Protezionismo economico europeoUnione Europea: Protezionismo contro 5 Paesi latinoamericani12/11/2012
Porte chiuse al Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela
https://cambiailmondo.org/2012/11/12/un ... oamericaniL’Unione Europea (UE), ha escluso 89 Parsi dal sistema di “preferenze generallizzate” (SPG). Dal 1 dicembre del 2014, con una decisione di evidente carattere protezionista, l’UE chiude il suo spazio ai prodotti provenienti dal Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela perchè -a suo giudizio- sarebbero economie emergenti, ormai chiaramente emergenti. Si tratta di una mezza verità, applicabile ad alcuni di questi Paesi sudamericani, però sorprende non poco -per esempio- che l’economia cubana,costantemente fatta segno di accuse di “ritardo e sottosviluppo”, in questa risoluzione venga accomunata a quelle emergenti.
Il venezuelano Rodrigo Cabeza, presidente del Parlamento latinoamericano, ha detto che la grave crisi in cui versa l’Europa la sta sospingendo verso il “..ritorno a politiche protezioniste dei mercati”. L’accordo SPG permetteva l’accesso di manufatti e prodotti agricoli a 176 Paesi in via di sviluppo.
La sterzata protezionista in corso nell’UE, viene vista da altri osservatori, come una “risposta politica” contro i governi di quei Paesi che ” hanno deciso politiche per difendere la sovranità e l’indipendenza”. Brasile, Argentina, Uruguay e Venezuela sono diretti da governi di sinistra che hanno messo dei paletti evidenti al FMI e Banca Mondiale. “Bisogna rispondere con forza” dice Xoan Noya “l’UE sappia che non rimarremo con le mani in mano”.
Industriali europei in piazza: “vogliamo il protezionismo”di Redazione Contropiano
http://contropiano.org/news/news-econom ... smo-034947Finalmente l’industria europea ha trovato la ragione della propria crisi: la Cina. Ci ha messo un quarto di secolo, non si è mai interrogata sul prpriopercorso e le strategie, sulla delocalizzaione futibonda o almeno sulla riscrittura delle filiere produttive in funzione del complesso tedesco.. Ma alla fine ha trovato un bersaglio comodo, lontano, “popolare”, su cui scaricare tutta la propria paura.
Domani a Bruxelles ci sarà un’inedita manifestazione di industriali, supportati da funzionari dei sindacati complici, che presumibilmente dovrebbero avere qualche competenza in più nella gestione della piazza.
Cosa chiedono? Protezionismo, ovviamente. Il contrario della liberalizzazione dei commerci. Ovvero la fine della globalizzazione anche da punto di vista ideologico, oltre che – prima di tutto – su quello brutalmente economico. Vogliono che l’Unione Europea e gli stati nazionali mettano dazi più alti sulle merci cinesi (e ditutti gli altri paesi emergenti), in misura tale da renderle non competitive rispetto a quelle europee.
Non stiamo parlando di “cineserie”, di quella paccottiglia di tutto un po’ che possamo trovare dappertutto, a cominciare dai negozietti gestiti da cinesi nelle metropoli europee. L’industria principale che si sente sotto assedio è quella dell’acciaio, mica quelle delle cover per smatphone. Accusa la Cina di avere una “sovracapacità produttiva” di ben 400 milioni di tonnellate, più del doppio dell’intera produzione nell’Ue. Il rallentamento dell’economia del Celeste Impero ha ristretto quel mercato interno, ma l’acciaio continua a uscire dagli altoforni di Pechino. Dunque preme per trovare altri sbocchi. Ha un serio vantaggio competitivo, in termini di costo (circa il 40% in meno), anche perché come qualità non ha più molto da invidiare alla produzione europea.
Fin qui la Ue ha imposto solo un dazio provvisorio antidumping, come se la Cina stesse vendendo sottocosto solo per conquistare mercati ed eliminare la concorrenza, sulle barre e in tondini da costruzioni. È seguita, solo due giorni fa, l’identica decisione per quanto riguarda i laminati piani a freddo (anche per quelli russi), accompagnata dall’apertura di un’indagine antidumping su altri manufatti d’acciaio. La tendenza è dunque chiara: proteggere l’acciaio prodotto sul Vecchio Continente, ovviamente a un costo più alto.
I sette paesi europei più esposti in questo settore – Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo e Polonia – si sono già accordati per portare la domanda di protezionismo sull’acciaio all’attenzione della Commissione guidata da Juncker. Il vicepresidente italiano del Parlamento europeo, il residuato berlusconiano Antonio Tajani, sarà presente alla manifestazione, garantendo così un deciso supporto istituzionale alla richiesta.
Contemporaneamente l’ndustria continentale preme perché alla Cina non sia concesso il riconoscimento di “economia di mercato”, che renderebbe difficile – se non impossibile – l’applicazione di dazi protettivi su una grande quantità di settori merceologici. Dopo l’acciaio, infatti, il settore più a rischio risulta essere quello della ceramica.
Il coinvolgimento dei sindacati complici (nonché delle cosiddette Ong) è particolarmente odioso, perché punta a indirizzare altrove – sulla Cina, appunto – le conseguenze sull’occupazione di molti anni di auterità decisa dalla Troika e accolta con grande convinzione da parte degli industriali europei, che hanno guardato soltanto alla compressione dei salari e all’eliminazione delle tutele per il lavoro.
Ma per i capitalisti singoli la cecità è d’obbligo. Tutto va bene finché ottengono quel che ritengono un vantaggio per sé quindi viva la globalizzazione e la minimizzazione del ruolo dello Stato, quando ha permesso loro di delocalizzare verso paesi meno sviluppati e con salari ridicoli. Ma quando il “grande successo” della deindustrializzaione si rovescia nel suo contrario – ossia nel vero e proprio suicidio industriale di un continente – eccoli riscoprire le virtù dello Stato. Quello del protezionismo e della guerra commerciale. Che prepara tutte le altre.
Non solo il Ttip, l'Ue avalla il protezionismo anche nel settore alimentareLa Commissione europea dà il via libera all'obbligo di etichettatura del paese di origine di carne e latte nei prodotti lavorati. L'industria insorge: "Così si incrinano il mercato unico e il libero scambio". Il caso di Francia, Italia e Romania
Luca Gambardella
http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/09/0 ... are-103477Roma. “Era successo con gli Ogm e con il glifosato, ora con l’obbligo di etichettatura del paese di origine: quando si tratta di prendere alcune decisioni sensibili, la Commissione europea si tira indietro”. Dario Dongo è un esperto di diritto alimentare europeo e fondatore di Food and Agriculture Requirements, sostenitore del diritto dei consumatori a conoscere da dove provengono gli ingredienti dei prodotti che ogni giorno finiscono sulle tavole di circa 500 milioni di cittadini europei. Quello alimentare è uno dei settori in cui l’Ue ha raggiunto un elevato livello di armonizzazione legislativa. Ma la crisi economica ha avuto effetti drammatici per i piccoli e medi produttori agro-alimentari europei e l’ultimo anno si è concluso con un bilancio negativo dal loro punto di vista: fine delle quote latte e prezzi bassi. Così, per sostenere il settore, molti stati ricorrono a soluzioni cripto protezionistiche, avallate proprio dal garante dell’integrità del mercato libero tra i 28: la Commissione Ue.
Ad aprire le danze, lo scorso luglio, è stato il ministro della Salute francese, Stéphane Le Foll, messo sotto pressione dai dati forniti da un istituto di ricerca (Invs) che ha calcolato 200 suicidi l’anno tra allevatori e coltivatori colpiti dalla crisi. Parigi ha annunciato di aver ricevuto luce verde da Bruxelles per l’obbligo, e non più la sola possibilità, dell’indicazione del paese di origine di latte e carne usati come ingredienti nei prodotti lavorati. Per intenderci, il latte, o le lasagne surgelate francesi saranno tra i prodotti che dovranno avere un’etichetta che indicherà da quale paese provengono latte e carne. “Il provvedimento risponde al diritto all’informazione del consumatore e a una Risoluzione dell’Europarlamento del 2015 in cui si invitava la Commissione a prendere un’iniziativa condivisa”, dice Dongo. Ma la richiesta francese manca di documenti essenziali: secondo le procedure, il governo avrebbe dovuto provare che la qualità del prodotto finito dipende dall’origine degli ingredienti. E ancora, che i consumatori siano in grado di riconoscere questo miglioramento della qualità. “Nessuna delle due documentazioni è stata presentata ma, evidentemente, la Commissione ha deciso di soprassedere su queste irregolarità procedurali”, spiega Dongo.
Ma le federazioni europee dell’industria alimentare sostengono che la misura mette in pericolo il mercato unico europeo e provocherà un aumento dei costi di produzione. Seguendo il precedente francese, Italia, Lituania, Romania e Portogallo hanno sottoposto a Bruxelles testi di legge analoghi. Alcune industrie del settore agro-alimentare contestano alla Commissione di avallare un’Europa “a doppia velocità”: “Accettando questo progetto la Commissione afferma che c’è una differenza qualitativa fra i prodotti francesi e, per esempio, quelli del Belgio, della Germania, dell’Italia, della Spagna, anche se provengono da appena qualche chilometro oltre i confini tra uno stato e l’altro”, ha detto Mella Frewen, direttore di FoodDrinkEurope, lobby europea del settore. La Commissione europea non ha voluto commentare il caso francese e le sue anomalie e la Direzione generale per la salute dei consumatori si è limitata a spiegare che Parigi avrebbe condotto uno studio di impatto sul mercato al termine di un periodo di prova di due anni.
Così, dopo la Francia, ora è il turno dell’Italia, che lo scorso 24 giugno ha presentato alla Commissione europea la prima versione di una bozza di decreto simile a quello francese, limitato però ai prodotti caseari. “E’ un passo storico per i produttori italiani”, aveva annunciato il presidente del Consiglio Matteo Renzi qualche settimana fa, sostenuto dalle associazioni dei consumatori come Coldiretti, che invitavano il governo a prendere spunto dall’iniziativa francese. “Dobbiamo dare una risposta a quel 96,5 per cento di cittadini che ha partecipato alla consultazione pubblica sul sito del ministero delle Politiche agricole” (Mipaaf), ha detto il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvi. Per dare maggior peso al decreto sottoposto a Bruxelles, il Mipaaf ha invitato chi volesse a votare sul suo sito sull’obbligo dell’etichettatura del paese di origine. Una maggioranza schiacciante si è espressa favorevolmente, sebbene il sistema mostrasse alcune anomalie e permettesse allo stesso singolo utente di votare più di una volta. “Il diritto all’informazione del consumatore non deve certo essere in contrasto con l’armonizzazione del mercato”, dice al Foglio Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, l’associazione italiana dell’industria alimentare. “Per questo abbiamo chiesto che gli sforzi di Commissione e stati membri si concentrassero sull’indicazione di origine dell’ingrediente primario – obbligatoria solo quando viene pubblicizzata l’origine dell’alimento lavorato, per esempio la farina nel caso della ‘pasta italiana’, ndr – dando informazioni trasparenti e senza discriminazioni”. L’industria imputa scarsa coerenza alla Commissione. Solo lo scorso 12 luglio il commissario per la Salute e la Sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, aveva ammesso che misure come quella francese avrebbero portato a un aumento dei costi di produzione e che “da tutti i report risulta la mancanza di volontà dei consumatori di spendere di più per avere più informazioni”.
Il vaso di Pandora scoperchiato ora dalla Commissione ha innescato un effetto contagio. “Il trionfo dell’euroscetticismo, la Brexit, sono fattori che stanno spaccando l’Ue dando mano libera alle legislazioni nazionali”, dice Dongo che avrebbe preferito una legislazione uniforme in materia. La Romania, senza avvisare Bruxelles, ha già emanato una legge che, oltre a chiedere l’obbligo dell’etichettatura del paese di origine, impone ai supermercati di vendere almeno il 51 per cento dei prodotti locali e di organizzare eventi per pubblicizzare il chilometro zero, pena la chiusura del negozio. “E’ una palese violazione del diritto europeo, in particolare dell’articolo 34 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, dove si proibiscono ingiustificate restrizioni al commercio intra-europeo”, dice al Foglio Lara Skoblikov, partner della società di consulenza Food Compliance International.
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L’insostenibile spreco di risorse della Pac07.06.04
Secondo Tarditi
http://www.lavoce.info/archives/22480/l ... -della-pacLa Politica agricola comune (Pac) costa alle famiglie europee oltre cento miliardi di euro allanno. Oltre l80 per cento dei sussidi alle esportazioni pagati nel mondo sono finanziati dai contribuenti europei, che pagano anche i tre quarti circa di sussidi agricoli finalizzati al sostegno dei prezzi. Gli effetti sui mercati internazionali sono molteplici e significano minor benessere e minor ricchezza non solo per i paesi poveri. Il problema si aggrava ora con lestensione della Pac ai nuovi Stati membri Ue. Eppure di questo grande spreco di denaro pubblico si parla molto poco.
Sono numerose le questioni sollevate dalla Politica agricola comune, la cosiddetta “Pac”: a partire dalla sua importanza nel contesto delle politiche comunitarie, fino ai suoi effetti nell’Unione europea e a livello globale. Nuovi problemi sorgono poi adesso, con l’estensione di questa politica ai nuovi paesi membri dell’Unione.
La politica agricola nell’Unione europea
Nonostante l’incidenza dell’agricoltura nelle economie sviluppate si riduca gradualmente a poche unità percentuali del prodotto lordo o dell’occupazione, la politica agricola è molto importante a livello europeo: costa al contribuente circa la metà delle spese del bilancio dell’Unione. Attraverso il sostegno dei prezzi agricoli genera inoltre un ulteriore trasferimento di reddito dai consumatori ai produttori che, secondo stime dell’Ocse, è anche maggiore del trasferimento di bilancio.
Possiamo quindi dire che la Pac costa alle famiglie europee oltre cento miliardi di euro all’anno, più dell’intero bilancio dell’Unione europea e più dello stesso prodotto netto agricolo.
Questa cifra equivale a oltre mille euro all’anno per una famiglia di quattro persone e in media oltre 16mila euro per occupato (equivalente tempo pieno) in agricoltura. Gran parte delle spese nazionali e regionali non sono incluse in queste cifre.
Naturalmente, una parte di questo costo sostenuto dai cittadini europei è ben giustificato: le spese per stabilizzare i prezzi agricoli, per tutelare i consumatori sul piano sanitario e l’ambiente rurale, per favorire lo sviluppo di aree svantaggiate o la ristrutturazione delle imprese e l’abbassamento dei costi di produzione, per migliorare lo sviluppo tecnologico e l’efficienza delle imprese agricole e di quelle di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti alimentari. Purtroppo, queste spese costituiscono una parte minoritaria.
Che cosa non funziona
La maggior parte dei trasferimenti di reddito che la Pac convoglia dai cittadini al settore agricolo è ancora direttamente o indirettamente associata alla produzione di merci che non trovano uno sbocco sul mercato.
I prezzi sul mercato comunitario sono fissati ogni anno a Bruxelles dal Consiglio dei ministri agricoli a un livello più alto di quello che si avrebbe in una economia di libero mercato.
Di conseguenza, si riduce la domanda interna e si aumenta l’offerta, creando eccedenze invendute che sono costate molti miliardi di euro ai cittadini europei. Ricordiamo tutti le così dette “montagne di burro” e di “latte in polvere” dei decenni passati, che venivano vendute all’allora Unione Sovietica a un prezzo che spesso non pagava i costi di trasporto. Questo costo di bilancio era ben visibile ai contribuenti. Meno percepito era invece il maggior prezzo di molti prodotti agricoli pagati dai consumatori, in quanto nessuno sapeva quale sarebbe stato il prezzo di mercato senza la Pac.
Per evitare il pessimo effetto che questi crescenti sprechi di denaro pubblico avevano sull’opinione pubblica, si è ricorso ai sussidi all’esportazione. Sussidiando le esportazioni si aumenta a spese dei contribuenti (quindi slealmente) l’offerta sui mercati internazionali, deprimendone i prezzi, specialmente se chi sussidia le esportazioni è una “grande nazione” come l’Unione europea, ovvero il più grande mercato agroalimentare del mondo.
Gli effetti di questo “dumping” sono proporzionali alla dimensione dei mercati. Per esempio, l’Unione europea, nonostante le quote di produzione, spende oltre 1.500 milioni di euro all’anno per sussidiare le esportazioni di prodotti lattiero caseari: l’effetto sui prezzi internazionali non può essere trascurabile. Anche i sussidi alla produzione distorcono i prezzi sul mercato internazionale. Se l’Unione Europea, che realizza oltre i tre quarti della produzione mondiale di olio d’oliva, sussidia con 3.200 milioni di euro all’anno i suoi produttori, gli effetti sul residuo piccolo mercato mondiale, costituito prevalentemente dai paesi mediterranei non comunitari, possono essere ingenti. Gli olivicoltori dell’Albania e di alcuni paesi del Nord Africa, per esempio, non raccolgono parte delle olive nonostante i loro bassi redditi e il basso costo del lavoro: ciò è molto probabilmente dovuto anche alla nostra Pac.
Oltre l’80 per cento dei sussidi alle esportazioni pagati nel mondo sono finanziati dai contribuenti europei. E inoltre paghiamo circa i tre quarti dei sussidi finalizzati al sostegno dei prezzi a livello della produzione. (1)
Gli effetti della distorsione dei mercati internazionali sono molteplici e, di solito, si traducono in minor benessere e minor ricchezza per tutti.
Controllo della produzione
L’intervento della Unione europea sui mercati agricoli non solo manipola i prezzi con barriere doganali e sussidi alle esportazioni, ma in vari comparti produttivi condiziona direttamente la quantità prodotta. Si tratta di strumenti fortemente contrari allo spirito con cui è nata e si è sviluppata la Comunità europea, tipici delle economie centralizzate.
Si è mascherato l’eccesso di risorse nel settore con le quote di produzione e con le sovvenzioni agli agricoltori per lasciare incolto una parte del terreno coltivabile, la così detta “messa a riposo dei seminativi” o “set-aside”. Attualmente, i cittadini europei, come contribuenti, pagano circa 1.700 milioni di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare oltre il 10 per cento dei seminativi. Come consumatori, pagano un ulteriore trasferimento di reddito, probabilmente ancor più elevato, perché il fine principale di questi interventi è ridurre l’offerta e mantenere prezzi elevati sul mercato. Questa politica potrà certo favorire i grandi produttori di cereali e vari proprietari fondiari, ma non si può dire che faccia l’interesse dei cittadini europei.
Gli sprechi di risorse sono così molto meno visibili, anche se probabilmente maggiori di quando le eccedenze si distruggevano, si regalavano, o se ne sussidiava l’esportazione, cosa che peraltro facciamo ancora.
Cosa dovrebbe fare la Ue per i paesi più poveri e per i nostri produttori
Una sincera politica di aiuto nei confronti dei paesi più poveri dovrebbe favorire il trasferimento delle nostre tecnologie di produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, aiutandoli a migliorare le loro strutture produttive, a ridurre i costi di produzione e a diventare più competitivi sul mercato internazionale. Nel breve termine questo può ridurre le rendite in qualche comparto produttivo comunitario, ma nel lungo termine si rivela utile per tutti, favorendo il miglior sfruttamento possibile a livello internazionale delle risorse disponibili.
Questa ricetta vale anche per il mercato interno. L’Unione europea dovrebbe aiutare i produttori a realizzare rapidamente una ristrutturazione della produzione agricola compatibile con le attuali condizioni del mercato internazionale, rinunciando a mantenere barriere agli scambi e a controllare la produzione. In linea di principio tutti – dal governatore della Banca d’Italia ai ministri economici del Governo, agli esperti o ministri ombra dell’opposizione – sono d’accordo nell’affermare che bisogna ridurre la spesa assistenziale, a pioggia, per favorire la spesa in investimenti.
Ma l’impressionante trasferimento di redditi che la Pac orienta sul settore agricolo è in larga maggioranza “a pioggia”, volto a sostenere i ricavi dei produttori così come sono adesso, anche se i loro prodotti non sono richiesti dai consumatori. Gli aiuti agli investimenti sono inferiori al 5 per cento del totale dei trasferimenti. In questo modo si congela una struttura produttiva inefficiente.
Quali paesi sostengono la Pac?
In linea di principio, maggiormente responsabili a livello europeo di questi aspetti negativi della Pac dovrebbero essere i paesi, come la Francia, che beneficiano del sostegno dei prezzi in quanto esportatori netti di prodotti agricoli.
I paesi importatori netti, come il Regno Unito o l’Italia, sono costretti a pagare le loro importazioni intracomunitarie a prezzi maggiorati, trasferendo reddito dai loro cittadini ai produttori dei paesi esportatori.
Nella realtà non è sempre così. Alcuni paesi, come il Portogallo e l’Italia, pur essendo importatori netti, spesso favoriscono misure protezionistiche anche per accontentare le loro lobby agricole. D’altro canto paesi di tradizione liberista, come l’Olanda, pur essendo grandi esportatori di prodotti agroalimentari prendono spesso posizioni progressive e riformiste sulla Pac.
La riforma che non risolve i problemi
Come è avvenuto per i numerose riforme precedenti (2), a prima vista la recente riforma della Pac sembra risolvere la crisi. In realtà, non viene sostanzialmente modificato il parametro fondamentale del protezionismo agricolo, cioè il flusso di trasferimenti di reddito dalle famiglie al settore agricolo. Gran parte di questi trasferimenti non raggiungono nemmeno gli agricoltori in quanto sono sprechi netti di risorse o si disperdono fra gli intermediari che forniscono agli agricoltori materie prime e mezzi tecnici oppure operano nella trasformazione e distribuzione dei prodotti.
La riforma Fischler presentata un anno fa riduce l’accoppiamento di questi trasferimenti alle singole coltivazioni, ma non riduce sufficientemente i trasferimenti stessi. Ad esempio, i trasferimenti che i produttori di cereali ricevevano negli anni Ottanta come sostegno dei prezzi, dopo la riduzione della protezione alla frontiera sono stati chiamati “pagamenti compensativi”, pagati dal bilancio comunitario per evitare shock violenti alla produzione. Invece di smantellarli in pochi anni per permettere la ristrutturazione della produzione secondo i nuovi prezzi di mercato, la Pac li ha sostanzialmente mantenuti, chiamandoli “aiuti al reddito”. Ora si riducono solo del 5 per cento entro il 2012, e si giustifica il restante 95 per cento con presunti benefici ambientali che derivano da queste coltivazioni.
La Pac e i nuovi paesi dell’Unione
La Pac è stata estesa anche ai nuovi dieci paesi membri dell’Unione. Il primo effetto prevedibile è un grande aumento dei trasferimenti all’agricoltura da parte dei contribuenti e dei consumatori di quei paesi. Ma anche a spese nostre, perché il reddito pro capite nei nuovi paesi è molto più basso del nostro e il loro contributo alle nuove spese del bilancio dell’Unione è proporzionalmente minore.
La Direzione generale dell’agricoltura della Commissione europea ha stimato che l’aumento dei redditi agricoli sarebbe superiore al 70 per cento. Questo non potrà non aumentare l’offerta di prodotti, nonostante le quote di produzione e la messa a riposo dei seminativi. E dunque invece di ridursi, lo spreco di risorse in agricoltura aumenterà.
Se il sostegno dei ricavi agricoli poteva avere una giustificazione negli anni Sessanta, quando i paesi fondatori della Cee erano molto deficitari di prodotti agroalimentari e volevano stimolarne l’offerta interna, ora non ha alcun senso aumentare i ricavi dei produttori nei nuovi paesi membri, se non quello di mantenere l’attuale sostegno ai nostri produttori in un mercato unico. Pensiamo a quanti usi alternativi per lo sviluppo economico e sociale di quei paesi avrebbero potuto avere queste risorse economiche.
Oltre a gravare sulle famiglie più povere, che spendono una quota maggiore del loro reddito in prodotti alimentari, peggiorando la distribuzione del reddito, gli aiuti a pioggia aumenteranno le rendite fondiarie, e ritarderanno l’aggiustamento strutturale dell’agricoltura in quei paesi, riducendone la competitività internazionale.
Elezioni europee e politica agricola
In questa campagna elettorale si parla tanto di Iraq, di Bush e di problemi internazionali.
Molto poco si discute delle politiche applicate dalla Unione europea e in particolare della politica agricola, che pure è stata storicamente la politica di settore più importante e che ancora adesso è quella che genera una maggiore ridistribuzione del reddito fra i cittadini europei. E una delle cause degli errori più grandi attuali e del passato è stata proprio un’informazione molto carente e distorta.
Il dibattito politico e il processo decisionale a Bruxelles sono fortemente condizionati da uno squilibrio di potere contrattuale. Da un lato, alcune lobby dei produttori che beneficiano maggiormente dei trasferimenti sono molto ben finanziate e organizzate. Dall’altro lato, i cittadini, che ne pagano il costo, non sono organizzati per difendere i loro interessi. Le organizzazioni dei consumatori potrebbero certo svolgere un ruolo attivo nella difesa degli interessi generali della collettività in questo settore, ma non sembrano molto interessate ad affrontare approfonditamente questi problemi, obiettivamente complessi e specialistici.
Di fronte a questo squilibrio di pressioni sulla stampa e sul processo decisionale della Pac, è comprensibile, anche se non giustificabile, che gli operatori politici si lascino trascinare dalla corrente. Non ci resta che sperare in nuovi operatori politici meno compiacenti nei confronti degli interessi di parte e più sensibili a quelli di tutti i cittadini europei. Parlarne prima delle elezioni europee, è certamente utile.
(1) I sussidi inclusi dal Gatt-Wto nelle così dette scatole “arancione” e “blu” in contrasto con le politiche incluse nella “scatola verde” che non distorcono i prezzi in modo rilevante.
(2) Negli anni Novanta, si sono susseguite la riforma Mac-Sharry del 1992, l’accordo Gatt nel 1994 e Agenda 2000 nel 1997
https://it.wikipedia.org/wiki/Politica_agricola_comune La politica agricola comune (PAC) è una delle politiche comunitarie di maggiore importanza, impegnando circa il 34% del bilancio dell'Unione europea. È prevista dal Trattato istitutivo delle Comunità.