Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Messaggioda Berto » lun mar 20, 2017 8:18 pm

È morto Novak, il teologo del capitalismo
Si è spento il filosofo fautore dell'alleanza tra cattolici e repubblicani nell'era Reagan. Vicino a Wojtyla, ha sollevato dubbi su alcune pagine del magistero sociale di Benedetto XVI e di Francesco. Il ricordo di Buttiglione
2017/02/18
don giampaolo centofanti

http://www.lastampa.it/2017/02/18/vatic ... agina.html

Si è spento all'età di 83 anni a Washington il filosofo Michael Novak, grande fautore della «santa alleanza» tra il capitalismo d'impronta americana e la fede cristiana nell'era Reagan. Dal 1978 fino al 2010 è stato una delle menti del think tank conservatore American Enterprise Institute.
Con il suo libro Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo (1982), Novak era arrivato alla conclusione che il sistema americano fosse il frutto della fusione fra un sistema politico (quello democratico), un sistema economico (quello liberale) e un sistema culturale (quello cristiano), inscindibili tra loro. Per anni ha proposto il suo «capitalismo democratico» come il sistema politico ed economico più compatibile con il cristianesimo e soprattutto con il cattolicesimo. Al mondo cattolico Novak si è sempre presentato come un avversario della Teologia della liberazione, considerata di stampo chiaramente marxista, cercando di convincere i cattolici ad accettare in tutto e per tutto il «capitalismo di mercato». Una teoria, quella del «capitalismo di mercato», che Novak ha ritenuto di poter sempre individuare all’interno dei testi papali, soprattutto nelle encicliche, sorvolando però sulle condanne - altrettanto papali - per quei meccanismi del debito e della monopolizzazione con i quali diversi Paesi in via di sviluppo devono convivere.

Novak, che aveva un passato liberal e si è poi avvicinato alle posizioni più conservatrici, ha raccontato nei suoi scritti il processo che ha portato lui e la sua think tank ad accostarsi e a cercare di influire su Giovanni Paolo II. Il filosofo appena scomparso ricordava di aver avuto modo di studiare i primi scritti di Karol Wojtyla, il quale, «dal 1940 al 1978, quando si trasferì in Vaticano, era rimasto del tutto ignaro di economia capitalistica e di sistemi di governo democratici e repubblicani. Per arrivare ad afferrare i concetti sottesi a quella forma di economia politica, il Papa polacco dovette ascoltare molto e imparare a esprimersi con un linguaggio completamente diverso». Così è Novak a «spiegare» a Wojtyla che il capitalismo è tra i mondi possibili quello più accettabile e che meglio si sposa con il cristianesimo.

Secondo Novak Giovanni Paolo II «seppe riconoscere questo grande cambiamento sociale» avvenuto negli Usa, nell’enciclica Centesimus annus (1991), in particolare nel paragrafo 42 là dove il Papa «definisce brevemente il suo capitalismo ideale, come sistema economico che scaturisce dalla creatività, sotto l’egida della legalità, e “il cui centro è etico e religioso”». Negli anni successivi - sempre a detta di Novak - Wojtyla ha affrontato il concetto del «capitale umano», elaborando «passo dopo passo, la sua visione dell’economia che meglio si adatta alla persona umana – lungi dalla perfezione (in questa valle di lacrime), ma migliore di qualunque alternativa, comunista o tradizionale - e la suggerisce come “il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile”». Dunque secondo il filosofo americano, propugnatore della santa alleanza tra cattolicesimo e capitalismo, la Chiesa con il pontificato di Giovanni Paolo II avrebbe compiuto un percorso di avvicinamento.

Ma dopo il momento di maggiore vicinanza, quello della Centesimus annus, le strade di queste think tank americane e del magistero sociale della Chiesa si sono nuovamente allontanate. Lo dimostra il fatto che proprio Novak nel 2009 si espresse in modo critico nei confronti dell'enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, parlando di «omissioni», «insinuazioni discutibili» ed «errori involontari». Spiegando che «il lavoro di redazione (dell’enciclica) risulta alquanto scadente». Secondo il filosofo Papa Ratzinger non aveva fatto suo l'ottimismo per la crescita mondiale e per il miglioramento delle condizioni di vita provocato dal capitalismo. Insomma, un testo troppo reticente, che non avrebbe riconosciuto con la dovuta enfasi e con il necessario spazio, l'importanza del capitalismo per la promozione dei poveri.

Ancor più dura la reazione di Michael Novak nei confronti di Evangelii gaudium, l'esortazione programmatica di Papa Francesco che contiene i passaggi su quel tipo di «economia che uccide». Il filosofo la derubricava a semplice «omelia», affermando che Papa Bergoglio poteva aver ragione, a patto che si confinino le sue parole all'Argentina o al massimo all'America Latina. Insomma, Francesco parla in un certo modo dell'«idolatria del denaro», dello strapotere dei mercati finanziari e della povertà semplicemente perché è nato in Sudamerica: non capisce il capitalismo americano ed Europeo. Un modo per ridurre la portata del magistero sociale del Papa e ogni sua critica alle sorti progressive dell'attuale capitalismo, un'attività portata avanti ancora oggi da think tank come l'Acton Institute e da varie fondazioni. L'economia e la finanza - dicono i seguaci di questa scuola - sono strumenti neutri e perciò intoccabili e irreformabili. Quello che conta e che fa la differenza, è il cuore dell'uomo che usa questi strumenti. Una tesi che porta a ridimensionare moltissime pagine del magistero sociale della Chiesa, dimenticando che esistono «strutture di peccato», come quelle denunciate nel 1987 da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis.

«Ha amato la Chiesa e ha amato l’America - ha scritto in un articolo commemorativo il filosofo Rocco Buttiglione su L'Osservatore Romano - Era convinto che questi due amori fossero perfettamente compatibili l’uno con l’altro e anzi che la Chiesa avesse bisogno dell’America e che l’America avesse bisogno della Chiesa».

«L’America di Michael Novak - ha osservato Buttiglione - era il paese del libero mercato, in cui ognuno con i suoi sforzi era in grado di guadagnarsi da vivere e, magari, anche di fondare un impero industriale. Era un paese in cui lo Stato faceva poche cose, ma bene, e una grande massa di bisogni sociali trovavano risposta attraverso la libera iniziativa delle associazioni e delle comunità, e in modo particolare delle Chiese. Era convinto che la libera iniziativa fosse il motore dell’economia e della società, diffidava dello Stato e, naturalmente, era contrario al socialismo. Credeva nella solidarietà ma era contrario ad affidarne la realizzazione allo Stato. È stato uno dei protagonisti intellettuali della rivoluzione reaganiana che ha ridato forza all’economia americana e al primato degli Stati Uniti nel mondo. Era orgoglioso di essere amico di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher. È stato forse (insieme con Richard John Neuhaus) il primo cattolico vissuto e sentito come una guida intellettuale non solo dei cattolici ma di tutto il popolo americano».
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » gio mar 30, 2017 5:44 pm

Il futuro è dei Paesi che guardano lontano (come la Svizzera)
Bill Emmott
Traduzione di Anna Bissanti
Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, è presidente della Wake Up Foundation.
© Project Syndicate 1995–2017

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti ... m=facebook

Marine Le Pen, leader del Front National, il partito francese di estrema destra, afferma che la battaglia decisiva del XXI secolo sarà combattuta tra patriottismo e globalismo. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump pare credere invece che sarà tra i «very fake news media» e se stesso, sostenuto dal “popolo” che afferma di rappresentare.

Hanno torto entrambi.

La battaglia decisiva di questo secolo, e quella che lo caratterizzerà, vedrà contrapposti pensiero a lungo termine e pensiero a breve termine. I politici e i governi che pianificano per un futuro lontano sconfiggeranno coloro che non riusciranno a guardare più in là rispetto al ciclo elettorale del momento o, più semplicemente, si rifiuteranno di farlo.

Famosa per il suo presunto pensiero a lungo termine è la Cina, ma per dimostrare questa teoria non è necessario ripiegare sui dittatori. Anche alcune democrazie occidentali hanno fatto quanto era necessario per amministrare sapientemente le forze potenti della globalizzazione, della tecnologia e della demografia, e sono state ricompensate da economie stabili e sistemi politici in buona parte non compromessi dai populisti.

Altri Paesi hanno continuato a concentrarsi sul breve termine, e di conseguenza hanno sofferto parecchio.

Per interpretare questa classifica, ho messo a punto un nuovo indice statistico composito per il mio ente di beneficenza Wake Up Foundation: il Wake Up 2050 Index. A differenza dell’Indice di competitività globale del World Economic Forum, per esempio, il Wake Up 2050 Index guarda al di là delle statistiche relative alla performance passata o del momento per individuare i segnali dei futuri oneri dei Paesi e la produttività probabile dei loro asset più importanti, in particolare i loro stessi cittadini.

Basato su 25 parametri, il Wake Up 2050 Index classifica dunque i 35 Paesi membri più avanzati dell’Ocse in funzione del loro grado di attenzione a cinque ambiti specifici: demografia, società dell’informazione, innovazione tecnologica, globalizzazione e resilienza in caso di shock imprevisti.

I risultati sono sbalorditivi.

Al primo posto si colloca la Svizzera, essendo risultata il Paese occidentale meglio preparato a gestire i trend e le forze conosciute che caratterizzano e definiscono il XXI secolo. I populisti svizzeri sono un gruppo interessato a un’unica questione, l’immigrazione, e godono di scarso sostegno, insufficiente a portarli nel governo. Peraltro, lo scarso favore che il Partito Popolare svizzero di estrema destra ha riscosso si è palesato soltanto dopo che il numero degli immigrati nati all’estero ha raggiunto un quarto della popolazione svizzera, ovvero quasi il doppio rispetto a Stati Uniti e Regno Unito.

I quattro Paesi confinanti della Svizzera si collocano nella graduatoria in posizioni decisamente più basse: la Germania al 15esimo posto, l’Austria al 17esimo, la Francia al 20esimo e l’Italia al 32esimo, nonostante i loro stretti rapporti culturali, storici e commerciali con la Svizzera.

In Austria e in Francia, i partiti populisti euroscettici e anti-immigrazione hanno guadagnato un sostegno sufficiente ad avere possibilità concrete di conquistare il potere, come ha il Movimento Cinque Stelle di sinistra in Italia. Anche in Germania l’influenza dei populisti è in ascesa.

Tenuto conto della reputazione di cui gode la Svizzera – Paese ricco, istruito, innovativo, resiliente – il suo successo in questa classifica forse non sorprenderà più di tanto. Con i suoi livelli salariali tra i più elevati al mondo e il 19% del suo Pil che proviene dal settore manifatturiero (rispetto al 12% degli Usa e al 10% del Regno Unito), in teoria però la Svizzera dovrebbe essere molto vulnerabile nei confronti della competitività cinese e dell’automazione che elimina posti di lavoro. Eppure, il Paese è uscito pressoché indenne da queste sfide.

Non possiamo affermare altrettanto dell’Italia: sebbene il suo settore manifatturiero incida sul Pil per una percentuale di poco inferiore a quella della Svizzera – per la precisione per il 15% – l’Italia ha sofferto di gran lunga di più a causa della competitività cinese. Il motivo è semplice: produce articoli meno raffinati e meno innovativi.

Questo riflette un grave errore che l’Italia sta commettendo, come pure la Francia: avendo aumentato in modo eccessivo la spesa per le pensioni per garantirsi il favore degli elettori sul breve periodo, i governi di entrambi questi Paesi hanno seriamente condizionato la loro capacità di investire nell’istruzione e nella ricerca scientifica.

In un’economia globale basata sempre più sulle conoscenze e sempre più trainata dalla tecnologia, nessun Paese può essere competitivo in maniera efficace se il suo governo non dedica risorse sufficienti per coltivare le competenze giuste e le capacità della sua forza lavoro.

Per avere successo sono indispensabili anche un ambiente normativo e una cultura aziendale tali da permettere alla popolazione di utilizzare in modo proficuo le conoscenze acquisite. Da questo punto di vista, i Paesi caratterizzati da una bassa partecipazione femminile al mondo del lavoro (come l’Italia) o quelli nei quali i lavoratori più esperti, gli ultrasessantacinquenni, sono fuori da esso (come l’Italia e la Francia) sono nettamente in svantaggio.

Da nessuna altra parte più che in Giappone è evidente quanto valga saper pianificare a lungo termine. Malgrado sia l’economia avanzata con il più rapido tasso di invecchiamento della popolazione, nel Wake Up 2050 Index il Giappone si colloca bene dal punto di vista demografico. In parte ciò è dovuto al fatto che, anticipando l’imminente cambiamento demografico, il Paese ha mantenuto attivo nella forza lavoro più del 20% dei suoi ultrasessantacinquenni, rispetto ad appena il 2,9% in Francia.

Gli Stati Uniti si classificano più in basso rispetto al previsto in termini sia di innovazione sia di conoscenze. Scarsi risultati alle scuole superiori di secondo grado e un basso tasso di partecipazione alla forza lavoro indicano che le tecnologie avanzate che gli Usa mettono a punto non sono utilizzate al massimo delle loro potenzialità. Questo è uno dei motivi principali per i quali Trump è stato eletto presidente, e nel contempo è un brutto segno per il benessere futuro dell’America.

Per «fare di nuovo grande l’America», come Trump ha promesso di fare con il suo slogan “Make America Great Again”, la leadership politica dovrà sapere pensare al di là dell’attuale ciclo elettorale. La stessa cosa vale anche per tutte le democrazie occidentali. Malgrado ciò, molti critici hanno iniziato addirittura a dubitare che i policy-maker occidentali siano ancora capaci di pensare a lungo termine.

Costoro, tuttavia, potrebbero avere torto. L’immigrazione, una delle questioni più controverse nei dibattiti politici di questo periodo, è in sostanza una questione a lungo termine. E se negli Stati Uniti gli elettori si sono detti contrari all’apertura [delle frontiere], il Regno Unito promette di restare aperto dopo la Brexit, tranne che per gli immigrati dell’Ue. Altrove, l’apertura è ancora difesa tenacemente.

In Francia, il tema dell’apertura è diventato il terreno di battaglia più scottante in vista delle imminenti elezioni. Le Pen – al pari di Trump e dei sostenitori della Brexit – afferma che l’apertura si è rivelata disastrosa. Ma i suoi due avversari di maggior peso – il centrista indipendente Emmanuel Macron e il repubblicano di centrodestra François Fillon – si dichiarano entrambi favorevoli a una maggiore apertura e alla liberalizzazione dei mercati. Chi prevarrà nella corsa all’Eliseo deciderà la traiettoria non soltanto della Francia, ma dell’Europa intera. La Svizzera, per una volta, è un po’ più che preoccupata.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » gio giu 01, 2017 1:23 pm

???

Merkel: “Germania e Cina espandano la loro partnership”. Pechino: “Sì al libero scambio fra Pechino e Europa”
2017/06/01

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06 ... pa/3628846

Pechino si propone come partner per l'Europa su commercio e rispetto dell'accordo sul clima, vista l'ostilità degli Stati Uniti di Trump sui due ambiti. E la Cancelliera accoglie positivamente l'apertura cinese

Ampliamento della partnership con la Germania, sì al libero scambio con l’Europa e alla salvaguardia delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Come già anticipato alla vigilia del viaggio in Europa e a Berlino, il premier cinese Li Kequiang, in conferenza stampa con Angela Merkel, guarda al Vecchio Continente e si propone come partner alternativo agli Stati Uniti, visto che la linea di Donald Trump è nettamente contro il libero scambio e la protezione degli accordi sul clima di Parigi. E la Cancelliera accoglie positivamente l’apertura di Pechino. “Germania e Cina credono nel libero commercio e dovrebbero espandere la loro partnership”, dice, e Li Kequiang rafforza il concetto: “E’ arrivato il tempo di un accordo di libero scambio fra Cina ed Europa”, aggiungendo i due Paesi “sono pronti a contribuire alla stabilità del mondo”.

Mercoledì il premier cinese Li Kequiang – in Germania per l’incontro annuale tra i due capi di governo – ha chiesto un impegno comune per promuovere la liberalizzazione degli scambi e facilitare gli investimenti. “Di fronte a incertezze globali, sentimenti antiglobalizzazione e crescente protezionismo nel mondo, la Cina e la Germania dovrebbero continuare a promuovere la liberalizzazione degli scambi e facilitare gli investimenti e salvaguardare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio“, ha detto Li durante i colloqui con la Merkel.

E l’altro fronte, oltre a quello commerciale, riguarda l’ambiente. Nello specifico l’accordo di Parigi firmato da Barack Obama nel 2015 e dal quale gli Stati Uniti oggi vogliono sfilarsi. La Cina assicura che continuerà a lavorare con l’Ue al rafforzamento del patto sul climate change e pur non menzionando direttamente gli Usa, la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying ha detto che i cambiamenti climatici sono “una sfida globale” che nessun Paese può ignorare. “Non importa se altri cambiano idea, continueremo a seguire un modello di sviluppo sostenibile”, ha aggiunto Hua, in conferenza stampa quotidiana. Alla domanda sugli scambi avuti da Pechino con Trump sul punto, Hua ha detto che Cina e Usa “hanno tenuto strette comunicazioni a vari livelli”, inclusa la questione del global warming. La Cina è il primo produttore di gas serra, seguita dagli Usa. Il premier Li Keqiang tratterà l’argomento al summit annuale con l’Ue di domani a Bruxelles.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » ven giu 30, 2017 7:05 am

FLAT TAX AL 25%, QUANDO I LIBERALI SPONSORIZZANO LO STATALISMO
di MATTEO CORSINI

https://www.miglioverde.eu/i-liberali-s ... -tax-al-25

I progetti di riforma fiscale ormai non si contano. Generalmente partono tutti con due obiettivi: semplicità ed efficienza, senza scalfire il dogma costituzionale della progressività. La cosa non mi stupisce, ma devo dire che da un think tank che si autodefinisce liberale e si ispira a Bruno Leoni mi sarei aspettato una proposta meno deludente di quella che ho trovato sinteticamente descritta da Nicola Rossi sul Sole 24Ore del 25 giugno.
Il quale, pure, definisce coraggiosa la proposta: “Bisogna trovare il coraggio di cambiare, lasciandosi alle spalle una stagione di politica tributaria la cui cifra è l’assenza di un disegno o, più precisamente, il disinteresse verso un qualsivoglia disegno”.

Ecco allora l’ennesimo progetto per arrivare a una imposizione fiscale ad aliquota unica: “All’Istituto Bruno Leoni abbiamo elaborato una proposta di riforma così sintetizzabile:
(1) una sola aliquota – pari al 25% – per tutte le principali imposte del nostro sistema tributario (Irpef, Ires, Iva, sostitutiva sui redditi da attività finanziarie);
(2) abolizione dell’Irap e dell’Imu;
(3) introduzione di un trasferimento monetario – il “minimo vitale” – differenziato geograficamente, indipendente dalla condizione professionale dei singoli ma non incondizionato e contestuale abolizione della vigente congerie di prestazioni assistenziali o prevalentemente assistenziali;
(4) ridefinizione delle modalità di finanziamento di alcuni servizi pubblici (ed in particolare della sanità) mantenendo fermo il principio della gratuità del servizio per la gran parte dei cittadini ma imputandone, ai soli cittadini più abbienti, il costo (in termini assicurativi) e garantendo loro contestualmente il diritto di rivolgersi al mercato (opting out)”.
In sintesi, un tentativo di semplificazione e una spruzzata, al punto 3, di friedmanismo. La progressività non viene messa minimamente in discussione: semplicemente cambiano i meccanismi (tramite deduzioni o integrazioni) per conseguirla.

Secondo i proponenti si otterrebbero contemporaneamente una riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale: “Sotto il profilo delle grandezze macroeconomiche la proposta ridurrebbe significativamente tanto la pressione fiscale quanto il peso della spesa pubblica sul prodotto: riducendo ambedue di circa 4 punti percentuali a regime. Sotto il solo vincolo (imprescindibile) di effetti nulli sul bilancio dello Stato, sarebbe compatibile con interventi puntuali sul fronte della revisione della spesa di dimensioni praticabili e pari a regime all’1,6% del Pil (ridotti allo 0,6% del Pil nella fase iniziale del progetto la cui compiuta realizzazione sarebbe strettamente dipendente dai risultati dell’attività di revisione della spesa).”
Credo meriti attenzione il fatto che la riduzione della spesa opererebbe per lo più tramite la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia detrazioni e incentivi vari. Questo può ridurre alcuni effetti distorsivi e semplificare il sistema fiscale, ma, di per sé, genera un aumento di tasse a carico di chi beneficia di quelle detrazioni. Credo, quindi, che solo la riduzione di spesa vera e propria possa strutturalmente ridurre il peso dello Stato sull’economia. E se le imposte dirette sarebbero nominalmente in calo, quelle indirette aumenterebbero, e non poco (soprattutto l’IVA).
Rossi assicura che il progetto non “implica un aumento della pressione fiscale oggi (come nel caso di alcune proposte relative al sedicente reddito di cittadinanza) o domani (come nel caso di alcune proposte sulla flat tax che si accompagnerebbero a un aumento dell’indebitamento) ma, al contrario, mira a ridurre significativamente tanto la pressione fiscale quanto il peso della spesa pubblica”.
Ancora: “Una ipotesi di lavoro il cui obbiettivo di fondo è quello di un sistema di imposte e benefici equo, trasparente, semplice e che, senza equivoci e diversamente da come si è fatto negli ultimi vent’anni (con risultati a dir poco deludenti), fa una scelta di campo: la vera riforma della pubblica amministrazione si fa solo attraverso il processo di revisione strategica (e non funzionale) della spesa. Domandandosi che cosa lo Stato debba produrre e come, e non limitandosi a chiedere che faccia un po’ meglio quello che già fa”.
Ecco, magari questa domanda ce la si dovrebbe porre all’inizio e, perché no, rispondere che lo Stato meno fa, meglio è. Ma mi rendo conto che questo sarebbe incompatibile con chi si candida a fare proposte generalmente definite “pragmatiche” e “costruttive”. Magari finendo prima o poi a occupare qualche seggiola di consulente nel sottobosco ministeriale.
Per quanto mi riguarda, credo che Murray Rothbard abbia efficacemente demolito tanto il mito dell’imposta neutrale, quanto quello della flat tax (si vedano “The Mith of Neutral Taxation” e “The Case Against the Flat Tax”, entrambi disponibili su mises.org). Ovviamente Rothbard parte dal presupposto secondo cui la tassazione è un furto. Ho l’impressione che questo non sia lo stesso punto di partenza di chi lavora all’Istituto Bruono Leoni, nonostante il fondatore, in gioventù, si dicesse libertario.
Evidentemente si è reso conto che se si intende campare diffondendo idee, il libertarismo non paga. Peccato.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » ven lug 14, 2017 9:31 pm

???

Perché il capitale odia i confini
luglio 14, 2017 Diego Fusaro

Fondativa della civiltà capitalistica, la norma metafisica dell’illimitatezza si dispiega come abbattimento di ogni limite reale e immateriale

http://www.tempi.it/perche-il-capitale- ... WkbJun-ujJ

Il superamento delle frontiere, salutato come fisiologicamente positivo da quanti hanno fatto loro la prospettiva della global class mondialista, risulta funzionale al capitale non solo perché abbatte ogni confine invalicabile (e, dunque, fa sì che non sopravviva uno spazio non ancora sussunto sotto le sue dinamiche), ma anche per un’altra ragione: se, come sappiamo, le frontiere sono, a un tempo, storiche e geografiche, poiché in esse è custodita la storia dei popoli e il loro radicamento, non stupisce che la marcia del capitale le travolga, rimuovendo la dimensione storica, culturale, plurale e territoriale dei popoli.

Coerente con l’open space della mondializzazione, l’abbattimento delle frontiere e dei confini si pone, dunque, in pari tempo come un momento di unificazione planetaria del campo economico e di distruzione programmata della potenza etica degli Stati sovrani ancora in grado di governare e regolamentare l’economia. La metafisica dell’illimitatezza propria del capitale si ridispone, sul piano geopolitico, come pratica dello sconfinamento permanente: ogni confine viene oltrepassato, affinché si annulli ogni linea divisoria tra ciò che è interno e ciò che è esterno rispetto all’ordine capitalistico mondializzato. Sul piano simbolico, la prassi dello sconfinamento capitalistico è legittimata mediante la subcultura della narrativa no border e la convergente demonizzazione integrale dell’idea stessa di confine, presentato dalle Sinistre del Costume (sovrastruttura ideologica delle Destra del Danaro) come inevitabilmente autoritario ed escludente, nella rimozione integrale della sua valenza protettiva di difesa dei diritti rispetto all’offensiva della violenza mondialistica.

La desovranizzazione richiede necessariamente l’abbattimento dei confini e delle frontiere, di modo che sia, eo ipso, annullata la possibilità politica di intervento nei territori e si imponga un modello unico indistinto, senza barriere reali o simboliche. Per poter agire, la politica necessita sempre di una sovranità limitata nello spazio e, dunque, di un territorio con precisi confini in cui essere radicata.

Il mercato unico e il modello unico di esistenza e di pensiero sono le due facce del medesimo processo di globalizzazione come disarticolazione del diritto alla differenza e come simultaneo dispiegamento globale dell’inautentico e del medesimo. In essi si esprime la pulsione globalista verso l’indifferenziato senza limitazioni, verso l’annichilimento di tutto ciò che ancora non sia affine rispetto al mercato e alla sua antropologia.

Il sistema finanziario assoluto deve, di conseguenza, porsi necessariamente come sans frontières, perché il mondo intero senza esclusioni deve essere sussunto sotto il suo regime di produzione, di esistenza e di pensiero: l’inclusione assoluta procede di conserva con la neutralizzazione assoluta di tutto ciò che non sia ancora inglobato o, più precisamente, “inglobalizzato”, cioè ricondotto entro l’ordine spoliticizzato del mercato unico planetario senza confini che lo separino da una eventuale esteriorità. L’aspirazione del capitale è la creazione di a single market without barriers – visible or invisible, «un mercato unico aperto e senza barriere, visibili e invisibili» (parola di Margaret Thatcher, 18 aprile 1988). Fondativa della civiltà capitalistica, la norma metafisica dell’illimitatezza si dispiega in concreto come attivo abbattimento di ogni limite reale e immateriale: abbattimento che, di fatto, secondo le coordinate linguistiche del nuovo ordine simbolico, viene identificato con il “progresso”.

Un sistema apolide e planetario
Secondo questa chiave ermeneutica, può essere oggi inquadrata concettualmente l’ossessione neo-edonistica e liberal-libertaria per l’apertura di ogni frontiera materiale e immateriale e per la violazione di ogni misura reale e simbolica: è quella che potrebbe intendersi come l’ideologia dell’apertura permanente dell’open society, con il suo peculiare sfondamento di ogni frontiera nazionale, etica, religiosa, morale come limite alla competitività globale del free market e alla mobilità universale delle delocalizzazioni e del dumping salariale sempre a detrimento della manodopera planetaria.

La manipolazione organizzata pubblicitaria, ancora una volta, legittima e glorifica questa tendenza allo sconfinamento, che per i dannati della mondializzazione è una sciagura, presentandola come un nuovo lifestyle suadente e liberatorio: la liberazione e lo sconfinamento del capitale finanziario, l’abbattimento di ogni frontiera materiale e immateriale per la civiltà dei consumi, nei cui spazi tutto deve essere possibile sotto forma di merce, viene falsamente generalizzata come chance entusiasmante anche per coloro che ne subiscono soltanto le conseguenze più esiziali.

È in questo scenario di ordinaria alienazione postmoderna che si spiega, tra le tante, la campagna pubblicitaria lanciata nel 2017 da una nota marca di birre mediante il conio del neologismo anglofono desfronterizate: «Rimuovere le frontiere» – il sogno realizzato del capitale apolide e planetario – diventava il nuovo slogan delle masse manipolate e quotidianamente esortate alla gaudente accettazione della propria servitù.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » mer set 20, 2017 7:25 am

Ryanair voli cancellati, la protesta degli equipaggi
Leonard Berberi
Milano, 18 settembre 2017

http://www.corriere.it/cronache/17_sett ... H_facebook

Per il sindacato irlandese sono andati via almeno 700 piloti. I dipendenti lamentano le condizioni di lavoro. La compagnia irlandese smentisce: facciamo come le altre
La lista dei prodotti da vendere per ogni volo La lista dei prodotti da vendere per ogni volo

Per la Ialpa, l’associazione dei piloti irlandesi, soltanto nell’ultimo anno finanziario hanno lasciato Ryanair 700 piloti. A cui andrebbero aggiunti altri 150, dimessi tra la primavera e l’estate per andare al comando dei velivoli di Norwegian Air, easyJet, i gruppi Iag (British Airways, Iberia, Aer Lingus, Vueling) e Lufthansa. «Per non parlare degli assistenti di volo, fuggiti pure loro, viste le condizioni di lavoro», raccontano al Corriere della Sera una mezza dozzina di dipendenti della low cost tra comandanti, hostess e steward. Sono giorni difficili per Ryanair, la compagnia aerea numero uno in Europa per passeggeri trasportati, tanto da costringere l’ad Michael O’Leary a rinviare una conferenza stampa prevista oggi all’aeroporto di Malpensa. Venerdì sera la low cost ha comunicato che per far aumentare il tasso di puntualità dei collegamenti («sceso sotto l’80%») e per «un’errata valutazione dei riposi che spettano ai piloti» è costretta a tagliare circa duemila voli.


«Verso altri vettori»

«Ma quali calcoli sbagliati, la verità è che noi piloti ce ne stiamo andando in compagnie dove si lavora meglio», racconta uno di loro. La compagnia smentisce la «fuga». Sostiene di essere stata in grado — «nel periodo di picco, quello estivo» — di operare senza alcun problema. Anche richiamando qualcuno in ferie. L’intoppo si starebbe verificando, secondo Dublino, «anche perché dobbiamo passare dal calendario nostro che partiva il 1° aprile e finiva il 31 marzo successivo a quello gregoriano (1° gennaio-31 dicembre, ndr)». «Questo tipo di problema non si ripeterà nel 2018», assicura il vettore. Di certo, in un memo del 13 settembre inviato a comandanti e primi ufficiali — e ottenuto dal Corriere — il capo delle operazioni Michael Hickey spiega che «la disponibilità di piloti diminuirà col passare dei mesi, fino a dicembre».


Ryanair cancella oltre 2.000 voli, che succede ai passeggeri? Cosa c’è da sapere e quali sono i diritti
Cosa ha deciso Ryanair?


Le condizioni di lavoro

Al centro della questione ci sarebbero le condizioni di lavoro. Hostess e steward «sono pagati a ora effettiva di volo, circa 16-17 euro», dice uno di loro. «Non c’è un minimo, molto dipende dal fatto se si viene assegnati o no a un viaggio. Altrimenti sei reperibile a casa, a costo zero, oppure nello scalo per nove ore e pagato 35 euro». Una situazione, ricostruiscono, diventata critica un paio di mesi fa. In una comunicazione confidenziale dell’11 luglio, indirizzata a O’Leary, l’intera base di Francoforte chiedeva un aumento di 3.600 euro l’anno «per far fronte alle spese quotidiane, impossibili con l’attuale retribuzione».


La lista dei prodotti

Poi c’è l’aspetto delle vendite a bordo. «Tutti gli equipaggi devono far acquistare almeno un profumo per assistente di volo e 8 gratta e vinci», ricorda una nota del 20 marzo. «Le vendite saranno monitorate attentamente e quelli che non raggiungono l’obiettivo dovranno spiegare il perché». Non solo. «Le malattie, per esempio, non ci vengono pagate», racconta uno steward. Cosa che non succede con i piloti. Che però, se dovessero starsene a casa per cinque giorni — perché non in condizioni di lavorare — «vengono convocati a Dublino per renderne conto», denunciano due di loro.


La replica da Dublino

«Abbiamo più di 4.200 comandanti e primi ufficiali, queste sono voci del tutto fasulle», replica al Corriere Robin Kiely, capo della comunicazione di Ryanair. «Loro godono di ottime condizioni lavorative, compreso l’accordo quinquennale che prevede l’aumento di salario, motivo per cui abbiamo oltre 3.000 piloti che aspettano di entrare in Ryanair mentre altrove devono affrontare i tagli». Quanto alle condizioni contrattuali Kiely precisa che la compagnia assume sia direttamente che attraverso agenzie specializzate «proprio come fanno le altre».
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » gio nov 23, 2017 7:00 am

I nuovi parassiti


LA BEATA IGNORANZA DI LUIGI DI MAIO
di MATTEO CORSINI
22/11/2017

https://www.miglioverde.eu/la-beata-ign ... luigi-maio

Durante la sua recente visita negli Stati Uniti, Luigi Di Maio ha detto di ispirarsi alla (ipotetica) riforma fiscale di Trump. Quanto alle tasse “sarà una riduzione significativa”, ha detto. Di riduzioni significative ci sarebbe indubbiamente bisogno, ma la modalità di finanziamento della riduzione in questione non farebbe altro che portare nel baratro i già scassati conti pubblici. Afferma Di Maio, infatti: “Penso a una manovra shock per abbassare le imposte sulle imprese attingendo anche a risorse in deficit”. E, per quanto possa apparire controintuitivo, il deficit è visto come via per ridurre il debito: “Il debito pubblico macina record su record: noi diciamo che per riuscire a invertire la tendenza serve fare deficit per ripagare il debito con investimenti produttivi”.
Evidentemente questa è una fissazione della versione pentastellata del keynesismo. Già pochi giorni fa ho avuto modo di commentare l’idea di ridurre il debito mediante l’introduzione del reddito di cittadinanza. Operazione che aumenterebbe la spesa di 17 miliardi ma, grazie all’incremento del Pil potenziale e, quindi, dell’output gap, darebbe all’Italia la possibilità di fare più deficit, dal quale dovrebbe derivare, con una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci, un incremento di Pil e gettito fiscale tali da ridurre il rapporto tra debito e Pil.
Anche nel caso in questione pare funzionare lo stesso ragionamento: un taglio delle tasse in deficit dovrebbe spingere Pil e gettito fiscale, con conseguente miglioramento dei conti pubblici. Purtroppo le cose non funzionerebbero come prospettato da Di Maio e colleghi. Se non si trattasse di favole, l’Italia dagli anni Settanta del secolo scorso in poi avrebbe accumulato molto più Pil che debito. Purtroppo si è verificato l’esatto contrario.
L’unica via per abbassare strutturalmente le tasse, a maggior ragione partendo da un debito pubblico superiore al 130% del Pil, consiste nel ridurre altrettanto strutturalmente la spesa pubblica. Chiunque prometta di risolvere i problemi con un taglio di tasse in deficit o è in malafede, oppure non sa di cosa parla.
Nel caso di Di Maio e colleghi propenderei per la seconda ipotesi, anche se, tra chi li consiglia in materia, probabilmente ci sono persone in malafede. Pensare che circa un terzo dei votanti pare intenda affidarsi a questi signori mi pare agghiacciante.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » ven gen 19, 2018 9:30 pm

???

Germania, surplus commerciale al 9%. Limite Ue al 6%

http://www.affaritaliani.it/affari-euro ... refresh_ce

Surplus commerciale, balzo della Germania

Con malcelato orgoglio questa mattina i giornali tedeschi titolavano: "Campioni dell'export". Giá, perché nel 2016 la Repubblica federale tedesca ha raggiunto un surplus commerciale pari a 297 miliardi di dollari, quasi il 9% del Prodotto interno lordo. Un anno da record per Berlino che con queste performance straccia anche la Cina, considerata fino ad oggi la vera fabbrica del mondo.

Surplus commerciale, Germania prima al mondo

"La bilancia delle partite correnti segna un'eccedenza di 297 miliardi di dollari", ha dichiarato l'esperto dell'Ifo Christian Grimme alla Reuters, "la Repubblica popolare occupa il secondo posto con 245 miliardi di dollari". Ancora nel 2015 le parti erano invertite, con la Cina al primo posto seguita dalla Germania, mentre il terzo posto é occupato dal Giappone.

Da Bruxelles un alert: limite del surplus al 6%

Bravi i tedeschi, dunque, che dimostrano come puntando su ricerca e lavorazioni ad alto valore aggiunto si possa avere una economia florida. Ma le straordinarie performance teutoniche hanno sollevato non pochi malumori tra le capitali europee, soprattutto quelle mediterranee. Giá, perché se il Trattato di Maastricht impone ai Paesi della zona euro di non superare il deficit del 3% e un debito pubblico del 60%, impongono anche di non aver un surplus commerciale piú elevato del 6% per tre anni di seguito.

Surplus troppo elevati sono causa di instabilitá

La motivazione é semplice. Quando si esporta si crea un disequilibrio nella bilancia commerciale di un altro Paese. Se la Germania vende i suoi prodotti all'estero ci saranno Paesi che importeranno piú di quanto esportano e alla lunga questa situazione é dannosa per tutti. Ecco dunque la ragione del limite al 6%.

In molti chiedono un intervento Ue sulla Germania

Sono molti i leader europei che ora si aspettano che la Commissione europea intervenga, formalmente, per chiedere alla Germania misure che riducano lo squilibrio. Come fare? Ad esempio incentivando i consumi. Bruxelles su questo nicchia. Primo, perché sanzionare un Paese perché fa troppo bene sembra a molti un controsenso, anche se sancito dai trattati. Secondo, perché per Berlino 'lampeggia' un solo indicatore, l'export appunto, mentre per Paesi come l'Italia sono molti di piú: deficit, debito, produttivitá, ecccc.

Bruxelles verso un passo formale

Eppure i bene informati affermano che una letterina da Bruxelles potrebbe anche arrivare. Una pura formalità, giusto per ricordare a Berlino di non essere intoccabile e accontentare in questo modo i Paesi mediterranei che soffrono del complesso degli eterni Calimero.

Berlino si giustifica: export fuori dall'EU

Ma la Merkel ha giá la risposta pronta ad una eventuale lettera di Bruxelles. Se infatti il limite del 6% é stato introdotto per tutelare gli Stati Ue, Berlino puó dirsi al sicuro. Infatti il suo export va principalmente al di fuori dell'eurozona: in Gran Bretagna, negli Usa e in Cina.


Gino Quarelo

Il 6% vale per l'esportazioni all'interno della UE e non per quelle fuori UE

Berlino si giustifica: export fuori dall'EU

Ma la Merkel ha giá la risposta pronta ad una eventuale lettera di Bruxelles. Se infatti il limite del 6% é stato introdotto per tutelare gli Stati Ue, Berlino puó dirsi al sicuro. Infatti il suo export va principalmente al di fuori dell'eurozona: in Gran Bretagna, negli Usa e in Cina.






Il demente Blondet

Bundesbank: “Salari bassi in Germania? Colpa dei migranti europei”. Esempi di europeismo.
Maurizio Blondet 19 gennaio 2018

https://www.maurizioblondet.it/bundesba ... europeismo

Come abbiamo riportato,

la Germania nel 2017 ha di nuovo registrato il più grosso attivo del mondo nell’export: 287 miliardi di dollari. Il secondo massimo esportatore, la Cina, ha un attivo meno della metà, 135 miliardi di dollari. Ed è la seconda volta di seguito che Berlino ha questo colossale attivo. Questa eccedenza (7,6% sul Pil) è enormemente squilibrata anche per le “regole” UE: non dovrebbe superare il 3%, misura poi portata al 6% perché la Germania è più uguale degli altri nella Fattoria. Ciò, sarebbe in base alla stessa “regola” per cui all’Italia si impone non sforare il deficit sul Pil del 3%. A noi, aspri rimproveri e avvertimenti minacciosi, anche se da un decennio stiamo (come pecore) dentro il 3%; con la Germania, la UE chiude un occhio. Anzi due.

Ma evidentemente, qualche voce tedesca si è levata a porre il problema: come mai, con questo enorme attivo, i salari germanici sono così bassi? Non sarebbe ora di aumentarli?

Ed ecco la risposta del noto Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank: “L’immigrazione da altri stati membri della UE è in parte responsabile della pressione sottotono (sic) dei salari in Germania”. Capito? Colpa degli immigranti. E non di quelli asiatico-africani che la Merkel ha chiamato a milioni, no: la colpa è degli stranieri europei, i bianchi polacchi, ucraini, italiani, spagnoli, che accettano salari bassi – per cui è colpa loro se paghiamo poco voi tedeschi.

Questo è l’ “europeismo” vigente a Berlino. Mi raccomando, votate “Più Europa”.

Weidmann ha anche difeso le eccedenze mostruose della bilancia commerciale tedesca: “non si può vedere il surplus tedesco isolato, ma bisogna considerare la zona euro nel suo insieme, la cui bilancia commerciale accumulata è molto lontana dal surplus tedesco. Il marcato aumento del recente avanzo è stato causato dai bassi prezzi del petrolio e delle materie prime e dall’euro relativamente debole. Inoltre, l’aumento dell’eccedenza riflette la politica monetaria molto allentata nell’area dell’euro”.

Provo a tradurre: per Weidmann, anche il surplus tedesco è colpa degli altri europei: importano troppi beni tedeschi; fanno allegramente deficit, i farabutti; e comprano a man bassa le nostre merci, questi disonesti, perché la BCE fornisce loro denaro sottovalutato.

Ovviamente i salari bassi, e quelli bassissimi di cui si contentano i 2,7 milioni di lavoratori “stranieri” (ossia della UE) sono una delle ragioni dell’eccessivo attivo all’export tedesco. Ma state tranquilli, lavoratori di Germania, Berlino non ve li aumenterà; anche perché ne godrebbero anche i 2,7 milioni di “stranieri”.

E per proseguire nell’invito di “Più Europa”:
La UE ha chiesto a Draghi di uscire dalla lobby bancaria.

“È ora che il presidente della BCE lasci il G30. L’indipendenza della BCE è a rischio se continua ad essere un membro fisso di forum non trasparenti con i leader della finanza mondiale”: ha parlato chiaro l’eurodeputato Sven Giegold, un verde tedesco. Così apprendiamo che Mario Draghi, il venerato maestro degli europeisti, partecipa alle riunioni del Gruppo dei Trenta, la superlobby bancaria – una lobby che si riunisce a porte chiuse per far pressione sulla Kommissione UE – e che comprende anche le banche attualmente sotto la supervisione diretta della BCE.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » mar feb 20, 2018 8:14 pm

ECCO QUANTO HA RUBATO LA FAMIGLIA AGNELLI IN 100 ANNI AGLI ITALIANI!
La verità di Ninco Nanco
Come gli Agnelli hanno rapinato l’Italia lungo un intero secolo
Articolo di Marx21

http://laveritadininconaco.altervista.o ... i-italiani

Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l’Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi.
È una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare – alla luce dell’ultimo blitz di Marchionne – tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent’anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt’oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli.
Nel suo libro – “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli – Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell’ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988».
Nero su bianco, tutto “regolare”. Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, “piani di sviluppo” così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell’imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione.
E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave “meridionalistica”) in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce “conto capitale”. Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge – allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all’epoca del 40% del mercato – sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell’Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all’indirizzo dell’Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi.
Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altisssimo è poi quello che va sotto la voce”ammortizzatori sociali”, un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione – scrive sempre Mucchetti nel libro citato – Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l’uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell’integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l’onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su “Proteo”, Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l’appropriato titolo”Cent’anni di improntitudine.

Ascesa e caduta della Fiat”. Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di Motori per navi e sopratutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l’anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli “scioperi impulsivi”; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l’industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell’interventismo. I profitti (anzi, i “sovraprofitti di guerra”, come si disse all’epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell’80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila.

«Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del ’22 un collaborativo Agnelli batte le Mani al “Programma economico del Partito Fascista”; nel ’23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel ’24 approva il “listone” e non lesina finanziamenti agli squadristi.

Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l’importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel ’31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il “sistema Bedaux”, cioè il “controllo cronometrico del lavoro”: ottimo per l’intensificazione dei ritmi e ia congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E’ infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l’Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia – scrive Giacché – fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». Fiat brava gente. L’Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo “posto”. Nel ’47 risulta essere praticamente l’unica destinataria dell’appena nato “Fondo per l’industria meccanica”; e l’anno dopo, il fatidico ’48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere… E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 7:36 am

Sui dazi

Ci sono i leoni da tastiera che hanno letto qualche riga dei libri di qualche economista liberale, che dicono no ai dazi, senza se e senza ma, senza capire che il dazio è soprattutto un'arma contrattuale tra gli Stati.
E poi ci sono i protagonisti della politica internazionale, che si sporcano le mani, perché non è un gioco da ragazzi...


https://www.facebook.com/groups/8991042 ... 4707457547

Scrive Jaime Manca Graziadei:

"Allora c'è qualcuno che racconta i fatti come sono.
Chiarissimo questo articolo di Maurizio Molinari su La Stampa di oggi. Un direttore che ha coraggio in un'Italia che è pronta a vendersi al miglior offerente.
"Lo stile «transactional» di Trump nella guida della Casa Bianca comincia ad avere dei risultati concreti, suggerendo ad avversari e alleati la necessità di confrontarsi con un nuovo modo di declinare il ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale.
Per Michael Wolff, autore del best seller «Fire and Fury» frutto di lunghe settimane passate nella West Wing, «transactional» significa «agire sulla base della volontà di fare qualcosa per ottenere sempre qualcosa in cambio, in tempi stretti». Ovvero, la presidenza come strumento di continue e aspre «transazioni» con chiunque, sempre, nell’interesse degli Usa.
È una versione della diplomazia come strumento della teoria «America First» che si è vista con chiarezza in azione nei confronti della Cina di Xi in occasione della scelta di imporre dazi per almeno 60 miliardi di dollari sull’importazione di circa mille prodotti al fine di proteggere le industrie nazionali più minacciate dalla concorrenza di Pechino. Per gli elettori degli Stati del Mid West e degli Appalachi, decisivi per la conquista della presidenza nel 2016, significa che Trump sta mantenendo l’impegno di ridurre drasticamente l’impatto del «made in China» sulla perdita dei posti di lavoro nel ceto medio vittima delle diseguaglianze economiche.
Trump ha interesse ad esaltare questo braccio di ferro con Pechino in vista delle elezioni di Midterm per il rinnovo del Congresso di Washington in novembre nel tentativo di mobilitare la base del suo movimento per scongiurare un cambio di maggioranza a favore dei democratici. Ma c’è dell’altro, perché la coincidenza fra i dazi alla Cina e la decisione del despota nordcoreano Kim Jong-un di accettare un incontro con Trump e sospendere i test nucleari ha consolidato alla Casa Bianca la convinzione che solo esercitando forti - e pubbliche - pressioni su Pechino si riesce a spingere Xi ad ottenere reali concessioni da Pyongyang.
Sono queste le «transazioni» che distinguono l’approccio di Trump alle relazioni internazionali ed hanno poco a che fare con l’arte della diplomazia tradizionale, perché il braccio di ferro non avviene nel riserbo, affidato ad incontri segreti e sherpa, ma si svolge sotto gli occhi di tutti - anche su Twitter - al fine di renderlo più efficace, dirompente.
La dimensione pubblica - quasi televisiva - della diplomazia «transactional» serve a moltiplicare l’impatto politico della concessione ottenuta. Fa parte di quella che Trump definisce «the art of deal», l’arte dell’accordo. Si spiega così anche l’approccio con gli alleati europei - a cominciare dai tedeschi - sui dazi: hanno l’opportunità di evitarli ma devono spendere di più per la difese nella cornice della Nato, da oltre mezzo secolo troppo dipendente dai contribuenti americani.
E si spiega con tale approccio «transactional» anche il rimpasto avvenuto nell’amministrazione con la sostituzione di Rex Tillerson con Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e di H.R. McMaster con John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale: ad avanzare sono due avversari dichiarati dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015, perché Trump non lo vuole solo modificare bensì stracciare. L’eloquente messaggio ha tre destinatari: Teheran, per far capire agli ayatollah che la stagione delle concessioni di Barack Obama è davvero finita; Bruxelles, per spingere gli alleati europei ad un approccio diverso all’Iran entro il 12 maggio quando Trump annuncerà la decisione sull’intesa del 2015; Riad e Gerusalemme, per rassicurare gli alleati in Medio Oriente sulla volontà di proteggerli dalle crescenti minacce strategiche iraniane.
Ciò che tiene assieme tante e tali mosse è la volontà del presidente Trump di ingaggiare palesi, determinati e mediatici bracci di ferro con gli avversari dell’America: la Cina sul fronte del libero mercato, la Nord Corea e l’Iran su quello della sicurezza.
Nell’intento di ottenere da loro concessioni talmente evidenti da essere percepite dai singoli cittadini che lo hanno eletto. Resta da vedere come Trump declinerà tale approccio nei confronti della Russia, un aggressivo rivale nei confronti del quale ha tentato un approccio più dialogante ma, visti gli scarsi risultati dalla Siria al cyberspazio, sta ora ripensando la strategia. Assieme a Pompeo, Bolton e alla terza protagonista della sua politica di sicurezza: l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley.""
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