Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Re: Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Messaggioda Berto » dom set 01, 2019 8:53 am

???

Trump conferma i dazi sulla Cina. Ma la trappola di Pechino è pronta
Federico Giuliani
31 agosto 2019

https://it.insideover.com/economia/trum ... 8rwlfETbWU

Altro che distensione e ottimi rapporti, Donald Trump prosegue a testa bassa nella guerra dei dazi contro la Cina. Domani entreranno in vigore le nuove tariffe doganali che appesantiranno i beni made in China destinati al mercato statunitense, e che di riflesso, nelle intenzioni del presidente americano, dovrebbero contribuire a indebolire l’economia cinese. Ma Trump ha anche un’altra convinzione, ovvero che la linea morbida che starebbe utilizzando Pechino a Hong Kong sia la diretta conseguenza del pugno duro adottato dagli Stati Uniti in ambito commerciale. La Cina, infatti, da quando sono scoppiate le proteste nell’ex colonia britannica, si è limitata a osservare i fatti da lontano, senza interferire con manovre militari. È pur vero che la pazienza del Partito comunista cinese ha un limite, e quel limite è stato superato da un pezzo. La sensazione è che, tariffe o non tariffe, la Cina dovrà in qualche modo disinnescare una bomba che rischia di danneggiare l’esoscheletro su cui si poggia il sistema politico ed economico del Dragone. Ma Trump sembrerebbe pensarla in modo diverso.

Trump collega i dazi a Hong Kong

Al di là delle convinzioni su Hong Kong, Trump tira dritto e conferma ai giornalisti l’imminente entrata in vigore delle tariffe: “Sono confermate. Anzi, a causa di quanto sto facendo avanti in ambito commerciale – ha detto il tycoon – a Hong Kong si sta mantenendo la calma”. Nonostante non vi siano certezze di quanto affermato da Trump, cioè che la “calma” di Hong Kong sia collegata alla mossa presidenziale dei dazi, pare che i negoziatori cinesi siano pronti a concludere un accordo. Trump lo ha ripetuto spesso: Pechino vuole sedersi a un tavolo e trattare. Dalla Casa Bianca filtra un certo scetticismo: alcuni funzionari non sono in grado di fornire dettagli ulteriori sui negoziati, né di confermare o smentire quanto sostenuto con insistenza dal presidente americano. In ogni caso, a partire da domani, primo settembre, scatterà sulla Cina la nuova mannaia preparata dagli Stati Uniti: il 10% su 300 miliardi di dollari di merci cinesi. La Cina ha ribattuto applicando tariffe su 75 miliardi di beni prodotti negli Usa, provocando la contro risposta di Trump, prevista per ottobre: aumento al 15% e 30% su 250 miliardi di dollari di merce.


Usare Hong Kong come merce di scambio

Il comportamento della Cina, desiderosa di voler risolvere la disputa commerciale con gli Stati Uniti, non deve essere confuso con una presunta debolezza di Pechino. Il Dragone, secondo alcuni analisti, avrebbe intenzione di sciogliere i nodi nella sua agenda il più in fretta possibile non tanto perché impaurito dal pugno duro di Trump, ma perché desideroso di salvare la faccia in vista dei prossimi, importanti, appuntamenti. Il primo di ottobre la Cina celebrerà infatti il 70° anniversario della fondazione del paese, e i vertici del Partito vogliono arrivare all’appuntamento privi di ogni fardello che potrebbero minare la loro autorità di fronte al popolo. Secondo altri esperti, Hong Kong sarebbe invece una sorta di manna dal cielo per la Cina: le proteste scoppiate nell’ex colonia britannica potrebbero essere utilizzate da Pechino come merce di scambio con Washington. Nel dettaglio: i cinesi eviterebbero spargimenti di sangue e repressioni dei giovani manifestanti in cambio di un buon accordo commerciale con gli Stati Uniti. È una strategia subdola, ma potrebbe funzionare. Trump, nelle scorse ore e dopo l’arresto delle autorità hongkonghesi di alcuni attivisti, aveva esortato la Cina di agire con umanità.
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Re: Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 8:05 pm

Dazi, Trump vince la guerra: 200 miliardi dalla Cina
Rodolfo Parietti - Gio, 16/01/2020

http://www.ilgiornale.it/news/economia/ ... MftrkfDQ6c

Pechino acquisterà altre merci Usa e The Donald esulta: «Intesa storica». Ma molte tariffe restano

«È un accordo epocale, una pietra miliare che cancella gli errori del passato». Più che una cerimonia per celebrare la raggiunta intesa commerciale fra Stati Uniti e Cina, quello andato in onda ieri alla Casa Bianca è stato un one man show.

Teatrale e gesticolante, con un timing da attore consumato buono per attirare l'applauso dei 200 invitati, Donald Trump ha tenuto la scena per quasi un'ora, lasciando al quasi ingessato vicepremier cinese, Liu He, il ruolo del comprimario. Alla fine, The Donald aveva la faccia del vincitore.

E, in effetti, per come appare configurato il deal della Fase Uno, non ha tutti i torti. L'America incassa da Pechino l'impegno ad acquistare beni Usa per 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni. C'è un po' di tutto, con numeri da capogiro economico per entità, un fiume in piena di denaro che si riversa sull'industria americana (32,9 miliardi di dollari nel 2020 e 44,8 miliardi l'anno successivo), sull'energia (18,5 miliardi quest'anno e circa 33,9 miliardi nel '21), sui servizi, banche comprese (12,8 miliardi entro fine dicembre e 25,1 miliardi), e sfiora i 33 miliardi per quanto riguarda l'agricoltura. Un ammontare che riporta il livello degli acquisti cinesi di soia, sorgo, carne di maiale e olii al 2017, cioè prima dello scoppio della trade war. Ossigeno puro per le aree rurali degli States falcidiate dai fallimenti (i salvataggi statali hanno toccato i 28 miliardi) che a novembre, quando si voterà per le presidenziali, non faranno mancare al tycoon la loro riconoscenza. Ma anche una molla per l'intera economia a stelle e strisce, la cui crescita, secondo il Beige Book della Fed, è stata «modesta» a fine 2019.

Oltre al piano di acquisti, l'intesa va a toccare alcuni punti sensibili finora ritenuti non negoziabili dal Dragone. Come per esempio l'accesso al mercato cinese delle società finanziarie. Dal prossimo aprile sarà rimosso il limite di capitale azionario straniero nei settori delle assicurazioni vita, pensione e malattia e verrà consentito alle compagnie assicurative americane di partecipare a tali settori. Inoltre, viene sottoscritto l'impegno a sradicare la vendita di merci contraffatte, oltre a imporre una tempistica stretta, massimo 30 giorni dall'entrata in vigore del patto, entro la quale presentare un «piano d'azione per rafforzare la protezione della proprietà intellettuale». Il documento contiene infine l'obbligo a evitare svalutazioni competitive, un punto per la verità superato dopo che l'altro ieri l'America aveva depennato i rivali dalla black list dei manipolatori di valute. Resta, invece, in piedi la barricata cinese sui sussidi statali.

La sostanza, però, non cambia: quella di Pechino ha l'aria di essere una resa su tutta la linea, salutata da Wall Street con un nuovo record del Dow Jones, per la prima volta sopra i 29mila punti. L'ex Impero Celeste porta infatti a casa solo briciole. Gli Stati Uniti hanno infatti deciso di dimezzare i dazi del 15% su 120 miliardi di importazioni cinesi, concesso un rinvio sine die su ulteriori aumenti delle tariffe, ma hanno mantenuto le misure punitive su 360 miliardi di beni made in China (e Pechino ha fatto lo stesso con oltre 100 miliardi di esportazioni statunitensi). «Se le togliessimo non avremmo altre carte da giocare - ha spiegato Trump - Le elimineremo solo se ci accordiamo sulla Fase Due». La Fase Tre, a suo dire, non ci sarà.

In ogni caso, restano le perplessità sul pieno rispetto di quanto concordato. La Casa Bianca ha già minacciato di alzare il tiro se Pechino non terrà fede agli impegni presi. «È proprio così. Il presidente ha la possibilità di aumentare le tariffe», ha affermato il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin. La telenovela commerciale potrebbe non essere ancora finita. Ma se le cose andranno per il verso giusto, The Donald ha già in tasca il biglietto per restare altri quattro anni alla Casa Bianca.
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Re: Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Messaggioda Berto » mar feb 18, 2020 9:30 pm

Firmato l'USMCA. Esulta il settore manifatturiero americano!
Il presidente Donald Trump firma l’accordo di libero scambio USMCA, un nuovo trattato commerciale che andrà a rimpiazzare il NAFTA.
1 febbraio 2020

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... sNEcVFAU5Q


Il 29 gennaio il presidente Donald Trump ha firmato l’accordo di libero scambio USMCA (“USA-Mexico-Canada Trade Agreement”) un nuovo trattato commerciale che andrà a rimpiazzare il NAFTA. Ci sono molte novità che riguardano diversi settori, primo tra tutti è sicuramente il manifatturiero.

Il presidente dell’associazione National Association of Manufacturers ha ringraziato il Presidente e i leader del Congresso, dichiarando che questa è una vera e propria vittoria per il settore industriale americano.
I benefici riguardano diversi settori

Per il settore Metalmeccanico: il CEO dell’American Iron and Steel Institute, Thomas Gibson, presente alla firma del trattato, ha dichiarato che l’USMCA:

… promuove la condivisione delle informazioni anche tra i tre governi del Nord America e previene pratiche commerciali scorrette. Questo aiuterà Stati Uniti, Messico e Canada a bloccare le importazioni da Nazioni che praticano il dumping commerciale (vedi Cina n.d.r.)

L’accordo infatti prevede che il 70% dell’acciaio e dell’alluminio delle automobili debba provenire dai tre paesi coinvolti nel trattato.

Per l’Impiantistica: aziende come Caterpillar, Komatsu, Blount, Volvo hanno lodato quanto fatto dal Presidente:

… con questo accordo commerciale l’ambiente economico diventa molto più prevedibile e stabile, due fattori fondamentali per la stabilità della filiera.

ha affermato il presidente della Motor & Equipment Manufacturers Association, Bill Long.

Per le Case Automobilistiche: il sindacato più potente d’ America, lo United Automobile Workers, ha semplicemente dichiarato che vigilerà sul rispetto delle regole, onde evitare festeggiamenti anticipati.

In questo settore l’USMCA si concentra principalmente sul cosiddetto “Level Playing Field”: il 40-45% delle componenti di una singola automobile deve provenire da industrie che pagano i propri lavoratori almeno 16$ l’ora. Viene inoltre previsto che il 75% delle automobili venga prodotto nei tre stati del Trade Agreement (- il vecchio NAFTA prevedeva il 62,5%) disincentivando l’importazione di componenti da paesi come la Germania e la Cina.

Lo USMCA apre il mercato dei prodotti caseari canadese ai produttori statunitensi. Inoltre, estende la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e prevede delle norme sul commercio digitale.

Il nuovo accordo, secondo quanto riportato da Bloomberg, permetterà una crescita aggiuntiva all’economia statunitense dello 0,35% in 6 anni.
Trump firma l’Usmca: “Mettiamo fine all’incubo del Nafta”

Finalmente stiamo mettendo fine all’incubo NAFTA. Questa è una colossale vittoria per i nostri agricoltori, allevatori, operai e tutti i lavoratori americani in tutti e 50 gli Stati.

Ha dichiarato il Presidente Donald Trump, alla cerimonia per la firma sull’USMCA.
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Re: Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Messaggioda Berto » lun gen 04, 2021 8:08 am

Trump e Brexit lo dimostrano: il vero pericolo per la libertà economica è la centralizzazione
Atlantico Quotidiano
Marco Faraci
4 gennaio 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... izzazione/

Il “pericolo dazi” viene usato come spauracchio contro i “sovranismi”, per sostenere politiche di centralizzazione, ma è questa il vero pericolo per la libertà economica. Con Trump gli Usa non si sono certo ritirati dal commercio mondiale. E tra Regno Unito e Ue si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata

C’è un attacco frequente che viene portato dagli europeisti “liberal-democratici” al liberalismo euro-scettico. Secondo i cosiddetti “liberal-democratici”, il libero mercato è possibile solamente se sostenuto da un quadro politico unitario, mentre i “sovranismi” sfocerebbero inevitabilmente in politiche protezioniste ed autarchiche.

In altre parole, senza l’Unione europea e, più in generale, senza istituzioni sovranazionali con poteri sempre crescenti, il mondo andrebbe alla deriva verso dazi e chiusure di stampo nazionalista.

Questa teoria appare poco convincente, nel momento in cui è evidente che, quasi sempre, sono gli Stati piccoli e sovrani – si pensi alla Svizzera o a Singapore – ad essere i più “globalizzati”.

Ma anche le moderne politiche cosiddette “unilateraliste” o “sovraniste” non sembrano rappresentare il pericolo per il libero mercato che sovente viene attribuito loro.

Pensiamo all’America. Siamo davvero convinti che, dopo quattro anni di ricette trumpiane, l’America commerci meno di quanto avvenisse in passato? La verità è che, durante l’amministrazione Trump, il commercio estero americano ha continuato a crescere ad un ritmo sostenuto, sia per quanto riguarda l’export che per quanto riguarda l’import. Il NAFTA è stato rimpiazzato dall’USMCA, la Trans Pacific Partnership sostituita da accordi bilaterali con Giappone e Corea del Sud, ed un primo accordo con il Regno Unito post-Brexit comincia a profilarsi.

E i famosi dazi, contro cui i nostri media hanno gridato “Al lupo! Al lupo!”? Com’era prevedibile, il loro effettivo impatto sul complesso delle relazioni commerciali è stato ridotto. L’America non si è certo ritirata dal commercio mondiale.

E pensiamo alla Brexit. L’accordo che alla fine è stato trovato tra Londra e Bruxelles salvaguarda la sostanza delle relazioni di libero scambio ed evita l’introduzione di dazi e quote.

Per quanto, in molti casi, fossero proprio molti europeisti nominalmente “pro-mercato” a tifare per dazi e altre “punizioni esemplari” per i britannici, alla fine relazioni internazionali efficaci non si intrattengono con dispetti e risentimenti – e il “deal” firmato è la dimostrazione che si può commerciare liberamente anche senza avvinghiarsi in smisurate unioni politiche.

Tra Regno Unito ed Europa continentale si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata.

Nella pratica, quindi, il “pericolo dazi” che viene usato come spauracchio per sostenere politiche di centralizzazione si sta rivelando di parecchio sopravvaluto. Esiste, naturalmente, un “rischio dazi”, ma è fortunatamente molto limitato e non per ragioni di generalizzata adesione ideologica ai princìpi dell’economia liberale, quanto ben più prosaicamente perché i dazi non funzionano; sono inefficienti e controproducenti e danneggiano non solo chi li subisce, ma anche chi li impone.

Chi chiude (o socchiude) le frontiere al commercio sa che ci perde. Per questa ragione è improbabile che, tra moderni stati occidentali, le politiche protezioniste possano andare oltre il livello puramente simbolico che può essere necessario a conquistare il consenso elettorale di qualche constituency. Come nel caso delle politiche di Trump verso la Cina, è qualcosa che si può fare in casi particolari e circoscritti, come “sfida” a Paesi che abbiano un record inaccettabile nel campo dei diritti umani o rappresentino un reale pericolo geo-strategico – ma comunque mettendo in conto che ci si sta rimettendo. In nessun caso è possibile fare dei dazi la chiave di una strategia economica di successo.

In definitiva, la decentralizzazione politica non rappresenta un pericolo per il libero mercato e la globalizzazione, in quanto, tra Stati indipendenti, tutti gli incentivi sono, comunque, nella direzione della cooperazione economica e del libero commercio.

È, invece, proprio la centralizzazione a rappresentare il vero pericolo per la libertà economica perché in quel tipo di contesto la tendenza va nella direzione della deresponsabilizzazione, del parassitismo territoriale e di scelte economiche di breve periodo.

Il problema è che in un ambito quale quello dell’Ue, ad esempio, il “comportamento razionale” di ogni politico è proprio quello di ottenere il massimo ritorno per il proprio territorio ed il proprio elettorato di riferimento, a spese di tutti gli altri. Questo ritorno può assumere tante forme, dall’orientamento delle scelte politiche e burocratiche, al sistematico “azzardo morale” nelle decisioni di spesa pubblica. In altre parole, massimizzare la spesa per acquisire il consenso, appoggiandosi poi alla copertura offerta dalla Bce, risulterà sempre preferibile rispetto al fare digerire al proprio elettorato politiche di disciplina fiscale. Ceteris paribus, qualunque politica più oculata avrebbe meno successo.

La verità è che, mentre i rischi potenziali legati alla decentralizzazione politica sono disinnescati dagli evidenti incentivi di mercato offerti dal libero commercio, non esiste nessuna forma di ribilanciamento che possa tenere sotto controllo i rischi della centralizzazione.

Anzi, in un quadro istituzionale centralizzato, tutti gli incentivi vanno nella direzione dell’adozione di policy deteriori: offuscare il rapporto tra spesa pubblica e suo finanziamento, localizzare i vantaggi, centralizzare e ri-distribuire i costi. È da sempre la cifra del rapporto tra regioni e Stato centrale in Italia, lo è e lo sarà sempre più quella del rapporto tra Stati membri e Unione europea. In definitiva, chi crede nell’economia liberale, non ha ragione di guardare con riverenza alle entità sovranazionali e di temere la Brexit e gli altri movimenti politici che vanno nella direzione di una maggiore pluralità istituzionale. Al contrario, deve sempre più realizzare come il pericolo per i sani principi economici venga proprio da quelle gigantesche entità istituzionali in grado di sospendere i più basilari concetti di accountability, incoraggiando dinamiche malsane e disfunzionali.
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Re: Dazi - i giusti dazi del buon Trump che difende gli USA

Messaggioda Berto » mer ago 17, 2022 6:38 am

La Cina ora accelera il "decoupling" auspicato da Donald Trump
Michele Marsonet
17 agosto 2022

https://www.nicolaporro.it/atlanticoquo ... ald-trump/

Si rammenterà che uno dei principali obiettivi di Donald Trump era il decoupling, vale a dire il distacco (o disaccoppiamento) tra l’economia Usa e quella cinese, che l’ex presidente giudicava – e con buone ragioni – troppo interconnesse. Aveva inoltre impostato una politica dei dazi destinata a frenare le strategie di dumping praticate da Pechino senza molte remore.

Circa i dazi non vi sono notizie certe. Pareva a un certo punto che il presidente Joe Biden intendesse mitigarli, o addirittura abolirli, per cercare di migliorare le relazioni tra le due potenze vista la crescente tensione sul problema di Taiwan.


Il delisting da Wall Street

Più chiara la situazione del decoupling, giacché Pechino lo sta realizzando per conto suo. Giunge infatti notizia che cinque grandi aziende cinesi hanno deciso di lasciare la Borsa di New York, dove erano approdate in tempi più tranquilli.

Si tratta del gigante petrolifero Sinopec, oltre a China Life Insurance, PetroChina, China Petroleum Chemical Corp. e Aluminium Corp. of China. Assieme hanno una capitalizzazione di circa 370 milioni di dollari. Qualcuno ha notato che valgono più della metà della capitalizzazione totale di Piazza Affari.

Non si tratta dunque di un’uscita di poco conto, anche se i cinesi sostengono che il volume delle loro negoziazioni a Wall Street è piuttosto esiguo rispetto a quello di alcune piazze asiatiche, e soprattutto di Hong Kong. Citano inoltre gli oneri amministrativi troppo elevati praticati a New York.


Regole Usa più stringenti

In realtà i problemi sarebbero altri. Nella Repubblica Popolare non esistono aziende completamente private, in quanto ognuna deve sottostare al controllo del governo e del Partito comunista. Si dà invece il caso che negli Stati Uniti esista una legge che richiede alle società quotate nelle Borse americane di non essere possedute dal governo cinese.

Inoltre, le regole Usa esigono l’accesso, da parte delle autorità di controllo, ai libri contabili delle aziende quotate, e tali regole ai cinesi non vanno bene. E’ quindi prevedibile che in futuro la quotazione delle aziende del Dragone nelle Borse Usa diventerà sempre più difficile e i cinesi, per l’appunto, reagiscono con il delisting, cioè andandosene in tempi rapidi. Il completamento dell’operazione è infatti previsto tra agosto e settembre dell’anno in corso.


Lo statalismo di Xi

Contano però le implicazioni politiche del suddetto delisting. Da quando Xi Jinping è al potere, si è verificata in Cina una svolta statalista volta a contestare le innovazioni “capitaliste” introdotte a suo tempo da Deng Xiaoping. Il controllo statale su ogni tipo di attività economica (e non solo) è diventato più stringente, al punto che alcuni vi hanno visto un ritorno al maoismo.

Per l’attuale gruppo dirigente di Pechino business e profitto sono importanti, ma sempre meno dell’ideologia che ora assomiglia al marxismo-leninismo rivisto da Mao Zedong (con in più una spruzzata di confucianesimo).


Dialogo Usa-Cina difficile

Si noti che il dialogo tra Washington e Pechino diventa a questo punto sempre più difficile. In novembre è previsto un faccia a faccia tra Biden e Xi Jinping, ma sulla sua fattibilità esistono parecchi dubbi.

Una delegazione del Congresso Usa ha visitato Taiwan pochi giorni dopo il viaggio di Nancy Pelosi, e questo ha rinfocolato l’ira cinese. Forse non accadrà, ma è anche possibile che Xi compia degli atti di forza contro l’isola per presentarsi come “vincitore” al congresso del Partito del prossimo novembre, che dovrebbe concedergli un inedito terzo mandato.
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