Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:37 pm

Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =94&t=2465



I protezionismi dannosi, in ogni paese della terra, sono quelli che proteggono i monopoli statali e parastatali castuali e parassitari inefficenti e irresponsabili e le relative caste sociali arroganti, presuntuose, ignoranti e ademocratiche che sono anche manipolatrici e ladre di verità, ladre di libertà, ladre di giustizia, ladre di vita, di speranza e di futuro, ladre e manipolatrici dei Diritti Umani Universali.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:38 pm

McCloskey: "Gli intellettuali? Odiano la borghesia e la libertà"

L'economista autrice di una storia della classe media: "Troppi uomini di cultura disprezzano chi produce ricchezza. Che errore"
Eleonora Barbieri - Dom, 03/07/2016

http://www.ilgiornale.it/news/mccloskey ... 78615.html

Autrice di "17 libri e circa 400 articoli", economista della scuola di Chicago, Deirdre McCloskey (oggi professore emerito di economia, storia, inglese e comunicazione all'Università dell'Illinois di Chicago) ha una passione: la borghesia. Alla tanto bistrattata middle-class ha dedicato una trilogia di oltre duemila pagine, The Bourgeois Era, cominciata nel 2006 con The Bourgeois Virtues, proseguita con The Bourgeois Dignity (2010) e terminata, ora, con la pubblicazione di The Bourgeois Equality: How ideas, Not Capital or Institutions, Enriched the World (University of Chicago Press).

Tre parole chiave - virtù, dignità, uguaglianza - che definiscono appunto l'era della borghesia, gli ultimi due secoli della nostra storia. I tre volumi non sono tradotti in italiano, ma alcuni dei temi affrontati si possono ritrovare in un libro pubblicato da Ibl nel 2014, I vizi degli economisti, le virtù della borghesia. Deirdre McCloskey è appena stata in Italia, ospite proprio dell'Istituto Bruno Leoni.

Perché ha deciso di scrivere una trilogia sulla borghesia?

"Da socialista, quando ero giovane mi entusiasmavo per gli scritti contro la borghesia. È un entusiasmo comune fra i giovani membri della borghesia stessa... Da lungo tempo. Quando Balzac scrisse Papà Goriot, nel 1834, trovò divertente che il suo patetico protagonista fosse un fabbricante di vermicelli in pensione. E così via, fino ai film stile Wall Street".

Lei come ha cambiato idea?

"Quando ho imparato di più sull'economia ho capito che il mercante, l'imprenditore, il banchiere e l'inventore sono essenziali per la produzione di ricchezza, anche a vantaggio dei più poveri. Ho sempre voluto aiutare i poveri, che è il motivo per cui da giovane ero socialista e sono diventata un'economista professionista. Ma ho capito che una economia ricca aiuta i poveri. Così, a metà degli anni '90, a circa 50 anni, ero in aereo e stavo leggendo un libro di John Casey intitolato Pagan Virtues e mi venne in mente che avrei dovuto scrivere un libro intitolato The Bourgeois Virtues".

Qual è la forza della borghesia?

"La creazione del mondo moderno. Una società di aristocratici o di funzionari e di contadini o di spettatori di quiz della Rai non ha la capacità di creare i beni quotidiani e i servizi per una esistenza dignitosa per la massa della popolazione".

La borghesia sì?

"Si è scoperto che lasciare la borghesia agire liberamente ci ha arricchito tutti enormemente. È il contratto borghese: Tu consenti a me, un borghese, di provare a migliorare il modo in cui si fanno auto, tubature o ascensori e di sottoporre il risultato alla prova dello scambio, senza protezionismi o sussidi o regolamentazioni o licenze o socialismo e, nel terzo atto di questo dramma sociale, io vi renderò tutti ricchi. Ha funzionato".

Perché parla di Great enrichment, grande arricchimento?

"Dal 1800, l'ammontare reale di ciò che gli italiani o gli americani producono e consumano è aumentato di trenta volte. Credo che un cambiamento del genere possa essere definito grande senza violare le regole del linguaggio".

Non era mai successo?

"In epoche precedenti, per esempio nel Quattrocento, o nella Cina del dodicesimo secolo, o nella Grecia antica si è assistito al raddoppio del reddito, per un certo periodo; per poi però tornare indietro. Ma parliamo comunque del 100 per cento; dal 1800 parliamo di quasi il tremila per cento, cioè da tre dollari al giorno a una media oggi, nei paesi membri dell'Ocse, che va dagli 80 ai 140 dollari al giorno".

Ma nel mondo ci sono ancora milioni di persone in povertà.

"Sì, su sette miliardi c'è ancora l'ultimo miliardo, come ci ricorda l'economista Paul Collier. Dobbiamo aiutarli ad aiutare se stessi. Il risultato della beneficenza, così come dei soldi trasferiti dal nord al sud dell'Italia, sono solo corruzione e un eccesso di impiegati statali. D'altra parte, come spiega anche Collier, trenta o quarant'anni fa i poveri più poveri del mondo erano gli ultimi quattro miliardi, su una popolazione di cinque miliardi. Il che significa che il livello assoluto di povertà è crollato drasticamente".

Come siamo diventati così ricchi?

"Siamo ricchi grazie al liberalismo, definito come uguaglianza di fronte alla legge e uguaglianza di dignità sociale. Basta rileggere la Dichiarazione dei diritti dell'uomo... e della donna... Oggi il liberalismo può arricchire il mondo, laddove non sia minato da una corruzione incontrollata, da una regolamentazione eccessiva e da un socialismo conclamato. Sarebbe a dire la condizione e le politiche dell'Italia di oggi, sostenute dalla mentalità tipica della maggior parte degli intellettuali italiani".

Perché funziona?

"Quello che ha fatto il liberalismo è stato, come dicono i britannici, lasciare che le persone qualunque ci potessero provare. E l'hanno fatto in maniera massiccia".

Qual è il potere delle idee, di cui parla nel suo ultimo libro?

"Ci sono due livelli di idee. E sono le idee, non gli investimenti nel capitale che seguono dalle idee, che ci hanno reso ricchi. Uno è il livello dei progressi messi alla prova dello scambio, come il cemento rinforzato e le zanzariere e gli antibiotici. Bene. Ma ciò che incoraggia le persone in massa ad avere queste idee è il liberalismo".

Perché le teorie economiche usuali non possono spiegare questo arricchimento?

"L'economia classica presuppone che sia il capitale a renderci ricchi. Non è così, come hanno dimostrato i disastri degli aiuti stranieri ai Paesi poveri. Il capitale ovviamente è necessario: non puoi costruire edifici senza mattoni e cemento. Ma anche l'ossigeno nell'aria è necessario. Queste non sono cause originarie. Non abbiamo bisogno di una accumulazione originaria di capitale. Quello che ci servono sono le idee per un progresso messo alla prova del commercio, espressione che preferisco rispetto al termine fuorviante capitalismo. Se le abbiamo, il capitale seguirà".

Quando parla di uguaglianza, a che cosa pensa?

"A un sinonimo di liberalismo. Intendo l'uguaglianza delle opportunità, misurata su quanto è facile aprire un negozio o una fabbrica, o come sono spesi i soldi dell'istruzione, o quanto le persone snobbano quelli che ritengono inferiori. Non è un'uguaglianza francese, come potremmo chiamarla in onore di Rousseau e Thomas Piketty, bensì un'uguaglianza scozzese, in onore di Adam Smith e Milton Friedman. Come diceva Smith, quello che ci serve è un progetto liberale di uguaglianza, libertà e giustizia".

Liberalismo e borghesia sono legati?

"Sì. È un vecchio, e corretto, cliché della storia europea che le rivoluzioni del 1789 e del 1848 fossero borghesi. Ma, liberando se stessa, la borghesia ha liberato tutti".

Hanno gli stessi nemici?

"Sì. L'intellighenzia, come la chiamo io, gli intellettuali, gli artisti e i giornalisti... che vengono dalla borghesia, ma odiano i loro padri".

Chi sono i peggiori?

"Quelli come Lenin, Mussolini e Hitler, assassini di milioni di persone nel nome della Rivoluzione contro la borghesia, contro la proprietà, contro l'ordine spontaneo del mercato che ha reso i più poveri fra noi trenta volte più abbienti".

Oggi ha ancora molti nemici?

"Sì. Dopo ogni crisi sorgono nuove versioni di socialismo, come il sindacalismo o l'ambientalismo. Le persone crescono in famiglie amorevoli, per lo più. E così pensano che un Paese di 80 milioni di persone possa essere governato come una famiglia affettuosa. Non può. Molto meglio avere cooperazione e competizione su larga scala, come accade nelle economie liberali".

Parla con grande passione della "gente comune"...

"Sono una democratica, e una libertaria cristiana. Non sono una conservatrice, se ciò significa guardare dall'alto in basso le persone comuni. Non lo faccio, o almeno ci provo. I miei amici statisti di sinistra e di destra lo fanno, e sperano di governare i poveri. Io spero di liberarli dalle loro catene".

Pensa che la borghesia europea, italiana e americana siano diverse oggi? E in che cosa?

"In Europa i borghesi, ancora più che in America, sono istruiti a detestare la borghesia...".
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:40 pm

La trappola del protezionismo
23 Gennaio 2017
Giordano Masini

http://stradeonline.it/monografica/2551 ... tezionismo

Il protezionismo non cade dal cielo, ma è un’opzione politica vera e propria, della quale conosciamo perfettamente gli effetti devastanti sul benessere e sulla prosperità delle nazioni. Tuttavia, è un’opzione rassicurante, una pericolosa illusione che sta tornando di moda e che avrà successo, se non ritroveremo il coraggio di difendere le ragioni della libertà e della crescita.

Il 2016 è stato un anno nero per il commercio internazionale, che per la prima volta dopo decenni è cresciuto meno del PIL globale dello stesso anno. Messo così, è solo uno dei tanti dati che ci passano quotidianamente davanti agli occhi e ai quali non diamo troppo peso. In realtà, è il segno che qualcosa si sta inceppando nel processo di globalizzazione, ovvero nel più potente volano di prosperità e benessere che l’umanità abbia mai conosciuto nella sua storia.

Dietro a questo fenomeno ci sono situazioni congiunturali che hanno a che fare prima di tutto con la frenata dei paesi asiatici, ma c’è anche un nuovo fenomeno, tutt’altro che ineluttabile: la rimonta del protezionismo, soprattutto nelle regioni più ricche del pianeta, che si manifesta attraverso politiche di chiusura alla circolazione delle merci, dei beni, dei servizi, dei capitali e delle persone.

Dalla vittoria di Trump alla Brexit, fino ai rigurgiti nazionalisti e sovranisti in giro per l’Europa, i segnali che preannunciano un ritorno in grande stile delle politiche protezionistiche sono tanti, e si collegano a quella “crisi della democrazia contemporanea” di cui abbiamo provato a tracciare i contorni in una recente monografia di Strade, della quale quella che presentiamo oggi è parente stretta. Il protezionismo - e non è certo la prima volta nella storia che questo accade - è il prodotto politico e la declinazione programmatica del populismo, della rabbia e della frustrazione sociale.

Se la crisi economica del 2008 era stata innescata da processi forse non imprevedibili, ma senz’altro difficilmente comprensibili a chi non conosce a fondo gli strumenti complessi dei mercati finanziari, oggi l’opzione protezionista, che rischia di essere l’innesco di una nuova grande crisi economica attraverso la contrazione degli scambi, è un’opzione politica vera e propria, riconoscibile, le cui dinamiche e i cui effetti sono tutt’altro che ignoti, e alla quale è possibile rispondere con dei Sì o dei No che sono tutti politici. Sappiamo perfettamente a cosa stiamo andando incontro, anche mentre spingiamo l’acceleratore nella direzione sbagliata.

Ma cosa c’è all’origine della schizofrenia che porta consapevolmente a privilegiare scelte controproducenti? Questioni di consenso, innanzitutto, che si confrontano necessariamente con l’ansia del benessere della classe media occidentale, della quale ha parlato Federica Colonna nella sua analisi sulle radici psicologiche all’origine del successo “popolare” del messaggio protezionistico.

L’apertura agli scambi, la concorrenza e la competizione, l’innovazione tecnologica sono soluzioni controintuitive rispetto al bisogno di protezione che si avverte quando le cose non vanno bene. Il protezionismo non è efficace, ma è rassicurante. Ed essendo rassicurante premia in termini di consenso: è chiaro oggi che chi volesse farsi portatore dell’opzione anti-protezionista dovrebbe rassegnarsi a navigare controcorrente. Un’arma di distrazione di massa, come rileva Benedetto della Vedova.

Eppure le ragioni della società aperta, i vantaggi della libera circolazione delle merci, dei capitali (e anche delle persone, come torna a dire su questo numero Marco Parigi) sono gli stessi di sempre. Neanche la retorica - un bel po’ abusata, come dimostrano i numeri esposti da Thomas Manfredi - dei “vinti della globalizzazione” può ragionevolmente essere usata per sostenere l’efficacia di muri, dazi e barriere commerciali come volano di ricchezza e benessere: il protezionismo non funziona e - lo spiega bene Alessandro De Nicola - non è mai servito a nulla.

Il protezionismo servirebbe ancora meno oggi, proprio perché le catene globali del valore fanno sì che non esistano più, di fatto, filiere produttive nazionali, e nemmeno prodotti nazionali: le imprese acquistano materie prime e componenti da fornitori globali, e mettono sul mercato prodotti che sono a tutti gli effetti prodotti globali: “negli Stati Uniti - ricorda Carlo Stagnaro nel suo approfondimento - se guardiamo all’1 per cento dei maggiori esportatori (circa 2.000 imprese), scopriamo che più di un terzo appartiene anche al club dei maggiori importatori. Parimenti, più della metà di questi ultimi (attorno alle 1.300 imprese) fanno anche parte del gruppo dei maggiori esportatori”. Quindi, chi trarrebbe vantaggio dal protezionismo? Nessuno, e noi ancora meno degli altri, dal momento che la quota di committenza internazionale per le imprese italiane è molto elevata.

Piuttosto - e questo è un punto centrale, ben illustrato da Emanuela Banfi - la posizione che si tende a occupare nelle catene del valore non è neutra: “il posizionamento delle imprese italiane all'interno delle filiere globali migliorerà quanto più esse riusciranno ad avanzare all'interno delle catene del valore, occupando segmenti finali, che tendenzialmente hanno più alto valore aggiunto”. Innovazione - altra parola svanita dal dibattito pubblico italiano - quindi, oltre che apertura al commercio.

Cosa rischiamo, dunque, col successo del protezionismo? Difficile dirlo con esattezza. Una nuova mappa delle relazioni bilaterali, figlia dell’arrivo di Trump - ben descritta da Giacomo Mannheimer - e una maggiore instabilità geopolitica. E maggiore povertà, e minori opportunità, per tutti.

Alla particolare debolezza italiana in un mondo chiuso e geopoliticamente instabile si aggiunge una fragilità europea tutta particolare, che origina dalla peculiarità del mercato comune interno - e dall’assenza di una solida infrastruttura politica che lo sorregga. Di più, le “sovranità competitive” degli Stati membri dell’Unione sono oggi un pericoloso elemento di disgregazione che mette a rischio, insieme alla libertà di circolazione all’interno delle frontiere europee, proprio il mercato comune, che - come spiega Alessandro Del Ponte - invece andrebbe rafforzato, difeso e consolidato.

Oggi l’Europa si trova nella paradossale situazione di essere l’area di libero scambio più ricca e prospera del pianeta, e di non essere in grado di concludere in tempi ragionevoli un accordo commerciale a proprio vantaggio, per le pressioni interne degli Stati membri, o addirittura di regioni interne, come ha dimostrato il recente caso del CETA, l’accordo con il Canada, che rischiava di saltare per una impuntatura della regione belga della Vallonia. O come dimostra l’imbarazzo dei singoli governi a difendere il TTIP (ma non solo il TTIP, come spiega Marco Marazzi) di fronte a opinioni pubbliche particolarmente permeabili al populismo e all’isteria protezionista.

Alla fine si torna al punto di partenza: se il protezionismo non è un destino ineluttabile ma un’opzione politica - benché sbagliata e suicida - da scegliere o da respingere, a emergere oggi è l’assenza dell’opzione politica alternativa - fa bene Piercamillo Falasca a ricordarlo nel suo editoriale - che difenda le ragioni dell’apertura rispetto alla chiusura, della libertà rispetto ai nazionalismi, della crescita e dello sviluppo rispetto alle sirene della decrescita e dell’autarchia. Manca il coraggio di navigare controcorrente, anche se la corrente conduce inesorabilmente sugli scogli.



Alberto Pento
Non si tratta di protezionismo ma di regolamentazione (dell'import-esport, della concorrenza, della qualità dei prodotti, della difesa dell'ambiente) e di precise scelte di politica-economica che rientarno tutte nell'ambito della liberta dei singoli, delle comunità, delle nazioni e degli stati (salvaguardia dei posti di lavoro nel proprio paese come fanno tutti : in Russia, in Cina, in Giappone, in Europa, in Africa, in Brasile, ovunque nel mondo), il che è molto ma molto diverso. Poi è significativo e mi vien da ridere che i più "antiprotezionisti" siano proprio quelli che vivono di monopolio statale o di oligopolio parastatale. Ho letto l'articolo di questi esemplari antidemocratici: un'accozzaglia di balle spaventosa.


Trump e la produzione nazionale. Non è protezionismo ma politica fiscale
4/01/2017
http://www.geopoliticalcenter.com/attua ... a-fiascale
I principali titoli dei giornali odierni parlano di “vittoria” di Trump, di “vittoria” del protezionismo, di “chiusura” degli Stati Uniti al mondo. Questo in relazione al fatto che Ford ha deciso di annullare un importante investimento in Messico, per rinnovare una linea di produzione in Michigan. Bene, questa mossa della Ford, è si una vittoria di Trump ma non una vittoria del “protezionismo”. Secondo il nostro punto di vista la decisione della Ford è dovuta ad una riforma fiscale per le imprese che mira a ridurre dal, 35% al 15%,l’aliquota unica dovuta allo stato americano da chi fa impresa. Insomma una vittoria da ascrivere alla promessa di un abbattimento del carico fiscale che gli Stati Uniti impongono a chi crea lavoro e ricchezza sul suolo americano.
È questa, nella nostra lettura, la motivazione del ritorno di Ford in Michigan non le “minacce” di Dazi, bensì le “promesse” di un fisco più leggero
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:40 pm

Perché la globalizzazione è in crisi e i tre scenari possibili
di Andrea Franceschi 24 gennaio 2017

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza- ... fresh_ce=1

Uno dei primi atti firmati dal neo presidente americano Donald Trump è stata la firma di un ordine esecutivo per fare uscire gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership. L'accordo commerciale che coinvolge 12 economie tra le due sponde del Pacifico. Anche l'accordo di libero scambio Nafta che coinvolge Stati Uniti, Canada e Messico sarà oggetto di rinegoziazione nelle prossime settimane.


Trump atto primo: Tpp affossata, Nafta minacciato

Il nuovo inquilino della Casa Bianca, che nel suo discorso di insediamento ha detto espressamente che il criterio ispiratore della sua amministrazione sarà quello di mettere al primo posto gli interessi degli Stati Uniti, ha improntato la sua campagna elettorale sul rifiuto della globalizzazione nel momento in cui questa globalizzazione si traduce in delocalizzazione della forza lavoro ad esempio. Trump ha detto chiaramente che la sua intenzione è quella di premiare le aziende che producono negli Stati Uniti e che reimpatriano i capitali.

Si può discutere se queste scelte siano giuste o sbagliate. Se siano efficaci o meno nel conseguire l'obiettivo preposto. Se questo ritorno del protezionismo possa scatenare guerre commerciali dagli effetti imprevedibili. Una cosa tuttavia è sotto gli occhi di tutti: se questo sarà il trend dominante nei prossimi anni la globalizzazione, così come la abbiamo conosciuta finora, è destinata a cambiare faccia e questo processo potrebbe avere conseguenze importanti negli anni a venire.

Questo tema è stato oggetto di un corposo report realizzato da Credit Suisse. Secondo gli analisti della banca svizzera l'economia mondiale ha sperimentato nella sua storia due importanti ondate di globalizzazione. La prima c'è stata tra il 1870 e il 1913 quando la rivoluzione industriale si è andata accompagnando alla forte crescita del commercio globale in seguito all'apertura del canale di Suez (1869). Questa prima fase ha subito una battuta d'arresto con la prima Guerra mondiale. La seconda grande fase di globalizzazione ha avuto luogo con la caduta del mondo di Berlino (1989), la fine della Guerra fredda, il processo di integrazione europea e l'affermazione della Cina come potenza economica e commerciale.

Questa seconda ondata di globalizzazione - si legge nel report di Credit Suisse - ha subito una battuta d'arresto con la grande crisi finanziaria del 2008/2009. Un evento traumatico che ha causato un brusco stop alla crescita del commercio globale. Fino ad allora in crescita inarrestabile. Una serie di indicatori (come i flussi commerciali, finanziari e di persone) ci dicono che, nonostante la globalizzazione si sia ripresa dal trauma della crisi, il ritmo di crescita è ancora lontano dai livelli pre-crisi. «L'impressione è che il processo sia arrivato a saturazione e che non ci sia il potenziale per crescere ancora» scrivono gli analisti di Credit Suisse.

In questo contesto il dibattito non è più incentrato su come far sì che la globalizzazione torni a crescere ma come fare in modo che la fetta destinata al mio Paese sia più grande e gustosa. In questo contesto si inquadra bene la «guerra valutaria» non dichiarata che le maggiori banche centrali in tutto il mondo hanno condotto in questi anni con manovre espansive che di fatto hanno dato luogo a «svalutazioni competitive». Altre forme non dichiarate di competizione - si legge nel report - sono quelle che hanno portato Stati Uniti e Unione europea a comminare multe incrociate a multinazionali europee e ameicani (Deutsche Bank e Volkswagen negli Usa, Google ed Apple in Europa).

Ma il colpo di grazia è arrivato lo scorso anno con il referendum sulla Brexit e la vittoria di Trump alle presidenziali americane. Due eventi politici totalmente inattesi che sono molto simili nelle loro ragioni scatenanti che, semplificando, hanno come minimo comun denominatore il rifiuto del mondo esterno. Un mondo esterno che ha varie forme: un'istituzione burocratica e lontana dalla vita della gente comune (la Ue per gli elettori britannici che hanno scelto la Brexit), l'immigrato clandestino o l'azienda che delocalizza la produzione per l'elettore medio di Trump.

Che cosa succederà ora? «Gli scenari possibili sono tre. Quello meno probabile è che la globalizzazione continuerà ad esistere senza sostanziali modifiche ancora a lungo. Quello meno desiderabile è che si assista ad un collasso del commercio globale a seguito di un'ondata di protezionismo, a una guerra commerciale e valutaria. Una brusca fine della globalizzazione che potrebbe essere favorita da eventi shock come un aumento delle tensioni geopolitiche a livello mondiale. Di fatto la riproposizione del copione del 1913 che ha preceduto la prima guerra mondiale».

Tra le due ipotesi estreme tuttavia sarà un terzo scenario a prevalere secondo gli analisti della banca svizzera. Cioè un'evoluzione dell'economia in senso «multipolare» con tre grandi mercati di riferimento: le Americhe, l'Europa e l'Asia. Questo processo dovrebbe portare gradualmente alla fine delle istituzioni globali come la Banca mondiale e il Wto, soppiantate da organismi sempre più regionali. Allo stesso modo - si legge nel report - è probabile che si assista al declino delle multinazionali a cui, in questo scenario, faranno posto sempre più dei «campioni regionali». Ossia aziende leader di mercato a livello regionale. In questo contesto è probabile che il dollaro perda il suo ruolo di moneta di riserva globale soppiantata da valute di riferimento nelle singole aree di riferimento: nello specifico l'euro nel Vecchio Continente e lo yuan in Asia.


Protezionismo? Gli Usa sono già al top (anche prima di Trump)
di Enrico Marro 23 gennaio 2017

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/20 ... 5840.shtml

Trump innalzerà un muro protezionistico attorno agli Stati Uniti, con effetti nefasti sul commercio mondiale e sull’inflazione? Può darsi, ma quello che non sempre viene colto è che la patria del free trade già oggi è uno dei Paesi più protezionisti del mondo. Anzi, il numero uno, prima di Russia, India e Cina. A ribadirlo è un report di Credit Suisse (Getting Over Globalization), fresco di stampa, che delinea il probabile avvento di un sistema multipolare e l’addio a una globalizzazione che ha raggiunto il suo zenith prima della grande crisi, dieci anni fa. E tra i grandi rischi che incombono sull’economia mondiale il numero uno, secondo la banca svizzera, è proprio quello: il protezionismo.
L’effetto del protezionismo sul mercato globale
(Fonte: Global Trade Alert, Credit Suisse)

Vediamo allora la classifica della “chiusura” al mondo. A sorpresa al primo posto troviamo proprio gli Stati Uniti, Paese dove le misure protezionistiche sono nove volte più numerose di quelle volte a liberalizzare il commercio internazionale. Sul podio della top ten compilata dal Credit Suisse grazie ai dati del Global Trade Alert, troviamo poi Russia e India (anche se va ricordato che Nuova Delhi ha lavorato sodo per aprirsi al commercio internazionale). A seguire ecco in quarta posizione la Gran Bretagna, seguita da Brasile, Germania, Francia e Spagna. Attenzione perché la Cina, nella classifica della “chiusura”, è solo in nona posizione, davanti a Giappone, Turchia e Arabia Saudita.
Azevedo (Wto): «Il protezionismo catastrofe incalcolabile»

Ma sommare le misure protezionistiche dei singoli Paesi non dà l’idea complessiva di quanto l’ombra protezionistica si stia allungando sul pianeta. Come nota Credit Suisse, Stati Uniti e Unione Europea hanno per esempio iniziato un duro confronto staccando multe miliardarie contro i rispettivi campioni d’oltreatlantico (Deutsche Bank e Volkswagen da una parte, Apple e Google dall'altra).
Perché la prima globalizzazione è finita nel sangue di due guerre mondiali

Un ipotetico scenario di chiusura commerciale non tarderà a farsi sentire anche sulle Borse, in particolare a Wall Street, dove le azioni americane sono più costose che altrove in virtù di quello che gli analisti della banca svizzera definiscono “globalization premium”. Un declino degli scambi internazionali o, peggio, guerre commerciali più o meno dichiarate colpirebbero gli utili attesi delle grandi multinazionali. E chissà che la prossima crisi economica e finanziaria mondiale non arrivi proprio da questa deriva. Proprio come avvenne alla fine della prima globalizzazione, quando l’ondata protezionistica finì per trascinare il mondo nella Grande Guerra.
GLI EFFETTI DELLA STRETTA
Il trend di attivazioni e cessazioni dei contratti di collaborazione dal 2009 al 2016 (Fonte: elaborazioni e stime Datalavoro su dati Inps e Ministero del Lavoro)
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:41 pm

Ian Bremmer: «Viviamo una recessione geopolitica. Ora si aprono praterie per la Cina»
Le élite occidentali di Davos incapaci di costruire una risposta al populismo. Il politologo analizza le prime mosse del nuovo presidente Usa in campo internazionale
di Massimo Gaggi
http://www.corriere.it/esteri/17_gennai ... 321e.shtml

NEW YORK «Ritirandosi dal TPP, oltre ad aprire praterie per un aumento dell’influenza della Cina in Asia e nel Pacifico, Donald Trump crea le condizioni per una sorta di recessione geopolitica». Reduce dal Forum di Davos, Ian Bremmer, politologo e fondatore di «Eurasia», riflette sulle prime mosse del nuovo presidente Usa in campo internazionale.

Una ritirata dal mondo o uno modo diverso di negoziare?

«Non è isolazionismo: Trump continuerà a tessere rapporti, ma lo farà sul piano bilaterale. Lo considera più conveniente in termini di forza negoziale, ma in questo modo non solo getta nel caos l’attuale sistema di scambi commerciali, ma rende precari i rapporti politici degli Stati Uniti con molti Paesi in Asia e in America Latina».

È la fine per organismi multilaterali come il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e il Wto, l’Organizzazione internazionale del commercio?

«Gli organismi multinazionali che ha citato, e aggiungerei anche l’Onu, hanno di certo preso un colpo durissimo con la nuova politica di Trump. Sono organismi nati dalla “pax americana” del Dopoguerra, riflettono una visione dei rapporti internazionali che era soprattutto quella di Washington. Se l’America inverte la rotta, crolla tutto. Come sa, io parlo da anni di un mondo “G-Zero”, privo di una guida. Ecco, quel mondo adesso è qui. E da venerdì è finita anche l’era della “pax americana”».

Lei viene da Davos. Lì l’establishment internazionale, sorpreso dall’onda populista, ha discusso per giorni dei pericoli di queste nuove correnti politiche, ma non sembra aver elaborato idee concrete per rispondere alle inquietudini dei ceti sconfitti dalla globalizzazione.

«Purtroppo è così: le classi dirigenti faticano a capire che il populismo non è, o non è solo, una minaccia, ma è soprattutto il sintomo di un malessere che va affrontato agendo sulle cause. Non ho visto gente disposta a rimettere in discussione in modo radicale le distorsioni del modello di sviluppo degli ultimi anni».

Che cosa sostituirà il vecchio multilateralismo? Difficile immaginarne un altro a guida cinese. Andiamo verso un sistema nel quale l’America troverà nuovi punti di equilibrio bilaterale con Cina, Russia, Germania? E che ne sarà degli altri?

«Certamente Washington continuerà a negoziare separatamente coi vari Paesi, facendo valere la forza contrattuale che deriva dal fatto di essere il Paese col mercato interno più ampio e ricco. Saranno accordi diversi, a seconda delle diverse situazioni. Gran parte dell’Asia, secondo me, si raccoglierà attorno alla Cina, ma non il Giappone che, per esigenze di sicurezza, manterrà un rapporto privilegiato con gli Usa. Forse anche la Corea del Sud, ma lì dipende dall’evoluzione della grave crisi politica interna. Canada e Messico dovranno fare accordi bilaterali, non possono permettersi di rinunciare al mercato americano. In Europa penso che vedremo accordi Usa con la Germania. Poi ci saranno intese legate più a considerazioni di sicurezza e lotta antiterrorismo che al commercio: con Russia, Turchia, Egitto. Confronto duro con la Cina, invece».

E gli altri europei? Trump è tutt’altro che un «fan» di Nato e Ue.

«Per l’Europa si apre una fase di incertezza, è ovvio. Oltretutto è un anno elettorale in molti Paesi nei quali soffia il vento del populismo. Molte capitali faticheranno a farsi sentire, ma sarà dura anche per la Germania, stretta tra la Russia e lo scetticismo di Trump. Comunque è tutto il quadro degli accordi che sarà, non solo a macchia di leopardo, ma più precario: intese basate non più su valori comuni e stabili, ma su convenienze che possono cambiare in ogni momento».
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:41 pm

Il «Trump» del 1929 che portò l’America alla rovina

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/20 ... 4748.shtml

Enrico Marro

Bisogna salvare i posti di lavoro americani, in pericolo perché troppi Paesi stranieri vendono i loro prodotti negli Stati Uniti minando il benessere degli onesti lavoratori americani. Un Donald Trump del 2017? Macché: siamo nel 1929, nell’occhio del ciclone della recessione, e a parlare è il repubblicano Reed Smoot, presidente della Commissione finanze del Senato. Mormone ma allo stesso tempo imprenditore senza scrupoli con interessi a tutto tondo (finanza, agricoltura, attività minerarie e costruzioni), il senatore dello Utah era pure un economista dilettante convinto che a far crollare Wall Street fosse stato l’eccesso di importazioni estere rispetto alla capacità di consumo statunitense.

Qual era secondo Smoot la ricetta per restituire all’America i suoi posti di lavoro e il suo benessere? Semplice: dazi e protezionismo, spiegò il mormone al Congresso e a una nazione prostrata dalla crisi. E così, grazie all’appoggio dell’influente deputato Willis C Hawley, il senatore repubblicano riuscì a varare nel giugno 1930 il famoso Smoot-Hawley Tariff Act, ratificato dall’allora presidente Herbert Hoover nonostante l’appello di oltre mille economisti a non firmarlo. Nel giro di una notte il provvedimento fece balzare al 60% i dazi su oltre 20mila prodotti stranieri, in alcuni casi quadruplicandoli.


Protezionismo? Gli Usa sono già al top (anche prima di Trump)

Il risultato? Una guerra commerciale con Canada, Francia, Impero britannico e Germania: nel giro di tre anni le importazioni degli Stati Uniti crollarono del 66%, mentre le esportazioni si inabissavano del 61% in coppia con il commercio mondiale. Il tasso di disoccupazione triplicò dall'8% al 25%. In barba alla “nuova era di prosperità” sbandierata da Smoot, la ricchezza degli Stati Uniti si dimezzò.

La tragedia è che l’ultraprotezionista legge Smoot-Hawley era assolutamente inutile. Come ricorda il giornalista e scrittore Selwyn Parker, autore del saggio The great crash dedicato proprio alla crisi del 1929, l’America aveva infatti un corposo surplus commerciale, poiché la crescita dell'export manifatturiero era più veloce di quella dell'import.


Azevedo (Wto): «Il protezionismo catastrofe incalcolabile»

La legge ultraprotezionista venne smontata non appena Franklin Delano Roosvelt divenne presidente, nel 1934, e sostituita con riduzioni delle tariffe legate ad accordi bilaterali. L’anno prima, alle elezioni, Smoot aveva perso la poltrona da senatore, rifiutandosi peraltro di ammettere i suoi errori. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1941, rimase convinto che la sua legge avesse un unico difetto: avere alzato i dazi troppo poco.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:42 pm

???

Il muro di Trump è fattibile?
Diciamo di sì, anche se costerebbe miliardi di dollari e probabilmente sarebbe dannoso per l'economia americana
6 gennaio 2017

http://www.ilpost.it/2017/01/26/muro-trump-messico

In uno dei primi ordini esecutivi firmati da presidente degli Stati Uniti, ieri Donald Trump ha approvato la progettazione di un muro al confine col Messico, per limitare l’immigrazione clandestina. La costruzione del muro col Messico è una delle più famose e controverse promesse fatte da Trump durante la campagna elettorale: all’inizio quasi nessuno la prese sul serio, anche perché diversi esperti ritengono l’eventuale muro troppo costoso e strategicamente inutile (e anche perché Trump insisteva sul fatto che dovesse pagarlo il Messico). Ora però il progetto sembra avere acquisito più solidità: dopo la vittoria alle elezioni, Trump l’ha discusso e confermato più volte, e con l’ordine firmato ieri ha materialmente spostato alcuni fondi già stanziati per il Dipartimento della Sicurezza Nazionale per avviare subito la fase di pianificazione. Ma è davvero fattibile, un’opera simile?

Bella domanda
Non è facile rispondere a questa domanda o anche solo quantificare quanto costerebbe un muro del genere. In questi mesi, parlando della sua proposta, Trump ha citato cifre e dati molto diversi fra loro, dando l’impressione di non avere un’idea precisa su cosa verrà effettivamente costruito. Durante i primi comizi aveva parlato di un “muro” vero e proprio, poi in novembre aveva ammesso che in alcune parti la barriera sarebbe stata una semplice recinzione, come già ne esistono sul confine fra Stati Uniti e Messico; infine, nel corso della sua prima conferenza stampa da presidente, ha corretto un giornalista presente spiegando che sarà costruito «un muro, non una recinzione» (cosa che a un certo punto aveva anche twittato, nell’agosto 2015).

Trump ha dimostrato di non avere le idee chiare nemmeno sull’altezza del futuro muro. Fra agosto 2015 e febbraio 2016 ha fornito una serie variegata di dati: all’inizio parlò di un muro da «9, 12 o 15 metri», poi si stabilizzò su 15, poi ridusse le aspettative a «10-12 metri», poi disse che dopo la dura critica dell’ex presidente messicano Vicente Fox la stima era cresciuta a 16 metri, e poi cambiò ancora idea. Al momento le stime che circolano di più parlano di un muro di circa 12 metri, ma sono tutte supposizioni.

È difficile, inoltre, prendere sul serio la promessa di Trump secondo cui sarà il Messico a pagare per la costruzione del muro: il presidente messicano Enrique Peña Nieto l’ha negato in più occasioni, lo ha fatto ancora in un breve videomessaggio pubblicato su Twitter mercoledì sera e giovedì ha detto di aver annullato in segno di protesta una visita ufficiale negli Stati Uniti e un incontro con Trump previsto per il prossimo mese. Trump ha fornito indicazioni più precise su come avverrà questo pagamento nel corso di un’intervista ad ABC News, andata in onda mercoledì sera: gli Stati Uniti anticiperanno i fondi per la costruzione, ha detto, che verranno “rimborsati” dal Messico, anche se ancora non è chiaro in quale forma.

Uno dei dati più certi è quello sulla lunghezza del futuro muro. Il confine fra Stati Uniti e Messico è lungo circa 3100 chilometri: nei punti più sensibili esiste già una serie di strutture che fanno da barriera, lunghe in totale un migliaio di chilometri. Se davvero il muro verrà costruito, queste strutture andranno sostituite: per circa 560 chilometri sono composte da una semplice recinzione alta 5 metri, mentre per poco meno di 500 chilometri da una barriera molto bassa che serve semplicemente a impedire il passaggio dei veicoli. Trump sostiene che il nuovo muro, invece, dovrà essere lungo circa 1600 chilometri – quindi poco più della metà della lunghezza del confine – perché l’altra metà del confine sarà protetta da ostacoli naturali come montagne e corsi d’acqua.

Il dato su cui c’è più incertezza, invece, è quello dei costi, anche per via di tutti i dati contrastanti elencati fin qui. Trump ha annunciato che il muro costerà circa 8 miliardi di dollari. Le stime indipendenti più conservative dicono che ci vorranno almeno il doppio dei soldi. L’anno scorso la società di consulenza Bernstein ha calcolato che il muro dovrebbe costare una cifra superiore a 15 miliardi, e vicina ai 25. Il Washington Post stima invece che ce ne vorranno 20. Politico spiega che solamente per costruire il muro ce ne vorrebbero fino a 14, senza contare le spese accessorie come l’acquisto dei terreni privati su cui dovrebbe essere costruito (un problema che emergerà sicuramente in fase di progettazione). La stima più accurata finora l’ha messa insieme la MIT Technology Review, che in un dettagliato articolo ha stimato che un muro di cemento armato e acciaio lungo 1600 chilometri e alto 16 metri costerebbe intorno ai 38 miliardi di dollari.

Il muro proposto da Trump, insomma, è tecnicamente fattibile, nonostante manchino diversi dati su come verrà effettivamente costruito. I Repubblicani hanno già iniziato a pianificare come finanziarlo, anche se solo in via preliminare (anche perché probabilmente non tutti saranno d’accordo nel sostenere una spesa di decine di miliardi di dollari): c’entra una legge approvata nel 2006 dall’amministrazione di George W. Bush e mai applicata, che prevedeva la costruzione fisica di una “barriera fisica” lungo il confine col Messico. I Repubblicani potrebbero decidere di finanziarla, ma dovranno comunque passare per l’approvazione del Congresso, ed è praticamente certo che i Democratici – e probabilmente anche qualche Repubblicano moderato – cercheranno di opporsi. A questo dibattito, però, manca un pezzo importante: e cioè che il muro proposto da Trump non sarebbe solamente molto costoso, ma anche sostanzialmente inutile per limitare l’immigrazione clandestina e dannoso per l’economia.

Il vero problema
Come hanno fatto notare diversi esperti, per gli Stati Uniti l’immigrazione è un falso problema: al momento vivono sul territorio americano milioni di persone senza documenti che contribuiscono all’economia americana acquistando beni e pagando regolarmente le tasse – negli Stati Uniti, diverse istituzioni pubbliche e private non sono tenute a controllare che una persona abbia un regolare permesso di soggiorno – e deportarli tutti o interrompere improvvisamente il flusso creerebbe dei guai. L’hanno spiegato Daniel Hemel, Jonathan Masur e Eric Posner, tre professori della University of Chicago Law School, in un articolo pubblicato ieri dal New York Times (in cui aggiungono anche che il muro non raggiungere il suo obiettivo materiale, cioè limitare il flusso di persone).

Che benefici avrebbe la costruzione del muro? Per prima cosa, non servirebbe a tenere alla larga i cittadini stranieri. A prescindere da quanto sarà alto, non impedirà ai trafficanti di scavare dei tunnel sotterranei, come avviene già per le recinzioni esistenti. In più, il muro non fermerà la maggior parte dei migranti irregolari, che oggi entrano negli Stati Uniti con un permesso che poi lasciano semplicemente scadere. Al contrario, uno studio ha dimostrato che barriere di questo tipo tendono a tenere i migranti irregolari all’interno di un certo territorio, più che impedirne l’arrivo. […]

E anche se il muro riuscisse a diminuire il numero di migranti irregolari sul territorio americano, i benefici economici sarebbero inferiori ai costi di costruzione. Al contrario, gli effetti sull’economia sarebbero nulli o negativi. I migranti pagano miliardi di dollari in tasse, acquistano beni e servizi, e aumentano la produttività nazionale in settori come l’agricoltura. Uno studio pubblicato nel 2012 dal Cato Institute ha concluso che il PIL americano diminuirebbe circa dell’1,5 per cento nel corso di dieci anni se il governo applicasse un programma di deportazione di massa e impedisse nuovi arrivi.



???

Il Messico sfida Trump: "Nessun negoziato sulle spese per il muro"

Il ministro degli Esteri messicano Videgaray esclude che il suo Paese possa accettare una trattativa sui costi delle nuove barriere alla frontiera. Mentre Paul Krugman dice: "È da incompetenti l'idea di imporre dazi, così alla fine a pagare sarebbero i contribuenti Usa". Sui social le campagne che invitano al boicottaggio delle multinazionali americane

http://www.repubblica.it/esteri/2017/01 ... -156985548

"E' semplicemente non negoziabile" che il Messico paghi per il muro che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump vuole costruire al confine tra i due Paesi. Lo ha ripetuto Luis Videgaray, nel corso di una conferenza stampa a Washington, dove si trovava insieme ad una delegazione ministeriale per incontri con la nuova amministrazione e per preparare la visita del presidente Enrique Pena Nieto il 31 gennaio, poi annullata per protesta.

"Ci sono delle cose che non sono negoziabili, delle cose che non possono né saranno negoziate - ha detto Videgaray -. Dire che il Messico possa pagare per il muro è una cosa semplicemente non negoziabile". Il capo della diplomazia messicana si è poi detto fiducioso sulla possibilità di arrivare ad un'intesa sui rapporti commerciali tra i due Paesi, dopo che Trump ha attaccato duramente il Nafta, l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Messico, che a suo dire sarebbe "a senso unico". "Arriveremo ad accordi, accordi molto buoni - ha assicurato il ministro - siamo sicuri che questo è quello che conviene di più al Messico, agli Stati Uniti ed alla regione".

Mentre l'amministrazione Trump pensa di imporre un dazio del 20% su tutti prodotti importati dal Messico (il loro valore complessivo è di oltre 300 miliardi di dollari) per far pagare ai messicani le spese della costruzione del nuovo muro, l'economista Paul Krugman spiega che questa sarebbe una misura da "incompetenti e ignoranti". Se Trump mette una tassa sulle auto americane che importiamo dal Messico, saranno gli americani e non i messicani a pagare il muro. Argomento sostenuto anche dal ministro Videgaray che precisa: "Mettere un dazio sulle merci importate dal Messico significa che il consumatore americano pagherà una automobile, una lavatrice o un avocado".

Le ultime mosse del presidente Usa, e la cancellazione del summit con il presidente messicano, hanno scatenato in Messico una campagna antiamericana. Sui social si invita al boicottaggio dei prodotti delle multinazionali statunitensi, da Starbucks alla Coca cola fino ai McDonald's. Mentre su Instagram c'è un nuovo hastag che promuove l'orgoglio messicano #AmorAMéxico dove vengono postate foto che esprimono amor proprio e dignità del Paese.

Un messaggio chiaro arriva anche dal Vaticano. La Santa Sede è preoccupata per "il segnale che si dà al mondo" con la costruzione del muro tra Usa e Messico, voluto dal presidente statunitense Donald Trump per frenare le migrazioni. E si augura che gli altri Paesi, anche in Europa, "non seguano il suo esempio". Lo ha detto oggi al Sir il cardinale Peter Turkson, presidente del Dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale, a margine di un convegno sulla "Laudato sì e gli investimenti cattolici" alla Pontificia Università Lateranense.



Muro, Vaticano contro Trump: "Altri Stati non lo seguano"
Il cardinale Turkson sull'iniziativa di Trump: "La Santa Sede è preoccupata per il segnale che si dà al mondo con la costruzione del muro tra Usa e Messico”
Alessandra Benignetti - Ven, 27/01/2017

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tum ... 56473.html

All’indomani della firma dell’ordine esecutivo per dare il via alla costruzione del muro lungo il confine tra Messico e Stati Uniti, la Santa Sede ribadisce la propria preoccupazione per la costruzione della “barriera fisica” che proteggerà un ulteriore tratto del confine statunitense con il Messico.

Più volte, Papa Francesco, ha fatto appello "all’abbattimento dei muri", in favore della "costruzione di ponti". E oggi, nuove parole di preoccupazione sull’iniziativa del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, volta a limitare l'immigrazione nel Paese, arrivano dal cardinale Peter Turkson, presidente del Dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale.

Il cardinale Turkson, a margine di un convegno in corso alla Pontificia Università Lateranense, ha detto ai giornalisti del Sir, che la Santa Sede “la Santa Sede è preoccupata per il segnale che si dà al mondo con la costruzione del muro tra Usa e Messico”. Il cardinale si è quindi augurato che altri Stati, anche europei, “non seguano l’esempio” di Trump.

“Noi ci auguriamo che il muro non sia costruito ma conoscendo Trump forse si farà. La Santa Sede è preoccupata perché non riguarda solo la situazione con il Messico ma il segnale che si dà al mondo”, ha detto il cardinale Turkson ai microfoni del Sir. “Non sono solo gli Usa che vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa”, ha proseguito il cardinale, “mi auguro che non seguano il suo esempio”.

“Un presidente può anche costruire un muro ma può arrivare un altro presidente che l’abbatterà”, ha aggiunto, infine, il cardinale Turkson, mentre in America continua il braccio di ferro tra Trump e il presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Dopo che Peña Nieto ha cancellato il vertice in programma il 31 gennaio prossimo alla Casa Bianca, Donald Trump ha attaccato, infatti, nuovamente, il governo messicano, in un tweet pubblicato poco fa. "Il Messico ha approfittato degli Stati Uniti per troppo tempo. Il deficit commerciale enorme e il poco aiuto sul confine più debole devono cambiare, ORA!", ha scritto Trump su Twitter.


Alberto Pento
E noi, ormai da anni, siamo preoccupati, molto preoccupati della politica anticristiana, anti nativi occidentali e filo islamica del nazismo maomettano, di questo Papa e del Vaticano.


Donald Trump o Francesco Bergoglio ? - Io preferisco mille volte Donald Trump
viewtopic.php?f=141&t=2462
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8457388171
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » gio gen 26, 2017 9:45 pm

Alberto Pento

Qualcuno racconta che i confini, le frontiere, magari protette da recinzioni, da muri o mura e da poliziotti o soldati armati, e il protezionismo economico non servono a nulla e che danneggiano l'economia e la società ... allora io mi chiedo, ma se ciò fosse vero perché la Svizzerra che è un piccolo paese europeo ben delimitato da confini, barriere, recinzioni, muri, dogane, soldati e poliziotti perché è il paese più prospero e dove la gente europea è più felice?


https://it.wikipedia.org/wiki/Economia_svizzera
La Svizzera ha un'economia molto sviluppata. Infatti, pur essendo solo 38° al mondo per PIL, ha il quarto PIL pro capite più alto, pari a 78.881$ nel 2012. La sua economia, data anche la conformazione del territorio e la scarsità di risorse naturali, è prevalentemente concentrata sul settore dei servizi, in particolare quelli finanziari.


La Svizzera, regno del protezionismo
01 luglio 2003
http://www.swissinfo.ch/ita/la-svizzera ... mo/3387392

C'è da restare perplessi per le enormi differenze di prezzi tra la Svizzera e i paesi vicini
(Keystone)
Poco invidiabile primato per la Svizzera, che si conferma quale Paese più caro d’Europa.

Secondo il Segretariato di Stato dell’economia (Seco), le ragioni sono legate a un livello insufficiente della concorrenza e una giungla di regolamenti.

Il ministro dell’economia Joseph Deiss ha partecipato martedì ad una conferenza del Seco consacrata alla presentazione di quattro studi sul tema: “la Svizzera: un’isola di prezzi elevati”. Dai rapporti risulta un tasso di concorrenza largamente insufficiente.
Insalata doppiamente cara

La Svizzera resta il paese più caro d’Europa. La differenza rispetto ai paesi dell’Unione europea è addirittura del 30% per quel che riguarda i prezzi al consumo.

Ad esempio, un insalata nei supermercati svizzeri costa mediamente 2.90 franchi, mentre in Germania 1.50 franchi. Praticamente la metà.

“Per anni abbiamo giustificato questa differenza invocando il buon funzionamento dei nostri servizi pubblici, la qualità dei nostri prodotti ed il livello dei salari”, ha dichiarato Joseph Deiss. “Ora questi argomenti non valgono più”.

Tutti questi fattori, che determinano il livello di vita dei cittadini, sono infatti ormai simili a quelli che si ritrovano all’estero, ha aggiunto.

Troppo protezionismo

Il ministro democristiano ha dunque rilevato come, contrariamente alle apparenze, l’alto costo di beni e servizi in Svizzera si spiega soprattutto con una struttura economica fortemente protezionista.

Per raggiungere un livello dei prezzi meno elevato, gli autori degli studi propongono una maggiore integrazione nell’Unione europea, delle liberalizzazioni delle infrastrutture pubbliche e l’intensificazione della concorrenza nei settori protetti.

Un punto di vista condiviso da Joseph Deiss, secondo il quale si dovranno aprire sia settori pubblici che privati, “pur se i cartelli appartengono un po’ al folclore del nostro paese”.

L’esempio delle comunicazioni

La liberalizzazione delle telecomunicazioni ha prodotto gli effetti positivi sperati, ha rilevato il ministro. Egli ritiene che ora toccherà pure ai settori dell’elettricità, dell’agricoltura e della salute.

Sono molte le speranze riposte nella revisione della legge sui cartelli. “Vogliamo ricondurre la Svizzera verso una vera economia di mercato”, ha dichiarato Deiss. Più concorrenza potrebbe restituire un certo vigore alla crescita economica nazionale.

Svizzera sempre in vetta

In febbraio sono stati pubblicati gli ultimi risultati del programma di statistiche europeo Eurostat. Dati del 2001 che confermavano la Svizzera quale paese più caro d’Europa con un indice di 139 punti.

Norvegia (125) e Danimarca (124) seguivano la Confederazione, mentre la media dei paesi dell’Unione europea si situava a 100. Dal 1990, data della creazione di questo confronto internazionale, la Svizzera ha sempre occupato la poco invidiabile prima posizione.

Secondo uno studio del Seco, in Svizzera si potrebbero risparmiare 19 miliardi di franchi all'anno se la concorrenza fra i produttori di beni di consumo non fosse intralciata.

Senza gli attuali freni alla concorrenza, i prezzi diminuirebbero in media dell'8% e le esportazioni svizzere costerebbero fino a dieci miliardi in meno.

Sempre secondo il Seco, il settore alberghiero sarà confrontato con una domanda sempre più bassa, se i prezzi resteranno ai livelli attuali.



IL PROTEZIONISMO È UNA ARMA A DOPPIO TAGLIO: IL CASO SVIZZERO
venerdì 13 giugno 2014

http://www.gravita-zero.org/2014/06/il- ... o-tag.html

Nel Canton Ticino in Svizzera, su Teleticino e Rsi, l’equivalente svizzero della Rai, fino a fine ottobre andrà in onda una controversa pubblicità contro le delocalizzazioni in Italia. Il messaggio lanciato nello spot è quello di “non annaffiare il giardino straniero, o perlomeno italiano”.

"INVESTIRE NEL GIARDINO DEL VICINO PUÒ ESSERE PERICOLOSO"

L’ iniziativa è stata ideata da varie associazioni professionali svizzere e punta il dito contro i “padroncini italiani”. Lo spot è in italiano, la lingua ufficiale del Canton Ticino, e mostra un uomo che dal suo giardino sta distrattamente annaffiando non il suo prato, ma quello del vicino che è ben più verde. Il messaggio implicito dello spot è che accanto a lui abita un italiano che ha un giardino più bello. “Ogni goccia che cade lontano, rende il vostro prato meno verde. Investire nel giardino del vicino può essere pericoloso”, si sente in questo spot che prende di mira gli italiani. A un certo punto l’uomo viene colpito da una pallonata in faccia che lo stende. Il video finisce con queste parole: “Nutriamo il nostro territorio, lavoriamo con imprese locali”.

Ad aver ideato lo spot sono l’Associazione interprofessionale di controllo, la Società svizzera impresari costruttori Sezione Ticino, l’Unione Associazioni dell’Edilizia e la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino.

Ne ha parlato con toni accesi il Fatto Quotidiano.

Tuttavia la Svizzera non può dimenticare che un tessuto sociale come l'Italia (dove solo in Piemonte coesistono oltre 60.000 realtà di impresa, spesso multinazionali) si scontra con appena 6000 imprese locali. La svizzera è il regno del protezionismo? Non siamo noi a giudicare, ma un articolo pubblicato su Swissinfo.ch non lascia dubbi: "La Svizzera regno del protezionismo"


Abbiamo rivolto la questione a Walter Caputo, economista.

Il recente spot svizzero, che invita a privilegiare le aziende locali con l'ashtag #primainostri, (http://www.primainostri.ch) sta facendo molto discutere. Certo, le “aziende locali” potrebbero anche non essere svizzere, ma italiane ad esempio; tuttavia il primo istinto è pensare che la Svizzera stia attuando una politica protezionistica. Protezionismo significa limitare al minimo le importazioni (al limite eliminarle) ed agevolare al massimo le esportazioni.
Una politica protezionistica può essere sorretta da una serie di motivazioni economiche, fra le quali proteggere le imprese nazionali dalla concorrenza straniera, salvaguardare l’occupazione ed evitare che i debiti dello Stato verso l’estero crescano. Sono noti, nella letteratura economica, anche gli svantaggi del protezionismo. Gli altri paesi possono non essere d’accordo con una politica che danneggi le loro esportazioni, quindi potrebbero adottare strategie di ritorsione. Inoltre il paese che intende “chiudersi” al commercio internazionale potrebbe non essere in grado di farlo a causa della carenza di alcune materie prime, oppure per mancanza di know-how di produzione.

Tuttavia c’è un elemento contro il protezionismo dai più ignorato. L’economista liberista Pascal Salin, in “Liberismo, libertà, democrazia” (Di Renzo Editore 2008) evidenzia che la volontà di un determinato governo di chiudere le frontiere commerciali limita la libertà dei singoli individui di esercitare la pratica del commercio. Egli scrive testualmente: “La storia ci insegna che non ha senso obbligare i popoli a sviluppare rapporti commerciali, perché un aspetto fondamentale della libertà degli individui è quello di agire, di contrattare, di scambiarsi beni, merci”. La libertà va tutelata: se i cittadini vogliono commerciare con l’estero devono essere lasciati liberi di farlo. Se non intendono sviluppare rapporti commerciali con l’estero, non li si deve obbligare.

Spesso invece le cose vanno nella direzione opposta. Se un governo intende proteggere un’industria nascente, stabilisce e impone dazi doganali o contingenti all’importazione. Addirittura un governo può essere capace di mantenere in vita un’azienda ormai decotta contro l’opinione di tutti coloro che ritengono sia il caso di smettere di sperperare denaro pubblico per entità commerciali senza futuro. In tali casi si ignora il concetto di specializzazione. Se un Paese non è in grado di produrre determinati beni o servizi, vorrà dire che li acquisterà da altri e si specializzerà in ciò che sa fare meglio e a costi bassi.

Talvolta un governo può imporre determinati comportamenti in maniera più sottile. Ad esempio, come sta succedendo in Svizzera, potrebbe utilizzare una strategia di persuasione, per convincere i cittadini svizzeri a rivolgersi innanzitutto ad aziende svizzere. Oppure se un governo ritiene che le aziende vendano troppo poco all’estero, può incentivarle fiscalmente affinché le esportazioni crescano. Anche questa azione non rispetta la libertà dei singoli cittadini.

È molto sentito dalle persone il rischio che l’Europa soccomba di fronte alla concorrenza dei Paesi Emergenti. In maniera analoga si può pensare alla concorrenza fra aziende italiane ed aziende svizzere. Secondo Pascal Salin occorre innanzitutto introdurre un nuovo concetto di concorrenza. Non quella classica di aziende concorrenti in quanto producono lo stesso tipo di bene o di servizio, ma concorrenza in senso più ampio, nel senso che tutte le aziende “concorrono” per disporre di una parte del reddito degli stessi consumatori.

In questa ottica, i consumatori sono una massa indistinta (non si può più distinguere l'italiano dallo svizzero) e lo stesso vale per le imprese. La torta è una sola e tutti ne desiderano una fetta. Allora occorre superare i nazionalismi e pensare in maniera sovranazionale o globale: il mercato deve essere accessibile a tutti e le regole devono essere le stesse, a prescindere dalla nazionalità degli imprenditori.


Il Ticino al voto per lasciare fuori i frontalieri: "Prima i nostri"
Il 25 settembre in canton Ticino si voterà per la legge anti-frontalieri: l'obiettivo è tutelare i lavoratori autoctoni e prevenire il dumping salariale
Ivan Francese - Lun, 05/09/2016

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tic ... 03096.html

L'idea di fondo è semplice. Sconfiggere il fenomeno dei frontalieri in Ticino varando una misura di legge che imponga ai datori di lavoro di dare la precedenza ai connazionali, nelle assunzioni, rispetto agli stranieri.

Questa la proposta alla base dell'iniziativa dei partiti svizzeri Lega dei Ticinesi e Udc. Il prossimo 25 settembre in Ticino si terrà un referendum costituzionale per decidere se bocciare o promuovere "la salvaguardia dell'identità ticinese, contro l'immigrazione di massa e il dumping salariale". La polemica contro i 62mila frontalieri (i lavoratori italiani che ogni giorno sconfinano in Svizzera per lavorare, ndr) che ogni giorno passano il confine arrivando soprattutto dalle province di Como e di Varese ha ormai assunto i toni di una crociata: basti pensare che lo slogan del comitato per il sì alla legge, ripreso anche dal nome del sito internet, è "prima i nostri".

Già nel 2014 un altro referendum aveva sancito l'approvazione di contingenti per limitare il numero dei lavoratori stranieri: "Promuoviamo un’iniziativa costituzionale che ponga rimedio all’attuale mancanza di protezione per i salariati ticinesi — spiegano i promotori — Non è una battaglia partitica ma una lotta trasversale per sostenere la nostra identità e i nostri diritti; che vuole proteggerci dal dumping salariale in atto grazie al continuo aumento dei frontalieri".

Frontalieri che, naturalmente, sono saliti sulle barricate. Nato su Facebook, il "Gruppo frontalieri Ticino" ha annunciato uno sciopero per il 22, 23 e 24 settembre: l'astensione dal lavoro ha lo scopo di mostrare ai ticinesi quanto peso abbiano i lavoratori stranieri sul mercato dell'occupazione locale.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » ven gen 27, 2017 7:53 pm

Il protezionismo economico, etnico e "culturale" dei paesi islamici dove vige il nazismo islamico

Il protezionismo politico-culturale-religioso è nel Corano, nella Sharia e in tutti gli ordinamenti statuali dei paesi mussulmani; lo si trova nella persecuzione di tutti i diversamente religiosi.


L'Islam è il nazismo islamico? Sì!
viewtopic.php?f=188&t=2274


Protezionismo economico: il caso Indonesia
http://www.lindro.it/lindonesia-e-il-protezionismo

Bangkok – L’Indonesia è notoriamente una Nazione che rapidamente ha guadagnato posizioni nel ranking internazionale, attraverso un punto di vista squisitamente “asiatico” nell’apparato produttivo, basato su una buona disponibilità di materie prime e di manodopera a basso costo o con livelli di costo estremamente competitivi sulle piazze internazionali. Questo mix favorevole ha portato la Nazione islamica più popolosa al Mondo a conquistare una visibilità inaspettata fino a poco tempo fa, pur permanendo un livello interno di relativa stabilità, con un quadro socio-economico chiaro e con il rischio del fondamentalismo tenuto al di fuori della porta del tessuto sociale indonesiano.

In vista dell’unificazione ASEAN prevista per il 2015 –data nella quale quella che oggi è una semplice “associazione” di Stati unitisi in forma di “cartello” diventerà una vera e propria “Unione”- anche l’Indonesia cerca di posizionarsi in termini di vantaggio quanto più possibile avanzato e favorevole per se stessa: quello che stanno via via facendo anche le altre Nazioni ASEAN. In questo solco, un po’ tutti i Paesi membri ASEAN stanno attuando politiche di “cartello” all’interno dell’ASEAN, con dazi doganali favorevoli nell’area, con interscambi commerciali facilitati, con una rete di infrastrutture che connette meglio le vie di accesso interne e tra i Paesi membri ed infine, con politiche favorevoli alla fluidificazione degli spostamenti della forza lavoro locale con tutta una serie di monitoraggi e accordi bilaterali o multi-laterali che consentono ai migranti di spostarsi alla ricerca di lavoro in maniera protetta o perlomeno monitorata costantemente a livello governativo. Di rimando, sempre tra tutti i Paesi membri ASEAN, s’è sviluppato una specie di tacito accordo per il quale la politica commerciale verso il resto del Mondo ha assunto i più netti connotati del protezionismo: dazi doganali alti verso le merci ed i prodotti che giungono dall’estero, principalmente dall’Occidente in primis.

Quando l’ASEAN raggiungerà la data del 2015, si presuppone che molte cose saranno ridiscusse e che anche in ambito commerciale ci sarà da verificare tra pro e contro, quale possa essere il giusto equilibrio per non perdere letteralmente i clienti sulle piazze internazionali e per non essere eccessivamente esclusivi nei confronti di Paesi e nazioni che sulla carta potrebbero essere seriamente interessati ad investire nell’area ASEAN, soprattutto Unione Europea e Stati Uniti.

Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Indonesia negli ultimi tempi: si riflette su quale possa essere il più giusto equilibrio da apportare negli scambi commerciali evitando di pensare ad una posizione privilegiata nel Mondo e nell’ASEAN e soprattutto evitando di alzare bastioni troppo alti a difesa della propria economia interna spaventando gli investitori stranieri.

Il prossimo anno, oltretutto, in Indonesia si profilano già le scadenze elettorali legate al rinnovo della carica presidenziale e dell’assetto parlamentare, quindi, bisognerà arrivarvi con una Nazione serena e non sotto stress, almeno in ambito economico/finanziario per non creare eccessivi timori nelle Borse di tutto il Mondo. Questi sono i motivi per i quali i principali attori del management pubblico della materia economica stanno giorno dopo giorno consigliando al Governo centrale di non esagerare sulla strada della politica protezionistica perché potrebbe risentirne l’outlook dell’Indonesia che attualmente è ben posizionato. L’economista-guida incaricato presso presso la Banca Mondiale di seguire l’Indonesia, il senegalese Ndiamé Diop, ha infatti sottolineato recentemente che una tale politica protezionistica, quale quella intrapresa in tempi a noi vicini, da parte dell’Indonesia potrebbe rivelarsi persino dannosa per il welfare pubblico. Anzi, l’economista la definisce una trappola nazionalista da evitare accuratamente. Il test saranno le elezioni presidenziali, proprio perché si potrà verificare la tenuta dell’atteggiamento degli investitori stranieri. Sarebbe quindi il caso, affermano gli economisti, di procedere speditamente sulla strada delle riforme e non certo su quella del nazionalismo economico. Potrebbe pure accadere lo scenario peggiore, ovvero che gli investitori ritirino i propri capitali investiti in attesa del nuovo Presidente intorno al prossimo mese di luglio.

Secondo le stime degli esperti la crescita degli investimenti stranieri potrebbe subire un decremento tra il 15 ed il 18 per cento il prossimo anno portandola, quindi, al di sotto del 20 per cento di crescita stimata nel corso di quest’anno e sotto il 26 per cento raggiunto nel 2012. Al momento gli esperti ritengono si tratti di una contrazione dovuta alla crisi internazionale.

In settimana il Ministro per il Coordinamento Economico, Hatta Rajasa, un politico ritenuto tra i papabili per il ruolo di prossimo Presidente, ha rivelato un piano di alleggerimento della pressione sulle proprietà straniere di alcune imprese operative sul territorio indonesiano e che apre ad ulteriori investimenti stranieri nel Paese. Pare che, in questo modo, possa essere consentito a società straniere di detenere anche il 100 per cento delle proprietà nei pacchetti gestionali di aeroporti e porti marittimi, così come si consentirebbe anche di innalzare il livello di quote nelle proprietà in alcune industrie come le farmaceutiche e nel campo delle telecomunicazioni. Poiché tutto questo renderebbe ancor più vantaggioso investire nell’Indonesia, affermano gli esperti locali e non solo quelli ministeriali, si espandono le opportunità per gli investimenti stranieri sì ma questo implica anche il correlativo fatto che, così, si implementerebbe anche il numero dei lavoratori indonesiani assunti in loco. Quindi, l’Indonesia diventerebbe ancor più competitiva come terreno d’azione per gli investimenti stranieri e, allo stesso tempo, ne trarrebbe ulteriore vantaggio la forza lavoro locale ed i prodotti realizzati in Indonesia continuerebbero a essere venduti con prezzi anch’essi competitivi sul mercato mondiale. Nonostante l’indonesia abbia subìto anch’essa gli effetti della crisi mondiale, la crescita economica potrebbe tornare al 6 per cento stimato per il decennio corrente, il che sarebbe la migliore delle vetrine attraenti per gli investitori stranieri.

L’economista inglese Jim O’Neill, famoso per essere stato l’ideatore dell’acronimo BRIC che sta per Brasile, Russia, India e Cina, prefigurando anche l’ordine di grandezza che avrebbe acquisito nel tempo quel gruppo di Nazioni ed azzeccando le sue previsioni, ha affernato che l’Indonesia entro il 2050 potrebbe diventare la sesta economia al Mondo in ordine di grandezza. Negli ultimi 12 anni l’Indonesia ha visto il proprio PIL crescere fino a raggiungere gli 897 miliardi di Dollari USA in controvalore entro la fine del 2012, ha fatto notare l’economista inglese, il quale ha poi anche predetto che l’Indonesia raggiungerà un’espansione di 6.300 miliardi di Dollari USA in controvalore entro la fine del 2050.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 8:45 am

Il nuovo ordine globale e il buonismo di Davos
21 gennaio 2017
Alan Friedman

http://www.alanfriedman.it/il-nuovo-ord ... o-di-davos

L’anno scorso sbagliarono le previsioni su Brexit e Trump, per eccesso di ottimismo. Oggi assistono al ruolo egemone della Cina. Il mio commento sui protagonisti del vertice economico di Davos, conclusosi ieri, pubblicato sul Corriere della Sera.

Un anno fa, al vertice economico annuale di Davos, l’élite mondiale della finanza e della politica aveva le idee molto chiare: Donald Trump non sarebbe mai potuto arrivare alla Casa Bianca, i britannici avrebbero votato contro la Brexit e la globalizzazione era la forza più benevola della storia dell’umanità. L’ordine mondiale liberale significava commercio libero, mercati aperti, libero movimento delle persone e un impegno comune per affrontare i problemi del clima. Quest’anno i delegati a Davos si sono invece trovati davanti a una crisi, che per certi versi assomiglia a una crisi esistenziale. La loro religione della globalizzazione appare screditata, almeno secondo i leader emergenti negli Usa e Europa. L’élite mondiale ha perso il bandolo della matassa mentre le vittime degli effetti negativi della globalizzazione si sono fatte sentire al seggio elettorale.

Con la vittoria della Brexit, l’elezione di Trump e la sconfitta di Renzi nel referendum — per non parlare dei movimenti xenofobi e anti-immigrati in crescita in Germania, Francia, Olanda e Ungheria — siamo entrati in una fase di rigurgito politico-culturale contro l’establishment, un ammutinamento dei popoli contro le élite, contro proprio quelle élite che si sono riunite nei giorni scorsi a Davos.
Davos Man è il famoso termine coniato da Samuel Huntington per descrivere la figura elitaria di Davos, un fervente difensore della globalizzazione ma illuminato e progressista su questioni come la povertà in Africa o il clima.
Il Davos Man è un buonista, appoggia i valori del mondo liberale, della diversità culturale e del business. Vive in una bolla di lusso ma è sempre politicamente corretto. Sceso dall’elicottero, vestito in corporate casual, si vede con altri Davos Men al bar dell’hotel Seehof, per il bicchiere della staffa con George Soros o forse per l’ennesimo racconto dell’ex presidente Bill Clinton.

Sulla carta, quest’anno a Davos il tema in discussione è la responsabilità delle leadership. Ma il vero tema potrebbe essere la responsabilità di Davos, che quest’anno è apparsa più come simbolo del problema piuttosto che soluzione. L’élite mondiale è sotto tiro e farebbe bene a interrogarsi sul perché i populisti stanno sconfiggendo le élite in mezzo Occidente. Se Davos sarà servita a qualcosa quest’anno sarà perché avrà segnato l’inizio di un periodo di profonda introspezione da parte dell’élite mondiale. Non basta lamentare i rischi del protezionismo con l’arrivo di Donald Trump. Non basta fare autocritica sugli effetti della globalizzazione. Bisogna riconoscere che con Donald Trump alla Casa Bianca stiamo entrando in un periodo di politica internazionale imprevedibile e incerto. Bisogna riconoscere che l’ordine mondiale liberale a cui ci siamo abituati per mezzo secolo si sta riplasmando e in qualche caso stanno uscendo fuori delle democrazie illiberali.

Intanto Vladimir Putin continua a riscrivere la mappa geopolitica di mezzo pianeta, avendo appena orchestrato una grave ingerenza nella campagna elettorale statunitense a favore di Donald Trump. Forse l’ironia suprema di questo vertice di Davos è che l’arrivo di Donald Trump sta spianando la strada all’emergere di una Cina più influente sul palco mondiale. Martedì, per la prima volta, il presidente della Cina ha aperto il vertice di Davos, e il messaggio del presidente Xi Jinping è stato da grande protagonista. La Cina si è presentata a Davos e nel mondo come la forza affidabile per la stabilità internazionale, a favore del commercio libero ma attraverso una globalizzazione più inclusiva e equa. La Cina ora fa la buonista, e potrebbe anche sedurre il Davos Man. Grazie a Donald Trump, oggi la Cina si posiziona come leader mondiale anche nella tutela dell’ambiente e nella difesa dell’accordo sul clima. No comment. L’ordine mondiale che conosciamo sta cambiando, e il Davos Man, almeno per ora, è in ritiro. La leadership di pensiero mondiale non sa cosa pensare. E questo sì, potrebbe essere un problema.


Davos
https://it.wikipedia.org/wiki/Davos
Davos (pronuncia tedesca [daˈvoːs]; localmente Tafaas; in romancio Tavau; in italiano desueto Tavate; in lombardo Tavò) è un comune svizzero del Canton Grigioni di 11211 abitanti.
Il comune si trova nel distretto di Prettigovia/Davos ed è posto lungo il fiume Landwasser, nelle Alpi svizzere, a metà fra il passo del Plessur ed il Passo dell'Albula. Il 1º gennaio 2009 si è fuso con l'ex comune di Wiesen, diventando così uno dei più estesi di tutta la Svizzera.
La località è nota in tutto il mondo perché da qualche tempo ospita l'annuale Forum Economico Mondiale, un incontro fra i principali dirigenti politici ed i principali esponenti economici. È rinomata per gli sport invernali.


Commenti

Maurizio Mottolese
Ma non eri tu che dicevi che Trump non ce l'avrebbe fatta e che se avesse vinto ci sarebbe stato il disastro? di la verità pensavi che vincesse la Clinton e siccome ti piace sempre stare attaccato al carro del vincitore adesso come da buon camaleonte stai cambiando il colore della pelle.......ciao giornalaio !

Gianni Manzoni
caro Alan Friedman, un anno fa' anche tu avevi le idee molto chiare, le stesse idee che aveva l'élite mondiale della finanza e della politica. E tu sostenevi queste idee, e distribuivi le tue previsioni sul referendum Brexit facendoti forte dei sondaggi; sempre supportato dai sondaggi ti esponevi celebrando anticipatamente la vittoria della Clinton... ho letto il tuo commento sull'incontro di Davos e mi fa piacere constatare che le tue riflessioni concordino con le mie, almeno in parte. Solo che le mie riflessioni sono di un anno fa', prima del referendum Brexit, prima delle elezioni americane, con gli stessi sondaggi che le fonti di informazione, e i media in generale, fornivano a iosa. Non sono un professionista dell'informazione, né della finanza, né della politica, ma sono una persona che ogni giorno si trova a contatto con altre persone che vivono la stessa quotidianità, quella vera, fatta di lavoro, di rischio commerciale, di contatti con clienti e fornitori con i quali, inevitabilmente, si va a parlare di politica e economia. E lì io faccio i miei sondaggi, con la massa e, soprattutto, i risultati sono reali e non taroccati come quelli che Rai e altre TV divulgano cercando di drogare le intenzioni di voto. Caro Alan Friedman, mi sei comunque simpatico, perché sono certo della tua buona fede, ma, nel mio piccolo, un consiglio, veramente piccolo, mi sento di dartelo: se vuoi conoscere un po' di verità, e se vuoi avere i dati di un sondaggio "sincero", parla con un commerciante, un artigiano, un barista, un barbiere, raccogli i dati e vedrai che riuscirai a sentire il polso della situazione un anno prima dei capoccioni che si riuniscono a Davos.
Perché a Davos si commenta ciò che è avvenuto e non quello che potrebbe accadere.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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