Economia, protezionismo e globalizzazione, Trump e Svizzera

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Messaggioda Berto » lun gen 04, 2021 8:16 am

Cosa (non) abbiamo capito della dittatura cinese. Lo spiega Castellani
26 dicembre 2020

https://formiche.net/2020/12/cosa-non-a ... astellani/

Pubblichiamo un estratto del saggio “L’ingranaggio del potere” (LiberiLibri) di Lorenzo Castellani (Luiss). Sacrificando la democrazia sull’altare dell’efficienza amministrativa, i nuovi pensatori tecnocratici occidentali esaltano il modello burocratico cinese come esempio da seguire. Ma è davvero così?

Così come negli anni Trenta la pianificazione sovietica esercitava grande influenza sui pensieri degli intellettuali e dei politici americani ed europei, tale da forgiare il nucleo fondamentale delle teorie tecnocratiche contemporanee, così oggi è il modello politico cinese a fornire allucinogeni al pensiero occidentale.

All’inizio degli anni Novanta, un realista come Danilo Zolo fu forse il primo tra i pensatori politici di quel periodo a farsi sedurre dalla formula tecnocratica. Per lo scienziato politico italiano la fine delle ideologie e l’aumento della complessità per l’eccesso di informazione avevano reso la politica un mero esercizio di “regolazione selettiva dei rischi”.

Al tramonto del ventesimo secolo, le decisioni politiche servivano esclusivamente a scegliere quale livello di protezione accordare alle varie categorie sociali. Un’oligarchia, autorizzata dal voto popolare, era chiamata a prendere queste scelte e a farlo sulla base delle proprie conoscenze specifiche. In questo scenario, Zolo concludeva che il “principato democratico” era destinato al modello Singapore: un’efficiente tecnocrazia diventava il nuovo Principe, capace di mediare, negli specifici settori di competenza, tra i vari interessi della società. Essa, inoltre, riduceva l’incertezza della conoscenza e stabilizzava i rischi in una società sempre più complessa, dunque rischiosa e imprevedibile.

Le tecnostrutture erano chiamate a gestire e regolare l’azione del potere, scegliendo a seconda della situazione quali categorie sociali esporre più o meno ai rischi economici. La politica postmoderna vista con gli occhi di Zolo perdeva di profondità teleologica, si faceva più pragmatica e meno pretenziosa che in passato, e si trasformava in mera tecnica gestionale dei rischi, depurata da ogni conflitto ideologico.

In questo solco, uno tra i più influenti pensatori del presente sul tema è senza dubbio Parag Khanna, che nei suoi testi sottolinea come la politica moderna non debba ispirarsi a ideologie o valori superiori, ma essere orientata sulla base della razionalità strumentale alla risoluzione dei problemi, allo sviluppo economico, all’efficienza dei servizi pubblici. La politica per Khanna è, sostanzialmente, buona amministrazione nel contesto dell’economia globale. La governance è d’importanza superiore alla democrazia per la soddisfazione dei cittadini, che pretenderebbero soluzioni prima che partecipazione.

La critica del pensatore asiatico alla rappresentanza è spietata: essa non riesce a perseguire gli obiettivi con efficienza, la politica è divisiva, demagogica e corrotta. L’unica possibilità di sterilizzare le deviazioni irrazionali della democrazia è, secondo Khanna, la combinazione tra tecnocrazia e democrazia diretta consultiva.

Quest’ultima si avvale delle nuove tecnologie per assumere il parere dei cittadini sulle questioni amministrative, i dati raccolti vengono poi elaborati dai tecnocrati che attuano le politiche pubbliche mescolando quegli impulsi popolari con tecniche gestionali e ingegneristiche. Questa combinazione per Khanna dà luogo a un regime di “tecnocrazia partecipata”, unica formula adatta per governare efficacemente la complessità sociale. Per i cultori di tale pensiero, di fatto, la politica non conta nulla, è mera tecnica. È un modo di ragionare manageriale che ricerca soluzioni puramente pratiche e calcolabili.

Come nel pensiero dei positivisti e del primo socialismo, così la visione dei nuovi pensatori tecnocratici è tutta volta a valorizzare l’amministrazione delle cose, senza preoccuparsi troppo dei principi politici. Questa tecno-democrazia è il sistema verso cui dovrebbero tendere tutti i sistemi: gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina. Paradossalmente, però, l’ideale di Khanna non sono le grandi potenze, bensì la città-Stato di Singapore, il regime tecnocratico più maturo e di successo al mondo. E forse anche l’unico possibile, proprio per la sua taglia territoriale e demografica ridotta.

Se il pensiero di Khanna può essere giustificato dalla sua formazione orientale, meno attenta alla tradizione democratica e liberale, non lo sono altrettanto le visioni asiatiche di alcuni autori americani. In un libro di un certo successo, Daniel Bell Jr ha magnificato la competenza e l’efficienza della tecnocrazia cinese, aspirando alla convergenza tra sistemi politici orientali e occidentali.

Secondo questo scienziato politico, la Cina dovrebbe rafforzare il livello di partecipazione democratica e di accountability, seppur soltanto a livello locale e nel monopartitismo, mentre i Paesi occidentali potrebbero importare il modello cinese sul piano politico e amministrativo. Ciò significherebbe edificare delle tecno-democrazie, in cui la parte tecnocratica venga ulteriormente rafforzata. Il principio di competenza sottrarrebbe ancora funzioni a quello democratico. Una nuova aristocrazia artificiale gestirebbe gran parte delle decisioni politiche, ora poste quasi integralmente nelle mani degli esperti.

[…]

In conclusione, ciò che sorprende di questa corrente intellettuale è come i suoi esponenti dimentichino il volto dittatoriale del governo cinese, un regime forse più efficiente delle democrazie nell’attuare scelte politiche, ma di sicuro non meno corrotto delle democrazie liberali e, soprattutto, autoritario. Formula dispotica che può calpestare le libertà fondamentali e distribuire a piacimento la proprietà. Con efficienza ed efficacia certamente, ma anche con efferatezza e stringente controllo sociale.

Al tempo stesso sorprende la facilità con cui viene dismessa la tradizione occidentale, il suo percorso lungo, accidentato, ma capace di produrre una civiltà fiorente e superiore alle altre. È come se, di fronte alla crisi del politico e della rappresentanza, si dovesse correre subito verso un regime ancor più tecnocratico, capace di immobilizzare la politica, di espropriare il dialogo tra le parti per affidarlo a delle istituzioni tecniche, di allontanare i decisori dai livelli più bassi di governo, e di reprimere le possibilità di risolvere i problemi uscendo dalle soluzioni più probabili, preconfezionate e standardizzate che, come spesso la storia ha dimostrato, non sono quasi mai quelle giuste per risolvere la crisi. Il pilota automatico è utile per far volare in tranquillità l’aereo su lunghe rotte, ma quando un motore si rompe è l’essere umano che deve farlo atterrare in emergenza.

Per questo, dunque, l’allucinazione cinese non con- vince: vale davvero la pena liberarsi di Aristotele, Montesquieu, Locke, Jefferson, Madison, o dei più recenti Berlin e Hayek, per andare verso formule di governo, forse più efficienti, ma importate da sistemi illiberali? Non v’è forse il rischio di scivolare verso dispotismi tecnocratici anche in Occidente più di quanto non sia già avvenuto? Quasi nessuno, nella foga dell’azione per il progresso, sembra più porsi queste domande. Ma quando tutti agiscono, nessuno pensa.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » lun gen 04, 2021 8:16 am

L'accordo Ue-Cina inaugura il dopo-Trump: la normalizzazione con Pechino galoppa, nonostante tutto...
Federico Punzi
31 Dic 2020

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... nte-tutto/

Non una prova di maturità dell’Ue, una prova di stupidità. Il frettoloso riavvicinamento Ue-Cina snobba Biden e spiazza coloro che sperano in un fronte transatlantico comune contro Pechino. Ma il nuovo approccio annunciato dal presidente eletto Usa e dai suoi consiglieri – nessuna rappresaglia contro gli alleati per le loro decisioni e inclusione della Cina nell’ordine globale – ha rassicurato gli europei

C’è da augurarsi, per questo capodanno 2021, che la rimozione della statua del presidente Lincoln, ieri a Boston, non sia il segno premonitore del nuovo ordine mondiale che ci aspetta in questi nuovi Anni Venti.

Quest’anno maledetto si chiude per l’Unione europea con due importanti accordi. Un accordo commerciale, finalizzato e firmato, con il Regno Unito; e un accordo di principio con la Cina, quindi per ora una dichiarazione politica, sugli investimenti reciproci. L’Ue pretendeva di mantenere Londra allineata, anche in futuro, ai propri regolamenti e standard, e invece decide di “allinearsi” politicamente a Pechino. È innegabile infatti il valore strategico del legame Ue-Cina che questo accordo delinea, considerando il salto di qualità che determinerebbe, se entrasse in vigore, nell’interdipendenza economica tra i due partner.

Un accordo che arriva, paradossalmente, sul finire dell’anno che avrebbe dovuto far aprire definitivamente gli occhi, in Occidente, sulla inaffidabilità del regime cinese: l’anno dell’insabbiamento, delle bugie, delle gravi responsabilità nella catastrofe globale causata dal “China Virus”, tema che ormai non si osa più nemmeno sollevare; della palese violazione dell’autonomia di Hong Kong da parte di Pechino – condannata come tale, a parole, anche da Bruxelles; e di un livello di aggressività senza precedenti nella postura della Repubblica Popolare, che ha bullizzato grandi Paesi come l’India e l’Australia ma anche stati membri e parlamenti dell’Ue.

Dopo quest’anno, in cui la Cina ha rivelato il suo volto totalitario al proprio interno, e sempre più aggressivo all’esterno, ci si sarebbe aspettati una contrapposizione, non l’appeasement. Invece, l’Ue ha scelto il secondo.

Donald Trump non è ancora uscito dalla Casa Bianca e, come in pochi avevamo previsto, la normalizzazione con Pechino già galoppa, nonostante tutto…

Il tempo ci dirà se l’accordo Ue-Cina è il relitto di una stagione ormai alle spalle, quella della fiducia incondizionata nell’apertura della Cina e nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, oppure se è la calma dopo la “tempesta Trump”, quella stagione che riprende il suo corso, bruscamente interrotto nel 2016.

In ogni caso, come su Brexit, anche sull’accordo Ue-Cina qui su Atlantico Quotidiano avevamo visto giusto.
Il raffreddamento di fine estate da parte di Bruxelles e Berlino era solo tatticismo, non il primo effetto di un processo di ripensamento avviato sui rapporti con Pechino. La determinazione della cancelliera Merkel a concluderlo restava intatta.

E non è casuale che sia la Merkel sia il presidente cinese Xi Jinping, i veri artefici dell’accordo, non abbiano atteso l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ma abbiano invece atteso l’esito delle elezioni del 3 novembre, prima di imprimere l’accelerazione decisiva al negoziato – segnalata lo scorso 18 dicembre da fonti sia europee che cinesi al South China Morning Post e al Financial Times.

La conclusione del semestre di presidenza tedesca dell’Ue era l’ultima chance per la cancelliera, arrivata al termine della sua lunga carriera politica, per dare il suo volto a questo accordo, nel quale vede il coronamento della sua politica europea e del suo approccio con Pechino (“è positivo e importante cercare di avere rapporti strategici con la Cina”), il suo lascito più importante all’Ue e al suo Paese: un saldo ancoraggio dell’Europa “tra le grandi potenze, Cina e Stati Uniti”.

E questo ci porta al secondo motivo. Raggiungendo un accordo di principio con Pechino prima dell’insediamento di Biden, la presidenza di turno tedesca e la Commissione europea, tedesca anch’essa, hanno voluto mandare un messaggio preciso: l’Ue esiste come attore globale, può giocare allo stesso livello di superpotenze quali Stati Uniti e Cina, e ormai si muove in completa autonomia rispetto a Washington.

E qui siamo al terzo motivo. Come avevamo anticipato su Atlantico Quotidiano sia a metà settembre che a inizio luglio, ad entrambe le parti conveniva aspettare di vedere chi fosse il vincitore delle presidenziali Usa e muoversi di conseguenza. E ad entrambi conveniva che a vincere fosse Biden, il quale prometteva di superare l’approccio duro di Trump con gli alleati europei, Germania in primis. Berlino avrebbe potuto puntare ad un accordo senza temere di incorrere nell’ira e nelle rappresaglie di Washington. Viceversa, con Trump confermato alla Casa Bianca sarebbe stato difficile, se non impossibile, e comunque molto rischioso per l’Ue e per la Germania, chiudere anche solo in linea di principio un simile accordo con la Cina.

Certo, gli europei avrebbero potuto aspettare l’insediamento di Biden, che aveva annunciato di voler coinvolgere gli alleati nel nuovo approccio verso Pechino. Il presidente eletto e i suoi consiglieri hanno spiegato molto chiaramente di volersi coordinare con i Paesi alleati degli Stati Uniti in Europa e nell’Indo-Pacifico per affrontare la questione cinese. Tornare dunque ad un approccio multilaterale, dopo i quattro anni di approccio bilaterale trumpiano.

Ma la prospettiva di un fronte comune Usa-Ue ha indotto Xi Jinping a giocare d’anticipo e, come avevamo ipotizzato mesi fa, a calare lo zuccherino al momento giusto per chiudere l’accordo e provare a inserire un cuneo tra Stati Uniti ed Europa. In ogni caso, per complicare i piani della nuova amministrazione Usa. Come suggerito da Andrew A. Michta sul Wall Street Journal, quella di Xi Jinping è una mano interessante: ha l’occasione di incunearsi nelle divisioni tra Usa e Ue – come fece Nixon negli anni ’70 allontanando la Cina dall’Urss, in modo che le due potenze comuniste non si saldassero contro l’Occidente – giocando la carta dell’accesso al mercato cinese, ritenuto essenziale per la ripresa economica europea. I leader europei, osservava, “sono sempre più preoccupati del bullismo cinese, ma non vogliono essere tirati dentro un’alleanza con Washington contro Pechino”.

A Berlino, Bruxelles e Parigi si sono resi conto, ovviamente, dell’interesse convergente a concludere l’accordo prima dell’insediamento di Biden e hanno quindi ritenuto che fosse questo il momento più propizio per strappare qualche concessione a Xi Jinping. Concessioni che però, sia chiaro, sono tutte da verificare. Dalla promessa di garantire alle compagnie europee l’accesso al mercato cinese in importanti settori all’impegno a fare “continui e duraturi sforzi” per ratificare le convenzioni ILO sul lavoro forzato (che è ben diverso dall’impegno a ratificarle!). Sentir parlare di “level playing field” con la Cina, poi, dovrebbe far sorridere, dal momento che Pechino non si priverebbe mai di sussidi e imprese di stato.

È molto probabile che Xi Jinping sia interessato solo ad avvicinarsi all’Europa prima che la nuova amministrazione Usa possa tessere una posizione occidentale comune, pronto a rimangiarsi questi impegni all’occorrenza, com’è abitudine della diplomazia cinese.

In tal caso, con il loro opportunismo i leader europei avrebbero minato gli sforzi per creare un fronte occidentale comune in grado di costringere la Cina ad accettare finalmente le regole del gioco dell’ordine economico liberale.

Oltre a snobbare l’amministrazione Usa entrante, il frettoloso riavvicinamento tra Unione europea e Cina spiazza tutti coloro che si illudono che la presidenza Biden possa dare inizio ad un fronte transatlantico comune contro la Cina. Per due motivi. Primo, perché come abbiamo visto, la strada intrapresa dall’Ue è divergente. Secondo, anche perché, nonostante le intenzioni dichiarate, la strategia nei confronti di Pechino della nuova amministrazione Usa si basa su presupposti che già hanno dato prova di essere fallaci e promette quindi di essere inefficace.

È proprio il nuovo approccio annunciato da Biden e dai suoi consiglieri, infatti, ad aver convinto gli europei di poter concludere l’accordo con Pechino senza rischiare rappresaglie o conseguenze – al massimo una passeggera “insoddisfazione” del presidente eletto. Alleati rassicurati che non sarebbero più stati minacciati o puniti unilateralmente da Washington per le loro decisioni, come faceva l’amministrazione Trump; e chiarito che l’obiettivo di Biden non è una nuova Guerra Fredda con Pechino, ma il ritorno alla politica dell’engagement, un ordine globale che includa, non escluda la Cina, sebbene cercando di far evolvere le sue posizioni verso le richieste occidentali.

Chi sperava in un cambio di rotta a Berlino ha quindi peccato di ottimismo. Innanzitutto, perché l’industria tedesca è troppo esposta alla Cina, è il frutto avvelenato di una economia che punta tutto sull’export. Ma è difficile non vedere come per l’Ue a guida tedesca questo accordo non sia dettato solo da logiche commerciali ed economiche, ma anche geopolitiche. È impensabile che tali implicazioni non siano state prese in considerazione.

È vero che a Berlino il concetto di “autonomia strategica” viene declinato in termini meno ingenui rispetto a Parigi: i tedeschi sanno bene di non poter fare a meno della sicurezza garantita dai contribuenti americani, e quindi di dover fare qualche sforzo per tenere in piedi l’alleanza con gli Usa. Ma nell’uscita di Trump dalla Casa Bianca – un presidente che non ha avuto scrupoli a ridurre il contingente Usa in Germania – vedono uno scampato pericolo, proprio quello di dover scegliere tra l’ombrello di sicurezza Usa e i loro interessi economici con la Cina.

Quindi, a Berlino sono convinti di poter trattare con Biden, offrendo lealtà a Washington a dispetto delle velleità macroniane (gli europei sanno che “devono assumersi maggiori responsabilità”, “fare sforzi più grandi sul fronte della sicurezza”, difesa Ue “complementare” alla Nato) e ottenendo in cambio spazi di manovra per continuare a perseguire indisturbati e senza rischi la propria vocazione eurasiatica.

Solo che questa ricercata vocazione non può non avere un effetto sulla collocazione geopolitica dell’Europa, che rischia – come hanno avvertito sia Kissinger che il già citato Michta – di diventare una penisola dell’Eurasia, la coda di una catena di approvvigionamento eurasiatica controllata dalla Cina, permettendo alla fine a Pechino di dominare l’Europa e puntare all’egemonia globale.
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Re: Economia, protesionixmo e globałixasion, Trump e Xvisara

Messaggioda Berto » lun gen 04, 2021 8:17 am

Trump e Brexit lo dimostrano: il vero pericolo per la libertà economica è la centralizzazione
Atlantico Quotidiano
Marco Faraci
4 gennaio 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... izzazione/

Il “pericolo dazi” viene usato come spauracchio contro i “sovranismi”, per sostenere politiche di centralizzazione, ma è questa il vero pericolo per la libertà economica. Con Trump gli Usa non si sono certo ritirati dal commercio mondiale. E tra Regno Unito e Ue si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata

C’è un attacco frequente che viene portato dagli europeisti “liberal-democratici” al liberalismo euro-scettico. Secondo i cosiddetti “liberal-democratici”, il libero mercato è possibile solamente se sostenuto da un quadro politico unitario, mentre i “sovranismi” sfocerebbero inevitabilmente in politiche protezioniste ed autarchiche.

In altre parole, senza l’Unione europea e, più in generale, senza istituzioni sovranazionali con poteri sempre crescenti, il mondo andrebbe alla deriva verso dazi e chiusure di stampo nazionalista.

Questa teoria appare poco convincente, nel momento in cui è evidente che, quasi sempre, sono gli Stati piccoli e sovrani – si pensi alla Svizzera o a Singapore – ad essere i più “globalizzati”.

Ma anche le moderne politiche cosiddette “unilateraliste” o “sovraniste” non sembrano rappresentare il pericolo per il libero mercato che sovente viene attribuito loro.

Pensiamo all’America. Siamo davvero convinti che, dopo quattro anni di ricette trumpiane, l’America commerci meno di quanto avvenisse in passato? La verità è che, durante l’amministrazione Trump, il commercio estero americano ha continuato a crescere ad un ritmo sostenuto, sia per quanto riguarda l’export che per quanto riguarda l’import. Il NAFTA è stato rimpiazzato dall’USMCA, la Trans Pacific Partnership sostituita da accordi bilaterali con Giappone e Corea del Sud, ed un primo accordo con il Regno Unito post-Brexit comincia a profilarsi.

E i famosi dazi, contro cui i nostri media hanno gridato “Al lupo! Al lupo!”? Com’era prevedibile, il loro effettivo impatto sul complesso delle relazioni commerciali è stato ridotto. L’America non si è certo ritirata dal commercio mondiale.

E pensiamo alla Brexit. L’accordo che alla fine è stato trovato tra Londra e Bruxelles salvaguarda la sostanza delle relazioni di libero scambio ed evita l’introduzione di dazi e quote.

Per quanto, in molti casi, fossero proprio molti europeisti nominalmente “pro-mercato” a tifare per dazi e altre “punizioni esemplari” per i britannici, alla fine relazioni internazionali efficaci non si intrattengono con dispetti e risentimenti – e il “deal” firmato è la dimostrazione che si può commerciare liberamente anche senza avvinghiarsi in smisurate unioni politiche.

Tra Regno Unito ed Europa continentale si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata.

Nella pratica, quindi, il “pericolo dazi” che viene usato come spauracchio per sostenere politiche di centralizzazione si sta rivelando di parecchio sopravvaluto. Esiste, naturalmente, un “rischio dazi”, ma è fortunatamente molto limitato e non per ragioni di generalizzata adesione ideologica ai princìpi dell’economia liberale, quanto ben più prosaicamente perché i dazi non funzionano; sono inefficienti e controproducenti e danneggiano non solo chi li subisce, ma anche chi li impone.

Chi chiude (o socchiude) le frontiere al commercio sa che ci perde. Per questa ragione è improbabile che, tra moderni stati occidentali, le politiche protezioniste possano andare oltre il livello puramente simbolico che può essere necessario a conquistare il consenso elettorale di qualche constituency. Come nel caso delle politiche di Trump verso la Cina, è qualcosa che si può fare in casi particolari e circoscritti, come “sfida” a Paesi che abbiano un record inaccettabile nel campo dei diritti umani o rappresentino un reale pericolo geo-strategico – ma comunque mettendo in conto che ci si sta rimettendo. In nessun caso è possibile fare dei dazi la chiave di una strategia economica di successo.

In definitiva, la decentralizzazione politica non rappresenta un pericolo per il libero mercato e la globalizzazione, in quanto, tra Stati indipendenti, tutti gli incentivi sono, comunque, nella direzione della cooperazione economica e del libero commercio.

È, invece, proprio la centralizzazione a rappresentare il vero pericolo per la libertà economica perché in quel tipo di contesto la tendenza va nella direzione della deresponsabilizzazione, del parassitismo territoriale e di scelte economiche di breve periodo.

Il problema è che in un ambito quale quello dell’Ue, ad esempio, il “comportamento razionale” di ogni politico è proprio quello di ottenere il massimo ritorno per il proprio territorio ed il proprio elettorato di riferimento, a spese di tutti gli altri. Questo ritorno può assumere tante forme, dall’orientamento delle scelte politiche e burocratiche, al sistematico “azzardo morale” nelle decisioni di spesa pubblica. In altre parole, massimizzare la spesa per acquisire il consenso, appoggiandosi poi alla copertura offerta dalla Bce, risulterà sempre preferibile rispetto al fare digerire al proprio elettorato politiche di disciplina fiscale. Ceteris paribus, qualunque politica più oculata avrebbe meno successo.

La verità è che, mentre i rischi potenziali legati alla decentralizzazione politica sono disinnescati dagli evidenti incentivi di mercato offerti dal libero commercio, non esiste nessuna forma di ribilanciamento che possa tenere sotto controllo i rischi della centralizzazione.

Anzi, in un quadro istituzionale centralizzato, tutti gli incentivi vanno nella direzione dell’adozione di policy deteriori: offuscare il rapporto tra spesa pubblica e suo finanziamento, localizzare i vantaggi, centralizzare e ri-distribuire i costi. È da sempre la cifra del rapporto tra regioni e Stato centrale in Italia, lo è e lo sarà sempre più quella del rapporto tra Stati membri e Unione europea. In definitiva, chi crede nell’economia liberale, non ha ragione di guardare con riverenza alle entità sovranazionali e di temere la Brexit e gli altri movimenti politici che vanno nella direzione di una maggiore pluralità istituzionale. Al contrario, deve sempre più realizzare come il pericolo per i sani principi economici venga proprio da quelle gigantesche entità istituzionali in grado di sospendere i più basilari concetti di accountability, incoraggiando dinamiche malsane e disfunzionali.
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