Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 9:49 am

Il protezionismo economico cinese


In Cina alla crisi rispondono con il muro del protezionismo
La Cina si rifugia nel protezionismo. Solo quando quest'ultimo favorisce gli interessi nazionali
Claudia Astarita
http://archivio.panorama.it/economia/mo ... tezionismo

Cosa sta succedendo in Cina? Possibile che la crisi economica abbia spinto il partito a rifugiarsi (temporaneamente) nel protezionismo per il bene del paese? Possibile che dietro l'annuncio di un obiettivo di crescita al 7,5% ci sia, in realtà, la volontà di disinteressarsi di ciò che succede al di là dei confini nazionali per concentrarsi esclusivamente sulle esigenze interne?

Va ricordato che da quando le riforme economiche sono state implementate per la prima volta, nel 1978, in più occasioni il Partito ha scelto di fare qualche passo indietro per tenere sotto controllo il cambiamento. Ecco perché non dovrebbe stupire nessuno il fatto che, con la prospettiva di stravolgere completamente l'attuale modello di crescita, Pechino potrebbe decidere di approvare una serie di decisioni che solo fino a qualche mese fa sarebbero state impensabili.

Negli ultimi giorni dall'Oriente sono arrivate tre notizie che dorebbero farci riflettere:

1) La Cina ha vietato ai funzionari del Partito di acquistare automobili straniere , suggerendo di sostituirle con i modelli cinesi. Naturalmente per sostenere le aziende nazionali in un momento particolarmente delicato.

Con una spesa media annuale di dieci miliardi di dollari in vetture di stato, il vantaggio per i produttori nazionali se tutti questi fondi venissero spesi per acquistare i loro modelli è evidente. Così come lo svantaggio per quelle aziende giapponesi, coreane, ma soprattutto americane ed europee che hanno soddisfatto fino ad oggi gusti e preferenze dei funzionari.

2) La Cina ha prima proibito alle compagnie aeree nazionali di pagare la carbon tax imposta dall'Ue, poi ha approfittato della scusa della tassa sulle emissioni inquinanti per vietare anche alle stesse aziende di acquistare gli aeromobili Airbus in segno di protesta.

3) Pechino non ha reagito all'annuncio di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone di voler riportare all'attenzione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio l'annosa questione delle terre rare , quei 17 metalli strategici di cui la Republica popolare oltre a controllare più del 90% della produzione limita altresì l'esportazione ufficialmente per tutelare l'ambiente, in realtà per mantenerne i prezzi a un livello considerato accettabile.

Insomma, in pochi giorni la Cina ha confermato che gli interessi nazionali hanno la precedenza su tutto. Del resto, il fatto che la Repubblica popolare possa essere considerata a tutti gli effetti una superpotenza economica non significa che quest'ultima sia immune da qualsiasi crisi. Se ne è accorto persino il Partito, che ha finalmente esplicitato la necessità di "cambiare corso a qualunque costo ".

Una presa di posizione che dovrebbe farci riflettere. Non foss'altro perché capire al 100% come funziona l'economia cinese dall'esterno è impossibile visto che i dati e le statistiche distribuite dal governo non sono sempre affidabli.

Ma se è Pechino a decidere di cambiare qualcosa per evitare il collasso è evidente che i problemi immaginati dagli analisti esistono davvero. E potrebbero indurre la dirigenza ad approvare altre misure protezionistiche se queste ultime possono tutelare gli interessi nazionali meglio del libero commercio. Quanto meno in questa fase di crisi globale.


La Cina aumenta il protezionismo
di Alex Buaiscia giovedì 16 luglio 2009
http://www.agoravox.it/?page=article&id_article=7750

La Cina non si accontenta di criticare gli altri di protezionismo. Essa stessa vuole essere protezionista, a volte in modi estremi.

Nonostante la preoccupazione occidentale, ed essendo già una potenza esportatrice, il governo cinese ha deciso di incoraggiare le esportazioni mentre preferisce adottare prodotti locali per uso interno, diminuendo le importazioni.
Tre programmi sono stati attuati: abbassamento delle tasse sull’export, prestiti più generosi dalla banche di proprietà governativa per finanziare il commercio, e più viaggi pagati dal governo per promuovere le aziende all’estero.

Allo stesso tempo, Pechino ha bandito tutte le agezie governative locali, provinciali e nazionali dal comprare prodotti importati, eccezion fatta per quelli che non hanno un sostituto in patria. Oltre a tutto ciò, ha posto un limite sulla quantità di materie prime chiave che possono lasciare il paese.

Ron Kirk, il rappresentante degli Stati Uniti presso il WTO (World Trade Organization), ha proposto il 23 Giugno con l’Unione Europea una lamentela nell’organizzazione, accusando la Cina, che è uno dei produttori principali mondiali, di dare un vantaggio ingiusto alle manifatture cinesi che usano queste materie. La Cina nega che abbia rotto alcuna regola del WTO, ma gli Stati Uniti hanno rincarato la dose dichiarando che “non solo stanno continuando ma anche accelerando gli approcci protezionisti che hanno preso nel passato per promuovere lo sviluppo economico”.

Queste politiche potranno assicurare alla Cina una crescita continua, ma al rischio di alimentare le tensioni globali in un periodo sensibile, quando molti paesi stanno prendendo misure per diminuire il commercio.

Il programma cinese su lunga durata infatti prevede incentivi per un’economia di consumo domestico e di esportazioni all’estero. Una specie di autarchia, ma più furba.

I governi provinciali, inoltre, sembra che abbiano tagliato gli sforzi verso le leggi anti-contraffazione e altre protezioni di proprietà intellettuale. I consumatori cinesi hanno meno bisogno di comprare beni importati quando possono comprare copie molto meno costose, prodotte localmente.

L’export cinese verso gli USA nei primi quattro mesi dell’anno è diminuito solamente del 12.1% rispetto all’anno precedente. Gli export americani verso la Cina, invece, sono diminuiti del 17.2%

Tuttavia il deficit commerciale americano, paradossalmente, è diminuito da 75 miliardi a 67 miliardi di dollari in questi periodi. Questo perché il commercio è così sbilanciato che un affondamento del commercio totale porta in un deficit minore, anche quando gli export americani scendono più velocemente.

Il governo cinese ha dato inoltre un chiaro segnale di come la sua guerra per l’appropriazione di materie prime e compagnie estere non deve essere fermata. Pena l’esclusione dal suo immenso mercato. Questo infatti è quello che è successo l’11 Luglio per il presunto scandalo dell’australiana Rio Tinto.



Segretario Commercio Usa: Cina la più protezionista, va punita
19 gennaio 2017, di Daniele Chicca

http://www.wallstreetitalia.com/segreta ... -va-punita

Si intensifica la guerra commerciale a parole tra Cina e Stati Uniti. Il nuovo Segretario del Commercio Usa Wilbur Ross ha definito la Cina il paese più protezionista al mondo. Le dichiarazioni del businessman e politico miliardario hanno messo in difficoltà i mercati finanziari, in particolare quelli cinesi che hanno perso terreno quest’oggi.

Da Davos, dove è in corso di svolgimento il World Economic Forum, il presidente cinese Xi Jinping ha difeso il libero commercio, dichiarando che la globalizzazione non è colpevole di tutti i mali e che anche se ha creato problemi questa non dev’essere una scusa per cancellarla, bensì per adattarla. Xi ha ricordato che “in una guerra commerciale nessuno ne esce vincitore”.

Ross, che detiene un patrimonio sui 2,5 miliardi di dollari secondo le stime di Forbes, ha detto che una cosa è parlare di libero commercio e una cosa è applicarlo in concreto. Ross vorrebbe che la Cina e altri partner commerciali si adoperino in questo senso.

Ross, che ha fatto una fortuna rilanciando aziende manifatturiere in crisi, ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero offrire la possibilità di accedere al vasto mercato americano soltanto alle “nazioni che accettano di stare al gioco e rispettare gli standard del fair trade“.

Chi non rispetta le regole va sanzionato in modo severo, secondo il Segretario del Commercio. Ross vorrebbe che i paesi che mettono in atto politiche commerciali “calluniose” vengano puniti “in modo severo”.

In questo frangente Ross ha chiaramente puntato il dito contro la Cina, che ha definito “il paese più protezionista al mondo tra i più grandi”. I commenti del futuro rappresentante del Commercio del governo Usa hanno messo al tappeto le Borse cinesi (segui live blog di mercato).

Le politiche protezioniste promesse da Donald Trump rischiano di provocare una guerra commerciale con la Cina e altri paesi concorrenti. Il neo presidente eletto, che si insedierà domani alla Casa Bianca, ha proposto di imporre dazi contro i beni importati da paesi svalutatori della propria moneta e Ross sembra favorevole a questa opzione.

Secondo Trump le tariffe doganali “giocano un ruolo importante come strumento negoziale e, se necessario, come punizione contro chi non rispetta le regole del gioco”. Trump ha anche lanciato l’idea di imporre una tariffa del 35% contro quelle case automobilistiche e quelle società che delocalizzano, trasferendo posti di lavoro all’estero.

Fair Trade
https://it.wikipedia.org/wiki/Commercio_equo_e_solidale
Il commercio equo e solidale o commercio equo (o Fair Trade, in inglese) è una forma di commercio che dovrebbe garantire al produttore ed ai suoi dipendenti un prezzo giusto e predeterminato, assicurando anche la tutela del territorio. Si oppone alla massimizzazione del profitto praticata dalle grandi catene di distribuzione organizzata e dai grandi produttori. Carattere tipico di questo commercio è di vendere direttamente al cliente finale i prodotti, eliminando qualsiasi catena di intermediari.

È, dunque, una forma di commercio internazionale nella quale si cerca di far crescere aziende economicamente sane nei paesi più sviluppati e di garantire ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico e sociale equo e rispettoso; in questo senso si contrappone alle pratiche di commercio tradizionale. Infatti i produttori agricoli di queste merci formano una miriade di piccole entità, che non hanno alcuna forza contrattuale da opporre ai grossisti locali (e/o internazionali) presso i quali si riforniscono le aziende multinazionali, nel determinare il prezzo della materia prima, consentendo così a questi operatori la determinazione del prezzo, che viene ovviamente tenuto il più basso possibile. Uno dei punti qualificanti del commercio equo e solidale è quello di promuovere cooperative di produttori sufficientemente grandi da potersi confrontare con successo ai grossisti. Tuttavia l'organizzazione del commercio equo e solidale è stata sottoposta a severe critiche da parte di studiosi e giornalisti.



Germania, assalto cinese ai colossi hi-tech. E Berlino torna al protezionismo
Berlino pensa a un pacchetto di misure per proteggere le proprie imprese hi-tech dall'assalto della Cina. Nuovo protezionismo economico in Germania?
http://www.affaritaliani.it/affari-euro ... 45673.html

AZIENDE HI-TECH, LA GERMANIA PENSA AL PROTEZIONISMO

Berlino vuole chiudersi nel protezionismo economico. O almeno, vuole proteggere le proprie imprese per non farle finire in mani indesiderate, vale a dire straniere. E' questo il piano del ministero dell'Economia della Germania che riguarda le aziende hi-tech tedesche. Il vice ministro dell'Economia, Matthias Machnig ha inviato ai membri del governo tedesco un dossier che contiene sei punti chiave per la revisione degli investimenti a livello di Unione europea.

ASSALTO CINESE ALLE IMPRESE TEDESCHE

Il documento di Machinig è di ampio respiro e modifica i diritti dei governi nazionali dell'Eurozona per controllare acquisizioni societarie da investitori di paesi extra Ue. Il tema di acquisizioni estere è venuto alla ribalta in Germania quando il colosso cinese di elettrodomestici Midea ha acquistato il robot tedesco Kuka. E l'assalto cinese non è finito qui. Il produttore di chip Sanan Optoelettronica è in contatto con il colosso tedesco dell'illuminazione Osram per una potenziale acquisizione o accordo di cooperazione.

NO ALLE CESSIONI EXTRA UE

Per questo la Germania vorrebbe adottare un regolamento più stringente a proposito delle acquisizioni extra Ue e proteggere i propri asset strategici. Anche perché l'offensiva cinese è sempre più forte e Berlino non ha intenzione di cedere facilmente il controllo di proprie aziende fuori dall'Ue. Il nodo sarà trovare un bilanciamento tra apertura al mercato e protezione delle proprie imprese.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 9:58 am

Il protezionismo economico russo


Russia, proposta ministeriale per varo protezionismo della cinematografia nazionale
24.01.2017

https://it.sputniknews.com/mondo/201701 ... tassazione

Il ministero della Cultura russo ha inzione di inasprire la tassazione sui film stranieri per promuovere l’industria cinematografica nazionale. Lo riportano i media russi.

Ieri il ministro della Cultura Vladimir Medinskij ha dichiarato che per lo sviluppo dell'industria cinematografica russa è necessario rafforzare il protezionismo — aumentando la tassazione delle pellicole straniere —, debellare la pirateria in internet e dare maggior spazio ai film prodotti in patria.

"Ciò consentirà di cancellare dalla programmazione i film stranieri di bassa qualità sostituendoli con la nostra produzione cinematografica", ha spiegato Anton Malyshev, direttore della Fondazione cinematografica russa, il supervisore federale del settore.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 10:05 am

Protezionismo economico cubano


Cuba, tra socialismo e capitalismo - Verso la fine dell'embargo?
LUCA FORTUNATI
27 FEB 2015

http://wsimag.com/it/economia-e-politic ... apitalismo

Venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino, al quale ha fatto seguito la fine della Guerra Fredda, durata per circa un trentennio, c'è un'isola nel mondo dove sembra che il tempo si sia fermato, questo posto è Cuba.

Il paese caraibico fin dalla sua scoperta, con l'approdo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, del 1492, ha subito diverse dominazioni. Gli spagnoli furono i primi a ottenerne il controllo, trasformando l'isola in una loro colonia. Nel diciottesimo secolo, gli inglesi , per un breve periodo, appena undici mesi, presero il controllo di La Habana impossessandosi del Castello del Morro, una fortezza posta all'interno della città. Questo diede origine a una tradizione tramandata tutt'oggi, seppur sotto forma di un evento per i turisti: al calar del sole si svolge uno spettacolo in costume e viene fatto esplodere un colpo di cannone. La storia tramanda che il colpo di cannone segnasse la chiusura della città. Da quel momento fino al mattino seguente non si poteva né entrare né uscire dalla città, per evitare che la stessa venisse assaltata durante la notte.

Il dominio spagnolo venne interrotto solo agli inizi del '900, quando gli Stati Uniti occuparono militarmente l'isola. Le dichiarazioni ufficiali furono di voler liberare Cuba dalle dominazioni straniere, in realtà l'isola si trasformò ben presto in un protettorato americano. La posizione geografica dell'isola caraibica, la quale dista appena 160 km dalle coste della Florida, era ideale per ospitare turisti americani dediti al gioco d'azzardo e alla prostituzione, proprio negli anni in cui tutto ciò negli Stati Uniti era vietato dal protezionismo.

Cuba divenne un paese realmente indipendente solo nel 1959, quando Fidel Castro, alla guida del Movimento 26 de Julio riusci nell'impresa di portare a termine la Rivoluzione; l'esercito rivoluzionario rovesciò il governo di Batista, filo-americano, e lo costrinse alla fuga. Castro venne nominato primo ministro e immediatamente diede il via a una serie di riforme di chiaro stampo socialista, le quali si concretizzarono nella nazionalizzazione di tutte le industrie e nell'abolizione della proprietà privata. Queste iniziative, ovviamente, furono malviste dagli americani, i quali erano i proprietari della stragrande maggioranza delle industrie e dei terreni dell'isola. La conseguenza immediata fu l'interruzione delle importazioni di canna da zucchero e altre materie prime da parte del governo americano, il quale in un secondo momento impose l'embargo totale. A correre in soccorso di Castro intervenne l'Unione Sovietica, la quale conscia della posizione geografica strategica di Cuba, colse al volo l'occasione e acquisì il governo castrista sotto la propria ala protettiva, assicurando risorse economiche e l'acquisto di materie prime, anche a prezzi più elevati di quelli di mercato. Gli anni della Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e la Russia, furono anche gli anni di maggior prosperità economica per Cuba. Fidel Castro riusci a sfruttare al meglio la contrapposizione tra le due superpotenze mondiali e con le ingenti risorse messe a disposizione dall'URSS diede vita alle riforme necessarie per risollevare il paese.

La caduta del muro di Berlino, e la successiva fine della Guerra Fredda, avvenuta nel 1991, fece crollare l'architettura instaurata da Castro. Infatti, improvvisamente, con la fine dell'Unione Sovietica, vennero a mancare quelle risorse economiche necessarie al sostentamento dell'economia cubana e l'isola, come d'incanto, perse il valore strategico che aveva assunto. Il modello economico socialista instaurato dal governo cubano, terminato l'apporto di risorse sovietiche, non ebbe più sostenibilità, e Castro si vide costretto a rivedere la proprie posizioni. Nel corso degli anni, il “leader maximo” ha cercato di porre in essere misure di apertura al sistema capitalista; dapprima venne concesso ai cubani di possedere e utilizzare dollari americani, fu permesso il lavoro autonomo in cento settori commerciali, e in seguito venne introdotta la tassazione sui profitti ottenuti in dollari, infine l'epocale apertura agli investimenti esteri: le società straniere oggi possono gestire imprese commerciali e tenute agricole, sempre però con una partecipazione statale.

L'afflusso di capitali esteri e la possibilità di intraprendere iniziative economiche private ha generato due effetti contrapposti: da una parte l'economia ha beneficiato dell'afflusso di nuove risorse conoscendo una, seppur modesta, ripresa, dall'altro tutto questo ha ampliato la disuguaglianza sociale tra chi riesce a ottenere profitti grazie alle iniziative private e chi, non avendone la possibilità, continua a vivere nella povertà più estrema. Passeggiando tra le calle di La Habana Vieja si percepisce il connubio che si sta verificando a Cuba tra i due sistemi economici agli antipodi, capitalismo e socialismo; in rapida successione si alternano locali storici, dove si ha l'impressione che il tempo si sia fermato 40 o 50 anni indietro, a locali che potresti tranquillamente trovare sulla Fifth Avenue di New York oppure l'Oxford Street londinese.

Immersa nelle infinite difficoltà, Cuba mantiene intatto il suo splendore, non a caso La Habana Vieja è stata dichiarata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO, e il suo popolo si contraddistingue per una dignità che difficilmente è riscontrabile altrove. ???
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 10:26 am

Protezionismo economico europeo


Unione Europea: Protezionismo contro 5 Paesi latinoamericani
12/11/2012
Porte chiuse al Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela

https://cambiailmondo.org/2012/11/12/un ... oamericani

L’Unione Europea (UE), ha escluso 89 Parsi dal sistema di “preferenze generallizzate” (SPG). Dal 1 dicembre del 2014, con una decisione di evidente carattere protezionista, l’UE chiude il suo spazio ai prodotti provenienti dal Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela perchè -a suo giudizio- sarebbero economie emergenti, ormai chiaramente emergenti. Si tratta di una mezza verità, applicabile ad alcuni di questi Paesi sudamericani, però sorprende non poco -per esempio- che l’economia cubana,costantemente fatta segno di accuse di “ritardo e sottosviluppo”, in questa risoluzione venga accomunata a quelle emergenti.
Il venezuelano Rodrigo Cabeza, presidente del Parlamento latinoamericano, ha detto che la grave crisi in cui versa l’Europa la sta sospingendo verso il “..ritorno a politiche protezioniste dei mercati”. L’accordo SPG permetteva l’accesso di manufatti e prodotti agricoli a 176 Paesi in via di sviluppo.
La sterzata protezionista in corso nell’UE, viene vista da altri osservatori, come una “risposta politica” contro i governi di quei Paesi che ” hanno deciso politiche per difendere la sovranità e l’indipendenza”. Brasile, Argentina, Uruguay e Venezuela sono diretti da governi di sinistra che hanno messo dei paletti evidenti al FMI e Banca Mondiale. “Bisogna rispondere con forza” dice Xoan Noya “l’UE sappia che non rimarremo con le mani in mano”.


Industriali europei in piazza: “vogliamo il protezionismo”
di Redazione Contropiano
http://contropiano.org/news/news-econom ... smo-034947

Finalmente l’industria europea ha trovato la ragione della propria crisi: la Cina. Ci ha messo un quarto di secolo, non si è mai interrogata sul prpriopercorso e le strategie, sulla delocalizzaione futibonda o almeno sulla riscrittura delle filiere produttive in funzione del complesso tedesco.. Ma alla fine ha trovato un bersaglio comodo, lontano, “popolare”, su cui scaricare tutta la propria paura.

Domani a Bruxelles ci sarà un’inedita manifestazione di industriali, supportati da funzionari dei sindacati complici, che presumibilmente dovrebbero avere qualche competenza in più nella gestione della piazza.

Cosa chiedono? Protezionismo, ovviamente. Il contrario della liberalizzazione dei commerci. Ovvero la fine della globalizzazione anche da punto di vista ideologico, oltre che – prima di tutto – su quello brutalmente economico. Vogliono che l’Unione Europea e gli stati nazionali mettano dazi più alti sulle merci cinesi (e ditutti gli altri paesi emergenti), in misura tale da renderle non competitive rispetto a quelle europee.

Non stiamo parlando di “cineserie”, di quella paccottiglia di tutto un po’ che possamo trovare dappertutto, a cominciare dai negozietti gestiti da cinesi nelle metropoli europee. L’industria principale che si sente sotto assedio è quella dell’acciaio, mica quelle delle cover per smatphone. Accusa la Cina di avere una “sovracapacità produttiva” di ben 400 milioni di tonnellate, più del doppio dell’intera produzione nell’Ue. Il rallentamento dell’economia del Celeste Impero ha ristretto quel mercato interno, ma l’acciaio continua a uscire dagli altoforni di Pechino. Dunque preme per trovare altri sbocchi. Ha un serio vantaggio competitivo, in termini di costo (circa il 40% in meno), anche perché come qualità non ha più molto da invidiare alla produzione europea.

Fin qui la Ue ha imposto solo un dazio provvisorio antidumping, come se la Cina stesse vendendo sottocosto solo per conquistare mercati ed eliminare la concorrenza, sulle barre e in tondini da costruzioni. È seguita, solo due giorni fa, l’identica decisione per quanto riguarda i laminati piani a freddo (anche per quelli russi), accompagnata dall’apertura di un’indagine antidumping su altri manufatti d’acciaio. La tendenza è dunque chiara: proteggere l’acciaio prodotto sul Vecchio Continente, ovviamente a un costo più alto.

I sette paesi europei più esposti in questo settore – Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo e Polonia – si sono già accordati per portare la domanda di protezionismo sull’acciaio all’attenzione della Commissione guidata da Juncker. Il vicepresidente italiano del Parlamento europeo, il residuato berlusconiano Antonio Tajani, sarà presente alla manifestazione, garantendo così un deciso supporto istituzionale alla richiesta.

Contemporaneamente l’ndustria continentale preme perché alla Cina non sia concesso il riconoscimento di “economia di mercato”, che renderebbe difficile – se non impossibile – l’applicazione di dazi protettivi su una grande quantità di settori merceologici. Dopo l’acciaio, infatti, il settore più a rischio risulta essere quello della ceramica.

Il coinvolgimento dei sindacati complici (nonché delle cosiddette Ong) è particolarmente odioso, perché punta a indirizzare altrove – sulla Cina, appunto – le conseguenze sull’occupazione di molti anni di auterità decisa dalla Troika e accolta con grande convinzione da parte degli industriali europei, che hanno guardato soltanto alla compressione dei salari e all’eliminazione delle tutele per il lavoro.

Ma per i capitalisti singoli la cecità è d’obbligo. Tutto va bene finché ottengono quel che ritengono un vantaggio per sé quindi viva la globalizzazione e la minimizzazione del ruolo dello Stato, quando ha permesso loro di delocalizzare verso paesi meno sviluppati e con salari ridicoli. Ma quando il “grande successo” della deindustrializzaione si rovescia nel suo contrario – ossia nel vero e proprio suicidio industriale di un continente – eccoli riscoprire le virtù dello Stato. Quello del protezionismo e della guerra commerciale. Che prepara tutte le altre.




Non solo il Ttip, l'Ue avalla il protezionismo anche nel settore alimentare
La Commissione europea dà il via libera all'obbligo di etichettatura del paese di origine di carne e latte nei prodotti lavorati. L'industria insorge: "Così si incrinano il mercato unico e il libero scambio". Il caso di Francia, Italia e Romania
Luca Gambardella

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/09/0 ... are-103477

Roma. “Era successo con gli Ogm e con il glifosato, ora con l’obbligo di etichettatura del paese di origine: quando si tratta di prendere alcune decisioni sensibili, la Commissione europea si tira indietro”. Dario Dongo è un esperto di diritto alimentare europeo e fondatore di Food and Agriculture Requirements, sostenitore del diritto dei consumatori a conoscere da dove provengono gli ingredienti dei prodotti che ogni giorno finiscono sulle tavole di circa 500 milioni di cittadini europei. Quello alimentare è uno dei settori in cui l’Ue ha raggiunto un elevato livello di armonizzazione legislativa. Ma la crisi economica ha avuto effetti drammatici per i piccoli e medi produttori agro-alimentari europei e l’ultimo anno si è concluso con un bilancio negativo dal loro punto di vista: fine delle quote latte e prezzi bassi. Così, per sostenere il settore, molti stati ricorrono a soluzioni cripto protezionistiche, avallate proprio dal garante dell’integrità del mercato libero tra i 28: la Commissione Ue.

Ad aprire le danze, lo scorso luglio, è stato il ministro della Salute francese, Stéphane Le Foll, messo sotto pressione dai dati forniti da un istituto di ricerca (Invs) che ha calcolato 200 suicidi l’anno tra allevatori e coltivatori colpiti dalla crisi. Parigi ha annunciato di aver ricevuto luce verde da Bruxelles per l’obbligo, e non più la sola possibilità, dell’indicazione del paese di origine di latte e carne usati come ingredienti nei prodotti lavorati. Per intenderci, il latte, o le lasagne surgelate francesi saranno tra i prodotti che dovranno avere un’etichetta che indicherà da quale paese provengono latte e carne. “Il provvedimento risponde al diritto all’informazione del consumatore e a una Risoluzione dell’Europarlamento del 2015 in cui si invitava la Commissione a prendere un’iniziativa condivisa”, dice Dongo. Ma la richiesta francese manca di documenti essenziali: secondo le procedure, il governo avrebbe dovuto provare che la qualità del prodotto finito dipende dall’origine degli ingredienti. E ancora, che i consumatori siano in grado di riconoscere questo miglioramento della qualità. “Nessuna delle due documentazioni è stata presentata ma, evidentemente, la Commissione ha deciso di soprassedere su queste irregolarità procedurali”, spiega Dongo.

Ma le federazioni europee dell’industria alimentare sostengono che la misura mette in pericolo il mercato unico europeo e provocherà un aumento dei costi di produzione. Seguendo il precedente francese, Italia, Lituania, Romania e Portogallo hanno sottoposto a Bruxelles testi di legge analoghi. Alcune industrie del settore agro-alimentare contestano alla Commissione di avallare un’Europa “a doppia velocità”: “Accettando questo progetto la Commissione afferma che c’è una differenza qualitativa fra i prodotti francesi e, per esempio, quelli del Belgio, della Germania, dell’Italia, della Spagna, anche se provengono da appena qualche chilometro oltre i confini tra uno stato e l’altro”, ha detto Mella Frewen, direttore di FoodDrinkEurope, lobby europea del settore. La Commissione europea non ha voluto commentare il caso francese e le sue anomalie e la Direzione generale per la salute dei consumatori si è limitata a spiegare che Parigi avrebbe condotto uno studio di impatto sul mercato al termine di un periodo di prova di due anni.

Così, dopo la Francia, ora è il turno dell’Italia, che lo scorso 24 giugno ha presentato alla Commissione europea la prima versione di una bozza di decreto simile a quello francese, limitato però ai prodotti caseari. “E’ un passo storico per i produttori italiani”, aveva annunciato il presidente del Consiglio Matteo Renzi qualche settimana fa, sostenuto dalle associazioni dei consumatori come Coldiretti, che invitavano il governo a prendere spunto dall’iniziativa francese. “Dobbiamo dare una risposta a quel 96,5 per cento di cittadini che ha partecipato alla consultazione pubblica sul sito del ministero delle Politiche agricole” (Mipaaf), ha detto il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvi. Per dare maggior peso al decreto sottoposto a Bruxelles, il Mipaaf ha invitato chi volesse a votare sul suo sito sull’obbligo dell’etichettatura del paese di origine. Una maggioranza schiacciante si è espressa favorevolmente, sebbene il sistema mostrasse alcune anomalie e permettesse allo stesso singolo utente di votare più di una volta. “Il diritto all’informazione del consumatore non deve certo essere in contrasto con l’armonizzazione del mercato”, dice al Foglio Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, l’associazione italiana dell’industria alimentare. “Per questo abbiamo chiesto che gli sforzi di Commissione e stati membri si concentrassero sull’indicazione di origine dell’ingrediente primario – obbligatoria solo quando viene pubblicizzata l’origine dell’alimento lavorato, per esempio la farina nel caso della ‘pasta italiana’, ndr – dando informazioni trasparenti e senza discriminazioni”. L’industria imputa scarsa coerenza alla Commissione. Solo lo scorso 12 luglio il commissario per la Salute e la Sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, aveva ammesso che misure come quella francese avrebbero portato a un aumento dei costi di produzione e che “da tutti i report risulta la mancanza di volontà dei consumatori di spendere di più per avere più informazioni”.

Il vaso di Pandora scoperchiato ora dalla Commissione ha innescato un effetto contagio. “Il trionfo dell’euroscetticismo, la Brexit, sono fattori che stanno spaccando l’Ue dando mano libera alle legislazioni nazionali”, dice Dongo che avrebbe preferito una legislazione uniforme in materia. La Romania, senza avvisare Bruxelles, ha già emanato una legge che, oltre a chiedere l’obbligo dell’etichettatura del paese di origine, impone ai supermercati di vendere almeno il 51 per cento dei prodotti locali e di organizzare eventi per pubblicizzare il chilometro zero, pena la chiusura del negozio. “E’ una palese violazione del diritto europeo, in particolare dell’articolo 34 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, dove si proibiscono ingiustificate restrizioni al commercio intra-europeo”, dice al Foglio Lara Skoblikov, partner della società di consulenza Food Compliance International.


???
L’insostenibile spreco di risorse della Pac
07.06.04
Secondo Tarditi
http://www.lavoce.info/archives/22480/l ... -della-pac

La Politica agricola comune (Pac) costa alle famiglie europee oltre cento miliardi di euro all’anno. Oltre l’80 per cento dei sussidi alle esportazioni pagati nel mondo sono finanziati dai contribuenti europei, che pagano anche i tre quarti circa di sussidi agricoli finalizzati al sostegno dei prezzi. Gli effetti sui mercati internazionali sono molteplici e significano minor benessere e minor ricchezza non solo per i paesi poveri. Il problema si aggrava ora con l’estensione della Pac ai nuovi Stati membri Ue. Eppure di questo grande spreco di denaro pubblico si parla molto poco.

Sono numerose le questioni sollevate dalla Politica agricola comune, la cosiddetta “Pac”: a partire dalla sua importanza nel contesto delle politiche comunitarie, fino ai suoi effetti nell’Unione europea e a livello globale. Nuovi problemi sorgono poi adesso, con l’estensione di questa politica ai nuovi paesi membri dell’Unione.

La politica agricola nell’Unione europea

Nonostante l’incidenza dell’agricoltura nelle economie sviluppate si riduca gradualmente a poche unità percentuali del prodotto lordo o dell’occupazione, la politica agricola è molto importante a livello europeo: costa al contribuente circa la metà delle spese del bilancio dell’Unione. Attraverso il sostegno dei prezzi agricoli genera inoltre un ulteriore trasferimento di reddito dai consumatori ai produttori che, secondo stime dell’Ocse, è anche maggiore del trasferimento di bilancio.
Possiamo quindi dire che la Pac costa alle famiglie europee oltre cento miliardi di euro all’anno, più dell’intero bilancio dell’Unione europea e più dello stesso prodotto netto agricolo.
Questa cifra equivale a oltre mille euro all’anno per una famiglia di quattro persone e in media oltre 16mila euro per occupato (equivalente tempo pieno) in agricoltura. Gran parte delle spese nazionali e regionali non sono incluse in queste cifre.
Naturalmente, una parte di questo costo sostenuto dai cittadini europei è ben giustificato: le spese per stabilizzare i prezzi agricoli, per tutelare i consumatori sul piano sanitario e l’ambiente rurale, per favorire lo sviluppo di aree svantaggiate o la ristrutturazione delle imprese e l’abbassamento dei costi di produzione, per migliorare lo sviluppo tecnologico e l’efficienza delle imprese agricole e di quelle di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti alimentari. Purtroppo, queste spese costituiscono una parte minoritaria.

Che cosa non funziona

La maggior parte dei trasferimenti di reddito che la Pac convoglia dai cittadini al settore agricolo è ancora direttamente o indirettamente associata alla produzione di merci che non trovano uno sbocco sul mercato.
I prezzi sul mercato comunitario sono fissati ogni anno a Bruxelles dal Consiglio dei ministri agricoli a un livello più alto di quello che si avrebbe in una economia di libero mercato.
Di conseguenza, si riduce la domanda interna e si aumenta l’offerta, creando eccedenze invendute che sono costate molti miliardi di euro ai cittadini europei. Ricordiamo tutti le così dette “montagne di burro” e di “latte in polvere” dei decenni passati, che venivano vendute all’allora Unione Sovietica a un prezzo che spesso non pagava i costi di trasporto. Questo costo di bilancio era ben visibile ai contribuenti. Meno percepito era invece il maggior prezzo di molti prodotti agricoli pagati dai consumatori, in quanto nessuno sapeva quale sarebbe stato il prezzo di mercato senza la Pac.
Per evitare il pessimo effetto che questi crescenti sprechi di denaro pubblico avevano sull’opinione pubblica, si è ricorso ai sussidi all’esportazione. Sussidiando le esportazioni si aumenta a spese dei contribuenti (quindi slealmente) l’offerta sui mercati internazionali, deprimendone i prezzi, specialmente se chi sussidia le esportazioni è una “grande nazione” come l’Unione europea, ovvero il più grande mercato agroalimentare del mondo.

Gli effetti di questo “dumping” sono proporzionali alla dimensione dei mercati. Per esempio, l’Unione europea, nonostante le quote di produzione, spende oltre 1.500 milioni di euro all’anno per sussidiare le esportazioni di prodotti lattiero caseari: l’effetto sui prezzi internazionali non può essere trascurabile. Anche i sussidi alla produzione distorcono i prezzi sul mercato internazionale. Se l’Unione Europea, che realizza oltre i tre quarti della produzione mondiale di olio d’oliva, sussidia con 3.200 milioni di euro all’anno i suoi produttori, gli effetti sul residuo piccolo mercato mondiale, costituito prevalentemente dai paesi mediterranei non comunitari, possono essere ingenti. Gli olivicoltori dell’Albania e di alcuni paesi del Nord Africa, per esempio, non raccolgono parte delle olive nonostante i loro bassi redditi e il basso costo del lavoro: ciò è molto probabilmente dovuto anche alla nostra Pac.
Oltre l’80 per cento dei sussidi alle esportazioni pagati nel mondo sono finanziati dai contribuenti europei. E inoltre paghiamo circa i tre quarti dei sussidi finalizzati al sostegno dei prezzi a livello della produzione. (1)
Gli effetti della distorsione dei mercati internazionali sono molteplici e, di solito, si traducono in minor benessere e minor ricchezza per tutti.

Controllo della produzione

L’intervento della Unione europea sui mercati agricoli non solo manipola i prezzi con barriere doganali e sussidi alle esportazioni, ma in vari comparti produttivi condiziona direttamente la quantità prodotta. Si tratta di strumenti fortemente contrari allo spirito con cui è nata e si è sviluppata la Comunità europea, tipici delle economie centralizzate.
Si è mascherato l’eccesso di risorse nel settore con le quote di produzione e con le sovvenzioni agli agricoltori per lasciare incolto una parte del terreno coltivabile, la così detta “messa a riposo dei seminativi” o “set-aside”. Attualmente, i cittadini europei, come contribuenti, pagano circa 1.700 milioni di euro all’anno per convincere gli agricoltori a non coltivare oltre il 10 per cento dei seminativi. Come consumatori, pagano un ulteriore trasferimento di reddito, probabilmente ancor più elevato, perché il fine principale di questi interventi è ridurre l’offerta e mantenere prezzi elevati sul mercato. Questa politica potrà certo favorire i grandi produttori di cereali e vari proprietari fondiari, ma non si può dire che faccia l’interesse dei cittadini europei.
Gli sprechi di risorse sono così molto meno visibili, anche se probabilmente maggiori di quando le eccedenze si distruggevano, si regalavano, o se ne sussidiava l’esportazione, cosa che peraltro facciamo ancora.

Cosa dovrebbe fare la Ue per i paesi più poveri e per i nostri produttori

Una sincera politica di aiuto nei confronti dei paesi più poveri dovrebbe favorire il trasferimento delle nostre tecnologie di produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, aiutandoli a migliorare le loro strutture produttive, a ridurre i costi di produzione e a diventare più competitivi sul mercato internazionale. Nel breve termine questo può ridurre le rendite in qualche comparto produttivo comunitario, ma nel lungo termine si rivela utile per tutti, favorendo il miglior sfruttamento possibile a livello internazionale delle risorse disponibili.
Questa ricetta vale anche per il mercato interno. L’Unione europea dovrebbe aiutare i produttori a realizzare rapidamente una ristrutturazione della produzione agricola compatibile con le attuali condizioni del mercato internazionale, rinunciando a mantenere barriere agli scambi e a controllare la produzione. In linea di principio tutti – dal governatore della Banca d’Italia ai ministri economici del Governo, agli esperti o ministri ombra dell’opposizione – sono d’accordo nell’affermare che bisogna ridurre la spesa assistenziale, a pioggia, per favorire la spesa in investimenti.
Ma l’impressionante trasferimento di redditi che la Pac orienta sul settore agricolo è in larga maggioranza “a pioggia”, volto a sostenere i ricavi dei produttori così come sono adesso, anche se i loro prodotti non sono richiesti dai consumatori. Gli aiuti agli investimenti sono inferiori al 5 per cento del totale dei trasferimenti. In questo modo si congela una struttura produttiva inefficiente.

Quali paesi sostengono la Pac?

In linea di principio, maggiormente responsabili a livello europeo di questi aspetti negativi della Pac dovrebbero essere i paesi, come la Francia, che beneficiano del sostegno dei prezzi in quanto esportatori netti di prodotti agricoli.
I paesi importatori netti, come il Regno Unito o l’Italia, sono costretti a pagare le loro importazioni intracomunitarie a prezzi maggiorati, trasferendo reddito dai loro cittadini ai produttori dei paesi esportatori.
Nella realtà non è sempre così. Alcuni paesi, come il Portogallo e l’Italia, pur essendo importatori netti, spesso favoriscono misure protezionistiche anche per accontentare le loro lobby agricole. D’altro canto paesi di tradizione liberista, come l’Olanda, pur essendo grandi esportatori di prodotti agroalimentari prendono spesso posizioni progressive e riformiste sulla Pac.

La riforma che non risolve i problemi

Come è avvenuto per i numerose riforme precedenti (2), a prima vista la recente riforma della Pac sembra risolvere la crisi. In realtà, non viene sostanzialmente modificato il parametro fondamentale del protezionismo agricolo, cioè il flusso di trasferimenti di reddito dalle famiglie al settore agricolo. Gran parte di questi trasferimenti non raggiungono nemmeno gli agricoltori in quanto sono sprechi netti di risorse o si disperdono fra gli intermediari che forniscono agli agricoltori materie prime e mezzi tecnici oppure operano nella trasformazione e distribuzione dei prodotti.
La riforma Fischler presentata un anno fa riduce l’accoppiamento di questi trasferimenti alle singole coltivazioni, ma non riduce sufficientemente i trasferimenti stessi. Ad esempio, i trasferimenti che i produttori di cereali ricevevano negli anni Ottanta come sostegno dei prezzi, dopo la riduzione della protezione alla frontiera sono stati chiamati “pagamenti compensativi”, pagati dal bilancio comunitario per evitare shock violenti alla produzione. Invece di smantellarli in pochi anni per permettere la ristrutturazione della produzione secondo i nuovi prezzi di mercato, la Pac li ha sostanzialmente mantenuti, chiamandoli “aiuti al reddito”. Ora si riducono solo del 5 per cento entro il 2012, e si giustifica il restante 95 per cento con presunti benefici ambientali che derivano da queste coltivazioni.

La Pac e i nuovi paesi dell’Unione

La Pac è stata estesa anche ai nuovi dieci paesi membri dell’Unione. Il primo effetto prevedibile è un grande aumento dei trasferimenti all’agricoltura da parte dei contribuenti e dei consumatori di quei paesi. Ma anche a spese nostre, perché il reddito pro capite nei nuovi paesi è molto più basso del nostro e il loro contributo alle nuove spese del bilancio dell’Unione è proporzionalmente minore.
La Direzione generale dell’agricoltura della Commissione europea ha stimato che l’aumento dei redditi agricoli sarebbe superiore al 70 per cento. Questo non potrà non aumentare l’offerta di prodotti, nonostante le quote di produzione e la messa a riposo dei seminativi. E dunque invece di ridursi, lo spreco di risorse in agricoltura aumenterà.
Se il sostegno dei ricavi agricoli poteva avere una giustificazione negli anni Sessanta, quando i paesi fondatori della Cee erano molto deficitari di prodotti agroalimentari e volevano stimolarne l’offerta interna, ora non ha alcun senso aumentare i ricavi dei produttori nei nuovi paesi membri, se non quello di mantenere l’attuale sostegno ai nostri produttori in un mercato unico. Pensiamo a quanti usi alternativi per lo sviluppo economico e sociale di quei paesi avrebbero potuto avere queste risorse economiche.
Oltre a gravare sulle famiglie più povere, che spendono una quota maggiore del loro reddito in prodotti alimentari, peggiorando la distribuzione del reddito, gli aiuti a pioggia aumenteranno le rendite fondiarie, e ritarderanno l’aggiustamento strutturale dell’agricoltura in quei paesi, riducendone la competitività internazionale.

Elezioni europee e politica agricola

In questa campagna elettorale si parla tanto di Iraq, di Bush e di problemi internazionali.
Molto poco si discute delle politiche applicate dalla Unione europea e in particolare della politica agricola, che pure è stata storicamente la politica di settore più importante e che ancora adesso è quella che genera una maggiore ridistribuzione del reddito fra i cittadini europei. E una delle cause degli errori più grandi attuali e del passato è stata proprio un’informazione molto carente e distorta.
Il dibattito politico e il processo decisionale a Bruxelles sono fortemente condizionati da uno squilibrio di potere contrattuale. Da un lato, alcune lobby dei produttori che beneficiano maggiormente dei trasferimenti sono molto ben finanziate e organizzate. Dall’altro lato, i cittadini, che ne pagano il costo, non sono organizzati per difendere i loro interessi. Le organizzazioni dei consumatori potrebbero certo svolgere un ruolo attivo nella difesa degli interessi generali della collettività in questo settore, ma non sembrano molto interessate ad affrontare approfonditamente questi problemi, obiettivamente complessi e specialistici.
Di fronte a questo squilibrio di pressioni sulla stampa e sul processo decisionale della Pac, è comprensibile, anche se non giustificabile, che gli operatori politici si lascino trascinare dalla corrente. Non ci resta che sperare in nuovi operatori politici meno compiacenti nei confronti degli interessi di parte e più sensibili a quelli di tutti i cittadini europei. Parlarne prima delle elezioni europee, è certamente utile.

(1) I sussidi inclusi dal Gatt-Wto nelle così dette scatole “arancione” e “blu” in contrasto con le politiche incluse nella “scatola verde” che non distorcono i prezzi in modo rilevante.

(2) Negli anni Novanta, si sono susseguite la riforma Mac-Sharry del 1992, l’accordo Gatt nel 1994 e Agenda 2000 nel 1997



https://it.wikipedia.org/wiki/Politica_agricola_comune
La politica agricola comune (PAC) è una delle politiche comunitarie di maggiore importanza, impegnando circa il 34% del bilancio dell'Unione europea. È prevista dal Trattato istitutivo delle Comunità.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 10:32 am

Un articolo del 1978


Saggi
Anno XX, 1978, Numero 2-3, Pagina 79
L’Europa e il mondo tra libero scambio e protezionismo
GUIDO MONTANI

http://www.thefederalist.eu/site/index. ... 03&lang=it


1. La crisi del commercio internazionale.
Il commercio internazionale è in crisi. Dopo gli avvenimenti del 1973, ad anni di cedimento si alternano anni di lieve ripresa. Ma il trend è abbastanza netto. Il tasso medio annuo di aumento dell’ultimo quinquennio è inferiore alla metà di quello del decennio precedente (8,5%). L’espansione eccezionale degli scambi mondiali nel dopoguerra, che non ha confronti nella storia del commercio mondiale, sembra oramai definitivamente esaurita.
La contrazione del commercio mondiale è un indice preoccupante di una inversione di tendenza dell’assetto economico mondiale. In effetti, si sta assistendo al ritorno di pratiche protezionistiche, palesi — come l’introduzione di tariffe doganali e le restrizioni ai movimenti di capitali — o od occulte — come le fluttuazioni monetarie, le manovre fiscali e le sovvenzioni alle industrie non competitive. L’ordinamento economico internazionale, che nel dopoguerra ha consentito l’affermazione del libero scambio, oggi è contestato da più parti e non si vede ancora con chiarezza quali siano le possibili soluzioni della crisi. Da un lato, come in sede di negoziati G.A.T.T., si iniziano trattative per le riduzioni tariffarie nella speranza che la logica che ha guidato le fasi precedenti possa prevalere di nuovo. Ma, dall’altro, quasi ogni giorno assistiamo all’introduzione di misure per proteggere le industrie in crisi e l’occupazione nazionale in Europa e negli Stati Uniti, come è accaduto recentemente per l’industria siderurgica.
Nella storia del commercio internazionale non è la prima volta che si manifesta questa drammatica alternativa fra libero scambio e protezionismo. Fra le due guerre mondiali si è posto il medesimo dilemma. E vi sono ragioni per ritenere che oggi ci troviamo in una situazione simile proprio perché quei problemi, che hanno causato la grande crisi, non sono stati risolti e si ripropongono con la medesima gravità e cogenza.
È bene soffermarsi pertanto, anche se molto sommariamente, ad analizzare le cause profonde dell’attuale disordine economico internazionale, per non cadere nell’illusione che si possa uscire dalla crisi con semplici provvedimenti congiunturali e di breve periodo. La crisi è strutturale e può essere affrontata adeguatamente solo introducendo importanti modifiche istituzionali all’attuale assetto economico mondiale. L’alternativa fra libero scambio e protezionismo si gioca a livello mondiale e non dipende dalla buona o cattiva disposizione di questo o quel governo, ma dalla scelta per una diversa distribuzione del potere nel mondo.
Non si può, infine, più pensare che la libertà di commerciare sia legata esclusivamente all’altezza delle tariffe doganali: nelle economie moderne, dove lo Stato interviene in mille modi per orientare la produzione, i sussidi alle imprese in difficoltà o la fiscalizzazione degli oneri sociali possono avere gli stessi effetti distorsivi della concorrenza internazionale. Per questo è indispensabile affrontare il problema della ripresa del commercio internazionale in relazione a quello della ristrutturazione industriale, in corso sia nei paesi avanzati che nel Terzo mondo.

2. Il declino dell’Europa e del libero scambio.
Nel secolo scorso, l’espansione del commercio mondiale ha coinciso in gran parte con l’espansione di quello europeo. La supremazia del Regno Unito sui mari e sui mercati finanziari ha consentito l’unificazione del mercato mondiale, grazie all’abbattimento progressivo delle barriere tariffarie e all’adozione di un sistema monetario universalmente accettato, il gold standard.
Dopo la fine del primo conflitto mondiale, ci si illuse, tuttavia, di poter rimettere in sesto il vecchio ordine economico senza tener conto che nuovi fattori erano intervenuti a modificare la bilancia mondiale delle forze. Un nuovo centro di potere si affacciava ormai sulla scena internazionale. Nel 1870, la produzione di ghisa era pari a 6,1 milioni di tonnellate nel Regno Unito e a 1,7 negli U.S.A. Nel 1920, essa era di 8,2 milioni nel Regno Unito e di 37,5 negli U.S.A. La quota delle esportazioni di manufatti sul totale mondiale era, sempre nel 1870, del 31,8% per il Regno Unito e del 23,3% per gli U.S.A. Per il periodo 1926-29 l’importanza relativa dei due paesi venne capovolta: la quota degli U.S.A. salì al 42,2% mentre quella del Regno Unito scese al 9,4%. Sul fronte finanziario, New York si affiancava ormai a Londra come centro di importanza mondiale e, data la difficoltà, mai conosciuta prima, di mantenere la convertibilità in oro della sterlina, il dollaro venne sempre di più utilizzato come moneta degli scambi internazionali.
Ma al bilanciamento della forza economica degli Stati Uniti e dell’Europa non corrispose allora una adeguata suddivisione delle responsabilità internazionali. Mentre Londra continuava a funzionare come centro finanziario internazionale, manovrando il tasso di sconto e gli investimenti in funzione dell’andamento della congiuntura internazionale, la piazza di New York metteva in pratica solo una politica economica in funzione delle esigenze americane. Cosi avvenne che la sostanziale unità del mercato mondiale acquisita nel periodo prebellico venne incrinata e sulle due sponde dell’Atlantico, ma specie in Europa, ogni paese cominciò a praticare una politica monetaria e commerciale indipendente, a difesa di obiettivi nazionali di sviluppo e di occupazione.
Nel 1929, l’Europa nel suo insieme, con il 47,4% delle esportazioni mondiali, occupava ancora il primo posto nel commercio mondiale. Ma il Regno Unito, a causa di crescenti difficoltà nella sua bilancia dei pagamenti, si orientava sempre più verso il protezionismo. La Germania non aveva altra via per far fronte al pagamento dei debiti di guerra che contenere le importazioni. E simile era il comportamento degli altri paesi europei. L’ordine economico internazionale era ormai divenuto una pura parvenza: da un sistema multilaterale di scambi si scivolava inesorabilmente verso il bilateralismo. In effetti, ai primi tentennamenti del commercio mondiale, ben presto tutti seguirono l’esempio degli Stati Uniti, che nel 1930 elevarono intorno al loro mercato nazionale la più imponente delle barriere protettive (la tariffa Smoot-Hawley). L’America rinunciò allora ad esercitare il suo ruolo di potenza mondiale e gli Stati europei non avevano più la capacità di farlo. La crisi internazionale era inevitabile.

3. La leadership americana, l’integrazione europea e la ripresa del libero scambio.
Nel secondo dopoguerra, apparve a tutti evidente che l’Europa, prostrata dal più sanguinoso dei conflitti, non poteva più svolgere un ruolo guida nel mondo, che venne in effetti diviso dalle superpotenze in due grandi sfere egemoniche. Nella fase della guerra fredda, gli Stati Uniti, vincendo le interne resistenze isolazionistiche, seppero esercitare sul mondo occidentale una benefica influenza. Essi garantirono il funzionamento, da un lato, del Fondo monetario internazionale, che assicurò un lungo periodo di cambi stabili e di convertibilità generalizzata delle monete, e dall’altro del G.A.T.T., che costituì il foro entro il quale vennero progressivamente contrattate le riduzioni tariffarie multilaterali che trasformarono l’occidente in un vasto e libero mercato.
In questa fase, la solidarietà americana verso l’Europa, che già si era manifestata nella guerra al nazismo, continuò sotto forma di assistenza economica. Nel 1947, con il Piano Marshall, gli Stati Uniti fornirono ai loro alleati europei una ingente quantità di aiuti per rimettere in sesto le economie europee, che mai avrebbero potuto riprendere a funzionare, con tanta efficienza e in così breve lasso di tempo, in modo autonomo. Si calcola che nel 1950 la quasi totalità dei paesi beneficiati potesse produrre il 20% in più del livello del 1938. I generosi aiuti del Piano Marshall (11,4 miliardi di dollari dal 1948 al 1951) attenuarono il cosiddetto dollar shortage, cioè la grave scarsità di dollari da parte dei paesi europei, bisognosi di importare dagli U.S.A. beni capitali e di consumo.
Gli aiuti americani vennero concessi anche in funzione antisovietica: una Europa prospera avrebbe infatti contenuto con più energia la pressione staliniana. Ma a differenza dell’U.R.S.S., che volle egemonizzare l’organizzazione economica (Comecon) dei paesi dell’Europa orientale, gli Stati Uniti spinsero gli europei a darsi delle istituzioni autonome, dalle quali essi erano esclusi. Così nacquero il Consiglio d’Europa e, in seguito, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio e il progetto della Comunità europea di difesa.
Fu in questo contesto di solida collaborazione fra Europa e America che nacque e poté svilupparsi la Comunità europea. All’inizio, il Mercato comune non fu nient’altro che una unione doganale, ma i trattati di Roma prevedevano la sua trasformazione in una vera e propria unione politica ed economica. Gli effetti sul benessere europeo e mondiale della creazione del Mercato comune furono notevoli. Basta osservare che, in volume, per il periodo 1958-1971 le importazioni ed esportazioni intracomunitarie sono aumentate del 505% e che per lo stesso periodo le esportazioni extracomunitarie sono aumentate del 174%. Non vi sarebbe stato nessun «miracolo economico» italiano, tedesco, ecc. senza la Comunità europea. Infine, la creazione del Mercato comune ha avuto un effetto positivo anche sull’andamento del commercio mondiale, perché tutte le stime fatte in proposito mostrano che esso ha «creato» commercio, al netto di effetti protezionistici che possono manifestarsi quando viene istituita una unione doganale. Non vi è dubbio pertanto che il Mercato comune ha rappresentato un importante fattore di sviluppo economico, sociale e civile del dopoguerra.

4. La crisi internazionale e il ritorno del protezionismo.
Questo periodo di stabilità e prosperità internazionale doveva tuttavia aver termine con la fine della guerra fredda. Sul fronte occidentale, l’Europa economica divenne abbastanza ricca e importante da contrastare la politica americana, come dimostrano le minacce di de Gaulle di convertire le riserve francesi di dollari in oro e le trattative del Kennedy Round. Sul fronte orientale, la leadership sovietica sul mondo comunista venne invece contestata dalla Cina. La fase della distensione, caratterizzata dal superamento della tensione fra le superpotenze, fu pertanto generata dal loro tentativo di mantenere la propria egemonia sulle rispettive zone di influenza.
In questa situazione di relativa debolezza delle superpotenze, due sono i fattori che hanno contribuito a incrinare il vecchio ordine economico mondiale. Il primo riguarda l’assetto monetario. Verso la fine degli anni sessanta, divenne evidente che, dato l’elevato interscambio europeo e l’enorme quantità di oro e valute pregiate accumulate dalle banche centrali europee, sarebbero state possibili speculazioni internazionali di vaste proporzioni sulle monete europee, fra di loro e nei confronti del dollaro, sempre più debole come moneta di riserva. Il Vertice europeo dell’Aja del 1969 cercò di porre un argine al fenomeno auspicando la creazione di una «Unione economica e monetaria europea». Nel 1970, in effetti, venivano accettate dalla Comunità le proposte contenute nel Rapporto Werner sulla «realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria».
Ma questo progetto fallì per l’impossibilità, ormai evidente oggi, di coordinare le economie europee prima di avere delle istituzioni monetarie comuni. Quando il 15 agosto 1971 il governo americano dichiarò l’inconvertibilità del dollaro, il sistema delle parità fisse di Bretton Woods venne definitivamente abbandonato e si iniziò la fase delle fluttuazioni monetarie generalizzate. L’Europa del Mercato comune, che aveva potuto funzionare grazie all’utilizzazione del dollaro come moneta europea — si pensi solo alla sua importanza per il mercato agricolo —, si trovò del tutto indifesa. Nonostante il Piano Werner fosse ormai adottato, ogni paese manovrò tassi di interesse e masse monetarie in funzione di obiettivi interni di politica economica; così si realizzò la divergenza progressiva, e non la convergenza, delle economie europee. Con le fluttuazioni monetarie in Europa e nel mondo si compì un passo decisivo verso una situazione di sempre più grave disordine monetario, che potrebbe facilmente degenerare nel caos e nel ritorno al bilateralismo prebellico negli scambi mondiali.
Il secondo fattore dell’incrinatura del vecchio ordine, che rivela la portata storica dell’attuale crisi internazionale, riguarda i rapporti fra paesi industrializzati e Terzo mondo. Con la fine del periodo coloniale, per questi paesi l’emancipazione politica non è stata accompagnata da un miglioramento sostanziale, o anche solo dalla speranza di un miglioramento, della loro condizione di povertà. La loro emarginazione dal commercio mondiale si è accentuata, in termini relativi. La quota delle esportazioni dei paesi sottosviluppati sul totale mondiale, che era salita dal 16% all’inizio del secolo al 31% nel 1950, è scesa, con regolare progressione, ancora al 17,8% nel 1970. Essi esportano prevalentemente materie prime e importano manufatti. Hanno bisogno di aiuti finanziari e tecnici e chiedono di poter esportare le loro produzioni sui mercati più ricchi. Ma fino ad ora gli aiuti sono stati scarsi e gli ostacoli tariffari ed istituzionali dei paesi avanzati impediscono loro di puntare, per il loro sviluppo, sugli sbocchi dei mercati di massa.
Per queste ragioni, a causa della crisi della leadership americana sul mondo occidentale e delle nuove pressanti rivendicazioni dei paesi emergenti del Terzo mondo, sta prevalendo la politica del «ciascuno per sé». Al disordine monetario internazionale si accompagna l’aumento indiscriminato dei prezzi delle materie prime, come estremo tentativo dei paesi più poveri di farsi giustizia. I paesi industrializzati, per conto loro, hanno reagito alle difficoltà internazionali con la decisione di incentivare le esportazioni e di contenere le importazioni. Così, anche se a parole il principio della cooperazione internazionale resta salvo, in verità viene praticata la politica ben più spregiudicata e remunerativa, ma solo nel brevissimo periodo, del beggar my neighbour.

5. Ristrutturazione industriale e commercio internazionale.
Nel dibattito in corso fra le forze politiche e sociali non è ancora emerso con sufficiente chiarezza che il problema della ristrutturazione industriale ha una dimensione mondiale e che la sua soluzione, in senso progressivo o regressivo, è legata al futuro assetto del commercio internazionale. Il mondo ormai è interdipendente. Occorre pertanto ricercare quelle alternative che consentano di sfruttare nel miglior modo possibile le risorse naturali ed umane sul piano mondiale. Ciò sarà tanto più facile e possibile quanto più si prenderà coscienza della natura del processo di trasformazione che sta investendo tanto le economie avanzate quanto i paesi in via di sviluppo.
Nelle economie avanzate è in corso il passaggio dal modo di produzione industriale a quello post-industriale. La lavorazione alla catena di montaggio viene sempre più contestata e si rivela conveniente passare a processi produttivi semi-automatizzati o completamente automatizzati, in cui la lavorazione materiale viene eseguita dalle macchine sotto il controllo di personale altamente qualificato. Questo trend storico, per quanto contrastato nel breve periodo, non cessa di avanzare perché corrisponde ad una aspirazione fondamentale della nostra società: la liberazione dal lavoro parcellizzato e ripetitivo. Ciò significa che nei paesi ad economia avanzata occorrerà procedere ad un vasto piano di ristrutturazione delle industrie cosiddette «mature», come ad esempio quelle relative a certe produzioni tessili, per potenziare invece i settori di punta come l’aeronautica, l’elettronica, ecc. Nello stesso tempo, occorre affrontare l’urgente problema della riqualificazione della manodopera che viene liberata dal progresso tecnologico e dalla contrazione delle produzioni mature. Il passaggio da un tipo di produzione ad un altro aumenterà la produttività ed il benessere, ma potrà avvenire senza tensioni sociali, sofferenze e sprechi, solo se affrontato con consapevolezza dalle forze politiche e sociali.
Nei paesi del Terzo mondo, d’altro lato, si comincia a intravvedere la possibilità di fare decollare l’economia incentivando la produzione e l’esportazione di manufatti richiedenti una tecnologia elementare o intermedia e una manodopera poco qualificata. È questo il primo indispensabile passo per poter competere, in un secondo tempo, coi paesi avanzati sul fronte dei beni ad alto contenuto tecnologico, richiedenti competenze e specializzazioni oggi ancora non disponibili alle popolazioni del Terzo mondo.
È ovvio che queste due tendenze in atto nei paesi industrializzati e sottosviluppati sono complementari solo nella misura in cui i primi sono disposti a rinunciare a proteggere le loro industrie mature e ad importare questi beni dai paesi emergenti, con costi della manodopera più bassi. Ciò comporta un avanzamento nella divisione internazionale del lavoro, perché comunque i paesi del Terzo mondo non possono competere nei settori a tecnologia d’avanguardia, ma possono godere dei vantaggi di questa specializzazione nella misura in cui sono in grado di importare macchine sempre più perfezionate, efficienti ed a basso costo.
Purtroppo, bisogna però constatare che nell’attuale situazione di crisi internazionale vi è un orientamento decisamente contrario allo sviluppo in senso progressivo della divisione internazionale del lavoro. In particolare, gli Stati europei, a causa della loro divisione, sono solo capaci di attuare delle politiche di difesa della produzione e dell’occupazione nazionale. Ciò è anche giusto, in mancanza di altre alternative. Difendere l’occupazione e la produzione interna, con sussidi ed emissioni monetarie, per quanto inflazionistico sia, evita comunque una disastrosa caduta della domanda aggregata che potrebbe condurre a crisi di sovrapproduzione simili a quelle degli anni trenta. Ma rispetto alla tendenza secolare esaminata, tale politica assume un doppio significato regressivo. Da un lato, ostacola l’introduzione di processi automatizzati ad alta produttività e, dall’altro, impedisce il dislocamento delle industrie mature a tecnologia intermedia al Terzo mondo. Non vi sarà ripresa del commercio mondiale fino a che non si accetterà di rendere complementare, e non concorrente, lo sviluppo delle economie avanzate e delle economie arretrate.

6. L’Unione monetaria europea e la ripresa del libero scambio.
Per riassumere, l’attuale situazione internazionale risulta caratterizzata dai seguenti fattori. In primo luogo, vi sono enormi spinte al mutamento provenienti dal desiderio dei paesi europei di svolgere in campo internazionale un ruolo più attivo e indipendente dalle superpotenze. A ciò si accompagna, nei paesi avanzati, la progressiva affermazione del modo di produzione post-industriale. Sul fronte dei paesi sottosviluppati si manifesta invece la spinta sia a forzare il mercato delle materie prime per modificare la distribuzione internazionale della ricchezza, sia ad impadronirsi delle produzioni mature e ad invadere i mercati più ricchi.
L’attuale assetto internazionale è in contrasto con l’affermazione di queste forze. Gli Stati Uniti hanno troppe incombenze internazionali per avere anche la forza di provvedere a significative aperture al Terzo mondo, il quale, è bene ricordarlo, invia solo il 20% delle sue esportazioni verso il Nord-America contro il 38% verso l’Europa. L’Europa, d’altro canto, che rappresenta il principale sbocco dei paesi sottosviluppati e risulta di gran lunga la prima potenza commerciale mondiale — la Comunità a nove esporta per il 34% del totale mondiale rispetto al 12% degli U.S.A. —, non è in grado di assumersi responsabilità internazionali. Gli Stati europei sono costretti a praticare politiche commerciali difensive, che ostacolano il loro sviluppo e quello dei loro partners. È la divisione dell’Europa il principale fattore che impedisce il progresso delle forze produttive su scala mondiale e che può condurre al ritorno del nazionalismo economico.
Si verifica pertanto, in questi anni, una situazione altrettanto grave di quella che ha condotto alla grande crisi del 1929. Allora, di fronte alla debolezza degli Stati europei in declino, l’America, ancora insensibile al suo destino di superpotenza, si rifiutò di prendersi carico della gestione dell’economia mondiale. Questo errore non fu più ripetuto nel secondo dopoguerra e tutti abbiamo sperimentato i benefici effetti di un vasto e libero mercato mondiale. Ora questi risultati sono di nuovo messi in discussione a causa della debolezza americana e dell’impotenza europea. Una situazione in cui la principale potenza commerciale mondiale non possiede ancora una propria moneta, ma alimenta il disordine monetario perché utilizza il dollaro per gli scambi intraeuropei, è destinata a finire. Se gli europei non vorranno incamminarsi con più decisione sulla via dell’unità, saranno costretti a riconoscere senza più reticenze l’egemonia dell’America sul mondo occidentale, anche se ciò si accompagnerà certamente ad una situazione di stagnazione economica e sociale.
Tuttavia gli europei hanno oggi l’occasione per realizzare l’unificazione politica dell’Europa e gettare le premesse di una equal partnership euro-americana che garantirebbe la fondazione di un nuovo e progressivo ordine mondiale per un lungo ciclo storico. L’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale costituisce in effetti la base politica indispensabile per trasformare la Comunità europea in un vero e proprio Stato federale. Con la partecipazione dei cittadini, delle forze sociali e dei partiti alla costruzione dell’Europa diventa possibile rilanciare, come ha recentemente proposto il Presidente della Commissione della Comunità Roy Jenkins, il progetto di Unione economica e monetaria. Infatti, solo se l’Europa saprà dotarsi di un’unica moneta, di un unico fondo di riserve internazionali (e le riserve in oro dell’Europa sono le più consistenti del mondo), di una sola bilancia dei pagamenti, il governo della Comunità potrà impostare una efficace politica economica internazionale, anche nei confronti delle superpotenze. Ed è facilmente prevedibile, su questa base, che si possa avviare una proficua collaborazione fra Europa ed America, perché esistono interessi convergenti sulle due sponde dell’Atlantico, per riformare il sistema monetario internazionale, con la moneta europea che potrebbe affiancarsi al dollaro come moneta di riserva, e rilanciare un nuovo ciclo di riduzioni tariffarie per far riprendere lo sviluppo del commercio internazionale sulla base di accordi multilaterali.
Nel quadro dell’Unione monetaria europea cadrebbero tutti gli ostacoli che oggi soffocano lo sviluppo delle forze produttive. L’abbattimento delle barriere economiche intraeuropee e la costituzione di una bilancia europea dei pagamenti consentirebbero ai paesi della Comunità di progettare il proprio sviluppo senza più temere i vincoli derivanti da una debole posizione internazionale. Si potrebbero avviare piani a dimensione continentale per la riconversione industriale, per incentivare le industrie di punta, dallo sviluppo delle quali dipende la possibilità di alleggerire la pressione occupazionale sui settori maturi. In questo modo si getterebbero anche le basi per fruttuosi accordi commerciali con il Terzo mondo, che ha bisogno di vendere, non solo le sue materie prime, ma anche i suoi manufatti, per importare macchinari ed esperienza tecnologica.
Per concludere, il commercio dei paesi occidentali rappresenta la quasi totalità del commercio mondiale. È comunque da esso che dipendono le tendenze generali. Il quadro attuale rappresenta un freno alla sua evoluzione e solo una Europa unita e consapevole del suo ruolo può costituire un fattore capace di invertire l’attuale tendenza al nazionalismo economico. La scelta per la Unione monetaria, come ha indicato Jenkins, non è facile. Ma è possibile e dipende solo dalla volontà degli europei. Il mondo ha bisogno di maggiore stabilità e di prospettive a lungo termine. L’America, nel dopoguerra, ha fatto ormai il suo compito. Spetta ora agli europei affiancarsi ai loro partners d’oltre Atlantico per prendersi il proprio carico di responsabilità. Ciò è necessario e doveroso, perché da questa scelta degli europei dipende anche il futuro, per un lungo ciclo storico, di tutta l’umanità.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 10:59 am

Monopoli legali (attività protette e generalmente statali)


https://it.wikipedia.org/wiki/Monopolio
Monopolio (dal greco μόνος mònos «solo» e -πώλιον pólion da πωλεῖν polèin «vendere») è una forma di mercato, dove un unico venditore offre un prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale, protetto da barriere giuridiche). Consiste insomma nell'accentramento dell'offerta o della domanda del mercato di un dato bene o servizio nelle mani di un solo venditore o di un solo compratore.
...
Un monopolio basato su leggi che esplicitamente limitano la concorrenza le quali fungono da intermediazione dei diritti su opere tutelate di rappresentazione, esecuzione e recitazione, radiodiffusione riproduzione meccanica e cinematografica è detto monopolio legale (o de jure). Il monopolio legale inoltre può proteggere l'interesse privato nella concessione di diritti esclusivi per offrire un servizio particolare in una regione specifica (ad es invenzioni brevettate), accettando di avere le loro politiche e dei prezzi controllati. Il monopolio legale è regolamentato dall'art 180 Un monopolio legale può assumere la forma di un monopolio di governo in cui lo Stato possiede i mezzi di produzione (monopolio di stato).
Un esempio classico per poter più facilmente comprendere la questione e la funzione di questo monopolio è: supponendo che il bene prodotto in regime di monopolio dovuto a brevetto sia una nuova medicina. Da un lato, la concorrenza perfetta consentirebbe un maggiore livello di produzione ad un prezzo più contenuto; dall'altro, se non ci fosse stata la possibilità di agire in una condizione di monopolio grazie al brevetto, il bene in questione non sarebbe stato introdotto sul mercato. Quando un'impresa investe tempo e denaro per sviluppare un nuovo prodotto desidera che tale investimento renda: il brevetto è un modo per garantire tale rendimento poiché, almeno per un certo numero di anni, l'impresa potrà raccogliere i frutti della propria inventiva.
Questo tipo di monopolio è di solito in contrasto con monopolio di fatto che è una vasta categoria di monopoli che non vengono creati dal governo.



OCCHIO AI FALSI NEMICI DEL PROTEZIONISMO
di MATTEO CORSINI
http://www.miglioverde.eu/occhio-ai-fal ... tezionismo

“Sovranità vera, non quella illusoria, significa aprire i nostri confini agli scambi commerciali, ma combattendo con determinazione l’elusione fiscale e la concorrenza sleale di chi allenta le normative per attirare le imprese”. Emmanuel Macron, candidato alla presidenza in Francia, critica il protezionismo annunciato dal neo presidente americano Trump.
Nulla da dire sulle critiche al protezionismo, ma pensare di aprire agli scambi commerciali bollando poi come “concorrenza sleale” l’abbassamento delle tasse da parte di qualche Stato rende chiara l’idea che Macron (peraltro in folta compagnia) ha del concetto di concorrenza.
In pratica, va bene che non ci siano barriere agli scambi sotto forma di dazi, ma guai se da qualche parte la pretesa del fisco è inferiore che altrove. Quindi la concorrenza tra imprese va bene su scala globale, ma quella tra Stati no. Quando si tratta di Stati, al posto della concorrenza è meglio che ci sia un bel cartello, e che sia il più ampio possibile.
Credo sia sempre bene ascoltare con sospetto i proclami di certi difensori del commercio internazionale.



IRRAZIONALE È TRATTARE MILIONI DI INDIVIDUI COME FOSSERO AUTOMI
di MATTEO CORSINI

http://www.miglioverde.eu/irrazionale-e ... ero-automi

“I modelli su cui ci basiamo sono fragili e irrazionali, i problemi sono emersi quando il mondo è cambiato radicalmente e quei modelli si sono rivelati inadeguati per valutare comportamenti profondamente irrazionali”. È stata ripresa da diversi mezzi di informazione l’ammissione da parte di Andrew Haldane, capo economista della Bank of England, che le previsioni formulate dagli economisti (nel caso specifico, quelli della BoE), sono per lo più errate.
La BoE (peraltro in buona compagnia) aveva previsto che l’economia del Regno Unito finisse in recessione già nel 2016 in caso di Brexit, cosa che non si è verificata. Secondo Haldane ciò è dovuto a irrazionalità, in parte nei modelli e in maggior parte nei comportamenti delle persone.
Il problema dei modelli è che cercano di descrivere e prevedere in termini quantitativi i risultati delle azioni di milioni di individui, ognuno dei quali almeno in parte diverso dagli altri. Questo è del tutto irrazionale, per il semplice fatto che non solo non sono prevedibili e quantificabili accuratamente le azioni individuali, ma perfino lo stesso individuo, in momenti diversi, può reagire diversamente trovandosi in una medesima situazione. Irrazionale è pertanto pretendere di ridurre ogni individuo a una sorta di automa che agisce nel modo ritenuto razionale da chi costruisce il modello. Per questo non credo abbia senso attribuire alla irrazionalità delle persone l’incapacità dei modelli di fornire previsioni accurate sulle loro azioni e sulle relative conseguenze. Ogni individuo capace di intendere e di volere agisce razionalmente, perché nell’istante in cui agisce fa ciò che ritiene possa rimuovere (o attenuare) uno stato di insoddisfazione rispetto ai bisogni, del tutto soggettivi, che avverte.
Haldane ha dichiarato anche quanto segue: “Ritengo sia onesto ammettere che la professione è in crisi, ma non è la prima volta che accade, basta pensare alla Grande Depressione del 1930. Quella situazione tuttavia ci portò John Maynard Keynes e con lui alla nascita della moderna macro-economia”. Quale sventura ci si deve attendere oggi?
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » dom gen 29, 2017 7:38 pm

???

Indipendentismo, la spinta che difende la nazione del popolo
29 Jan 2017
di SERGIO BIANCHINI

http://www.lindipendenzanuova.com/indip ... del-popolo

Indipendentismo, Nazionalismo, Mondialismo.
Ci sono due tipi di nazionalismo che non vanno assolutamente confusi. Uno offensivo, tendente alla creazione di un impero, cioè di un dominio su un’area molto più vasta della nazione stessa con lo scopo di acquisire vantaggi economici. L’altro difensivo, che resiste all’oppressione che altri paesi esercitano su di sè.
La storia da continui esempi di queste vicende offensive e difensive.

Nel lessico della terza internazionale, dove il dibattito sul rapporto tra nazionalismo e mondialismo fu molto ricco , il nazionalismo difensivo fu legittimato sommamente e addirittura divenne la base della strategia antinglese e antiamericana con la creazione nei paesi sottomessi dei FRONTI di LIBERAZIONE NAZIONALE.
Supportando le istanze indipendentiste, fortissime nel mondo, il comunismo Russo riuscì ad acquisire un’enorme potenza e dopo il forzato ritiro americano dal Vietnam penetrò profondamente in tutto il continente africano. Ma proprio giunto al massimo della potenza si afflosciò per mille ragioni che oggi tutti dichiarano ma che nessuno o quasi aveva previsto. Certamente l’espansionismo eccessivo fu una delle cause.

L’indipendentismo è quindi una forza vitalissima e potentissima che spinge alla nascita di nuovi stati indipendenti, di nuove nazioni. Gli stati indipendenti aderenti all’ONU, che erano 51 nel 1945 all’atto della fondazione, divennero 117 nel 1965, 159 nel 1984, 189 nel 2000 e 193 nel 2011. Attualmente gli stati del mondo sono 206, di cui 196 riconosciuti sovrani considerando solo gli stati indipendenti e non quelli membri di federazioni. La forma nazione si espande senza sosta. Anche le convulsioni del mondo islamico hanno caratteristiche nazionalistiche, sono il modo sanguinoso e fatale attraverso il quale aree storiche sottosviluppate stanno cercando di pervenire allo stato nazionale moderno.

Stato nazionale moderno: una struttura permanente, massiccia, che consente alla classe dirigente un controllo grandioso sulla vita della società e che impegna personale e risorse che vanno dal 25 al 50 % della intera ricchezza di una comunità sociale moderna. L’Iran ha inventato la repubblica islamica e l’ISIS di definisce Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.

Ma anche nel mondo sviluppato le spinte indipendentiste che spingono alla creazione di nuovi stati-nazione sono molto forti. Gli esempi più recenti sono la disgregazione della Iugoslavia, della Cecoslovacchia, le tensioni indipendentiste in Spagna, Belgio, Italia, regno unito ecc. Quindi il nazionalismo difensivo non è una forma arretrata dello sviluppo ma è ancora una forma vitalissima e produttrice di maturità storica.
Il nazionalismo offensivo invece è quello che tende a dominare ed in Europa abbiamo avuto grandiosi esempi con gli imperi Britannico, Francese, Tedesco, Italiano e con le loro controversie sanguinose di cui le due guerre mondiali furono il risultato. Guerre quindi figlie non del nazionalismo ma dell’imperialismo.

In teoria l’ONU , organizzazione delle nazioni unite, avrebbe dovuto aprire un’epoca nuova , a conclusione delle prepotenze mondiali e di collaborazione pacifica universale. La fine del bipolarismo USA URSS invece ha portato ad una crescita esponenziale della prepotenza USA nel mondo e la crescente tendenza USA ad esercitare il monopolio del comando politico ed economico mondiale. L’ONU è praticamente scomparsa, e ormai è l’esercito americano, forte di più di un milione di uomini grandiosamente armati, a gestire la politica mondiale.
E l’Italia? L’Italia si è rivelata il più fedele alleato della nuova politica monarchica USA. L’Italia, in fallimento economico, ha forze armate in tutto il mondo. Contende, con l’appoggio USA, il dominio africano alla Francia e le recenti vicende in Libia mostrano chiaramente le linee di forza dello scontro che riguarda sia la costa nord africana che l’interno, il Sahel e l’Africa sub sahariana con la Nigeria in primis. La copertura mediatica, le organizzazioni “non governative” e la retorica democratica e umanitaria sono la novità dell’impero moderno. E purtroppo su un aspetto di questo neoimperialismo converge il vertice della chiesa Cattolica Romana che proviene da un impero, ha forgiato e sostenuto un impero sacro in Europa e mantiene la tendenza all’egemonia mondiale.

Ma l’egemonismo cattolico è di natura spirituale e la chiesa non ha armate. L’impero americano sostenuto dall’Italia sì. L’ “impero umanistico” si trova però in crescenti difficoltà e forse sarebbe meglio per tutti se cessasse qualunque volontà di monopolio del domino mondiale e prevalesse un ragionevole multilateralismo, con Cina, Russsia , India , Europa, ed altre grandi formazioni partecipi del dialogo pacifico nel nuovo mondo. Per l’Italia sarebbe utile la cessazione immediata delle ridicole velleità imperiali coperte dalla retorica sognante della salvezza del mondo. Un paese come il nostro dovrebbe concentrarsi su se stesso, sul suo fallimento economico e sulle sue divisioni interne che potrebbero essere risolte con l’accettazione delle tre Italie.

E con una modesta e tranquilla partecipazione alle dinamiche europee che, private delle tensioni e delle rivalità imperiali sempre mascherate dall’ umanesimo, sarebbero certamente positive. Allora lo scontro con l’Europa dell’est, Ungheria, Austria, Serbia, Polonia, Slovacchia, e del nord, non avrebbe più ragione di essere e i trattati potrebbero davvero porsi l’orizzonte del cittadino europeo, un cittadino che dialoga e collabora col mondo e non che fa finta di salvare il mondo. L’impero invece non vuole questo, non vuole il cittadino europeo, vuole “il cittadino del mondo” e proprio questa formulazione, con tutte le conseguenze di prepotenza e irresponsabilità che vediamo, chiarisce la persistente e drammatica tendenza USA al monopolio del potere mondiale.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » dom gen 29, 2017 8:50 pm

Il fondatore di Alibaba, JACK MA, ci spiega la crisi esistenziale della globalizzazione creata dagli USA!

https://disquisendo.wordpress.com/2017/ ... -dagli-usa

1. ASCOLTATE E RITAGLIATE LE FRASI DI JACK MA, FONDATORE DI ALIBABA E UOMO PIÙ RICCO DI CINA, SU TRUMP E GLOBALIZZAZIONE: ”NON È STATA LA CINA A RUBARVI IL LAVORO. LE AZIENDE AMERICANE SI SONO ARRICCHITE IMMENSAMENTE TENENDOSI LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE E LA TECNOLOGIA, E MOLLANDO LA MANIFATTURA A CINA E MESSICO”

2. ”DOVE SONO FINITI QUEI SOLDI? 4,2 TRILIARDI SONO ANDATI A FINANZIARE 13 GUERRE ALL’ESTERO. 19,2 TRILIARDI SONO STATI BRUCIATI DA WALL STREET NELLA CRISI DEL 2008”

3. ”COSA SAREBBE SUCCESSO SE VOI LI AVESTE INVESTITI IN INDUSTRIA, EDUCAZIONE, INFRASTRUTTURE?
QUANDO ERO UN PROFESSORE SQUATTRINATO IN CINA, UN CERCAPERSONE COSTAVA 8 $ AL PRODUTTORE, E 250 AL CONSUMATORE? CHE FINE HANNO FATTO QUEI PROFITTI?”

4. FACILE: I PAPERONI DI SILICON VALLEY E WALL STREET CHE ORA PIAGNUCOLANO SULLA VITTORIA DI TRUMP LI HANNO PORTATI IN PARADISI FISCALI, O BRUCIATI NELLA TURBOFINANZA
5. ”ANDRÒ IN PENSIONE PRESTO. NON VOGLIO MORIRE ALLA SCRIVANIA, MA SU UNA SPIAGGIA”

https://disquisendo.wordpress.com/2017/ ... -dagli-usa

L’INTERVENTO INTEGRALE DI JACK MA AL WORLD ECONOMIC FORUM DI DAVOS

1. JACK MA: LA GLOBALIZZAZIONE L’AVETE INVENTATA VOI, INUTILE CHE DATE LA COLPA ALLA CINA. DOVE SONO FINITI I MILIARDI DI PROFITTI DELLE INDUSTRIE DELLA SILICON VALLEY?

Dagonota da www.forbes.com e www.businessinsider.com

Da ritagliare le frasi del fondatore di Alibaba Jack Ma a Davos: ”Donald Trump e la globalizzazione? Quando Thomas Fridman ha pubblicato il suo bestseller ‘Il mondo è piatto’ nel 2005, la globalizzazione sembrava una strategia perfetta per gli USA. Il loro discorso era questo: noi ci teniamo la proprietà intellettuale, la tecnologia e il marchio, e lasciamo il resto del lavoro ad altri paesi come Messico e Cina”.

Poi la stoccata ai giganti della Silicon Valley: ”Le multinazionali americane hanno incassato milioni e milioni e milioni di dollari dalla globalizzazione. Quando mi sono laureato all’università in Cina (Ma è un ex professore del liceo) ho provato ad acquistare un cercapersone. Costava l’equivalente di 250 dollari, io ne guadagnavo 10 al mese come insegnante. Ma il prezzo per produrlo era 8 dollari. IBM e Microsoft facevano più utili delle più 4 più grandi banche cinesi messe insieme…dove sono finiti quei soldi?”

La risposta è facile (e avvilente): in paradisi fiscali (Apple ha quasi 300 miliardi di dollari parcheggiati al riparo del fisco), in smisurati patrimoni personali (Bill Gates destina tutto in beneficienza, in settori che decide lui), e in investimenti finanziari che hanno gonfiato la bolla di Wall Street.

”30 anni fa le compagnie americane di cui i cinesi avevano sentito parlare erano Ford e Boeing. Oggi sono nella Silicon Valley. E a Wall Street, dove sono stati investiti tutti i profitti. La crisi finanziaria ha cancellato 19,2 trilioni (un trilione=1000 miliardi) di dollari, e ha distrutto 34 milioni di posti di lavoro. Immaginate cosa sarebbe successo se quei soldi fossero stati investiti nel Midwest, per sviluppare industrie e infrastrutture, e soprattutto educazione per chi non se la può permettere? Io sono stato respinto da Harvard e me la sono dovuta cavare da solo”

JACK MA

”Non sono gli altri paesi a rubarvi il lavoro, ragazzi – è colpa della vostra strategia. Siete voi che non avete distribuito i profitti nel modo giusto”.

Durante l’incontro, Ma ha raccontato che il suo film preferito è ”Forrest Gump”, perché riconosce qualcosa del peschereccio di Forrest in Alibaba: ”Nessuno fa i soldi pescando balene: la gente fa i soldi pescando gamberetti. E questo vale anche per il nostro sito”.

Ha anche rivelato che intende andare in pensione presto: ”Non voglio morire alla mia scrivania. Voglio morire su una spiaggia”.

2. JACK MA: SE L’AMERICA AVESSE INVESTITO NELLA SUA INDUSTRIA INVECE CHE IN GUERRE, OGGI NON AVREBBE ALCUN PROBLEMA

http://www.asianews.it/ – Il presidente di Alibaba, la grande compagnia cinese di vendite on-line, Jack Ma è convinto che non ci sarà una guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, come si paventa da alcune affermazioni di Donald Trump durante la sua campagna elettorale negli Usa. E a proposito del presidente eletto che domani entra in carica, egli ha chiesto di lasciare a lui “un po’ di tempo”, dato che è una persona “dalla mente aperta e capace di ascoltare”.

Parlando a un incontro con businessmen e politici nella cornice del Forum economico mondiale di Davos, Ma ha dichiarato: “La Cina e gli Usa non avranno mai una guerra commerciale”.

Durante la campagna elettorale Trump ha minacciato tasse per i prodotti cinesi che colpiscono i posti di lavoro negli Usa e ha accusato la Cina di essere un “manipolatore di valuta”: tenendo basso il valore dello yuan rende i prodotti cinesi da export molto competitivi sul mercato mondiale.

In seguito egli ha anche affermato che non si ritiene legato alla politica dell’unica Cina, suscitando le ire di Pechino anche per aver avuto una conversazione telefonica con Tsai Ying-wen, presidente di Taiwan.

In questi giorni esperti e analisti hanno espresso preoccupazioni sullo stile “populista” e “protezionista” di Trump che potrebbe bloccare il libero commercio.

A difendere la globalizzazione e il libero mercato è intervenuto perfino il presidente cinese Xi Jinping parlando all’apertura del Forum di Davos. Molto dell’economia cinese si basa proprio sull’export verso l’occidente e verso gli Usa. L’applicare tasse ai prodotti della Cina potrebbe dare un colpo molto forte alle industrie del Paese.

Jack Ma ha fatto notare che il problema non è la globalizzazione, da cui gli Usa hanno ricavato “tonnellate di soldi”, ma il modo in cui tale moneta è stata spesa, senza diffondere la ricchezza nella società. “Negli ultimi 30 anni – ha detto – l’America ha avuto 13 guerre al costo di 14,20 trilioni di dollari… Cosa sarebbe successo se essi avessero speso parte di quei soldi per costruire infrastrutture, aiutare impiegati e operai?”.

Jack Ma Forbes

La scorsa settimana Ma ha incontrato Trump offrendo aiuto perché piccole e medie imprese americane possano vendere i loro prodotti attraverso il network di Alibaba. Secondo Jack Ma questo potrebbe fruttare agli Usa circa un milione di posti di lavoro.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » dom feb 05, 2017 7:13 pm

???

“Riforma di Wall Street disastrosa”. Trump cancella un altro pezzo del lavoro di Obama
La ricetta del presidente: deregulation soprattutto per le norme sulle banche
2017/02/04

http://www.lastampa.it/2017/02/04/ester ... agina.html


Donald Trump dà la prima spallata a quella che considera la «disastrosa» riforma di Wall Street, aprendo la strada ad un deciso ridimensionamento delle norme fortemente volute da Barack Obama dopo la crisi finanziaria. Un allentamento per sostenere l’accelerazione di un’economia che comunque continua a crescere, come dimostrano gli ultimi dati sull’andamento del mercato del lavoro, di cui Trump si dice soddisfatto.

«Taglieremo le tasse e ridurremo le regole», ha affermato il presidente Usa ricevendo alla Casa Bianca gli amministratori di alcune delle grandi aziende americane, fra i quali Jamie Dimon di JPMorgan e Larry Fink di BlackRock. Molti di loro hanno criticato pubblicamente il bando sugli immigrati e, probabilmente, hanno colto l’occasione per fare pressione sul presidente.

All’incontro era presente anche la figlia Ivanka che, dopo un avvio di presidenza nelle retrovie, sembra lanciata nell’assumere un ruolo sempre maggiore in seno all’amministrazione, spingendosi anche al di là di quello che le è già stato affibbiato di “vera first lady”. Agli amministratori delegati Trump ha presentato la sua ricetta, basata su una deregulation soprattutto per le norme sulle banche che rallentano, a suo avviso, l’economia. «Le ridurremo di molto», ha annunciato Trump, chiedendo consigli a Dimon su come intervenire sulla legge “Dodd-Frank”.

A curare la revisione della riforma di Wall Street è Gary Cohn, il numero uno del Consiglio economico della Casa Bianca che, per i suoi anni a Goldman Sachs, conosce bene l’impatto delle regole sulle banche ed è una faccia nota a Wall Street, di cui condivide il linguaggio e le modalità. Le banche, è la teoria di Cohn, sono gravate ogni anno da centinaia di miliardi di dollari di costi dovuti alle regole: con meno norme i costi scenderanno, e lo faranno anche i prezzi per i consumatori.

L’autorità di Trump nel rivedere la riforma di Wall Street è comunque limitata: ma i decreti firmati per allentare le norme sono il punto di partenza per indirizzare la necessaria azione del Congresso. Il presidente punta ad abolire la cosiddetta regola del `ruolo fiduciario´ per chi offre pacchetti di investimento per la pensione. Le norme volute da Obama, che entreranno in vigore in aprile, stabiliscono che venga offerto al cliente il «miglior prodotto» e non quello più adatto alle sue esigenze, e obbligano i consulenti finanziari ad agire nel miglior interesse dei clienti. Una regola contro la quale i repubblicani e le banche sono insorte.

Ma per Trump toccare la riforma di Wall Street è camminare sul filo del rasoio: le norme sono state volute da Obama e dagli americani dopo la crisi finanziaria che ha fatto precipitare l’economia in una profonda recessione e spazzato via milioni di posti di lavoro. Sono quindi state chieste a gran voce da una spinta `populista´, la stessa che ha portato Trump alla Casa Bianca.

L’obiettivo del ridimensionamento delle norme su Wall Street è quello di spingere la crescita, pallino del presidente insieme all’occupazione. Gli ultimi dati mostrano comunque un mercato del lavoro in salute: in gennaio sono stati creati 227.000 nuovi posti di lavoro, il numero più elevato degli ultimi quattro mesi, con un tasso di disoccupazione in lieve aumento al 4,8%. Unico neo sono i salari che rallentano, crescendo solo del 2,5%: la frenata lascia intravedere come il mercato del lavoro abbia ancora spazio per crescere, giustificando la “pazienza” della Fed nell’aumentare i tassi di interesse.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:55 am

Le grandi corporation globali della libertà illiberale che non pagano tasse
viewtopic.php?f=94&t=2489

Che schifezza Diesel, questa multinazionale del nulla.
Ke skifesa Diexel, sta mucionasional del gnente co ł so braghe xbuxe e lixe
https://www.facebook.com/Diesel/videos/ ... 9454725484
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