destinazione all’altra, senza la prospettiva di un sia pur minimo guadagno (certo resta sempre l’ipotesi del divertimento e della condivisione).

Ma poniamo pure che sia possibile riscontrare una perfetta corrispondenza tra quanto “girato” da Uber all’autista privato per la corsa effettuata e le tabelle Aci sui costi chilometrici riferite al tipo di auto utilizzata. Basterebbe questa circostanza ad escludere la natura reddituale di quanto percepito, differenziando la posizione degli autisti privati da quella dei lavoratori autonomi, o anche dei dipendenti che utilizzano la propria auto per trasferte all’interno del Comune, ricevendo rimborsi chilometrici imponibili?

Tanto per cominciare, mi sembra abbastanza chiaro che l’attività esercitata dall’autista privato si inserisce in un assetto oneroso e sinallagmatico, e non in un “ufficio gratuito” o in un’attività ludica, di condivisione disinteressata della propria auto col resto della cittadinanza. Con il “rimborso”, i Fornitori del Servizio di Trasporto (come vengono chiamati nel sito di Uber) ricevono una somma che va a remunerare non solo le spese di diretta imputazione relative alla corsa (come il carburante), ma altresì le altre spese fisse legate al possesso e al mantenimento della vettura, e al tempo dedicato alla prestazione del servizio. Spese che altrimenti determinerebbero un depauperamento patrimoniale, e che sarebbero comunque sostenute da colui che, non dimentichiamolo, dispone di un’autovettura per le proprie esigenze e finalità private e familiari. Il “rimborso” erogato da Uber reintegra dunque l’autista da spese e costi che altrimenti ridurrebbero il suo patrimonio, e che sarebbero comunque in buona parte ugualmente sostenute. Il che mi sembra differenzi questa situazione rispetto a quella di chi, per svolgere un certo incarico, riceve soltanto il ristoro di spese che in assenza di quell'incarico non avrebbe patito (come accade per i puri rimborsi di spese non accessori o collaterali a un compenso imponibile, come ad esempio quelli dei conferenzieri cui vengano rimborsate le sole spese vive di viaggio).

D’altra parte, in presenza di un’attività astrattamente produttiva di reddito, non rileva che i proventi siano appena sufficienti a coprire i costi sostenuti, che sarebbe comunque onere del contribuente documentare e dimostrare. Non mi sorprenderebbe, dunque, se l’Amministrazione finanziaria ritenesse integrata la fattispecie di cui all’art. 67 lettera i) del Tuir, sulla tassabilità dei “redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente” (i servizi di trasporto rilevano quali attività commerciali a mente dell’art. 2195 c.c.), o di cui alla lettera l), sui redditi derivanti “dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”, redditi che “sono costituiti dalla differenza tra l’ammontare percepito nel periodo di imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione” (art. 71 comma 2 del Tuir).

Del resto l’Agenzia delle Entrate ritiene tassabili anche i rimborsi spese e le reintegrazioni patrimoniali percepite dagli amministratori di sostegno, che svolgono un “munus” pubblico in regime di gratuità (art. 379 c.c.). Figuriamoci dunque quale potrà essere l’atteggiamento nei confronti di un pagamento a forfait a fronte di un’attività onerosa. Mi sbaglierò, ma non credo che gli autisti di UberPOP possano dormire sonni tranquilli contando sulla qualifica delle somme ricevute in termini di “rimborsi spese” intassabili, soprattutto se le cifre in gioco diventassero complessivamente importanti.



“Airbnb e Uber trattengano e versino le tasse”
Proposta di legge bipartisan alla Camera: aliquota del 10% per la sharing economy

http://www.lastampa.it/2016/02/29/itali ... agina.html

La notizia è che l’Italia potrebbe presto avere una legge sulla «sharing economy». E i colossi dell’economia della condivisione plaudono. Mercoledì 2 marzo un gruppo bipartisan di parlamentari presenterà una proposta alla Camera. Tra i firmatari ci sono Veronica Tentori e altri sei esponenti del Pd, Antonio Palmieri (Fi), Ivan Catalano (Gruppo Misto), Adriana Galgano e Stefano Quintarelli di Scelta civica.

Il nodo del fisco

La bozza spiega che la finalità è quella di «riconoscere e valorizzare» l’economia della condivisione, di «promuoverne lo sviluppo» e di definire «strumenti atti a garantire la trasparenza, l’equità fiscale, la leale concorrenza e la tutela dei consumatori». Ma il passaggio chiave è l’articolo 5, quello che si propone di intervenire sulla fiscalità. I parlamentari chiedono che a tal proposito le piattaforme agiscano da sostituti d’imposta per i redditi generati dagli utenti con un’aliquota fissa del 10% su tutte le transazioni. Significa che Airbnb tratterà le tasse e le verserà direttamente all’erario per conto dell’utente-proprietario della casa.

Soglie e percentuali

La proposta di legge prevede inoltre la soglia 10 mila euro annui come discrimine tra «chi svolge una microattività non professionale ad integrazione del reddito» e chi invece «opera a livello professionale o imprenditoriale a tutti gli effetti». Chi sta sotto paga il 10% con la formula della cedolare secca (fatta salva la no tax area). Chi supera la cifra versa l’aliquota corrispondente al cumulo con gli altri redditi.

Spetterà invece all’Autorità per la concorrenza e il mercato regolare e vigilare sull’attività delle piattaforme della «sharing economy». Sarà inoltre istituito un registro elettronico nazionale delle piattaforme. Per iscriversi app e siti avranno bisogno del via libera dell’Autorità al documento con le policy.

Uber riapre?

«L’auspicio è che le istituzioni tengano in considerazione anche chi condivide i propri beni in maniera occasionale e si impegnino in una progressiva semplificazione delle procedure», commentano da Airbnb. Il modello potrebbe essere quello di Parigi, dove la piattaforma versa la tassa di soggiorno. E anche Uber, l’app che consente di diventare autisti, spera di poter tornare a fornire ai clienti italiani il servizio Uber Pop, bloccato il 25 maggio scorso dal tribunale di Milano.




A questi prezzi, questo povero autosta lavoratore non guadagna nulla, lavora un giorno intero gratis unicamente per le spese, chi ci guadagna è solo UBER il lavoratore in oggetto è meno di uno schiavo.

http://www.sicurauto.it/news/quanto-si- ... r-pop.html

Una giornata intera al volante per le strade di Torino. Ecco quanto guadagna realmente un driver di Uber Pop
Quanto si guadagna in un giorno con Uber Pop?

UberPop, il servizio che permette a un automobilista iscritto alla piattaforma di offrire un passaggio con la propria auto in cambio di una piccola somma è attivo a Torino. Tra critiche e approvazioni, l'app californiana continua la sua espansione annunciata in nome di una mobilità sostenibile e alternativa, anche se è ancora considerata fuorilegge per via del profitto che ne trarrebbe il conducente. Un giornalista è diventato autista Uber per documentare la giornata tipo di un driver UberPop, dimostrando che molta gente richiede un passaggio a Uber ma anche che a fine giornata, dopo 8 ore passate al volante, non può certo dire di avere le tasche (o meglio il conto) piene di soldi. Ecco come si diventa autisti di UberPop e quanto si guadagna realmente.

COME SI DIVENTA DRIVER POP
Ora che Uber ha abbassato le tariffe delle corse per avvicinarle ai costi chilometrici delle tabelle ACI, quello che taxi e Comuni lo definivano un illecito "profitto" dei conducenti è ridotto all'osso. Un giornalista de La Stampa ha verificato quanto realmente può portare nelle tasche di un privato una giornata intera dedicata a portare in giro i clienti di UberPop. L'esperienza non è esente dal rischio di essere beccati dai vigili, infatti bisogna rispettare scrupolosamente le indicazioni di Uber per non incorrere nelle stesse multe e sequestri di Milano e Genova. Prima di entrare in servizio, il giornalista racconta la sua iscrizione avvenuta in circa 24 ore. "Abbiamo caricato su una piattaforma on line dati e documenti. - afferma il giornalista - Abbiamo anche giurato di non avere conti in sospeso con la giustizia. Per ora si fidano, ma entro due settimane dovremo fornire i certificati del Tribunale." Poi il giorno seguente si passa al colloquio con il personale di Uber Italia. "Ci siamo ritrovati con altre quindici persone in un hotel di piazza Massaua, periferia Ovest di Torino. Ci hanno accolto tre ragazzi di 25 anni. Ci hanno catechizzato per un'ora e fornito uno smartphone. In meno di ventiquattr'ore siamo diventati «autisti»".

9 CORSE IN 8 ORE
Così' è iniziata l'esperienza da conducente di UberPop per un giorno, percorrendo a bordo di un'Alfa Romeo Giulietta circa 100 chilometri per rispondere alle chiamate di utenti italiani e stranieri che chiedevano un passaggio. "La prima chiamata arriva alle 9,10. Ci siamo appena seduti in macchina e c'è già qualcuno che ha bisogno di noi. Si chiama Giulio e deve andare al Politecnico." La Giulietta impiega 22 minuti per percorrere 7 chilometri e la corsa viene pagata direttamente tramite l'app con carta di credito (9 euro). "La seconda chiamata arriva alle 10 ma poi il cliente non si presenta", ecco uno degli inconvenienti rischiosi, come telefonare a chi ha prenotato la corsa ma ha cambiato idea e non sapeva come annullarla. Poi la giornata continua e il racconto del giornalista anche: "Dopo un quarto d'ora, il telefono s'illumina: un signore ha bisogno di un passaggio in Tribunale." Dopo poco arriva la quarta richiesta "si chiama Florent, è un gallerista parigino, in città per Artissima. Parte dal centro per andare all'aeroporto di Caselle: 16 chilometri in venti minuti, costo 13 euro. Con il taxi sarebbero stati 35 o 40 euro", secondo il giornalista. La giornata di lavoro suddivisa da 2 pause di mezz'ora prosegue fino alle 18 dopo e si conclude dopo aver dato il passaggio a 23 persone, di cui solo 2 over40 e solo 4 italiane.

LE ISTRUZIONI PER NON COMMETTERE ERRORI
Durante il servizio il giornalista racconta di aver caricato alcuni passeggeri a bordo strada proprio nelle vicinanze di alcuni taxi in attesa di clienti (vedi l'immagine in alto tratta dal servizio). La preoccupazione di avere qualche grattacapo c'è, ecco perché durante il colloquio Uber consiglia di seguire scrupolosamente alcune indicazioni, come accertarsi dell'identità della persona prima di farla salire e non telefonare ai clienti. Il giornalista, infatti, racconta che: "Al corso, i ragazzi di Uber raccomandano di rispondere ad almeno il 90% delle chiamate, di non telefonare al cliente a meno che non sia necessario, e di essere prudenti: «Quando credete di aver individuato il passeggero chiedetegli come si chiama. Solo a quel punto fatelo salire. Non date troppo nell'occhio»". Anche se di vigili il neo autista Uber non ne incontra e i tassisti non mostrano evidenti segnali di aver individuato un concorrente, le precauzioni non sono mai troppe: "È meglio se fate sedere i passeggeri accanto a voi" avrebbe consigliato Uber agli aspiranti driver Pop. E tra i tanti clienti salta fuori un francese che vuole pagare in contati. Un pericoloso passo falso dal quale il giornalista si tiene a debita distanza poiché potrebbe anche essere una trappola dei vigili per cogliere il conducente in flagranza. Tra l'altro, specifica il giornalista, "in auto non avvengono scambi di denaro o transazioni". Uber preleva direttamente il costo della corsa dalla carta di credito del cliente e ogni settimana paga il driver con un bonifico. E qui arriva il momento di fare due conti sui soldi che il conducente ha guadagnato in una giornata con UberPop.

IL RESOCONTO DELLA GIORNATA
Le 8 ore di guida per portare a termine 9 corse si fanno sentire a fine giornata, tant'è che gli effetti sul fisico sono l'unica evidenza lampante del resoconto giornaliero, poiché di soldi ancora non ce ne sono sul conto (come detto Uber li accredita ogni settimana). Facendo qualche considerazione, però, non sembra che il conducente UberPop abbia tratto chissà quale profitto. Anzi, se è stato bravo a tenere uno stile di guida parsimonioso, forse può anche coprire il costo dell'auto per il servizio offerto. A fine giornata il giornalista considera un incasso di 61 euro, dal qual bisogna sottrarre circa 12 euro come commissione a Uber Italia. Tra qualche giorno, quindi, al giornalista saranno accreditati circa 48 euro sulla sua carta di credito, ma intanto ha speso 11 euro di gasolio per percorrere 100 chilometri.

E' DIFFICILE ARRICCHIRSI CON UN RIMBORSO SPESE
Ne consegue che per ogni chilometro percorso l'autista Uber Pop incasserà 0,48 euro, che sono praticamente gli stessi soldi che le tabelle ACI attribuiscono al costo chilometrico (circa 0.5 euro) di un'Alfa Giulietta 1.6 JTD m-2 da 105 cv Euro 5 (la nostra prova su strada) che percorre 15 mila chilometri l'anno, quale rimborso spese. Allora vi riproponiamo una dichiarazione estratta da una recente intervista di SicurAUTO a Benedetta Arese Lucini, general manager Uber Italia, sulle sanzioni e sul presunto profitto illecito dei conducenti, tanto temuto da taxi e Comuni: "Mi sembra si colpisca con una sanzione davvero dura persone che danno il loro contributo alla mobilità di città sempre più intasate. Persone che lo fanno per sostenere i costi di gestione della propria auto in un momento economicamente difficile. Se gli utenti di Uber sono persone che magari la macchina non la possiedono, i driver di UberPop sono persone che la devono possedere per lavoro e per le necessità della propria famiglia."


???

Inchiesta: chi ha ragione su Uber
da Paolo Morelli -
18/02/2017

http://www.thelastreporter.com/inchiest ... ne-su-uber

Uber è legale o no? C’è una guerra in atto alla app statunitense, sia in Italia che all’estero, ma proviamo a capire come stanno le cose.

Per parlare di Uber è necessario iniziare dalla fine. Ieri, a Torino, si è svolta la manifestazione nazionale dei tassisti contro Uber, che si è conclusa con un’audizione presso l’Authority dei Trasporti, accompagnata, però, da un tentativo di sfondamento da parte dei manifestanti e da episodi poco entusiasmanti anche nei confronti dei media. Uber, dal canto suo, non è rimasta a guardare, e mentre i tassisti scioperavano, ieri, ha abbassato le tariffe del 20%.

Gli atti intimidatori.
Chi se la passa peggio, però, sono gli autisti di Uber, che spesso vivono nel terrore, mentre alla manager di Uber Italia, Benedetta Arese Lucini, è stata assegnata una scorta a seguito delle numerose minacce ricevute. Prima di andare ad analizzare come stanno le cose, è necessario tenere bene a mente la violenza verbale e fisica operata dagli oppositori di Uber – che in molti casi sono tassisti.

La sentenza di Genova.
Verso la fine di gennaio, a Genova sono stati fermati 5 autisti di Uber, ai quali è stata ritirata la patente e sequestrata l’auto. I vigili urbani hanno contestato la violazione dell’articolo 86 del Codice stradale, che disciplina il “servizio di piazza”, cioè il servizio di trasporto operato dai taxi con regolare licenza. Gli autisti, assistiti dai legali di Uber, hanno fatto ricorso al Giudice di pace e hanno vinto. Uber non compie un servizio di piazza, le patenti sono state restituite, così come le auto, e le sanzioni sono state annullate in quanto non c’è esercizio abusivo della professione.

La prossima settimana sarà pubblicata la motivazione, che comunque non fa Giurisprudenza (quindi non influisce ufficialmente sull’interpretazione della Legge) ma è sicuramente da tenere in considerazione nell’ottica della regolamentazione del mercato. Semmai, a Uber potrebbe essere contestata una violazione dell’articolo 85, che disciplina il noleggio auto con conducente (NCC) e si distingue dal servizio di piazza e può ricevere prenotazioni solo nella propria autorimessa, dove le auto “scariche” hanno l’obbligo di stazionare. Quello che preoccupa, e che non va dimenticato, è la minaccia di Valerio Giacopinelli, socio della Cooperativa Radio Taxi: «Questa sentenza avrà delle conseguenze. E nel futuro potrebbero verificarsi problemi di ordine pubblico che coinvolgeranno non soltanto la nostra categoria ma anche gli autisti Ncc». Un’affermazione grave, soprattutto alla luce di quanto accaduto ieri a Torino.

La differenza tra taxi e NCC.
Intanto, però, è necessario fare chiarezza. La Corte di Giustizia europea, con sentenza del 13 febbraio 2014, ha stabilito una netta differenza tra i due servizi: le corsie preferenziali e gli “stalli”, cioè i luoghi di stazionamento pubblico delle auto, sono accessibili esclusivamente ai taxi. Questi ultimi operano un “servizio di piazza”, che è così definito: «il vettore si mette a disposizione di un’utenza indifferenziata (individuale o piccoli gruppi) con lo scopo di soddisfarne le esigenze di trasporto». Quello che si contesta di più, però, è il nuovo servizio di Uber, Uber Pop.

Come funziona UberPop.
Attraverso il portale di Uber, è possibile registrarsi e chiedere di diventare un autista Uber Pop. Ci sono requisiti precisi, tra cui la fedina penale pulita e un’auto di proprietà non più vecchia di 8 anni. Il servizio è molto simile a quello dei taxi, ma parte da un concetto diverso: con Uber Pop non porti a casa uno stipendio ma ti paghi le spese dell’auto. Come ha raccontato Andrea Rossi su La Stampa, un’intera giornata di “lavoro” per Uber Pop, al netto del carburante e del 25% riservato a Uber, fa guadagnare all’autista circa 40 euro. È chiaro che con una cifra del genere non è possibile portare a casa uno stipendio sensato, a meno di non restare in giro tutti i giorni, ma questo andrebbe a contravvenire lo spirito originario del servizio, cioè il «pagarsi le spese».

L’utente scarica la app e si registra, seleziona il percorso e indica la propria posizione di partenza, la prima auto nei paraggi disponibile accetta il passaggio, sempre tramite la app, e si presenta all’appuntamento. Il percorso e il prezzo sono stabiliti a priori e si paga con carta di credito, tutto in automatico, non c’è alcuno scambio di contanti. Le tariffe sono inferiori a quelle dei taxi, ed è il motivo principale per cui questi ultimi accusano Uber di concorrenza sleale. Le associazioni di taxisti, infatti, denunciano che i loro prezzi sono influenzati dalla tassazione al 55%.

E con l’assicurazione come la mettiamo?
Dal punto di vista assicurativo, gli autisti di Uber sono in regola. Come spiegano da una filiale torinese di un grande gruppo assicurativo: «la polizza copre automaticamente tutti i passeggeri, siano essi amici, parenti o sconosciuti. Essendo un’auto privata, in caso di incidente non siamo tenuti a sapere chi fossero le persone a bordo. Il problema normativo non c’è, sicuramente si pone un problema deontologico, anche perché i tassisti hanno un tipo di polizza diverso che costa molto di più di una normale RCA». Con UberPop, l’utente chiede un passaggio e paga un “rimborso” a chi lo accompagna, è un po’ come pagare la benzina a un amico che ti accompagna l’aeroporto, ma Uber è un’azienda.

Sullo stesso concetto si fonda un altro notissimo servizio di car pooling, Bla Bla Car. In questo caso, però, non si sono sollevate proteste, anche perché Bla Bla Car è dedicato principalmente a tragitti extraurbani percorsi da privati che, per dividere le spese, trovano, attraverso il sito web, persone che devono percorrere tragitti simili e che contribuiscono a coprire i costi del viaggio. Inoltre, gli autisti di Bla Bla Car non attendono chiamate, si tratta di privati cittadini che “chiedono” se qualche altro utente abbia bisogno di un passaggio per andare verso una certa direzione, quindi il meccanismo è inverso. Anche in questo caso, comunque, l’assicurazione copre i passeggeri senza problemi. Tornando a Uber, poi, l’azienda garantisce la copertura assicurativa per tutti i danni non coperti dall’assicurazione privata dell’auto.

Ok, ma il Codice della strada?
Stando al Giudice di pace di Genova, Uber non viola la norma che disciplina il servizio di taxi «Il nodo della questione – spiega un avvocato torinese specializzato nel Codice della strada – sta nel numero di passaggi che una persona dà. Se la cosa è occasionale non ci sono problemi, però se vado a promozionare questi passaggi posso violare delle norme di carattere amministrativo». Dove sta il limite tra il car pooling (cioè i passaggi dati a seguito di un rimborso) e il servizio taxi? È questo il nodo da sciogliere. «Fare pubblicità e mettere in piedi un’azienda basata su queste attività – continua l’avvocato – viola regole di carattere amministrativo, perché Uber non si interfaccia con l’amministrazione che regola il trasporto». In questo momento gli autisti di Uber non possono essere sanzionati perché mancano le norme. L’azienda, però, deve interfacciarsi con l’amministrazione pubblica per chiarire la propria posizione, cosa che sta, in effetti, facendo.

Il Ministero dei Trasporti dovrà decidere se Uber può esercitare senza autorizzazioni o se deve richiederle. Nel momento in cui, però, il servizio dovesse essere dichiarato illegale, lo Stato dovrà sanzionare anche gli utenti che utilizzano la app, perché se il servizio è illegale allora ne è illegale il suo utilizzo. Una prospettiva poco praticabile (si possono controllare tutti gli smartphone?). Uber ha evidenziato un problema nel settore del trasporto italiano, già emerso in occasione delle liberalizzazioni delle licenze ai taxi. «Il mercato non è libero – conclude l’avvocato – perché le licenze sono contingentate e concesse dai comuni, in questo settore non si può parlare di libera concorrenza, perché per Legge non è prevista».

L’authority dei trasporti.
Andrea Camanzi è il Presidente dell’Autorità di regolazione dei Trasporti, istituita nel 2013, che ha sede a Torino. È il luogo in cui ieri sono state audite le sigle sindacali, che hanno fatto saltare il banco non appena Camanzi ha nominato Uber. Per i taxisti, Uber è illegale e non va nemmeno convocato, ma l’intenzione dell’authority è quella di sentire tutti gli attori del mercato, per poi fornire un rapporto dettagliato al Ministero, che agirà di conseguenza.

«Il tema della legittimità della piattaforma – ha dichiarato Andrea Camanzi a fine gennaio – dipende da come questa soluzione tecnologica viene utilizzata. Se essa viene adoperata come piattaforma di prenotazione, è necessario armonizzare la legislazione vigente con l’avvento delle nuove tecnologie. Diverso il caso di servizi, come Uber Pop, in cui si offrono trasporto di cortesia per finalità semi-commerciali. In questa circostanza è evidente che si pone un problema di sicurezza che dev’essere garantita al cittadino». Il Ministro dei Trasporti Maurizio Lupi si è più volte espresso contro Uber, dichiarandolo illegale e «da contrastare».

Libera concorrenza in libero Stato.
La questione è un’altra: bisogna davvero contrastare Uber? Il Ministero rischia di trovarsi di fronte a un bivio di ben altra caratura. Si può aprire alla libera concorrenza nel settore del trasporto pubblico non di linea? O meglio: si possono liberalizzare le licenze dei taxi? Finora, la risposta – anche dei precedenti governi – è stata più no che sì. Di fatto, si tratta di un settore – al pari delle sigarette o delle tabaccherie – dove la libera concorrenza non è prevista.

L’anno scorso, però, l’Antitrust si era espresso a favore di Uber e dei servizi di NCC, in quanto le «nuove app» migliorano l’incontro tra domanda e offerta nel settore dei trasporti non di linea, ma ammoniva dicendo che fosse necessario «eliminare le distorsioni concorrenziali nel settore degli autoservizi di trasporto pubblico, causate dall’esclusione dei taxi e del servizio di Noleggio auto con conducente dall’applicazione delle norme di liberalizzazione». Il problema va oltre Uber, lo Stato ha una grana molto più grossa, che riguarda le liberalizzazioni.

Il ddl Concorrenza.
Come ha ben ricostruito Formiche.net, è ora in discussione un disegno di legge sulla concorrenza, che dovrebbe essere portato tra due giorni in Consiglio dei Ministri. Nella bozza, che coinvolge principalmente il Ministero dello Sviluppo Economico, ci sarebbe una modifica che farebbe tirare un sospiro di sollievo a Uber: verrebbe infatti abrogato l’obbligo per le vetture NCC di ricevere prenotazioni solo presso l’autorimessa, sanando di fatto il limbo creato dalla app di Uber Pop, che consente di prenotare via smartphone (anche perché, per Uber Pop, l’autorimessa non esiste).

Secondo quanto dichiarato a Formiche.net da Francesco Artusa, presidente dell’Associazione NCC, il ddl andrebbe ad abrogare alcune norme introdotte dalla precedente riforma semplificando leggermente la vita agli NCC, ma sarebbe comunque insufficiente. «Si creino leggi differenti per i due comparti – ha spiegato – perché non è possibile che una categoria possa dettare legge sul regolamento della sua categoria concorrente». Probabile, quindi, che il Governo intervenga, in prima battuta, non per legalizzare o punire Uber, quanto per cercare di liberalizzare il comparto del trasporto, recependo quindi le indicazioni dell’Antitrust.
Federica_Guidi

Qualche esempio estero.
Uber Francia ha denunciato il governo francese alla Corte europea di Bruxelles. I nostri vicini di casa hanno intrapreso proteste simili a quelle italiane ma il Ministero dei Trasporti ha fatto approvare una legge per mettere fuorilegge Uber in tutta la Francia, sebbene Uber Pop stia continuando le proprie attività. Se Bruxelles dovesse esprimersi a favore di Uber, potrebbero esserci ricadute anche sugli altri stati membri, inclusa l’Italia.

Caos anche in Canada, dove il governo si sta muovendo per contestare a Uber l’esercizio abusivo del servizio taxi. In India, invece, Uber ha da poco introdotto un pulsante per le chiamate di emergenza a seguito di un presunto stupro, avvenuto a dicembre 2014, ai danni di una donna di Nuova Delhi, da parte di un autista di Uber Pop.

Il cliente ha sempre ragione?
In generale, assistiamo a una guerra contro l’azienda statunitense, mossa prima di tutto dai tassisti (comprensibile), ma che spesso trova impreparati i governi. Uber ha sollevato una questione importante: è normale che nel trasporto pubblico non di linea non ci sia libera concorrenza? Per gli utenti, sembra proprio di no. La situazione, che sta degenerando, impone un intervento preciso dello Stato, non per reprimere Uber ma per aggiornare la Legge ed eliminare questo enorme vuoto normativo, regolarizzando il crescente fenomeno della sharing economy, cioé la condivisione di un bene proprio con altri che ne usufruiscono, a cominciare dai trasporti. Al momento, quindi, non si può dare ragione né a Uber né ai tassisti, sebbene l’utenza abbia già scelto da che parte stare, e questo non può essere ignorato.



UBER pop è una forma di caporalato che aggira le legislazioni sul lavoro dipendente e su quello indipendente delle Partite Iva, andrebbe reso illegale per violazione di una molteplicità di leggi e per concorrenza sleale
https://it.wikipedia.org/wiki/Caporalato
https://it.wikipedia.org/wiki/Concorrenza_sleale
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 3:35 pm

UBER pop è una forma di caporalato che aggira le legislazioni sul lavoro dipendente e su quello indipendente delle Partite Iva, andrebbe reso illegale per violazione di una molteplicità di leggi e per concorrenza sleale
https://it.wikipedia.org/wiki/Caporalato
https://it.wikipedia.org/wiki/Concorrenza_sleale



Il tribunale di Milano ha respinto l’istanza di sospensione del blocco del servizio UberPop presentata dalla multinazionale americana dopo il provvedimento di inibitoria del servizio dello scorso 26 maggio per concorrenza sleale nei confronti dei taxi. La società deve disattivare il servizio entro oggi.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABShZrvD

La risposta di Uber
Il commento di Benedetta Arese Lucini, General Manager di Uber Italia, è affidato a una nota: «Siamo dispiaciuti per la decisione del giudice di non permettere che UberPOP continui a operare tra oggi e il 2 luglio, quando ci sarà la prossima udienza. Ovviamente la rispetteremo, ma continueremo a batterci legalmente affinché le persone possano continuare ad avere un'alternativa affidabile sicura ed economica per spostarsi in tante città. E perché non venga negata a migliaia di driver una risorsa economica.
Moltissimi nelle ultime settimane ci hanno sostenuto, cittadini, opinion leader, associazioni di consumatori. È la dimostrazione che il nostro servizio è amato, proprio perché utile e decisivo per la mobilità cittadina. E anche l'Autorità dei Trasporti ha chiarito ancora una volta la necessità di una nuova regolazione per servizi innovativi come il nostro. Ora tocca alla politica portare l'Italia verso l'innovazione, prendendo le decisioni necessarie per permettere la mobilità del futuro».

Tassisti soddisfatti
«Siamo estremamente soddisfatti per la decisione di quest'oggi. Non ci sono più alibi, è la seconda volta in sole due settimane che il Tribunale di Milano ordina al Gruppo Uber di bloccare l'attività Uber-pop per concorrenza sleale, precisando anche che avrebbe dovuto farlo sin dal 26 maggio scorso». Così gli avvocati Marco Giustiniani, Nico Moravia, Giovanni Gigliotti dello Studio Pavia e Ansaldo e il legale Alessandro Fabbi, che rappresentano le associazioni di categoria dei tassisti, hanno commentato la decisione del Tribunale milanese

La sentenza
Lo scorso 26 maggio il Tribunale di Milano aveva accertato la «concorrenza sleale». Il servizio UberPop, che consente a chiunque di diventare tassista, ha determinato «un vero e proprio salto di qualità nell'incrementare e sviluppare il fenomeno dell'abusivismo», scriveva il giudice nell'ordinanza con cui ha sospeso il servizio. «Prima dell'introduzione di tale app - viene spiegato nell'ordinanza - i soggetti privi di licenza avevano un circoscritto perimetro di attività e di possibilità di contatto con gli utenti - sostanzialmente a livello di contatto personale - mentre UberPop consente in tutta evidenza un incremento nemmeno lontanamente paragonabile al numero di soggetti privi di licenza che si dedicano all'attività analoga a quella di un taxi e parallelamente un'analoga maggiore possibilità di contatto con la potenziale utenza, così determinando un vero e proprio salto di qualità nell'incrementare e sviluppare il fenomeno dell'abusivismo».

Che cos’è Uber Pop
UberPop è uno dei servizi messi a disposizione dall’azienda di San Francisco. Il servizio più innovativo, probabilmente, perché trasforma in autista chiunque. Originariamente Uber offriva servizi di trasporto con auto guidate da autisti professionisti. UberPop è stato il passaggio chiave che, in pratica, ha fatto esplodere la App, trasformando un'intuizione in un'azienda che vale oltre 40 miliardi di dollari.

I consumatori con Uber
Il Codacons ha subito commentato che questa conferma è una notizia negativa per i consumatori. Ieri all’udienza per discutere sulla richiesta di sospensiva è intervenuta anche l'associazione dei consumatori, Altroconsumo, che ha dato il suo appoggio formale al reclamo di Uber. Dalla parte dell’azienda si era pronunciata nei giorni scorsi anche l'Autorità di Regolazione dei Trasporti, che ha inviato a Parlamento e Governo una segnalazione che mira a modificare i trasporti pubblici non di linea, settore nel quale rientrano con prepotenza i servizi offerti dalla società californiana.



UBER : il grande inganno
Riccardo Orlando

http://taxiblu.it/cms/uber-grande-inganno

Per comprendere a fondo la vicenda Uber è necessario conoscere la legislazione che regola e differenzia il servizio di noleggio con conducente dal taxi.
Il taxi si rivolge ad una clientela indifferenziata, lo stazionamento avviene in un luogo pubblico e le tariffe sono determinate dall’amministrazione, che stabilisce anche la modalità del servizio.
Il noleggio con conducente si rivolge ad un’utenza specifica che avanza presso la sede del vettore apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo o a viaggio, e lo stazionamento avviene all’interno delle rimesse.
Così recita la legge 21/92, seguita nel 2008 dal decreto legge 30/12/2008 n. 207 art 29 comma 1-quater il quale specifica in maniera ancora più dettagliata le modalità di svolgimento e le sanzioni. *
*(Le nuove disposizioni introdotte dal 29 comma 1-quater sono state oggetto di plurime sospensioni da parte di successivi decreti legge, in particolare l’art. 7-bis comma1 del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, in seguito con l’art. 23, comma 2, del d.l. 1 luglio 2009, n. 78 per ultimo l’art. 5 comma 3 del d.l. 30 dicembre 2009 n. 194 che proroga la sospensione al 31
marzo 2010.)
Nessun altro rinvio ha più fatto riferimento al differimento, ne consegue che a decorrere dal primo di aprile del 2010 le modifiche introdotte dall’art. 29 comma 1-quater sono entrate in vigore, come spiega incontrovertibilmente la sentenza della Sezione II, 4 settembre 2012, n. 7516 del TAR del Lazio.
Questo segna un punto fermo, ossia, la legge 21/92 ha subito varie modifiche negli anni, come abbiamo visto nel 2008 con la 29 1-quater, ma anche nel 2012 con il cosiddetto cresci Italia.

Perché questa premessa?
Perché in questi ultimi mesi noi tutti abbiamo sentito, come fosse un mantra, tre concetti che un dipendente di Uber ha ripetuto fino alla noia:
la legge 21/92 è vecchia, l’art. 29 1-quater non è in vigore e soprattutto la 21/92 non contempla l’avvento della tecnologia.

Ora i primi due punti sono destituiti da ogni fondamento, come abbiamo visto in premessa, ma è l’ultimo che mi ha, fin dalla prima volta che lo ho sentito, come dire…solleticato, perché questa argomentazione, che è stata utilizzata anche da politici ed amministratori, è totalmente ridicola sbagliata e pericolosa.

Un esempio?
La legge Merlin è del 1958, quindi secondo questi fini pensatori ora che la tecnologia è arrivata posso gestire una casa chiusa con una App?
O peggio mi posso attrezzare per gestire la raccolta di pomodori con un’applicazione?
(caporalato tecnologico).

Come potrete leggere nell’articolo su Bruxelles, presente nell’ultimo numero del nostro magazine, il modo di operare di Uber è simile in tutta Europa, ma quello che emerge con chiarezza dall’articolo è che le reazioni della classe politica sono differenti.
E non solo i nostri politici si sono dimostrati svogliati e un po’ pigri nel prendere posizione, ma una volta assunta, allorquando il Ministro Lupi e il Governatore Maroni hanno parlato di Uber pop illegale, è rimasta lettera morta.
Onestamente se fossi un politico che chiede il rispetto delle leggi, e dichiara il servizio di un’azienda illegale, sarei alquanto stupito ed irritato nel constatare che quest’ultima continua imperterrita ad operare.
Bisogna però che sia i politici che l’opinione pubblica come anche noi tassisti, si comprenda che il trasporto pubblico non di linea, è regolamentato, in ogni parte del mondo, sia per quanto riguarda l’organizzazione sia per quanto riguarda le tariffe, non per salvaguardare gli operatori, ma per garantire gli utenti, che hanno il diritto, essendo il nostro un servizio pubblico, di avere la certezza della tariffa e la certezza del servizio.
E’ talmente vero che i comuni e le amministrazioni non marginano sulle corse, e non modificano le tariffe in base a domanda e offerta, perché giustamente l’utenza pretende chiarezza e trasparenza.
Parlano di concorrenza, ma fino all’avvento di Uber l’utente poteva scegliere tra il taxi, con le tariffe stabilite dalle amministrazioni, oppure rivolgersi ai noleggi con conducente, i quali correttamente contattati dall’utilizzatore, soddisfacevano uno dei capisaldi della concorrenza, l’asimmetria informativa, cioè il cliente poteva scegliere il noleggiatore che riteneva soddisfare maggiormente le proprie necessità, non ultima quella del prezzo.

Uber cosa fa? Elimina totalmente questa facoltà del cliente dandogli la finta sensazione di essere lui a scegliere, in realtà non contratta mai il prezzo ma anzi è proprio Uber stessa che modifica la tariffa a proprio piacimento in base a parametri fumosi, quindi cosa vuole fare Uber portare concorrenza o sostituirsi al regolatore pubblico?

Parlano di costi, ma credo che anche un bambino comprenda che se tra l’offerta e la domanda c’è un terzo soggetto che margina il 20% il risparmio non ci può essere.
Insomma si fanno passare per i paladini del libero mercato, in realtà sono esattamente come i caporali presenti per la raccolta dei pomodori, tu lavori io guadagno.
E questo succede perché l’obbiettivo principale di Uber non è quello di soddisfare l’utenza o gli operatori del servizio, ironicamente chiamati partner, ma il soddisfacimento degli azionisti.
In se questo non è un male, anzi, ma lo diventa quando si tratta di un servizio pubblico, e quando il nuovo soggetto che entra nel mercato non rispetta regole di nessun tipo generando una concorrenza sleale.
Provate a pensare se le regole di Uber fossero applicate alla sanità o alla scuola, più esami clinici i pazienti richiedono più costano, più una lezione è richiesta e più ti faccio pagare, ma non in una sana concorrenza tra ospedali o scuole, basata su qualità e competenza, no, in una sorta di monopolio dove io decido i prezzi io decido le regole io margino e gli altri lavorano.
C’è da stupirsi? No davvero, sappiamo tutti dell’alta considerazione che il CEO di Uber (quello che conta, quello americano) ha del mondo del taxi, e del mondo del lavoro in generale.
Chiaramente, ragionando con questa logica, la presentazione di Uber pop era solo una questione di tempo, ed infatti ecco arrivare la quintessenza dell’illegalità, privati che senza titolo trasportano persone con auto immatricolate per uso proprio con assicurazioni che non coprono i sinistri senza iscrizione all’Inail, Inps camera di commercio e partita iva.
I dipendenti di Uber Italia, ora promuovono l’idea di un servizio di privati tra privati, quasi fosse un’associazione culturale o di solidarietà, parlano di rimborso spese, e tabelle ACI.
La realtà è ben diversa, come la cronaca nera di Milano ci ha insegnato. Chiami uber black arriva uber pop, con tutto il corollario che ne consegue, vuoi un’auto blu e ti arriva un’utilitaria, richieste di 20 – 30 euro per corse di pochi chilometri (peraltro in nero) insomma l’opposto di quello che pubblicizzano.

Per comprendere il potere della comunicazione, di come la utilizzano, di come intendono la concorrenza ed il rispetto delle regole e di come riescano a manipolare la verità, basta leggere i blog o i redazionali che molti giornali hanno fatto, trasmettendo alle persone un concetto semplice, semplice, ABBASSO LE LOBBY.

Ora noi saremo anche dei “asshole” come ci ha definito il CEO (quello che conta quello americano) ma non certo stupidi, credo quindi che la domanda che tutti si dovrebbero fare è: sono più lobby dei lavoratori che senza sovvenzioni, senza tutele facendo davvero gli imprenditori con i propri soldi sono riusciti per esempio a mettere in piedi centrali radio delle dimensioni di quelle milanesi, dando lavoro diretto a circa 200 dipendenti, e procurando lavoro a circa 4200 tassisti, investendo in proprio (e parlo solo per Taxiblu) circa 4.000.000 di € in innovazione negli ultimi 5 anni, pagando le tasse in Italia, (i soli tassisti Milanesi versano all’erario tra imposte dirette indirette ed accise circa 60.000.000 di €, mentre per esempio Google uno degli investitori di uber circa 1.800.000) oppure chi da dipendente senza avere investito nemmeno un euro beneficia di capitali che arrivano da società come: Google, Goldman Sachs, Lowercase, Benchmark, Menlo, First Round, capitali in parte sottratti alla tassazione, senza rischiare nulla e cercando di moltiplicarli sempre evitando di pagare le tasse nei paesi dove producono reddito?

Credo che la risposta sia di un’evidenza cristallina. Sono convinto che noi siamo l’avanguardia di una guerra che finirà per toccare tutti i settori del mondo del lavoro, portata avanti con una strategia cara agli antichi romani “dividi et impera”. Stanno cercando di farci fuori utilizzando il sostegno di parte dell’opinione pubblica imboccata e informata in maniera distorta, stanno cercando di dividerci al nostro interno, ma l’opinione pubblica deve comprendere che noi siamo solo i primi, che il momento in cui si prenderanno le assicurazioni su facebook o in qualunque social è vicinissimo, e anche lì verranno bruciate competenze e professionalità. Poi arriveranno i grandi gruppi professionali, quelli che fatturano 800 € l’ora e pagano i partner (!) 1.000 € al mese, fra 5 anni toccherà ai lidi, insomma dobbiamo essere consci del pericolo e bravi a comunicare all’opinione pubblica a cosa stiamo tutti quanti andando incontro.
Questo sarà il nostro futuro? Credo di no, mi guardo attorno e vedo segnali incoraggianti sia in Italia che in Europa, La Svizzera per esempio ha fatto un referendum poche settimane fa per alzare lo stipendio minimo garantito da 3.200 € a 3.900 €, mettendo in primo piano la dignità dei lavoratori anziché gli azionisti delle multinazionali, la Francia sta facendo una lotta feroce ai paradisi fiscali e alle scatole cinesi, qualcosa si muove anche in Italia, e in questo panorama noi possiamo diventare la coscienza critica, in che modo?
Svolgendo nel migliore dei modi il nostro lavoro, non dimenticando mai che è un servizio pubblico, guardando ai nostri clienti come ai nostri migliori alleati, alzando la qualità del servizio, diventando veicolo informativo del pericolo a cui tutti i lavoratori vanno incontro, difendendo con dignità ed orgoglio il nostro lavoro, quello dei nostri dipendenti, e salvaguardando il nostro vero capitale, i clienti.




Uber, la sharing economy ci toglierà dei diritti?

https://www.uritaxi.it/wpnew/tag/uberpo ... int-search

Un rischio serio sta interessando lo scenario di noi utenti e consumatori. Una serie di emendamenti presentata alla legge annuale sulla concorrenza, potrebbe dare libero sfogo ad un’iniziativa imprenditoriale, di grande impatto e forti polemiche: Uber. Io mi occupo di diritti e questo potrebbe sembrare un argomento di non mia stretta competenza. Ma se non altro anch’io sono una consumatrice e quindi giocoforza tirata in ballo. E poi qualsiasi ambito umano può essere interessato da argomenti che vanno a riguardare i diritti delle persone.

C’è il mio diritto ad essere tutelata dI fronte ai soldi che spendo, alle transazioni che eseguo ed ai servizi che utilizzo. Ma c’è poi tutta una serie di diritti, che relativamente alla partita Uber, riguardano una molteplicità di soggetti. Certamente c’è il diritto della multinazionale americana di fare affari… Business. Ma ciò non può soverchiare altro. Come il sacrosanto principio di pagare le tasse e, ai lavoratori, i contributi previdenziali, come tutti gli emolumenti che vanno versati in maniera corretta e senza scalzare obblighi a danno di altri o a loro beffa. C’è poi il diritto di certi lavoratori – o piccoli imprenditori che svolgono un servizio pubblico regolato, i tassisti, intendo – a non vedersi scavalcare dal potere soverchiante e preponderante di chi può attingere a una cassa sostanzialmente senza fondo.

Il Tribunale di Milano aveva stabilito delle regole, mettendo fuorilegge Uberpop, l’app che permette a tutti di trasformarsi in “improvvisati tassisti”. La senatrice del Partito democratico, Linda Lanzillotta, ha riaperto la questione, proponendo una soluzione di mezzo. Lanzillotta punta a una regolamentazione di Uberpop, “affermando che non rappresenta il diavolo” che è l’Antitrust a chiederci di fare qualcosa. Insomma Lanzillotta giustifica i suoi emendamenti all’articolo 50 del ddl Concorrenza con l’esigenza di regole in virtù di una concorrenza che “fa bene a tutti”.

In realtà il rischio è di legalizzare una situazione in cui gli utenti, che quotidianamente necessitano di mezzi pubblici per facilitare i loro spostamenti, vedano venir meno una serie di garanzie tipiche del servizio pubblico taxi, ovvero quello della tariffa dalla Pubblica Amministrazione, oppure, ad esempio, quello dell’accessibilità è (di questi giorni l’aumento di altre 20 vetture dedicate al trasporto di disabili nella città di Milano). E su questo punto anche organizzazioni di consumatori hanno fatto sentire le loro proteste.

Ma c’è di più. Sono pure in pericolo i diritti dei lavoratori, ai quali non vengono garantiti i contributi previdenziali. Uber e i suoi autisti non sono obbligati a pagare nessuna cassa. Se passasse una simile impostazione, il sistema nel suo complesso non reggerebbe. È facile credere che ciò verrebbe utilizzato anche in altri ambiti lavorativi, diventando un’ottima scappatoia per datori di lavoro senza scrupoli al fine di precarizzare all’eccesso i propri dipendenti e risparmiare sulla loro pelle. Tutto il sistema pensionistico potrebbe quindi essere a rischio.

La sharing economy – l’economia che parte da beni condivisi, quella che prende il via dal basso, dalla giusta esigenza degli utenti a risparmiare – doveva essere un’alternativa al capitalismo, inteso come quella forma che sfrutta il lavoratore abbagliandolo con la falsa speranza di un consumismo alla portata di tutti; si sta rivelando invece come un altro tipo di macchina per far soldi ad appannaggio di pochi.

Chi mette a disposizione gli strumenti per trasformare in pratica la sharing economy si trova, naturalmente, il coltello dalla parte del manico. Può agire in modo che a lui spettino lauti guadagni e sotto, agli utenti finali, un servizio che solo in principio dia l’impressione del risparmio, ma a scapito dell’impoverimento di altri, degli standard del lavoro e delle leggi sullo stesso, senza contare la generazione di un nuovo e più subdolo tipo di precariato.

Partendo dal concetto di sharing economy c’è il rischio di arrivare a formulare una nuova forma di sfruttamento; una sorta di caporalato 2.0 a danno soprattutto delle fasce deboli del lavoro, spinte ad accettare impieghi sottopagati e senza tutele. Proprio negli Stati Uniti e proprio in California, dove molti applicativi legati alla sharing economy sono nati e continuano a nascere, si sono registrati grossi problemi sul fronte del lavoro; Uber, per esempio, è già stata censurata da alcuni giudici del lavoro per aver trattato gli autisti come “indipendenti” e non come dipendenti.

Questo pericolo riguarda anche il nostro Paese, dove il dibattito mi sembra un poco confuso; tra chi è a favore di ogni forma di nuova economia della condivisione ed è visto come uno al passo coi tempi, e chi invece è critico ma è additato come passatista. Al contrario credo ci si debba fermare a riflettere e non dare libero sfogo a tutto questo attraverso qualche emendamento: una soluzione sbagliata.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 7:37 pm

Poi sulla questione vi è un'altro aspetto da considerare e non di poco conto, la licenza dei tassisti il cui costo-valore equivale ad un impegno-titolo pubblico, un diritto di proprietà, che corrisponde in parte al TFR dei lavoratori dipendenti, che se espropriato (con una nuova legge da parte dello stato o legislazione pubblica che modifica l'ordinamento dei trasporti di persone per adeguarlo alla modernità), richiede di essere indennizzato-risarcito pienamente al valore attuale e se la media del costo-investimento della licenza è intorno ai 150mila euro e i tassisti sono 40mila, la comunità e lo stato devono farsi carico dell'esborso di almeno 6miliardi di euro.
A ciò andrebbe aggiunta una indennità di lavoro corrispondente alla cassa integrazione, mobilità, pre pensionamento a seconda dei casi come è stato ed e è per tutti i lavoratori dipendenti che si sono trovati e che si trovano a perdere il lavoro a perdere il lavoro.



???

ECCO L’INTERVENTO DI ALBERTO MINGARDI*
Uber, lo studioso: “Cambiamento inarrestabile”. Ma il sindacalista: “Lo Stato stabilisca le regole”
marco bresolin

http://www.lastampa.it/2014/11/12/econo ... agina.html

Fra regole del ventesimo secolo, e tecnologia del ventunesimo, può svilupparsi una certa tensione. Il caso di Uber è un esempio fra tanti. Una serie di innovazioni ormai di uso comune (servizi di geolocalizzazione, smartphone, “virtualizzazione” dei sistemi di pagamento) rende obsolete le modalità tradizionali del trasporto pubblico non di linea.

Una banalità: ovunque, i taxi sono chiaramente riconoscibili (macchine bianche, gialle, black cab come a Londra). Il colore della carrozzeria segnala al cliente che quella vettura può portarlo dove desidera, pagando s’intende. Con UberPOP, arrivata anche a Torino, quella disponibilità ci viene segnalata attraverso una App. Non c’è più bisogno di avere depositi in cui tante automobili, tutte uguali l’una all’altra, aspettano il cliente interessato. Non c’è nemmeno bisogno che chi le guida decida di fare soltanto quel mestiere. Chiunque, quale che sia il colore della sua macchina, può offrire per una frazione della giornata il medesimo servizio, sicuro che i potenziali clienti saranno informati della sua esistenza.

Probabilmente anche in passato alcune persone, senza essere tassisti di professione, sarebbero state disponibili ad offrire “passaggi a pagamento”. Oggi tanto Uber quanto BlaBlaCar costruiscono attorno a questa disponibilità delle community di driver, che riescono ad interloquire con altre community di passeggeri e a intercettarne la domanda.

Non c’è da stupirsi, se il legislatore non ha immaginato una realtà di questo tipo: era inimmaginabile fino a pochi anni fa. Ciò non significa, però, che non sia necessario prenderne atto. Non è una situazione facile. Lo Stato in generale, i Comuni in particolare, hanno fatto una promessa esplicita a chi ha acquistato licenza di taxi: la promessa che quell’acquisto valeva a limitarne la concorrenza. Col senno di poi, una liberalizzazione del comparto (ogni tentativo in merito è andato puntualmente fallito, per la strenua opposizione della categoria) avrebbe forse preparato il terreno a un mutamento tanto radicale, ma non avrebbe cambiato i termini della questione. Il cambiamento appare inarrestabile perché è avvenuto sul terreno della tecnologia, non su quello delle regole.

È normale che Uber venga più o meno ovunque pesantemente contestata. La discrasia fra norme e tecnologia ne crea le condizioni, la legittima preoccupazione dei tassisti per il proprio futuro nutre la protesta. Ma proviamo a guardare alla questione dal punto di vista dell’eterno assente, in questi dibattiti: il consumatore. Il consumatore oggi ha a disposizione più possibilità di spostarsi in automobile in città (taxi, car sharing, Ncc, UberPop) di quante ne abbia mai avute. Persino l’idea dell’auto di proprietà potrebbe diventare qualcosa di eccentrico, per chi vive in un grande centro. Le abitudini si stanno evolvendo rapidamente, complice anche la crisi: sia perché si apprezzano costi più contenuti, sia perché la possibilità di fare l’ “autista a pagamento” per parte della giornata risulta molto appetibile a studenti e persone che si trovano ad essere senza lavoro.

C’è un problema di sicurezza, relativo ad affidabilità e professionalità degli autisti? Sicuramente, ma non si capisce perché regolamenti comunali non particolarmente stringenti, (tipicamente richiedono la patente di guida e il non avere riportato una o più condanne definitive a pene superiori ai due anni, assenza particolari controlli successivi) dovrebbero essere più efficaci dei rapidi e continui feedback ai quali Internet e social network ormai ci hanno abituato.

Non è detto che Uber esca vincitrice dalla battaglia con amministrazioni e regolatori di tutt’Europa. Ma una cosa è sicura: qualcuno continuerà ad offrire questo tipo di servizi, semplicemente perché ormai è possibile offrirli.

*Alberto Mingardi (direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni)




ECCO L’INTERVENTO DI NICOLA DI GIACOBBE
Nicola Di Giacobbe (segretario nazionale Unica, Unione italiana conducenti auto pubbliche, Filt-Cgil. Testo raccolto da Nadia Ferrigo)


Il problema non sta nel decidere se multare oppure no chi entra a far parte della piattaforma Uber, ma ristabilire la legalità nel Paese. La domanda è: a chi tocca vigilare? La società californiana è in Italia ormai dallo scorso anno, in tutto questo tempo dalle istituzioni sono arrivate solo parole, ora vogliamo i fatti. La competenza è del Ministero delle Finanze e dei Trasporti, che non devono intervenire su chi lavora per Uber, ma su Uber. Sanzioni e confische non servono, il problema nasce prima, quando gli si permette di assoldare gli autisti. Mi rivolgo al ministro Lupi a e ai sindaci: che sia Milano, Roma, Genova oppure Torino poco cambia. Non è serio affrontare la questione di volta in volta, città per città.

Non deve essere nemmeno raccontato come un problema che riguarda esclusivamente la categoria dei tassisti: anche i cittadini devono essere messi nelle condizioni di viaggiare nel pieno rispetto della legalità, senza infrangere il codice della strada. Uber opera al di fuori delle leggi: non si può sapere se il privato che si mette in strada per fare il tassista rispetta tutte le condizioni legali e fiscali. Le tariffe stabilite per il servizio pubblico non sono predisposte a casaccio, ma concordate, tenendo conto della geografia e dell’economia della città.

Non dimentichiamo che il tassista è tenuto a rispettare una serie di obblighi: deve accompagnare chiunque, deve sottostare non solo alle tariffe, ma anche alla turnazione comunale, pensata affinché il servizio sia garantito sempre, sabato, domenica e durante le festività. Quella di Uber è concorrenza sleale: non sono tenuti ad accompagnare chiunque gli faccia richiesta, ma si possono rifiutare. Con Uber non si può solo scegliere in quali momenti mettersi al volante e in quali no, ma anche quali zone della città servire e quali no. Ormai Uber è in più di duecento città nel mondo, ovunque i problemi sono gli stessi: il loro operato fa saltare per aria il sistema organizzato del trasporto pubblico.

Un altro aspetto che tengo a sottolineare, ed è per questo che auspico l’intervento del ministero delle Finanze, è quello del profitto. Un aspetto è che Uber non paga le tasse in Italia, l’altro riguarda chi si mette in macchina, che diventa un potenziale evasore fiscale. Uber si comporta come i caporali, che organizzano le squadre, a giornata, senza rispettare le leggi che ci siamo dati. Reclutare autisti alle loro condizioni altro non è che un’induzione a delinquere.

Nessuno è contrario alle nuove tecnologie, se queste possono aiutare a migliorare il servizio e ottimizzare i costi, ma non è questo il caso. A Roma per esempio ci sono sei centrali radio per i taxi, più un numero dell’amministrazione comunale, che sta per entrare in funzione. Le prime al tassista costano tra i 100 e i 200 euro al mese, il secondo circa 20 euro. Certo che ci si rivolge al più conveniente: se arriva un terzo soggetto che all’interno del servizio pubblico può far diminuire i costi e anche migliorare il servizio, allora ben venga Uber o chi per lui. Il problema non è la tecnologia, ma l’uso che se ne fa. Uber non porta innovazione, né lavoro, ma un’economia di facciata, che consente l’esercizio illegale di una professione tenuta a rispettare norme e regole concordate.




???

Lettera a un tassista (che odia Uber)
Guido Scorza
1 luglio 2015

http://www.chefuturo.it/2015/07/uber-taxi-lettera


"Diritto e tecnologia", senza la virgola, un unico tab, con il quale ho scelto di indicizzare la mia professione. Avvocato, giornalista, blogger, attivista dei diritti civiii online, socio fondatore di E-lex, Network di Studi legali specializzati in diritto delle nuove tecnologie, Presidente dell'Istituto per le politiche dell'innovazione e coordinatore di Open Media Coalition, la coalizione di associazioni della società civile italiana per la promozione e tutela della libertà di informazione.

Caro tassista, ti scrivo perché sono mesi che ci si confronta – e talvolta scontra – in modo indiretto, online ed off line, scrivendo e cinguettando via Twitter o a suon di carte bollate in Tribunale. Tu difendi – o credi di difendere – il tuo lavoro, il tuo futuro e quello della tua famiglia ed io difendo – o credo di difendere – il futuro, l’innovazione ed il progresso del nostro Paese.

Tu mi ricordi, ogni giorno, che Uber ed i suoi utenti sono fuori legge e ti rubano il lavoro ed io ti rispondo che le leggi non sono monoliti sempiterni ma “solo” regole che servono a garantire la civile convivenza tra i membri di una comunità – piccola o grande che sia – ed il bene comune. Il nostro è un confronto destinato a proseguire ancora a lungo perché entrambi sappiamo che ciascuno di noi continuerà a pensarla a modo suo anche se domani un Giudice accogliesse le mie tesi ed il giorno dopo, un altro, desse ragione a te. Non è questione – quella che così spesso ci vede contrapposti – che si possa risolvere in Tribunale perché non è questione che possa esser definita applicando ed interpretando leggi così tanto più vecchie del fenomeno che si ritrovano a governare. E questo sarà vero tanto che “vinca” tu, tanto che “vinca” io.

Se ci si limiterà a dire che un fenomeno nuovo è vietato solo perché le leggi di ieri non lo contemplano o, per la stessa ragione, che, invece, è lecito, solo perché non lo vietano, non avrà vinto nessuno di noi due ed avremo perso entrambi. L’incertezza del diritto resterà al suo posto ed ogni occasione sarà buona per far dire a me che in fondo ho ragione io o a te che non c’è dubbio che tu abbia torto.

Ti scrivo per provare a convincerti non che io ho ragione e tu torto, né che Uber sia lecito e non illecito come pensi tu anche perché – lascia che te lo scriva con grande franchezza – mentre noi siam qui ad accapigliarci sulla compatibilità di Uber rispetto alle nostre regole vecchie, da qualche parte, nel mondo, qualcuno ha già avuto un’idea che prima o poi rappresenterà per Uber esattamente ciò che Uber rappresenta per te: un abilitatore innovativo di fattori concorrenziali dei quali avresti volentieri fatto a meno.

Difficile dire se si tratterà delle macchine senza conducente che presto vedremo parcheggiare da sole nelle nostre città o di servizi di scooter-sharing che consentiranno a cittadini di ogni età di dare ed accettare passaggi in motorino spendendo una manciata di euro e, soprattutto, superando code ed ingorghi. Ma basta guardare indietro nella storia moderna dell’innovazione per scoprire che non c’è leader di mercato che nell’era di Internet e del digitale possa davvero dormire sonni tranquilli senza temere di essere superato, doppiato e spedito ai margini del mercato a tempo di record.

Ed allora perché anziché perder tempo, energie e serenità a discutere del contingente, di oggi, di domani o al massimo di dopodomani non ragioniamo assieme del futuro prossimo e di quello meno prossimo e delle regole che servono per governarlo? Sono convinto che, in questa prospettiva, le nostre posizioni su Uber e su quelli che verranno dopo Uber – che siano piccole startup tutte italiane o altre corporation americane – non sono così lontane come talvolta verrebbe da pensare a leggere certi scambi di cinguettii su twitter o a vedere le strade di mezza Francia messe a ferro e fuoco da alcuni tuoi colleghi d’oltralpe.

Credo che la parola magica per provare a convincerti di un affermazione che, probabilmente, sulle prime, ti farà storcere la bocca, sia “innovazione”, quella che – ne sono certo – amiamo entrambi e che, oggi, rappresenta l’unica reale chance per il nostro Paese di avere un futuro e, per noi, di lasciare ai nostri figli un Paese migliore di quello che ci hanno lasciato i nostri genitori o, almeno, non peggiore.

Nella tua macchina, oggi, c’è più tecnologia di quanta ce ne sia mai stata e grazie a quella tecnologia tu oggi lavori meglio, ti senti più sicuro e meno lontano da casa, nelle interminabili notti passate a trasportare sconosciuti lungo le strade delle nostre città.

Ti ricordi quanto era difficile portare un cliente a destinazione in una strada della quale non avevi mai sentito parlare prima che sul tuo cruscotto comparisse il navigatore satellitare e quante volte hai rischiato di andare a sbattere o passare con il rosso sfogliando quell’enorme stradario, con le pagine consunte, alla ricerca almeno di un’idea approssimativa su dove volesse andare il tuo passeggero?

Ti sei mai chiesto che fine hanno fatto o si avviano a fare gli editori degli stradari ed i tanti produttori ed editori di cartografia urbana ed extra-urbana a man mano che le mappe di Google e tanti altri sono entrate nel nostro quotidiano ed i Tom Tom sono diventati i protagonisti indiscussi dei cruscotti dei tassisti? Innovazione e tecnologia, digitale e satellitare, hanno reso la vita ed il lavoro più comodo per tanti di noi, sacrificando, naturalmente, i diritti e gli interessi di alcuni che hanno dovuto – non sempre con successo – re-inventarsi un lavoro o rassegnarsi al fatto che il presente aveva cancellato il passato in attesa di essere, a sua volta, travolto dal futuro.

E quante volte ti è capitato, ti capita o ti capiterà di programmare le tue vacanze, prenotare un treno, un aereo o una macchina a noleggio o, magari, affittare una casa al mare attraverso una delle tante app di prenotazioni online che si chiami Expedia, booking.com, volagratis o la tua preferita o, addirittura, Airbnb, la piccola startup diventata rapidamente un gigante che consente a chiunque di affittare a chiunque altro la propria casa?

Davvero non lo hai mai fatto? Davvero non lo lasci fare neppure a tua moglie, tuo marito o ai tuoi figli e davvero non la trovi una straordinaria rivoluzione nel nostro modo di vivere e di viaggiare ed un fattore abilitante una libertà che sin qui non avevamo mai avuto?

Eppure l’affermazione dei grandi portali delle prenotazioni online ha, innegabilmente, messo in crisi il pur florido mercato delle agenzie di viaggio ed è fuori di dubbio che Airbnb ed i suoi tanti emuli, rappresenti una spina nel fianco per piccoli e grandi albergatori perché, naturalmente, oggi, tu ed io, possiamo scegliere tra prenotare una stanza di albergo, spesso a cifre da capogiro o affittarci una casa intera, in riva al mare o addirittura su un albero, a prezzi stracciati perché il proprietario non l’affitta per vivere ma solo per abbattere i costi di gestione. E non dirmi che tu, davvero, non le trovi soluzioni delle quali faresti fatica a fare a meno, per tornare a dover fermare il taxi in doppia fila e scendere a prenotare le tue vacanze in agenzia.

E questo elenco potrebbe durare ancora a lungo, snodandosi, istante dopo istante, nel tuo quotidiano che, ormai, è intriso di innovazione e tecnologia proprio come il mio.

Hai mai pensato che probabilmente molte di queste innovazioni che oggi fanno parte integrante del nostro quotidiano non avrebbero mai visto la luce se ci si fosse limitati a sbarrare loro la strada, dicendo che erano contrarie ad una qualche vecchia legge a tutela di questo o quel centro di sacrosanti e legittimi interessi?

Sono convinto, per davvero, che quando scendi dal tuo taxi e ritorni a casa, anche tu, in fondo, ti renda conto che il nostro confronto, fino a quando riguarderà quello che dicono le leggi di ieri a proposito di un fenomeno di oggi e del suo domani è miope, sterile, nella migliore delle ipotesi inutile e, nella peggiore, addirittura dannoso per il nostro futuro. Ed allora cerchiamo assieme di individuare una posizione di equilibrio tra i nostri solo apparentemente contrapposti interessi e proponiamola al Governo perché la traduca in una norma di legge.

Progresso, futuro, innovazione, mercato, concorrenza, legalità, equità fiscale, sicurezza, correttezza, tutela dei consumatori e degli utenti sono i “tag” lungo i quali io vorrei che si snodasse uno sharing economy act del quale un Paese con l’ambizione ad essere moderno, civile e democratico non può, secondo me, più fare a meno. E i tuoi “tag” quali sono? Sono curioso di conoscerli.

Con stima e gratitudine per tutte le volte che mi hai portato a destinazione,

GUIDO SCORZA
Roma, 1 luglio 2015

P.S.

Scrivo in prima persona e scrivo a te ma, naturalmente, è solo un artificio retorico per invitare la tua categoria ad un dialogo costruttivo con le imprese della sharing economy ed i loro utenti. Quel che penso io personalmente e, probabilmente, quel che pensi tu, da solo, conta troppo poco.


Ora se tutte le attività produttive e di servizio per essere devono operare in quadro normativo-legislativo è ovvio che tra i valori generali che vanno salvaguardati sono le condizioni generali valide per tutti:
P.IVA. se poi si vuole modificare questo quadro per un interesse generale della comunità è giusto che i cittadini che ne verrebbero danneggiati siano risarciti, per cui ad esempio, nel caso dei tassisti questi dovrebbero essere risarciti del costo della licenza che loro hanno dovuto affrontare all'inizio della loro attività e che costituisce la buona uscita o TFR al termine della loro attività è giusto che la comunità si faccia carico di questo loro diritto che la nuova legge espropria e cancella.


Alberto Pento
Caro avvocato Scorza
lei, come attivista dei diritti civili, si è dimenticato del diritto civile relativo alla licenza dei tassisti e di altri diritti universali relativi al fatto che anche i tassiti sono lavoratori come tutti gli altri e che perdendo il lavoro hanno il diritto ad essere indennizzati ed assistiti.
Poi vorrei ricordarle come anche "la liberalizzazione" dovrebbe investire in pieno la sua categoria professionale eliminando anche l'ombra delle tariffe minime

http://nuvola.corriere.it/2016/03/24/av ... a-la-multa
e introducendo in taluni casi una forma di compenso in base ai risultati conseguiti, onde evitare spese inutili per cause inutili e già perse in partenza che non dovevano essere fatte, per lungaggini colpose e dolose dei processi, per negligenza e incuria, colpa professionale.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » lun feb 20, 2017 9:16 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » lun feb 20, 2017 7:45 pm

Starbucks e le palme in Piazza Duomo a Milano

Milano: le palme in piazza Duomo, i vandali e l'annuncio di Starbucks
Peppe Caridi

http://www.meteoweb.eu/foto/milano-le-p ... /id/857825

“Siamo molto orgogliosi di regalare alla citta’ di Milano un bellissimo giardino“: cosi’ il presidente di Starbucks EMEA, Martin Brok, presentava il 23 gennaio scorso il progetto delle palme in piazza Duomo.
A circa un mese di distanza quel giardino di cui parla Brok ha subito l’atto vandalico di venire bruciato, anche se l’ obiettivo del progetto resta intatto: la catena americana, che ha punti vendita in tutto il mondo, punta ad aprire in Italia cominciando proprio da Milano e da Roma. Inizialmente sono cinque le location individuate per Starbucks dal gruppo Percassi, che cura l’arrivo in Italia del colosso americano.
Le prime aperture sono previste per il mese di giugno del 2018. Il gruppo punta inizialmente a quattro-cinque punti vendita.
A Milano individuato, tra gli altri, il Palazzo delle Poste nella centralissima piazza Cordusio, che è una delle possibili location. Se poi il mercato rispondera’ bene, l’obiettivo della catena di caffetterie e’ di aprire dai duecento ai trecento punti vendita in tutta Italia. Il primo negozio Starbucks risale a 30 marzo 1971 a Seattle. Ma la svolta arrivo’ nel 1983 da un’idea dello storico a.d., Howard Schultz, vero fondatore della catena. Proprio a Milano Schultz sviluppo’ il progetto di portare in America il sapore della caffetteria italiana, ricorrendo alle migliori miscele al mondo. Il direttore finanziario della societa’, Scott Maw, ha dichiarato che il terzo trimestre 2016 e’ stato il piu’ redditizio da quando la societa’ e’ quotata. L’utile netto e’ salito del 23% a 801 milioni di dollari, in aumento rispetto ai 652,5 milioni del quarto trimestre del 2015. I ricavi sono stati pari a 5,71 miliardi di dollari. Nell’esercizio 2014-2015 il gruppo aveva chiuso con ricavi consolidati pari a 19,16 miliardi di dollari, in crescita del 17% rispetto all’anno precedente. Tra i nuovi mercati, Starbucks ha aperto a Panama e in Azerbaijan. L’area di maggior crescita e’ stata l’Asia Pacifico, seguita dalle Americhe mentre l’Emea (Europa, Medio Oriente e Africa) con un incremento dei ricavi del 4% e’ stata quella piu’ “fredda”.
È per questo che Starbucks punta a entrare sul mercato italiano.



Da boicottare queste mostruosità multinazionali che manipolano culture e diritti.



Bruciate le palme della discordia: a Milano infiamma la polemica

Fuoco contro le palme in piazza Duomo. Ieri le proteste della destra: CasaPound espone lo striscione "No alla africanizzazione", la Lega distribuisce banane ai passanti
Sergio Rame - Dom, 19/02/2017
http://www.ilgiornale.it/news/milano/br ... 66054.html

In piazza Duomo, a Milano, infiamma la polemica. La scorsa notte alcuni sconosciuti hanno appiccato il fuoco alle palme posizionate davanti alla basilica in una sorta di giardino esotico che è stato, fino a ieri pomeriggio, bersaglio delle contestazioni di Lega e CasaPound per quella che definiscono "africanizzazione".

"Mi piacerebbe trovare il colpevole e mandarlo a curare e ripulire tutte le aiuole della città per circa un annetto - ha commentato su Facebook Elena Grandi, vicepresidente del Municipio 1, con delega al verde - così, per insegnargli il significato di rispetto e di bene comune". Le fiamme hanno danneggiato tre delle palme.


Individuato il gruppo di vandali

Grazie all'analisi delle immagini delle telecamere in piazza Duomo (guarda il video del blitz) svolta dalla polizia locale, è stato individuato il gruppo di persone che, pochi minuti dopo la mezzanotte, ha dato fuoco alle palme. Le indagini, sotto la direzione del Comandante Antonio Barbato, continuano per trovare i nomi di chi ha compiuto l'atto vandalico. "Ora il lavoro della Polizia Locale - dice l'assessore alla Sicurezza Carmela Rozza - è concentrato sull'individuazione dei nomi di chi ha compiuto un atto così irresponsabile".


Lo striscione "No alla africanizzazione"

"No all'africanizzazione di Piazza Duomo". Questo il testo dello striscione esposto dai militanti di CasaPound Italia Milano durante un blitz davanti ai filari di palme sponsorizzate da Starbucks. "Con tutte le problematiche di Milano - afferma Massimo Trefiletti, responsabile della sezione locale di CasaPound - ci mancavano solo le palme e i banani in Piazza Duomo. Una scelta che, nonostante le proteste dei milanesi, ha trovato l'appoggio di Giunta e Sovrintendenza, evidentemente molto più attente alle richieste di Starbucks che ai bisogni dei cittadini. Troviamo ridicolo il tentativo far passare come scelta di avanguardia quello che è l'ennesimo segno di una politica che punta alla distruzione del legame con la propria storia, le proprie origini, la propria terra. Giardini, aiuole e spazi pubblici hanno senso in rapporto con gli spazi, materiali e spirituali, in cui sono inseriti. Palme e banani non sono certo parte della storia e della tradizione milanese". Mentre la giunta sostiene il progetto di Starbucks, interi quartieri sono abbandonati nel degrado, in balia di spaccio e criminalità. "Le periferie - aggiunge Angela De Rosa, portavoce cittadina del movimento - soffrono ancora di moltissimi problemi sociali e strutturali e ora anche i quartieri più centrali iniziano a soffrire i frutti di un'immigrazione incontrollata e della totale incapacità della politica di affrontare i problemi che ne derivano".


La Lega Nord distribuisce banane

I consiglieri comunali della Lega Nord hanno distribuito duecento banane ai passanti per dire "no" alle palme e ai banani sotto la Madonnina. Una protesta contro il nuovo restyling della piazza, che ha suscitato non poche polemiche in città. "Questo è uno stupro della nostra città, del simbolo di Milano, il Duomo, e quindi chiediamo alla Madonnina di non guardare giù e di guardare solo in alto", tuona Alessandro Morelli. "Il contratto firmato pare sia milionario e quindi sarà difficile intervenire e fare qualcosa, ormai. Sala ha fatto male a chiedere cosa ne pensano i milanesi dopo aver fatto questo scempio, doveva pensarci prima - continua il consigliere del Carroccio a Palazzo Marino - tra un 'cocco' e una palma (il riferimento è all'assessore Cocco, che ha sbagliato a compilare la dichiarazione patrimoniale pubblicata sul sito del Comune, ndr) Sala è scivolato una buccia di banana".
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Le grandi corporation globali che non pagano tasse

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:56 am

Economia, protezionismo, globalizzazione, Trump, Svizzera
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Che schifezza Diesel, questa multinazionale del nulla.
Ke skifesa Diexel, sta mucionasional del gnente co ł so braghe xbuxe e lixe
https://www.facebook.com/Diesel/videos/ ... 9454725484
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