Padania Roma Oneto
Caro Bernardini, la Padania esiste: è il modo per liberarsi insieme da Roma
http://www.lindipendenza.com/padania-onteo-romadi GILBERTO ONETO
Giorni fa il nostro giornale ha ospitato un garbato intervento di Paolo Bernardini sulla (in)esistenza della Padania, un tema per il quale sono stato (e mi sento) tirato in ballo. Prima di riprenderlo e di cercare di rispondere devo però fare alcune, abbastanza tristi considerazioni.
La prima riguarda l’oggetto stesso del contendere: un’idea di cui una parte di un partito politico ha fatto un uso così maldestro da renderla insopportabile a molti. Venti e più anni (tanti sono trascorsi da quando a un termine geografico è stato affidato un destino politico e identitario) sono un periodo più che sufficiente se non a creare un radicato idem sentire almeno a definire il progetto, a dargli delle connotazioni riconoscibili, a chiarire un obiettivo su cui costruire un embrione di “nation building” ameno in termini di immagini riconosciute. Altre comunità europee hanno saputo utilizzare il tempo (e anche le risorse e le comunicazioni) in maniera assai più efficace e i risultati si vedono. Bossi e i suoi hanno invece pacioccato con il progetto padanista trasformandolo in una chimera nebulosa, mutante e piuttosto sciacquina (Cos’è il Nord? Dove arriva la Padania? Ha una bandiera? È qualcosa di più di un giro ciclistico o di un concorso di bellezza?). Un progetto serio è stato ridotto a burla, a cortina fumogena dietro la quale nascondere altro, non sempre del tutto commendevole. Ma basta questo per degradare l’idea? Basta l’impiego farsesco e insincero per sputtanare un nome? Oggi tanti autonomisti denunciano sintomi di orticaria quando sentono pronunciare il termine Padania: i tedeschi non hanno smesso di usare Germania e non se ne vergognano perché qualcuno ne ha fatto un uso assai più criticabile e doloroso delle pistolate del Trota. Si deve responsabilmente ragionare sul progetto e sugli errori che sono stati commessi e non rifiutare l’idea solo perché non piace il nome. O rifiutare il nome perché è stato utilizzato malamente.
La seconda considerazione riguarda l’impiego qualche volta davvero stupefacente che viene fatto della storia e dell’essenza stessa di identità. È vero che dietro a ogni processo di costruzione identitaria si nascondono montagne di “invenzioni” ma qui si assiste a un festival delle interpretazioni, a millenni di storia evocati con entusiastica leggerezza, a bandiere mai sventolate, ad identità raffazzonate, a invenzioni mirabolanti (dalla Lunezia alla Benachia), a Piccole Patrie che sono talmente piccole da risultare sconosciute ai coniugi di chi le ha riscoperte. Insomma si dà addosso alla Padania in nome di sue porzioni partorite in climi micronazionalistici che sono la riproduzione del peggior modello italiano con irredentismi e rivendicazioni di sacri confini. Si scopre che il mondo autonomista è pieno di tanti piccoli Mazzini che non vogliono il contrario dell’Italia ma solo delle Italie più piccole “une di sangue, di lingua, d’arme” e di tutto il resto delle pirlate nazionalistiche, ivi compreso qualche pericoloso excursus nella “pura razza”.
Una ultima considerazione – piena anche di personale amarezza – riguarda l’inutilità delle fatiche che in molti hanno profuso non tanto nel costruire una aspirazione alla Padania ma nel cercare di invogliare alla libertà, al riconoscimento delle identità, alla lettura corretta della storia, alla semplice informazione autonomista. Dall’uscita del primo numero di Etnie (sono passati tanti lustri che sembrano secoli) sono stati pubblicate decine di articoli, libri, riviste che affrontano questi argomenti. Molti se li sono letti, studiati, assorbiti, li hanno magari criticati ma hanno affrontato il difficile e affascinante confronto delle idee. In troppi (soprattutto nella Lega e dintorni) purtroppo ignorano tutte queste fatiche e sembrano essersi dotati di un bagaglio autonomista sulle figurine Panini o – peggio – sui libri di storia delle scuole italiane.
Tutto ciò premesso, si può affrontare ancora una volta il tema Padania.
Non esiste un paese chiamato Padania sugli atlanti (come non vi si trova un Kurdistan, tanto per fare un esempio) ma è una argomentazione che lasciamo volentieri a Gianfranco Fini e alle sue patriottiche certezze. Esiste indubitabilmente un insieme di comunità che condividono numerosi elementi. Vediamone qualcuno.
Il territorio. La Padania è uno dei più chiari esempi di completo bioregionalismo. È un grande ecosistema facilmente definibile e impossibile da negare.
La cultura. Ha ragione da vendere Sergio Salvi (e non solo lui) quando identifica una koiné linguistica definita, lo straordinario agglomerato della “lingua del mi” declinato in sottosistemi chiari sia pur – purtroppo – in via di evaporazione. Esiste una colleganza innegabile in ogni espressione culturale dall’architettura alla musica popolare, dalla religiosità all’arte, dal folklore fino alla cucina che tiene assieme le regioni padane dalle origini del mondo.
I modi di vita e la mentalità. Qualche spiritoso sottolinea le differenze linguistiche fra un romagnolo e un ligure (peraltro davvero labili) ma nessuno si azzarda a ipotizzare differenze percettibili nei ritmi di vita, nelle visioni del mondo, nelle aspirazioni, nei rapporti interpersonali delle comunità padane. Si possono trovare analoghe contiguità con paesi campani o siciliani?
Lo spirito di comunità. Questa è la terra delle Banche popolari, delle Società di mutuo soccorso, dei Santi sociali, del volontariato, della solidarietà concreta. In questo tutte le nostre comunità si somigliano. Si può dire lo stesso delle altre?
L’aspirazione comune. Salvo brevissimi periodi, non è mai esistito uno Stato padano ma la nostra storia è una costante aspirazione a formarne uno dalle Leghe lombarde, ai Visconti, alla Serenissima, al “grasso Belgio” di D’Azeglio e del primo Cavour. Tutti i nostri guai derivano dal non esserci mai riusciti. Ci ha provato lungamente la Serenissima e il fallimento è stata la vera ragione della sua fine: ci fosse riuscita oggi saremmo una Comunità potente e rispettata e forse mezza America parlerebbe veneziano.
Economia e produttività. Una fitta rete di produzione e di commercio, di artigianato e di piccole imprese ricopre la Padania senza soluzione di continuità. Il popolo concreto della produzione è sicuramente il primo testimone dell’esistenza della Padania: non è possibile creare barriere o differenze di alcun tipo fra i distretti industriali, i capannoni, le botteghe e le officine, la vocazione al lavoro, al risparmio e all’investimento dalle Alpi all’Appennino tosco-emiliano, dal Ligure all’Adriatico.
Il senso di appartenenza. Che si sia tutti “settentrionali” non lo può negare nessuno, che ci si senta tutti “nordisti” in contrapposizione con i “meridionali” è una delle poche indiscutibili certezze. Il senso di appartenenza diventa ancora più forte all’estero dove, nella peggiore delle ipotesi, si è riconosciuti come “italiani del nord” (è la prima domanda che ci viene fatta) oppure – se va meglio – come “lombard” con riferimento al termine francese, inglese e tedesco con cui da secoli la nostra gente viene chiamata. E qui viene fuori “il” problema: il nome di questo posto. Nord si riferisce all’Italia, Cisalpina alla Gallia, Eridania è ”zuccheroso” e in disuso. Lombardia – che è il suo vero nome – non può essere usato e non potrà esserlo per un bel po’ grazie all’astuzia di geografi e politici italiani e alla dabbenaggine di molti micropatrioti di casa nostra. Non resta che Padania, piaccia o no!
Veniamo alla vicenda politica e ai progetti di autonomia.
Tutti noi siamo convinti che ogni comunità debba organizzarsi e gestirsi nella più ampia libertà e che il diritto di autodeterminazione sia fondamentale. Tutti noi vorremmo che le comunità cui sentiamo di appartenere fossero indipendenti e sovrane. Tutti noi siamo anche convinti che il solo modo per difendere le singole libertà sia attraverso una libera confederazione di comunità indipendenti. Questi sono gli elementi di base che tutti noi condividiamo. Chi non lo fa sbaglia giornale, non c’entra nulla con noi e dovrebbe cliccare verso altre sponde. Oggi tutte le nostre comunità sono oppresse e negate dallo Stato italiano che le ha smembrate secondo suddivisioni amministrative di suo comodo, che ne nega l’identità, che le deruba delle loro ricchezze.
Il comune obiettivo è di liberarci dall’oppressione italiana e di ricostruire le nostre reali autonomie sulla base di una architettura istituzionale che sia il frutto della libera determinazione delle comunità, delle loro aspirazioni identitarie e della più opportuna applicazione della sussidiarietà.
Come farlo? La strada più semplice è attraverso le entità amministrative esistenti, visto che gli antichi Stati preunitari sono stati scientificamente demoliti e le loro identità spezzettate o diluite. Ma occorre avere le idee chiare sul cammino da percorrere (finora la nebbia più densa ha ricoperto la Val padana) e soprattutto la forza per farlo. Occorrono i numeri, occorrono le strutture politiche che sappiano gestirli e occorre il corretto rapporto di forza con Roma. Tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza dei cittadini padani sarebbe favorevole all’indipendenza in un referendum in cui il quesito fosse posto con chiarezza e correttezza, e fossero esposti vantaggi e svantaggi. Manca un insieme coerente e coeso di soggetti politici: finora la Lega ha cercato di agire in regime di monopolio (che ha fatto sovrapporre l’idea di autonomia con il becerume che ha prodotto) mentre sarebbe preferibile una situazione di tipo catalano, con una pluralità di soggetti politici diversi e collegati. Bisogna soprattutto essere consapevoli che lo Stato è disposto a concedere nulla e che il solo argomento che possa fargli cambiare idea è il giusto rapporto di forze. Nessuna delle attuali Regioni ha la forza per opporsi da sola a Roma, neppure la grande Lombardia, neppure l’appassionato e pasticcione Veneto. Solo la Padania – questo è stato uno degli insegnamenti fondamentali di Gianfranco Miglio – può affrontare e battere lo Stato italiano. Le Regioni padane assieme hanno il 40% della popolazione, il 70% del Pil e sarebbero l’ottava potenza economica mondiale: se decidono assieme di liberarsi non le ferma nessuno. Questa è la grande forza dell’idea di Macroregione. Se poi a qualcuno non piace chiamarla Padania, la si battezzi Carlotta o Ciccabùm ma il principio non cambia. Dopo ci si potrà e dovrà organizzare in tutta libertà come le comunità decideranno ma per evadere dalla prigione italiana lo si deve fare tutti assieme con un’azione di massa.
Nascerà una federazione di Piccole Patrie identitarie? Le regioni faranno ognuna per sé? Qualcuna si federerà con Stati esteri? Assisteremo a una polverizzazione di Repubblichette di valle o di quartiere? Si farà come la nostra gente vorrà. Siccome però una delle grandi doti che accomunano tutte le nostre comunità è il sano e concreto buon senso, sono pronto a scommettere che si arriverà a una grande Confederazione di libere comunità da fare invidia alla Svizzera.
La storia – quella vera, non quella sognata o di regime – insegna che a dividersi non si va da nessuna parte e si perde tutto: gli autonomisti si dovrebbero imparare a memoria la dichiarazione del Grütli, che ancora oggi tiene assieme comunità che hanno lingue e religioni diverse ma gli stessi interessi concreti. Litigare e polemizzare fra di noi si fa contenta solo Roma. Liti e divisioni sono suicide. Non ci sono alternative alla dimensione d’azione padana: non a caso l’Italia odia l’idea di Padania e ne è terrorizzata. Da lì partono tutte le più pericolose sciocchezze: “la Padania non esiste”, “le comunità padane sono diversissime fra di loro”, “si rischia di passare dall’egemonia romana a quella milanese” e via sproloquiando. Il guaio è che si trova sempre qualcuno pronto ad abboccare.
Non facciamoci fregare anche questa volta. Nessuno può sapere se faremo tante comunità indipendenti o una federazione di popoli liberi: deciderà la gente. Per farlo però bisogna uscire dalla prigione e si può evadere solo in massa, tutti assieme coordinando gli sforzi.