Poledega

Re: Poledega

Messaggioda Berto » gio ago 29, 2019 6:21 am

La Regina sospende il Parlamento dopo la richiesta di Johnson
28 agosto 2019

https://it.notizie.yahoo.com/boris-john ... 10236.html

Era nell'aria, ma si trattava di un'opzione cosi' estrema da essere definita "soluzione nucleare": il premier britannico, Boris Johnson, ha trascinato la Regina Elisabetta nella trincea della lotta tra governo e deputati sulla Brexit e ha chiesto e ottenuto la sospensione dei lavori del Parlamento a poche settimane dalla data fissata per il divorzio definitivo dalla Ue, il 31 ottobre. La richiests - accolta dai mercati con un calo della sterlina di quasi l'1% su dollaro ed euro - aveva provocato l'ira trasversale dei parlamentari britannici intenti a cercare il modo di votare un rinvio dell'uscita, i quali parlano né più nè meno di "oltraggio".

Johnson intende lasciare a casa i deputati dalla settimana che inizia il 9 settembre fino al 14 ottobre, data in cui è stato fissato il discorso della Regina sulle politiche del nuovo governo, riducendo drasticamente il tempo a disposizione del fronte trasversale dei deputati contrari al No deal per cercare di neutralizzare con una legge i piani del governo per una 'hard Brexit'. Il premier conservatore, che ha parlato di procedure standard, ha negato che l'iniziativa sia volta a imbavagliare la Camera dei Comuni. A suo dire, Westminster "avrà tempo a sufficienza prima del cruciale Consiglio europeo del 17 ottobre, per discutere di Brexit e di altre questioni".

In base alla "Costituzione" del Regno Unito, la Regina può opporsi a quello che formalmente è un "consiglio" del premier, ma per convenzione questo non avviene. Per tentare il tutto per tutto, il leader del principale partito di opposizione, il laburista Jeremy Corbyn, aveva scritto una lettera alla Regina - anche capo di Stato - per esprimerle le sue preoccupazioni e le ha chiesto un incontro urgente.

La mossa di BoJo - che ha sempre promesso una Brexit il 31 ottobre con o senza accordo - ha scatenato un'insurrezione tra i suoi detrattori in Parlamento. E non solo. Lo speaker dei Comuni, il conservatore John Bercow, ha parlato di "oltraggio alla Costituzione", mentre Corbyn ha ammonito che siamo davanti a una "minaccia alla democrazia". Intanto, ha già superato le 200 mila firme la petizione che chiede di bloccare la sospensione del Parlamento. Bruxelles, dal canto suo, usa cautela: la Commissione europea non ha commentato, limitandosi a ricordare che per raggiungere un accordo, Bruxelles vuole vedere in tempi rapidi "proposte che funzionino".

Gli ultimi sviluppi aumentano la possibilità che la prossima settimana, al rientro dei deputati dalla pausa estiva, il Labour presenti una proposta di legge per bloccare la sospensione dei Comuni, a cui far seguire poi una mozione di sfiducia al governo. Se Johnson non otterrà l'appoggio del Parlamento, potrebbe scegliere di non dimettersi, convocare elezioni anticipate e sciogliere il Parlamento. In questo modo, una Brexit senza accordo avverrebbe praticamente in automatico.



Londra. La Corte Suprema contro Johnson: «Illegale la sospensione del Parlamento»
martedì 24 settembre 2019
Domani riprenderanno i lavori del Parlamento. La "prorogation" era stata decisa dal premier e autorizzata dalla Regina

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/br ... parlamento

Schiaffo a Boris Johnson. La Corte Suprema britannica ha dichiarato oggi non legale la sospensione (prorogation) del Parlamento voluta dal primo ministro Tory fino al 14 ottobre, nel pieno della crisi sulla Brexit. La Corte ha accolto gli argomenti dei ricorsi di oppositori del governo e attivisti pro Remain. Il verdetto è stato raggiunto all'unanimità dal collegio degli 11 giudici.

La sospensione decisa Johnson è «illegale, nulla e priva di effetti» stabilisce la Corte Suprema nel duro verdetto letto dalla presidente lady Brenda Hale. Una sospensione che il governo «non ha giustificato», i cui «effetti sui fondamentali della democrazia sono estremi» ha detto la presidente della Corte Suprema.

A questo punto è come se il Parlamento non fosse «mai stato sospeso», ha decretato la Corte, attribuendo agli speaker di Comuni e Lord il potere di riconvocare le Camere quanto prima e dichiarando "l'advice" del premier alla regina immotivato e inaccettabile in termini di limitazione di sovranità e poteri di controllo parlamentari. «Spetta al Parlamento, e in particolare ai presidenti delle due Camere, decidere cosa fare dopo. A meno che non vi siano regole parlamentari di cui non siamo a conoscenza, possono adottare misure immediate per consentire a ciascuna Camera di essere riconvocata», ha stabilito la Corte.

La sentenza arriva nel pieno della crisi politica e potrebbe segnare il futuro di Johnson e del processo della Brexit.

Mercoledì riprendono i lavori del Parlamento

Lo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha annunciato la ripresa dei lavori per domani. Bercow ha precisato che si tratta di una «ripresa» e non di una «riconvocazione». Ha aggiunto che non ci sarà il Question Time del mercoledì del premier (a New York all'Onu), ma vi sarà spazio per interrogazioni urgenti ai ministri.

Alla Camera dei Comuni il premier Johnson aveva perso la maggioranza e la maggior parte dei parlamentari si oppone alla sua volontà di uscire dall'Ue con o senza un accordo entro il 31 ottobre. Per questo Johnson aveva chiesto la sospensione dell'attività parlamentare dal 10 settembre al 14 ottobre.


Verso nuove elezioni?

Il leader del partito laburista Jeremy Corbyn ha invitato Johnson a riconsiderare la propria posizione e indire nuove elezioni. «La cosa ovvia da fare è convocare le elezioni» ha detto il premier Johnson parlando coi giornalisti a New York.

Una fonte di Downing Street ha riferito che non è intenzione di Johnson dimettersi e che tornerà a Londra martedì, in anticipo di un giorno, dopo il discorso che terrà alle Nazioni Unite.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » ven ago 30, 2019 8:39 pm

In Germania l'ultra destra vola: sicurezza e stretta su migranti
Alessandra Benignetti - Ven, 30/08/2019

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/ger ... F_OPhUfv34

L'Afd si prepara ad un successo storico nei Lander orientali: nei sondaggi è il partito più votato in Brandeburgo assieme alla Spd, mentre in Sassonia vola al 25%

Teste rasate e colletti bianchi, ma anche anziani, famiglie, operai e agricoltori. È un elettorato trasversale, che attraversa generazioni e gruppi sociali diversi quello dell’Afd.

L’estrema destra tedesca punta a prendersi i Länder dell’Est, dove alle prossime elezioni del 1 settembre si prevede un testa a testa tra i sovranisti e l’Spd.

Il passato controverso dei leader del partito in Brandeburgo e Sassonia non sembra spaventare i sostenitori del movimento politico che chiede di bloccare l’immigrazione. Così nel Land che circonda Berlino, secondo l’ultimo sondaggio pubblicato dalla Bild, l’Afd potrebbe giocarsela a parimerito con i social democratici, ottenendo il 21% dei consensi, con la Cdu ferma al 17. Un ribaltone che potrebbe allontanare dal governo l’attuale coalizione di sinistra formata da Spd e Linke.

Anche in Sassonia, dove è in testa il partito della cancelliera, l'Afd potrebbe ottenere il 25% dei voti. Stesso scenario in Turingia, dove si voterà nel mese di ottobre. Numeri indicativi, che mostrano come la parabola sovranista sia tutt’altro che discendente. Almeno nelle regioni della ex Ddr, lontane dai ritmi frenetici della capitale e dalla ricchezza dei Lander occidentali. Nelle cittadine spopolatesi dopo il crollo del Muro, che hanno pagato il prezzo più alto dell’unificazione, con le fabbriche chiuse, i licenziamenti e l'esodo dei giovani, le argomentazioni dell’estrema destra continuano a fare presa.

Lavoro, case popolari, welfare, sicurezza assieme alle porte chiuse per migranti e Islam sono le promesse dei leader sovranisti. Poco importa, allora, se Andreas Kalbitz, il candidato dell’Afd in Brandeburgo, sia uno dei fedelissimi di Bjoern Hoecke, discusso leader dell’Afd in Turingia, che aveva definito una “vergogna” il memorial dell’Olocausto di Berlino. A prevalere è il voto di protesta: anche se di immigrati, qui, ce ne sono pochissimi, l’Afd riempie il vuoto lasciato negli anni dal governo federale. I tedeschi dell’Est “hanno assistito al crollo del muro, alla crisi del 2008 e alla crisi migratoria del 2015 in una sola generazione”, ha ricordato alla Dpa l’ex governatore del Brandeburgo, Matthias Platzeck, per spiegare il malcontento della popolazione cavalcato dalle forze anti-sistema che corrono verso una vittoria storica.

E l’atteso trionfo dell’estrema destra preoccupa non poco Berlino. Una sconfitta di Cdu ed Spd, infatti, rischia di ripercuotersi sul già fragile esecutivo di Angela Merkel, che parte dei socialdemocratici vorrebbero lasciare.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » dom set 01, 2019 9:04 pm

Elezioni regionali in Germania, la grande coalizione non convince più: crescono destra e Verdi
1 settembre 2019

https://www.lastampa.it/esteri/2019/09/ ... 1.37403940

DALL’INVIATA A DRESDA. Le elezioni regionali dei due Laender dell’ex Germania Est Brandeburgo e Sassonia hanno visto due soli partiti crescere rispetto al passato: gli estremisti di destra dell’Afd (che hanno preso il 17% in più rispetto al 2017 in Sassonia è il 10% in più nel Brandeburgo) e i Verdi, che sono passati da una percentuale piuttosto bassa in entrambi i Laender a un’affermazione del 9 e 10% rispettivamente in Sassonia e Brandeburgo. I grandi partiti popolari, Cdu e Spd, tengono la testa della classifica generale (Cdu primo partito in Sassonia, Spd in Brandeburgo), ma registrano perdite consistenti rispetto al passato, come avviene ormai da tempo su tutto il territorio della Bundesrepublik. Questo significa a che per continuare a governare dovranno formare delle coalizioni sempre più composite. In Brandeburgo l’Spd dovrà chiamare a raccolta Linke e Verdi: in Sassonia il governatore Michael Kretschmer - a cui tutti riconoscono il merito di essersi battuto come un leone - dovrà tentare un governo con i Verdi o, se i numeri lo consentiranno, riproporre la coalizione con l’Spd.

In ogni caso il messaggio che arriva dagli elettori è chiaro: la grande coalizione che governa la Germania non convince più, non conquista, al massimo tiene le posizioni, ma non riesce a frenare l’emorragia di consensi, che si spostano a destra o in direzione dei Verdi. Il voto, tra l’altro, ha registrato un deciso aumento della partecipazione: in Brandeburgo l’affluenza è stata superiore di oltre 17 punti percentuali rispetto alle scorse elezioni regionali del 2017; anche in Sassonia la partecipazione è stata alta (+15%), in particolare a Dresda, a Lipsia e a Chemnitz, la cittadina che nel 2018 aveva visto massicce manifestazioni dei neonazisti, con gravi episodi di vandalismo e aggressioni.

La campagna elettorale è stata dominata dai temi della sicurezza sociale - una vera ossessione, anche in Laender con livelli di criminalità e migrazione molto bassi - e del clima - sempre più sentito dalle giovani generazioni in particolare. Malgrado si sia molto insistito, nelle settimane precedenti il voto, sulla difficoltà dei cittadini della ex Germania Est, sul loro essere considerati cittadini di seconda classe, sul cronico ritardo che registrano rispetto al resto del Paese, secondo un sondaggio di Infratest Dimap l’83 per cento degli intervistati in Sassonia e Brandeburgo si è detto “soddisfatto” della propria situazione economica.



Elezioni regionali in Germania, boom dell'estrema destra dell'Afd ma sorpasso mancato

https://www.huffingtonpost.it/entry/ele ... fe0571bfcb

La marea nera del malcontento ex-Ddr c’è stata, e pure alta, ma gli argini dei due grandi partiti al governo a Berlino - anche se scricchiolando sonoramente - tutto sommato hanno retto: nelle due elezioni regionali svoltesi nell’est della Germania, in Sassonia e in Brandeburgo, i populisti di estrema destra dell’Afd hanno rispettivamente triplicato e raddoppiato i consensi ma non sarebbero riusciti nel colpo storico di diventare primo partito in una regione tedesca, come i sondaggi avevano lasciato ipotizzare almeno a Postdam.

Il partito cristiano-democratico (Cdu) della cancelliera Angela Merkel e quello socialdemocratico (Spd) al momento senza una guida - i due pezzi dell’inquieta Grande coalizione al potere a livello nazionale - hanno conservato il primato nelle rispettive roccaforti che governano da tre decenni. Ma hanno subito perdite destinate a scuotere Berlino condizionando due dibattiti politici: l’elezione del nuovo leader Spd a dicembre e la leadership dell’attuale erede di Merkel alla guida della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer. Un ulteriore elemento di riflessione è atteso con i risultati delle elezioni fissate in Turingia per il 27 ottobre.
In Sassonia, la regione con capoluogo Dresda e la più popolosa fra le due in cui si è votato, secondo proiezioni l’Afd ha raccolto il 27% dei voti, tre volte di più rispetto al 9,7% che ebbe nelle precedenti regionali del 2014. La Cdu, perdendo sei o sette punti rispetto al 39,4% di cinque anni fa, si confermata primo partito col 32-33% dei consensi.

Era però in Brandeburgo, la regione che circonda Berlino, che i sondaggi avevano prospettato un testa a testa tra formazione xenofoba e un pilastro della democrazia tedesca, la Spd che fu di Willy Brandt ed Helmuth Schmidt. Qui l’Afd avrebbe raddoppiato i consensi passando dal 12,2% del 2014 ad un attuale 23-24%. Ma i socialdemocratici, pur perdendo sei punti, avrebbe raccolto il 27%: un margine risicato, ma dunque senza sorpasso.

In entrambe le regioni i Verdi hanno proseguito il loro trend positivo trainato dalle preoccupazioni dei tedeschi per i cambiamenti climatici ottenendo il 10% in Brandeburgo (+4 punti) e l′8,5% in Sassonia (+2 punti). Soprattutto in Sassonia, dove peraltro la Sinistra sarebbe in calo di otto punti al 10,5%, sarà problematico proseguire la Grande coalizione al governo a Dresda.

Tutte le analisi della vigilia hanno spiegato la prevista avanzata dell’Afd con la disillusione dei tedesco orientali per sviluppo e risultati dell’unificazione tedesca del 1990: fra l’altro le disparità salariali e pensionistiche, assieme alle paure alimentate delle migrazioni, sono stati fra i temi su cui hanno insistito i populisti di destra.

Il vicecancelliere e ministro delle Finanze Olaf Scholz, unico candidato di spicco fra i 20 in corsa alla guida della Spd, si è comunque sentito autorizzato dalle proiezioni a sostenere che “possiamo vincere le elezioni, questo è il messaggio che mandiamo oggi, e così deve essere sempre nei prossimi anni”.


Turingia, l'ultradestra di Afd supera la Cdu di Angela Merkel
Angelo Scarano
Dom, 27/10/2019

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tur ... ryNjnd2Ok4

L'estrema destra tedesca di Alternativa per la Germania (AfD) va oltre il raddoppio in Turingia e diventa secondo partito dopo la sinistra radicale di Die Linke, a spese della Cdu di Angela Merkel che registra il peggior risultato mai ottenuto nella regione

L'estrema destra tedesca di Alternativa per la Germania (AfD) va oltre il raddoppio in Turingia e diventa secondo partito dopo la sinistra radicale di Die Linke, a spese della Cdu di Angela Merkel che registra il peggior risultato mai ottenuto nella regione.

In questo Land dell'est del Paese, nella ex Ddr, l'ultradestra è guidata da una delle sue figure più radicali, Björn Höcke, accusato di avere alimentato l'antisemitismo con ripetute dichiarazioni mirate a rompere con la cultura del pentimento rispetto ai crimini nazisti. Nella campagna elettorale che ha portato al voto, il candidato della Cdu Mike Mohring lo ha accusato di essere "un nazista".

Tuttavia, nonostante il recente attacco antisemita del 9 ottobre compiuto da un neonazista a Halle, nel vicino Land di Sassonia-Anhalt, che ha preso di mira una sinagoga, l'AfD vola secondo gli exit poll al 24%, cioè più del doppio rispetto al risultato del 2014, registrando un aumento di 13,4 punti. Dalla Turingia, dunque, nuovi grattacapi per i due partiti della Grosse Koalition, cioè i conservatori della Cdu di Angela Merkel e i socialdemocratici della Spd. Queste due formazioni, che hanno dominato la vita politica tedesca dal dopoguerra, hanno già subito pesanti sconfitte nelle elezioni locali in Brandeburgo e in Sassonia a inizio settembre, a vantaggio di AfD e Verdi. In Turingia per la Cdu è un crollo storico: è terzo partito con il 22,5%, in calo di 11 punti rispetto al 2014. La situazione in Turingia è particolare: si tratta del solo Land in Germania guidato da Die Linke (in coalizione con Spd e Verdi). Il governatore Bodo Ramelow nel 2014 era riuscito, dopo 24 anni di potere ininterrotto della Cdu, a conquistare questa regione industriale di 2,1 milioni di abitanti, che economicamente sta meglio rispetto alla media della ex Ddr grazie all'industria elettronica e dell'auto. Ex sindacalista, Ramelow ha optato per una politica pragmatica, non esitando a privilegiare temi cari ai conservatori come la sicurezza e ad allontanare gli slogan più radicali del suo partito. Stando agli exit poll, Die Linke è primo partito e conferma sostanzialmente il risultato del 2014 (+1,3%) attestandosi al 29,5%. Il problema, però, è che i suoi attuali partner di coalizione, cioè Verdi ed Spd, sono in calo: ottengono rispettivamente l'8,5% e il 5,5%, in calo rispettivamente del 3,9% e dello 0,2% rispetto alle ultime regionali nel Land.

Cosa succede dunque? Nessuna forza politica intende governare con l'AfD, e a complicare le cose c'è il fatto che la Cdu non intende governare con la sinistra radicale, nonostante le posizioni relativemante moderate di Ramelow. Per cui la prospettiva sembra essere quella di un governo di minoranza. La campagna si è svolta in un'atmosfera molto tesa, con accuse contro l'AfD da una parte e minacce di morte agli oppositori dell'ultradestra dall'altra. Sposato e padre di quattro figli, il leader locale dell'AfD Björn Höcke, ex professore di storia al liceo, nel 2017 aveva definito il memoriale della Shoah a Berlino un "monumento della vergogna". Ha anche difeso l'idea di una "Germania millenaria", un modo di intendere che la storia nazionale va al di là del solo periodo nazista. La cancelliera Merkel, presa regolarmente di mira dall'ultradestra per la sua politica di accoglienza dei migranti nel 2015 e nel 2016, dopo l'attacco di Halle ha esortato a prestare attenzione alle "parole" che possono "trasformarsi in atti". Il suo partito già a giugno aveva chiamato in causa l'AfD a seguito dell'omicidio, da parte di un neonazista, del politico pro-migranti della Cdu Walter Lübcke.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » dom set 29, 2019 11:50 am

La von der Leyen perde pezzi: Commissione a rischio?
Autore Andrea Muratore
27 settembre 2019

https://it.insideover.com/politica/la-v ... un-zdtSr4g

Il vaglio dell’Europarlamento sulle figure nominate dai governi nazionali per far parte della nuova Commissione europea targata Ursula von der Leyen rischia di produrre un effetto domino destabilizzante. Anzi, è oramai certo che l’esecutivo Ue sarà diverso da come inizialmente disegnato. In questi giorni la composizione della Commissione della presidente designata è stata scombinata dalla decisione della commissione Giuridica dell’Europarlamento di indagare sui conflitti di interessi per i due commissari designati da Romania e Ungheria, Rovana Plumb e Laszlo Trocsanyi, destinati dall’ex ministro della Difesa della Merkel rispettivamente ai trasporti e all’allargamento dell’Ue.

La Plumb, esponente di un governo socialista dai forti accenni anti-europeisti, paga il suo presunto coinvolgimento in uno scandalo riguardante dei prestiti da 500mila euro ricevuti negli ultimi anni che in patria alcuni equiparano a tangenti, mentre per Trocsanyi l’accusa è di conflitto d’interessi per la vicinanza tra il suo studio di avvocatura e Viktor Orban nei tempi in cui era ministro dalla Giustizia di Budapest.

Romania e Ungheria, esponenti dell’est più euroscettico che ha sostenuto la candidatura della von der Leyen anche, ma non solo, per le sue garanzie atlantiste, sono giudicate dall’Europarlamento con severità. Dura la condanna della Plumb (è stata bocciata in modo netto: 15 voti contro, 6 a favore e 2 astensioni), destinata a uscire di scena, mentre per l’ungherese il voto è stato di misura, 11 contrari, 9 a favore e 2 astenuti.

La maggioranza europea di Ursula von der Leyen si regge su una maggioranza risicata che potrebbe venire meno se mancassero i decisivi voti dell’Est. L’impianto intero della Commissione è messo a rischio da decisioni di bocciature che, se per il caso rumeno si legano in parte a dinamiche politiche interne, hanno certamente una componente di bias legata al mal sopportazione dei Paesi di Visegrad e alleati nelle stanze di Strasburgo. Commissione e Europarlamento sono divisi verso l’Est come Casa Bianca e Congresso su numerosi temi di politica estera. E se la Von der Leyen ha tentato con un fine equilibrismo di tenere dentro i riottosi Paesi orientali, quella dell’Europarlamento è una vera e propria bomba nella stanza.

Specie se Strasburgo non sarà altrettanto dura con gli altri casi di conflitto d’interesse che si troverà a affrontare: Didier Reynders (Giustizia, Belgio) è indagato in patria per corruzione, Sylvie Goulard (Mercato Interno, Francia) e il polacco Janusz Wojciechowski (Agricoltura) sono sotto inchiesta dall’Olaf (l’ufficio contro le frodi dell’Ue) per l’uso leggero di rimborsi da deputati europei; forse il caso più clamoroso è quello della socialista portoghese Elisa Ferreira (Coesione), il cui marito guida l’organismo che ripartisce i fondi strutturali dell’Ue nel nord del Portogallo, zona che necessita di investimenti notevoli dall’ente da lei amministrato. Come ricorda l’Agi, “ultimo in ordine di tempo, è scoppiato il caso della croata Dubravka Suica, nominata vicepresidente per la Democrazia e la Demografia, che nel corso degli ultimi anni ha accumulato un patrimonio da 5 milioni di euro dalle origini sospette. Per von der Leyen non sarà facile tenere intatta la sua attuale squadra”. A meno di seguire le strumentalizzazioni di Strasburgo contro i sovranisti dell’Est.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » dom nov 10, 2019 10:23 pm

Spagna, socialisti sono in testa ma non hanno la maggioranza. Vox terzo partito
Angelo Scarano - Dom, 10/11/2019

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/spa ... VNmtr0k8XM

Secondo i primi exit poll delle elezioni generali spagnole anche questa volta nessuna coalizione raggiunge la maggioranza assoluta. La destra di Vox sfonda: terzo partito col 14%

Secondo i primi exit poll delle elezioni generali spagnole anche questa volta nessuna coalizione raggiunge la maggioranza assoluta.

I dati di Gad3 elaborati per Rtve danno un leggero vantaggio alla destra. Il blocco Pp-Vox-Ciudadons raggiungerebbe tra i 155 e i 164 seggi, ben oltre i 147 delle precedenti elezioni. Il blocco di sinistra si fermerebbe tra i 147 e 156 seggi. Allo stato attuale, i socialisti perdono tra 4 e 9 deputati, mentre Podemos ne perde tra gli 8 e i dodici rispetto al voto del 28 aprile scorso. La nuova formazione di sinistra Mas Pas ne ottiene 3. I Popolari crescerebbero tra i 19 e i 24 deputati.

Clima teso in Spagna nel giorno delle quarte elezioni in quattro anni, con l'affluenza in calo come previsto: al 56,86% alle 18, quattro punti in meno del voto del 28 aprile scorso. Sullo sfondo c'è l'atmosfera pesante legata alla spinta separatista in Catalogna e al rafforzamento dell'estrema destra, che sul tema promette "maniere forti". Le elezioni sono state riconvocate dopo sei mesi al potere del premier socialista Pedro Sanchez, di nuovo favorito ma di nuovo, anche, probabilmente destinato a non trovare sostegno sufficiente per governare. Lui ha fatto appello ai 37 milioni di elettori, chiedendo loro di assegnargli un mandato chiaro per mettere fine all'instabilità politica che dal 2015 affligge il Paese.

Al centro della campagna elettorale è stata la Catalogna, dopo le violente proteste di metà ottobre, seguite alle condanne a lunghe pene carcerarie a nove leader indipendentisti per la spinta separatista del 2017. Vox ha capitalizzato i timori degli spagnoli promettendo di "usare maniere forti", per voce del leader Santiago Abascal che ha parlato di rendere illegali i partiti secessionisti, di sospendere dell'autonomia della Catalogna e di arrestare il presidente indipendentista catalano, Quim Torra. Sanchez ha chiesto agli elettori di votare per arginare "lo spirito del franchismo" incarnato da Vox, criticando anche la destra per non aver esitato ad allearsi al movimento di ultradestra per controllare l'Andalusia, zona più popolosa di Spagna, la regione di Madrid, la più ricca, e il municipio della capitale. "La Spagna ha bisogno di un governo progressista, per tenere testa al franchismo, all'estremismo e ai radicali", ha martellato Sanchez in campagna elettorale. In ballo in questa elezione c'è anche l'ipotesi di alleanza tra socialisti e Podemos, dopo il fallimento dei negoziati l'estate scorsa. Sanchez non nasconde di preferire governare in minoranza piuttosto di tentare il dialogo con lo schieramento di Pablo Iglesias. Il quale, tuttavia, proprio nel giorno del voto gli ha teso la mano: "Vogliamo lasciare dietro le spalle i rimproveri e tendere la mano al Psoe, e poter formare un governo", ha detto citato dai media spagnoli.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » ven dic 13, 2019 6:55 am

Risultati elezioni Regno Unito, vittoria schiacciante dei conservatori. Brexit a un passo
I Tory del premier Boris Johnson in netto vantaggio con 368 seggi contro i 191 del Labour. Corbyn: "Non sarò leader Labour nelle prossime elezioni". Media Usa: "Il cambiamento più importante dalla Seconda guerra mondiale"
a cura di KATIA RICCARDI e ALESSIO SGHERZA,
12 dicembre 2019

https://www.repubblica.it/esteri/2019/1 ... 243317516/

Brexit, possibile voto già prima di Natale

LONDRA - Il Regno Unito ha deciso compatto, senza esitazioni: il partito Conservatore del premier Boris Johnson ha stravinto le elezioni britanniche. Secondo gli exit poll, confermate dai primi risultati in arrivo dallo spoglio delle schede nei singoli collegi, i Tory avrebbero 368 seggi, 50 in più rispetto alle elezioni del 2017. Una proiezione di Sky News conferma che i Tory otterranno tra i 358 e i 368 seggi a Westminster e che il premier Boris Johnson avrà un margine di maggioranza tra i 66 e 86 seggi. I laburisti avranno tra i 192 e i 202 seggi. "Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato. Viviamo nella più grande democrazia del mondo", ha esultato il premier britannico. "Ho ricevuto un mandato molto forte, andremo fino in fondo con Brexit", ha detto applaudito a notte fonda.
Il Labour si ferma a 191. Un risultato che per i conservatori non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher quando conquistò il terzo mandato nel 1987, e che segna la disfatta peggiore dal 1935 del partito di Jeremy Corbyn, che finisce subito sotto processo. Uno "shock", è stato il mesto commento di John McDonnell, esponente di punta dei laburisti, "sul futuro di Jeremy Corbyn saranno prese decisioni appropriate". E su Twitter rimbalza l'hashtag #CorbynOut. Lui, a tarda notte, dice che non guiderà il partito alle prossime elezioni. Corbyn però resterà leader per "un periodo di riflessione".
Soddisfatti i nazionalisti scozzesi che salgono di 20 seggi, lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, grande oppositrice della Brexit, può dirsi soddisfatta con 55 seggi. Male i LibDem fermi a 13 (non eletta la leader Jo Swimson), Plaid Cymru (3 seggi) e i Green stabili con un seggio. Il Brexit Party di Farage non elegge nemmeno un deputato a Westminster ma, si è consolato il leader, "otteremo la Brexit, abbiamo fatto un buon lavoro".


Elezioni in Gran Bretagna
12 DIC 2019
(ANSA) - ROMA

http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews ... AE2K-OQh3k

Il risultato laburista segnalato dagli exit poll (191 seggi), se confermato, è da considerarsi un tracollo per il partito guidato da Jeremy Corbyn. Deludenti anche i numeri attribuiti ai Lib-Dem, che otterrebbero soltanto 13 seggi, mentre 55 seggi andrebbero agli indipendentisti scozzesi (Snp). Da questi dati la nuova formazione guidata da Nigel Farage, il Brexit Party, non registra alcun seggio.



Valanga Boris: travolti Corbyn, europeisti e competenti nostrani che come al solito non hanno capito nulla Dario Mazzocchi e Federico Punzi
13 dicembre 2019

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... kZC7GnT25c

Non solo “Brexit done”. Un capolavoro di leadership e di politica: ha schiacciato Corbyn nell’angolo Remain scippandogli i voti dei Leavers laburisti e finito il lavoro puntando su industria e sanità pubblica, facendo dei Tories un One Nation Party

I numeri sono implacabili: 362 a 203 con soli 3 seggi ancora da assegnare. Per i Tories una vittoria storica: la più ampia maggioranza di seggi dal 1987 (la terza della Thatcher). Per il Labour la peggior sconfitta dal 1935. Ma il risultato di un’elezione non è mai scontato. Nelle ultime settimane i sondaggi davano i Conservatori in vantaggio in termini percentuali, ma lasciando dubbi sulla reale consistenza della maggioranza a Westminster, al punto da non poter escludere del tutto l’eventualità di un nuovo Hung Parliament. Nelle snap election del giugno 2017 l’allora premier Theresa May aveva ottenuto in termini percentuali e in voti assoluti un risultato ragguardevole, ma non bastò a causa della forte polarizzazione del voto tra i due partiti maggiori, che raccolsero oltre l’82 per cento dei voti (42 a 40). La storia si sarebbe potuta ripetere, ma negli ultimi giorni un indicatore diventato ormai infallibile ai nostri occhi rafforzava decisamente le chance di vittoria di Johnson: i giornaloni italiani infatti si sforzavano di accreditare la narrazione di un “recupero” Labour, gli elettori avevano deciso per il “voto tattico” nei collegi in bilico (tutti tranne lui!), annullando il vantaggio percentuale dei Tories (è la dura legge dell’uninominale!). Come al solito, si trattava di wishful thinking.

È andata esattamente al contrario, con i Tories che hanno strappato collegi storicamente laburisti. Insieme a Corbyn escono quindi asfaltati anche i nostri media mainstream con il solito circo di inviati, esperti ed eurolirici al seguito, non solo perché alcuni schierati con il leader laburista, “male minore”, ma soprattutto perché non si sono mai voluti rassegnare al fatto che gli inglesi non hanno cambiato idea su Brexit, non si sono pentiti, né hanno ceduto alla strategia della paura, alimentata dai continui rapporti secondo cui i supermercati si sarebbero svuotati e la Regina sarebbe dovuta fuggire da Londra. Hanno voluto dipingere Johnson come un cinico opportunista, un pericoloso pagliaccio, una macchietta, le cui bugie avrebbero trascinato a fondo il Regno Unito, non riconoscendo in lui l’uomo di profonda cultura e il politico di razza. Non sarebbe mai riuscito a convincere l’Ue a riaprire l’accordo di uscita, ad eliminare il backstop, dicevano e scrivevano gli inviati che non aveva nemmeno una proposta in tasca con cui presentarsi a Bruxelles. E sappiamo com’è andata. Sghignazzavano e si davano di gomito ad ogni “umiliazione” parlamentare che subiva (quante volte l’hanno dato per finito?), senza comprendere che proprio su quelle sconfitte Johnson stava pazientemente e sapientemente costruendo il successo di oggi e cucendo addosso ai suoi avversari i panni degli sconfitti.

Perché era chiaro che prima o poi al voto si sarebbe tornati. E così, ad ogni bocciatura dei Comuni e della Corte, ad ogni escamotage dei Remainer e provocazione di Bruxelles, prendeva forma la sua campagna, si rafforzava la sua immagine di leader del “Get Brexit Done” in contrapposizione alla palude di Westminster e ai Remainer che brigavano con Bruxelles per tenere il Regno Unito prigioniero dell’incertezza per chissà quanto. Ha costretto Corbyn all’angolo, portandolo prima a sposare definitivamente, voto dopo voto a Westminster, una posizione Remainer senza però né convinzione né una strategia chiara su come ribaltare il risultato del 2016, poi a mostrare di temere il ritorno alle urne che fino a poco tempo prima invocava quasi ogni giorno.

Quella di Boris Johnson è una vittoria della leadership e degli ingredienti di cui una leadership politica è fatta: carisma e coraggio, chiarezza e sintonia con gli elettori, strategia e abilità nel muoversi nelle istituzioni. I suoi eccessi comunicativi non sono fine a se stessi, ma il veicolo di argomenti forti e di una strategia precisa. Fin dal giorno in cui è entrato al Numero 10 di Downing Street, una ventata di energia e concretezza ha spazzato via il grigiore e le insicurezze trasmesse dalla May.

Brexit done, ma non solo. Fattore decisivo la stanchezza dell’elettorato per lo stallo su Brexit, che Johnson ha saputo interpretare al meglio: gli elettori a quanto pare avevano proprio una gran voglia di “Get Brexit Done”. L’immobilismo, l’indecisione, è quanto di più lontano dallo spirito degli inglesi. Occorreva dare una spallata ad un Parlamento bloccato sulla questione più delicata dal Dopoguerra ad oggi, un mandato forte e chiaro al primo ministro per risolvere la matassa e tornare a occuparsi delle tante faccende domestiche passate in secondo piano, ma che stanno a cuore ai britannici probabilmente più dei rapporti con l’Ue.

Mentre la May aveva trasmesso la sensazione di essere la causa prima dell’impasse, con i suoi tentennamenti e i suoi passi indietro, Johnson ha saputo ribaltare questa percezione, assumendo da subito una posizione molto netta e, soprattutto, ottimistica su Brexit (uscita con o senza accordo entro il 31 ottobre) e lasciando ai suoi avversari la paternità di arrocchi, rinvii, bizantinismi e confusione. Anche Theresa May diceva di voler deliver Brexit, ma in lei era palpabile la paura, la scarsa convinzione nella scelta di lasciare l’Unione europea, la logica di riduzione del danno con la quale ha approcciato i negoziati, venendo letteralmente sbranata da Bruxelles, mentre Johnson ha incarnato la fiducia, la visione di una Brexit che oltre ai rischi presenta anche l’opportunità di “Unleash Britain’s Potential”.

Chi chiedeva a gran voce un secondo referendum, invadendo le strade di Londra o dai palazzi su questo lato della Manica, è stato accontentato. Qualcuno potrebbe sbrigativamente concludere che i britannici considerano il laburismo di Corbyn più pericoloso della Brexit stessa. Oppure, più semplicemente ritengono l’esito del 2016 come assodato, piaccia o meno, e ora si aspettano dalle loro istituzioni che riprendano il controllo dopo troppo tempo.

Non solo Brexit, dicevamo, perché alla base del trionfo di Johnson c’è anche un posizionamento politico ben oltre la comfort zone conservatrice sui temi economico-sociali. Un’analisi più approfondita dei voti reali consentirà di capire quanto i Tories siano riusciti a sfondare nell’elettorato laburista, ma la prima impressione è che abbiano intercettato non solo i voti di coloro che tre anni e mezzo fa si erano espressi per il Leave e che oggi si sentono traditi dall’ondivago Corbyn, che aveva annunciato che non avrebbe preso posizione, da primo ministro, in occasione di un secondo referendum sul divorzio dall’Ue.

Oltre che ai temi cari agli elettori di destra come la sicurezza, l’impresa privata e le tasse, Johnson si è dedicato per tutta la campagna elettorale a temi molto cari alla sinistra tradizionale, come i servizi pubblici, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, impegnandosi a rafforzare il sistema sanitario nazionale (NHS) e quello dell’istruzione, e mettendo al centro della sua campagna i lavoratori, dalla manifattura alla pesca. Senza mancare di rassicurare la City, promettendo un’agenda economica liberale, a partire dai prossimi rapporti commerciali con l’Europa e il resto del mondo.

Con queste elezioni Johnson potrebbe quindi aver ridisegnato i confini conservatori, rendendoli quelli di un One Nation Party, fondendo componenti compassionevoli e liberali, sociali e imprenditoriali. Elementi non nuovi per chi lo conosce, sorprendenti per chi soprattutto in Italia lo ha superficialmente dipinto come un estremista di destra (e ora non gli resta che attaccarsi alla questione scozzese per provare a ridimensionare il suo successo).

Ha voluto rischiare e andare all-in, portando gli avversarsi allo scoperto e chiedendo le urne anticipate: poteva andare a sbattere e invece ha letteralmente sfondato – come nell’efficace spot elettorale in cui con una ruspa abbatte il muro dell’Hung Parliament.

E la nota positiva è che oltre ai tentativi di fermare la Brexit, votando in massa per i Tories gli elettori britannici hanno rigettato con forza l’islamo-marxismo e l’antisemitismo di cui era portatore il Labour di Corbyn.



Blair: “Labour vergogna, comico sulla Brexit. Rischia di sparire”
18 dicembre 2019

http://blog.ilgiornale.it/cesare/2019/1 ... gQlM9DxDY8

Il risultato elettorale del Partito laburista? “Una vergogna. Abbiamo deluso il nostro Paese”. Le ragioni della peggiore sconfitta della sinistra inglese dal 1935? “Un’indecisione quasi comica sulla Brexit, che ci ha alienato tutte e due le parti del dibattito”, europeisti e antieuropeisti.
E poi ancora, a pesare sul pessimo risultato, è stata l’offerta di un “socialismo quasi rivoluzionario, un mix di politica economica di estrema sinistra, unito a una profonda ostilità verso la politica estera occidentale”. Infine lui, Jeremy Corbyn, visto dagli elettori come un leader “fondamentalmente in contrapposizione con quello che la Gran Bretagna e l’Occidente rappresentano”, sostenuto da un movimento di protesta totalmente incapace di essere votato come “governo credibile”.

Parla così oggi a Londra Tony Blair, il premier di maggior successo della storia del Labour (vincitore di tre elezioni consecutive, al governo dal 1997 al 2007), poi finito nel cono d’ombra del suo stesso partito, i cui vertici si sono spostati più a sinistra. Oggi Blair è in parte rimpianto dagli elettori (poco), in parte ancora odiato (molto) per la decisione di coinvolgere il Regno Unito nella guerra in Iraq, per il suo stile di vita, le amicizie con i ricchi del pianeta e le consulenze milionarie in giro per il mondo, anche a favore di qualche regime non proprio specchiato.

Eppure nessuno meglio di lui, che fu l’uomo della Terza Via europea e seppe trovare un compromesso fra destra e sinistra, fra libero mercato e politiche di solidarietà, può restituirci un’analisi altrettanto lucida e incisiva sulla debacle laburista. Blair arriva al cuore del problema e non è difficile capire perché: conosce bene gli elettori, specie quelli di centro che era riuscito a conquistare riportando il Partito Laburista al governo. Conosce il business e le imprese, con cui aveva rilanciato l’economia negli anni della Cool Britannia. Perciò è certo di quello che ormai sembra chiaro a tutti e che lui aveva largamente anticipato: se non fosse stato per Corbyn, per la sua decisione di accettare l’elezione di Natale, di cadere cioè nella trappola di Boris senza avere una linea chiara sulla Brexit, “avremmo tenuto gran parte dei nostri voti nelle aree laburiste tradizionali”. E se non fosse stato per l’incapacità di Corbyn di affrontare l’antisemitismo nel partito – una circostanza “che ci ha lasciato disgusto” – non ci saremmo “sentiti per la prima volta in conflitto nel votare Labour”.

A proposito del programma laburista alle ultime elezioni – una sfilza di promesse ambiziose e costose, che Corbyn ancora difende – Blair è lapidario: “È stato un urlo contro il sistema ma non è un programma di gioverno” . E ancora: “Qualsiasi pazzo può promettere qualsiasi cosa gratis, ma la gente non si è fatta prendere in giro”.

Cosa accadrà adesso? Corbyn ha detto che si farà da parte con il nuovo anno. Molti gli rimproverano di continuare a logorare il partito senza un’uscita di scena immediata. Il Labour deve scegliere la sua anima. Ma soprattutto – dice Blair – deve rinnovarsi. “O si rinnova, come un concorrente per il potere, serio, progressista e non conservatore. Oppure, se rinuncerà a questa ambizione, sarà sostituito. La scelta è questa: cruda, dura, difficile, ma vera”. “Per conquistare il potere, abbiamo bisogno di autodisciplina, non di autoindulgenza, dobbiamo ascoltare cosa dice davvero la gente, non sentire solo la parte che vogliamo ascoltare noi” . Infine serve creare una nuova agenda politica, al centro della quale deve esserci la “comprensione e mobilitazione dell’industria tecnologica, che è l’equivalente della Rivoluzione industriale del XIX secolo”.

Cosa vuol dire questo? Che “c’è una montagna da scalare” per il Labour, come ha ammesso uno dei candidati alla leadership, Keir Starmer, fin qui ministro ombra per la Brexit e come Blair favorevole a un secondo referendum. Ma il tempo scorre. E Re Boris, con una maggioranza schiacciante e il “governo del popolo”, proverà ora a conquistare per sempre i cuori della working class.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » sab feb 01, 2020 11:14 pm

Brexit è qui per restare: smontati stereotipi e pregiudizi, la sfida è solo all'inizio
Atlantico Quotidiano
Dario Mazzocchi
31 Gen 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... OtKy5bxB6s

Smentiti quelli che “Brexit non si farà mai”, ecco l’altro volto della Brexit, quello positivo e liberale che eurolirici e disfattisti hanno preferito non vedere, perché rischia di mostrare che c’è vita al di fuori dell’Ue

Il fatidico giorno, dunque, è arrivato: finisce gennaio ed inizia Brexit. Dopo un lungo e politicamente drammatico parto il Regno Unito esce ufficialmente dall’Unione europea. È un passaggio epocale, uno stato membro che esce dal blocco. Impensabile anche a poche ore dalla chiusura delle urne il 23 giugno 2016, quando il divorzio non era stato preso davvero in considerazione nella sua totalità, ma solo come un’eventualità giudicata per lo più remota, mentre l’esito del referendum ha finito per scatenare un forte terremoto nello status quo contemporaneo, seguito da lì a pochi mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ipotesi irrealizzabili per i più, nei dibattiti e nelle analisi, nel susseguirsi di opinioni e previsioni. Invece, è successo e sta succedendo.

Una lunga strada e siamo solo all’inizio – Brexit per troppo tempo e in modo errato è stata descritta come l’affermazione del populismo Oltremanica, come il trionfo delle bugie e delle paure sui dati di fatto e sulla realtà, come la costruzione di nuovi muri per isolarsi dal resto del mondo di fronte ai sempre più consistenti flussi migratori verso l’Europa. Parafrasando il poeta settecentesco irlandese Jonathan Swift, è stato commesso l’errore di scambiare le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per il sentimento della nazione. Eppure, il Regno Unito è sempre stato fondamentalmente poco incline all’europeismo e, negli ultimi anni di convivenza, la strategia di Bruxelles di dare vita ad un’unione sempre più profonda e ramificata ha riacceso quegli stessi animi che sembravano – sembravano – sopiti durante i mandati di Tony Blair e agli inizi dell’avventura da primo ministro di David Cameron, che infatti decise di scommettere in modo pesante per consacrare il suo operato garantendo che con la sua rielezione del 2015 il popolo avrebbe avuto la facoltà di esprimersi sulla permanenza nell’Ue. Poco più di un anno dopo avrebbe rassegnato le sue dimissioni.

Cos’è stata e cosa sarà questa benedetta Brexit? Se per gli strenui difensori del modello europeista resta un errore irreparabile, per i britannici è stata ed è una sonora richiesta di take back control inoltrata all’establishment, oltre che una stagione mai vissuta in precedenza di scontri e divisioni che hanno aggiunto ulteriori scosse telluriche ad un sistema impreparato, al punto da non sapere come procedere, dando fiato ai disfattisti. Termini come crisi istituzionale, emergenza nazionale e tracollo economico si sono diffusi come una pandemia, mentre la vita di tutti i giorni andava avanti. Theresa May che giocava male le carte in mano, mancando di una chiara strategia per le contrattazioni e di una solida maggioranza parlamentare; i Comuni che dettavano l’agenda e poi finivano per non trovare un accordo; l’Ue che imponeva continui diktat nella speranza che l’Articolo 50 venisse definitivamente revocato; le strade di Londra che si riempivano di manifestati pro e contro – soprattutto contro – Brexit; il luogo comune che il popolo si fosse pentito della sua scelta, unitamente all’idea che la democrazia sia sopravvalutata, quando non in grado di garantire l’esito sperato.

Tirare dritto – Proprio quando sembrava naufragare contro un bianco scoglio di Dover, Brexit è invece proseguita, suggellata dal trionfo di Boris Johnson alle elezioni di dicembre. Pragmatismo anglosassone: andiamo avanti e passiamo oltre, abbiamo perso fin troppo tempo. C’era un nuovo accordo con l’Ue (che sembrava impossibile ottenere), c’era un candidato con le idee chiare e ottusamente a favore dell’addio, quindi denigrato sulla pubblica piazza da chi era ancora fermo al 13 giugno 2016, e c’era una proposta alternativa che non avrebbe dato scampo, quella presentata dal fallimentare Jeremy Corbyn di ricominciare da capo, con un secondo referendum. L’esito è stato lampante e improvvisamente è calato il silenzio: Brexit è scomparsa dai titoli, dai talk show politici, dalle cronache marziane di chi aveva confuso le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per quelle dei quattro angoli del regno, accettata a malincuore dagli hooligans del fusionismo europeo, tornati però a farsi vivi a ridosso del fatidico termine.

“Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo”, ha commentato dalle colonne del Messaggero domenica scorsa Romano Prodi, convinto che Londra abbia fallito nel tentativo di dividere la grande famiglia europeista. È una sua legittima convinzione, ma che il voto del 2016 avesse quell’intento è tutto da dimostrare.

Out and into the world – C’è chi piuttosto guarda a Brexit con attenzione, curiosità e interesse, senza farne una barricata ideologica – come Capezzone, Punzi e altri autori hanno tentato di fare ormai due anni e mezzo fa in “Brexit. La sfida” (Giubilei Regnani, 2017). Sono molti coloro che cercano un’alternativa alla sovrastruttura architettata nei corridoi di Bruxelles, spesso soggetta alla diarchia Berlino–Parigi. Non sono per forza contrari al concetto in sé di collaborazione economica e politica tra gli stati membri, ma si augurano che venga messo un freno alla seconda. Credono che l’identità dei Paesi sia un punto di forza e non un peso e che si possano ottenere benefici dalle relazioni con gli altri senza dover per forza adeguarsi a linee guida che non giocano a favore dei propri interessi nazionali. Confidano nel pluralismo e guardano con sospetto alle armonizzazioni forzate a colpi di direttive. Sono i connotati di quella che noi di Atlantico abbiamo definito da tempo la Brexit liberale di Johnson, il quale ora ha i numeri per mantenere la promessa e per riproporli durante le trattative che caratterizzeranno il periodo di transizione che inizierà con lo scoccare della mezzanotte.

Non è certo escluso che tra le anime di quel popolo che nel 2016 ha scelto il Leave trovino spazio quelle ancorate ad un passato che non può tornare e all’isolazionismo autarchico, ma non sono mai state maggioranza, se non per un certo sensazionalismo mediatico e la stravaganza di alcuni suoi portavoce. Tanto può bastare a chi si accontenta di soffermarsi sulla superficie e preferisce non scavare a fondo, per tirare affrettate conclusioni, ma in un momento storico come quello in atto il buon senso dovrebbe suggerire di non cadere in tentazione. Out and into the world era lo slogan degli euroscettici britannici già negli Anni Settanta, riposto in seguito in un cassetto, ma non nel dimenticatoio, quanto tra le cose da conservare perché potrebbero sempre tornare utili. La vita dopo Brexit proseguirà in modo meno tenebroso di quanto si prospettava – e qualcuno probabilmente si augurava. Non mancheranno nemmeno le scorte alimentari sugli scaffali dei supermercati. Si concretizzerà invece un’alternativa che aiuterà a considerare nuove vie e ad esplorare nuove strade, non per radere al suolo ciò che c’è quanto piuttosto per migliorare e tenere il passo dei tempi che cambiano. Sempre ammesso che se ne abbia il coraggio.





Ecco perché Londra ha staccato la spina all'Europa
Lorenzo Vita
1 febbraio 2020

https://it.insideover.com/politica/lond ... qwGXY6NlKs

Il Regno Unito lascia ufficialmente l’Unione europea ed entra in una nuova era ripartendo dal suo passato. Niente più costola atlantica dell’Europa né “serpe in seno” come definita da molti del sistema voluto da Bruxelles. Londra esce dall’Europa e torna a pensare se stessa come potenza in grado di gestire la propria strategia senza essere parte in un sistema politico continentale. E la Brexit rappresenta il primo step per una riscoperta del mondo da parte dei britannici dopo che per qualche decennio avevano creduto (senza troppe illusioni) di poter essere anche parte dell’Unione europea.

I cittadini britannici, ma soprattutto gli strateghi di Downing Street, non hanno mai avuto una grande percezione di se stessi come europei. E la Brexit, che sancisce il divorzio tra Londra e Bruxelles, è solo la presa di coscienza di un ruolo che il Regno Unito non ha mai voluto condividere con le potenze europee. Paese votato al mare contro un blocco terrestre, Stato indipendenti per natura contro un blocco multilaterale che ha sempre ritenuto distante, alla ricerca dell’Atlantico e sempre meno della Manica, il Regno Unito ha fatto una scelta difficile, pericolosa e non certo semplice consapevole che in fondo la sua strategia è sempre stata questa: non essere parte dell’Europa ma evitare che qualcuno prendesse il sopravvento nel Vecchio continente. Ci è riuscita per 47 anni dentro l’Ue. Ci è riuscita adesso con la Brexit, dal momento che il terremoto che ha colpito l’Europa ha comunque inferto un colpo durissimo ai piani dell’asse franco-tedesco e in particolare della Germania. E ha posto certamente una pietra tombale sulle certezze oniriche di chi ha creduto che l’Europa potesse solo crescere ed espandersi. Una doccia gelata che vede dal’altra parte il cambiamento del mondo.

Perché quello che ha fatto la Gran Bretagna è in realtà parte di un’evoluzione molto più grande che include tutti gli angoli del mondo: Europa compresa. Londra non va via da un’Europa che conta, ma da un’Unione europea sempre più debole e instabile e su cui si sono posti gli occhi inflessibili delle superpotenze che per decenni hanno voluto mantenere lo status quo. Oggi l’Ue non serve e gli Stati Uniti, che per molto tempo hanno tollerato (o benedetto) l’Unione come espressione europea della Nato, oggi non hanno più interesse a questo blocco di Stati guidato da Bruxelles ma in realtà da Berlino e Parigi e che compete con Washington. E Donald Trump, punta di diamante di questa strategia americana, è arrivato non a caso mentre il Regno decideva per la Brexit. I due fenomeni non sono così distanti come sembrano. E le due sponde dell’Atlantico hanno deciso una via sovranista ante litteram quasi insieme, come a voler confermare che l’Atlantico avrebbe staccato la spina all’Europa.

Così è stato. E proprio a porre il sigillo su questa dinamica atlantica, Boris Johnson ha visto da subito in Trump il suo interlocutore privilegiato, sin dai tempi della sua carica di ministro degli Esteri. Sia chiaro: non senza divergenze. L’ultima mossa di Londra di aprire a Huawei nel 5G britannico è un messaggio chiarissimo nei confronti dell’alleato statunitense. Ma è chiaro che la special relationship atlantica ne uscirà comunque rafforzata, come confermato anche dalle parole di Mike Pompeo pochi minuti dopo lo scoccare della mezzanotte del primo febbraio.

Ma la decisione sul 5G da parte del governo conservatore indica anche dell’altro. L’apertura verso Huawei non è soltanto un’operazione di “rivolta” contro le decisione imposte dal Pentagono e dalla Cia ma anche il segnale di come a Londra vogliano il dialogo con Pechino. La Cina ha subito fatto intendere di essere particolarmente interessata al Regno post-Brexit. Ed è chiaro che adesso Johnson guarda al gigante asiatico come un Paese in grado di investire molto più liberamente sul territorio inglese pur con le cautele imposte dalla relazione con Washington. In questo senso, il pericolo che la City diventi una sorta di paradiso fiscale o che si costruisca un asse finanziario tra Shanghai, Hong Kong e la capitale britannica preoccupa (e molto) Francoforte. E gli investitori cinesi sanno di poter fare affari in un Paese che ha nel commercio e nella globalizzazione il suo punto di forza.

Global Britain ripetono a Londra. Ed è questo l’obiettivo del governo che sa di avere dalla sua gli Stati Uniti, e di poter contare sulla Cina. Non potrà certo contare sulla Russia, di cui Londra continua a essere un rivale strategico. Ma in questo momento al Regno Unito interessa prendere la sua posizione di forza nell’Anglosfera, ricucendo con il Commonwealth, ribadendo le sue linee sul controllo dei mari, riprendendo i dossier sulle ex colonie ma senza sganciarsi definitivamente dall’Europa, in particolare nel campo della Difesa e del commercio, con cui il Regno Unito ha troppo interscambio per sfuggire. Una strategia complessa ma che parte da un dato: niente ha avuto inizio soltanto con la Brexit, ma sarà proprio l’uscita dall’Ue a segnare il cambio di passo. Non è detto che Londra torni, ma di sicuro l’obiettivo è uno: mollare l’ancora dell’Europa per navigare (certamente a vista) verso gli Oceani. Global Britain, appunto.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » mer feb 05, 2020 11:42 pm

Germania, l'ultradestra fa tremare la Turingia. Vince il candidato liberale con l'aiuto dell'Afd
TONIA MASTROBUONI
5 febbraio 2020

https://www.repubblica.it/esteri/2020/0 ... 5TZumtJZwg

BERLINO - Terremoto in Germania: per la prima volta un governatore regionale è stato eletto con l’appoggio dell’ultradestra Afd. In Turingia, land dell’ex Germania Est, il liberale Thomas Kemmerich si è candidato a sorpresa contro il governatore uscente, Bodo Ramelow (Linke). Ed è passato con lo scarto di un solo voto: 45 a 44, ma sostenuto da Cdu, Fdp e Afd. È un voto che fa tremare la Grande coalizione a Berlino.

Durissima la reazione della leader della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer. Al livello locale il suo partito avrebbe agito “apertamente contro i consigli, le richieste e le preghiere del partito federale”. Secondo la ministra della Difesa “bisogna riflettere sull’eventualità di nuove elezioni”. Persino il capo del partito del nuovo governatore non sembra felicissimo del risultato. Secondo Christian Lindner (Fdp) “se “la Cdu/Csu, la Spd e i Verdi non cooperano, bisognerà indire nuove elezioni”.
Il sospetto di accordi segreti tra la Cdu, Fdp e l’Afd, al livello locale, è però enorme. Nonostante il veto di Annegret Kramp-Karrenbauer su qualsiasi alleanza con l’ultradestra, il capo in Turingia dei cristianodemocratici, Mike Mohring, ha condotto colloqui con l’Afd, all’indomani delle elezioni dello scorso autunno. Poi si è catapultato dal lato opposto dello spettro politico e ha flirtato con la sinistra radicale, con la Linke.

Il risultato di oggi è anzitutto un trauma per il partito di Angela Merkel. Mohring si è affrettato a puntualizzare di aver appoggiato “un candidato centrista” e di non sentirsi responsabile per “le scelte di altri partiti”, cioè per l’appoggio dell’Afd. E ha aggiunto di aspettarsi “una chiara presa di distanza” del neo governatore dall’Afd. Non si capisce però chi potrebbe sostenerlo, dopo il ‘bacio della morte’ dell’ultradestra. Kemmerich stesso si è detto “anti-Afd” e “anti-Höcke”, ma per ora è solo la Cdu ad essersi dichiarata disponibile a governare con lui.

Le reazioni, anche a sinistra, non si sono fatte attendere. Minaccioso il vicecancelliere, Olaf Scholz (Spd). Su Twitter ha fatto sapere di ritenere “inaccettabile” la “rottura del tabù” del caso Kemmerich, di ritenere la vicenda non casuale ma “organizzata” e ha promesso che ne chiederà conto al partner di governo, la Cdu. Il segretario generale della Spd, Lars Klingbeil, parla di un “punto bassissimo della storia del dopoguerra tedesco, non solo della Turingia”; il suo collega di partito, Kevin Keuhnert, è convinto che “il 5 febbraio 2020 è una data che sarà ricordata dagli storici”. L’esponente storico dei Verdi Juergen Trittin rimprovera la Fdp di “essersi fatta votare dai fascisti”. Il capo della Linke, Bernd Riexinger, si chiede: “quanto è caduta in basso la Fdp per far eleggere un governatore con i voti dei fascisti di Höcke e dell’Afd? È la rottura di un tabù dalle conseguenze incalcolabili”.

La Turingia è infatti il feudo del capo dell’ala estremista dell’Afd, Björn Höcke, che potrebbe essere stato il regista occulto del colpo di scena sulle sponde dell’Elba. E qualche giornale come il Tagesspiegel si spinge già a ipotizzare l’uscita della Spd dalla Grande coalizione.

Kemmerich si era candidato dopo che Ramelow aveva cercato di farsi confermare dal parlamentino con un’alleanza rosso-rosso-verde, di Linke, socialdemocratici e verdi. Per due volte i parlamentari regionali gli hanno negato la maggioranza assoluta. Al terzo passaggio sarebbe bastata una maggioranza semplice, e, a sorpresa, Ramelow è stato battuto dall’avversario della Fdp. E siccome il candidato dell’Afd, Christoph Kindervater, non ha incassato neanche un voto, è chiaro che nel segreto dell’urna i voti dell’ultradestra sono confluiti su Kemmerich.
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » gio feb 13, 2020 4:31 pm

La crisi della Germania avrà ripercussioni sull'Unione europea
Roberto Vivaldelli
13 febbraio 2020

https://it.insideover.com/politica/la-c ... LWQitSpY-M


L’entrata di Berlino in una fase di stallo politico per via delle dimissioni di Annegret Kramp-Karrenbauer, che si è dimessa dalla presidenza della Cdu e, soprattutto, ha rinunciato alla corsa per la cancelleria, aprendo così la corsa alla successione, avrà pesanti conseguenze anche sul fronte politico comunitario. Come l’ha definita il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, dopo tutto che cos’è l’Unione europea se non “un impero liberale, o meglio, neoliberale: un blocco strutturato gerarchicamente e formato da Stati nominalmente sovrani la cui stabilità si mantiene grazie a una distribuzione del potere dal centro verso la periferia”?

E se al centro “si trova una Germania che cerca, più o meno, con successo, di dissimularsi all’interno del nocciolo duro dell’Europa (Kernereuropa)” e quest’ultima è entrata, di fatto, in una fase di crisi politica, a farne le spese è di conseguenza tutta l’Europa. In questa fase complessa, complici le dimissioni di Akk, come nota IlSole24Ore, la Germania assumerà il 1°luglio la presidenza di turno dell’Unione. Sono in programma discussioni importanti, legate al bilancio comunitario 2021-2027, al Green Deal, e anche al prossimo patto migratorio. E la Germania molto probabilmente non sarà in grado di gestirle.


“La crisi della Germania lascia l’Europa senza guida”

Come nota il New York Times, le dimissioni Annegret Kramp-Karrenbauer “non faranno altro che intensificare le domande su dove sta andando la Germania”. L’incertezza su chi succederà ad Angela Merkel, osserva il Nyt, estenderà “il senso di paralisi che sta frustrando gli alleati della Germania nell’Unione Europea e Washington”. Guntram Wolff, direttore dell’istituto di ricerca economica di Bruegel a Bruxelles, ha affermato che con l’incapacità della Merkel di realizzare una transizione ordinata, “le principali iniziative dell’Unione europea non andranno da nessuna parte fino all’autunno del prossimo anno.

Jana Puglierin, a capo dell’ufficio berlinese dello European Council on Foreign Relations, ha affermato: “Non mi aspetto elezioni anticipate, ma temo una paralisi in politica estera ed europea della coalizione al potere. Da Berlino non giungeranno nuove e grandi idee. Nei prossimi mesi, la Germania rischia di guardarsi l’ ombelico”. Lo sguardo di molti osservatori, sottolinea IlSole24Ore, è rivolto al processo di riforma della zona euro. Sul tavolo c’ è ancora il completamento dell’unione bancaria, in particolare la creazione di una assicurazione in solido dei depositi, e altre forme di condivisione delle risorse. Ma come spiega Eric Maurice, rappresentante a Bruxelles della Fondation Schuman, “in questa fase, e a ridosso di una prossima incertissima campagna elettorale, Berlino sarà restia a fare scelte su questo fronte”.


La crisi dalla Turingia

La goccia che ha fatto traboccare il vaso e minato la leadership già incerta di Akk è arrivata dalla Turingia. Il primo ministro Thomas Kemmerich, presidente del Partito liberaldemocratico (Fdp) nel Land, era stato eletto grazie ai voti di Afd, battendo il governatore uscente, Bodo Ramelow della Linke. Kemmerich ha vinto per un solo voto, 45 a 44. Come riporta il settimanale Der Spiegel, Kemmerich avrebbe dovuto presiedere un governo di minoranza formato da Fdp e Unione cristiano-democratica (Cdu). L’avventura di Kemmerich, tuttavia, è finita ancora prima di cominciare. Come riporta Der Taggespiegel, l’Fdp della Turingia aveva presentato la richiesta dello scioglimento del parlamento statale, al fine di chiedere nuove elezioni. Il neopresidente ha annunciato di dimettersi definendo il passo “inevitabile”.


Alberto Pento
Speriamo che la crisi tedesca si amplifichi e porti a nuove elezioni e a una paralisi dell'Europa sovietica, con conseguenze anche per l'Italia
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Re: Poledega

Messaggioda Berto » mar feb 25, 2020 6:57 am

Il partito di Angela Merkel è stato pesantemente sconfitto alle elezioni ad Amburgo
lunedì 24 febbraio 2020

https://www.ilpost.it/2020/02/24/amburg ... 1CWbnCHJn0

Il partito dell’Unione cristiano-democratica (CDU) della cancelliera tedesca Angela Merkel, ha subìto una pesante sconfitta nelle elezioni della città stato di Amburgo. Stando ai primi risultati di domenica sera, il suo candidato, Marcus Weinberg ha ottenuto l’11,2 per cento dei voti, il peggior risultato degli ultimi 70 anni.

Peter Tschentscher, candidato del partito Socialdemocratico (SPD), ha ottenuto il 39 per cento dei voti e Katharina Fegebank dei Verdi il 24,2 per cento, crescendo del 13 per cento rispetto alle elezioni precedenti nel 2015. Il partito di estrema destra AfD ha ottenuto il 5,3 per cento dei voti, superando appena la soglia di sbarramento per restare in Parlamento. Amburgo verrà probabilmente governata dalla coalizione uscente tra i Verdi e la SPD.

La CDU si trova in difficoltà dopo l’annuncio di dimissioni, date a inizio febbraio, della sua leader Annegret Kramp-Karrenbauer, considerata l’erede di Merkel. Kramp-Karrenbauer le aveva annunciate dopo che un esponente del Partito liberale, Thomas Kemmerich, era stato eletto governatore della Turingia grazie ai voti sia della CDU che degli estremisti di destra dell’AfD, spesso accusati di razzismo e di vicinanza con gruppi neonazisti. L’episodio si era concluso dopo un intervento di Merkel e con le dimissioni di Kemmerich ma aveva avviato un grande dibattito nella CDU, che aveva sempre escluso di poter collaborare con l’AfD.

Secondo i sondaggi, la scorsa settimana il consenso per l’AfD era crollato dopo l’attacco armato a sfondo razzista a Hanau, dove un uomo aveva sparato in due bar uccidendo 9 persone, perlopiù di origine straniera. Il suo corpo era stato ritrovato a casa sua insieme a quello della madre: si era presumibilmente suicidato dopo averla uccisa.



Germania: regionali Amburgo, conferma per i rosso-verdi. Calano Cdu e AfD
Peter Tschentscher (Ansa)
23 febbraio 2020

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 80b34.html

L'AfD entra per poco nel Parlamento regionale, i Verdi raddoppiano i propri consensi, la Spd tira un sospiro di sollievo e mantiene il governo di Amburgo, cala la Cdu: stando ai primi risultati, l'atteso voto per il rinnovo del Landtag della città-Stato anseatica assume un significato politico significativo per tutta la Germania.

Per i socialdemocratici il 39,2% dei consensi, pur in netto calo rispetto alle elezioni di cinque anni fa, l'esito del voto rappresenta un importante sospiro di sollievo: per il partito che fu di Brandt e di Schmidt la prima vittoria importante da anni, che assicura a Peter Tschentscher di mantenere il suo posto di sindaco. Raddoppiano, come previsto, i Verdi che dal 12,3% del 2015 balzano con la loro candidata di punta Katharina Fegebank al 24,1% attestandosi come seconda forza politica di Amburgo: è dunque praticamente certo che l'attuale coalizione 'rosso-verde' continuerà la sua esperienza di governo.
È invece "un giorno amaro" per la Cdu di Frau Merkel, che vede anche qui un'emorragia di voti da quasi il 16% all'11,2%. Come ha ammesso lo stesso Paul Ziemiak, capo organizzativo dei cristiano-democratici, sicuramente non ha aiutato la performance del partito in Turingia, dove si è ritrovato a votare insieme all'ultradestra dell'Afd il nuovo governatore del Land. Con esiti disastrosi: lo stesso presidente costretto alle elezioni, indignazione in tutto il Paese, la leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer che annuncia le proprie dimissioni nonché la rinuncia a correre come prossima candidata alla cancelleria.

Ma l'altro essenziale dato politico uscito dalle elezioni di Amburgo è il debolissimo risultato dell'AfD: il partito dell'ultradestra guidato da Alexander Gauland, Alice Weidel e Joerg Meuthen ha il 5,2% (più di un punto sotto il risultato del 2015). A detta dei commentatori, anche qui può avere giocato un ruolo il caso Turingia - ogni forma di collaborazione con la destra radicale è considerata la "rottura degli argini", la violazione di un tabù per gli altri partiti - ma forse ancora di più la strage di pochi giorni fa ad Hanau, in Assia: praticamente tutte le altre forze politiche hanno puntato apertamente il dito contro l'AfD, considerata responsabile del "clima d'odio" e delle tendenze xenofobe che sono andate crescendo in Germania negli ultimi anni.

In difficoltà anche i liberali dell'Fdp, dati intorno al 5% e a rischio esclusione Landtag: non è escluso che pure su questo debole dato abbia influito "l'affaire Turingia", dove l'Fdp ha votato insieme a Cdu e AfD per far eleggere il proprio candidato. Srtabile, infine, il partito della sinistra populista, la Linke, al 9,1%.
Esultano (pur avendo perso più di 8 punti rispetto a cinque anni fa) i socialdemocratici, che mantengono il governo di una grande città. Il vicecancelliere nonché ministro alle Finanze, Olaf Scholz, infatti spera che il voto amburghese "sia una spinta" per il partito nazionale e si dice "superfelice" del risultato. Esulta il ministro degli Esteri Heiko Maas, non solo per il risultato del suo partito, la Sdp, ma anche per la cattiva performance dell'AfD: "Gli istigatori d'odio e propagatori di paura sono fuori", ha twittato Maas. Il segretario generale dell'Spd, Lars Klingbeil, è tornato a chiedere che l'ultradestra venga messa "sotto osservazione" dall'intelligence tedesca: "Si tratta del braccio politico della destra estrema".

Di successo "fulminante" parla il leader nazionale dei Verdi, Robert Habeck, anche perché si tratta storicamente del secondo miglior risultato nella storia degli ambientalisti a livello regionale. "Si tratta di una chiara indicazione per la continuazione del governo rosso-verde. Se la Spd decidesse altrimenti, non sarebbe una scelta intelligente", ha detto Habeck.
Di contro, l'AfD, con il suo candidato di punta Dirk Nockeman, punta il dito contro gli altri partiti, accusandoli di aver messo in atto "una campagna di emarginazione" nei confronti dell'ultradestra. Alla pubblicazione degli exit poll e delle prime proiezioni, alle feste di partito di Spd e Verdi i militanti hanno inneggiato alla vittoria al grido di "Nazis Raus" (fuori i nazisti). Significativo anche il notevole aumento dell'affluenza, attestatasi al 62%: cinque anni fa, con il 56,9%, aveva raggiunto il livello più basso sin dal 1949. Anche questo il segnale del fatto che è stato un voto che andava oltre i confini della città-stato.


Alberto Pento
L'AfD non è nazista, i nazisti erano social nazionalisti, razzisti e totalitari, l'AfD è liberal nazionalista nativista non razzista e democratica che è molto diverso. E ha perso solo l'1,...% e non per i fatti di Hanau.





Via questa Europa sinistra prima che sia troppo tardi:
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 0015260892
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