Risultati elezioni Regno Unito, vittoria schiacciante dei conservatori. Brexit a un passoI Tory del premier Boris Johnson in netto vantaggio con 368 seggi contro i 191 del Labour. Corbyn: "Non sarò leader Labour nelle prossime elezioni". Media Usa: "Il cambiamento più importante dalla Seconda guerra mondiale"
a cura di KATIA RICCARDI e ALESSIO SGHERZA,
12 dicembre 2019
https://www.repubblica.it/esteri/2019/1 ... 243317516/ Brexit, possibile voto già prima di Natale
LONDRA - Il Regno Unito ha deciso compatto, senza esitazioni: il partito Conservatore del premier Boris Johnson ha stravinto le elezioni britanniche. Secondo gli exit poll, confermate dai primi risultati in arrivo dallo spoglio delle schede nei singoli collegi, i Tory avrebbero 368 seggi, 50 in più rispetto alle elezioni del 2017. Una proiezione di Sky News conferma che i Tory otterranno tra i 358 e i 368 seggi a Westminster e che il premier Boris Johnson avrà un margine di maggioranza tra i 66 e 86 seggi. I laburisti avranno tra i 192 e i 202 seggi. "Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato. Viviamo nella più grande democrazia del mondo", ha esultato il premier britannico. "Ho ricevuto un mandato molto forte, andremo fino in fondo con Brexit", ha detto applaudito a notte fonda.
Il Labour si ferma a 191. Un risultato che per i conservatori non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher quando conquistò il terzo mandato nel 1987, e che segna la disfatta peggiore dal 1935 del partito di Jeremy Corbyn, che finisce subito sotto processo. Uno "shock", è stato il mesto commento di John McDonnell, esponente di punta dei laburisti, "sul futuro di Jeremy Corbyn saranno prese decisioni appropriate". E su Twitter rimbalza l'hashtag #CorbynOut. Lui, a tarda notte, dice che non guiderà il partito alle prossime elezioni. Corbyn però resterà leader per "un periodo di riflessione".
Soddisfatti i nazionalisti scozzesi che salgono di 20 seggi, lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, grande oppositrice della Brexit, può dirsi soddisfatta con 55 seggi. Male i LibDem fermi a 13 (non eletta la leader Jo Swimson), Plaid Cymru (3 seggi) e i Green stabili con un seggio. Il Brexit Party di Farage non elegge nemmeno un deputato a Westminster ma, si è consolato il leader, "otteremo la Brexit, abbiamo fatto un buon lavoro".
Elezioni in Gran Bretagna12 DIC 2019
(ANSA) - ROMA
http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews ... AE2K-OQh3k Il risultato laburista segnalato dagli exit poll (191 seggi), se confermato, è da considerarsi un tracollo per il partito guidato da Jeremy Corbyn. Deludenti anche i numeri attribuiti ai Lib-Dem, che otterrebbero soltanto 13 seggi, mentre 55 seggi andrebbero agli indipendentisti scozzesi (Snp). Da questi dati la nuova formazione guidata da Nigel Farage, il Brexit Party, non registra alcun seggio.
Valanga Boris: travolti Corbyn, europeisti e competenti nostrani che come al solito non hanno capito nulla Dario Mazzocchi e Federico Punzi13 dicembre 2019
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... kZC7GnT25c Non solo “Brexit done”. Un capolavoro di leadership e di politica: ha schiacciato Corbyn nell’angolo Remain scippandogli i voti dei Leavers laburisti e finito il lavoro puntando su industria e sanità pubblica, facendo dei Tories un One Nation Party
I numeri sono implacabili: 362 a 203 con soli 3 seggi ancora da assegnare. Per i Tories una vittoria storica: la più ampia maggioranza di seggi dal 1987 (la terza della Thatcher). Per il Labour la peggior sconfitta dal 1935. Ma il risultato di un’elezione non è mai scontato. Nelle ultime settimane i sondaggi davano i Conservatori in vantaggio in termini percentuali, ma lasciando dubbi sulla reale consistenza della maggioranza a Westminster, al punto da non poter escludere del tutto l’eventualità di un nuovo Hung Parliament. Nelle snap election del giugno 2017 l’allora premier Theresa May aveva ottenuto in termini percentuali e in voti assoluti un risultato ragguardevole, ma non bastò a causa della forte polarizzazione del voto tra i due partiti maggiori, che raccolsero oltre l’82 per cento dei voti (42 a 40). La storia si sarebbe potuta ripetere, ma negli ultimi giorni un indicatore diventato ormai infallibile ai nostri occhi rafforzava decisamente le chance di vittoria di Johnson: i giornaloni italiani infatti si sforzavano di accreditare la narrazione di un “recupero” Labour, gli elettori avevano deciso per il “voto tattico” nei collegi in bilico (tutti tranne lui!), annullando il vantaggio percentuale dei Tories (è la dura legge dell’uninominale!). Come al solito, si trattava di wishful thinking.
È andata esattamente al contrario, con i Tories che hanno strappato collegi storicamente laburisti. Insieme a Corbyn escono quindi asfaltati anche i nostri media mainstream con il solito circo di inviati, esperti ed eurolirici al seguito, non solo perché alcuni schierati con il leader laburista, “male minore”, ma soprattutto perché non si sono mai voluti rassegnare al fatto che gli inglesi non hanno cambiato idea su Brexit, non si sono pentiti, né hanno ceduto alla strategia della paura, alimentata dai continui rapporti secondo cui i supermercati si sarebbero svuotati e la Regina sarebbe dovuta fuggire da Londra. Hanno voluto dipingere Johnson come un cinico opportunista, un pericoloso pagliaccio, una macchietta, le cui bugie avrebbero trascinato a fondo il Regno Unito, non riconoscendo in lui l’uomo di profonda cultura e il politico di razza. Non sarebbe mai riuscito a convincere l’Ue a riaprire l’accordo di uscita, ad eliminare il backstop, dicevano e scrivevano gli inviati che non aveva nemmeno una proposta in tasca con cui presentarsi a Bruxelles. E sappiamo com’è andata. Sghignazzavano e si davano di gomito ad ogni “umiliazione” parlamentare che subiva (quante volte l’hanno dato per finito?), senza comprendere che proprio su quelle sconfitte Johnson stava pazientemente e sapientemente costruendo il successo di oggi e cucendo addosso ai suoi avversari i panni degli sconfitti.
Perché era chiaro che prima o poi al voto si sarebbe tornati. E così, ad ogni bocciatura dei Comuni e della Corte, ad ogni escamotage dei Remainer e provocazione di Bruxelles, prendeva forma la sua campagna, si rafforzava la sua immagine di leader del “Get Brexit Done” in contrapposizione alla palude di Westminster e ai Remainer che brigavano con Bruxelles per tenere il Regno Unito prigioniero dell’incertezza per chissà quanto. Ha costretto Corbyn all’angolo, portandolo prima a sposare definitivamente, voto dopo voto a Westminster, una posizione Remainer senza però né convinzione né una strategia chiara su come ribaltare il risultato del 2016, poi a mostrare di temere il ritorno alle urne che fino a poco tempo prima invocava quasi ogni giorno.
Quella di Boris Johnson è una vittoria della leadership e degli ingredienti di cui una leadership politica è fatta: carisma e coraggio, chiarezza e sintonia con gli elettori, strategia e abilità nel muoversi nelle istituzioni. I suoi eccessi comunicativi non sono fine a se stessi, ma il veicolo di argomenti forti e di una strategia precisa. Fin dal giorno in cui è entrato al Numero 10 di Downing Street, una ventata di energia e concretezza ha spazzato via il grigiore e le insicurezze trasmesse dalla May.
Brexit done, ma non solo. Fattore decisivo la stanchezza dell’elettorato per lo stallo su Brexit, che Johnson ha saputo interpretare al meglio: gli elettori a quanto pare avevano proprio una gran voglia di “Get Brexit Done”. L’immobilismo, l’indecisione, è quanto di più lontano dallo spirito degli inglesi. Occorreva dare una spallata ad un Parlamento bloccato sulla questione più delicata dal Dopoguerra ad oggi, un mandato forte e chiaro al primo ministro per risolvere la matassa e tornare a occuparsi delle tante faccende domestiche passate in secondo piano, ma che stanno a cuore ai britannici probabilmente più dei rapporti con l’Ue.
Mentre la May aveva trasmesso la sensazione di essere la causa prima dell’impasse, con i suoi tentennamenti e i suoi passi indietro, Johnson ha saputo ribaltare questa percezione, assumendo da subito una posizione molto netta e, soprattutto, ottimistica su Brexit (uscita con o senza accordo entro il 31 ottobre) e lasciando ai suoi avversari la paternità di arrocchi, rinvii, bizantinismi e confusione. Anche Theresa May diceva di voler deliver Brexit, ma in lei era palpabile la paura, la scarsa convinzione nella scelta di lasciare l’Unione europea, la logica di riduzione del danno con la quale ha approcciato i negoziati, venendo letteralmente sbranata da Bruxelles, mentre Johnson ha incarnato la fiducia, la visione di una Brexit che oltre ai rischi presenta anche l’opportunità di “Unleash Britain’s Potential”.
Chi chiedeva a gran voce un secondo referendum, invadendo le strade di Londra o dai palazzi su questo lato della Manica, è stato accontentato. Qualcuno potrebbe sbrigativamente concludere che i britannici considerano il laburismo di Corbyn più pericoloso della Brexit stessa. Oppure, più semplicemente ritengono l’esito del 2016 come assodato, piaccia o meno, e ora si aspettano dalle loro istituzioni che riprendano il controllo dopo troppo tempo.
Non solo Brexit, dicevamo, perché alla base del trionfo di Johnson c’è anche un posizionamento politico ben oltre la comfort zone conservatrice sui temi economico-sociali. Un’analisi più approfondita dei voti reali consentirà di capire quanto i Tories siano riusciti a sfondare nell’elettorato laburista, ma la prima impressione è che abbiano intercettato non solo i voti di coloro che tre anni e mezzo fa si erano espressi per il Leave e che oggi si sentono traditi dall’ondivago Corbyn, che aveva annunciato che non avrebbe preso posizione, da primo ministro, in occasione di un secondo referendum sul divorzio dall’Ue.
Oltre che ai temi cari agli elettori di destra come la sicurezza, l’impresa privata e le tasse, Johnson si è dedicato per tutta la campagna elettorale a temi molto cari alla sinistra tradizionale, come i servizi pubblici, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, impegnandosi a rafforzare il sistema sanitario nazionale (NHS) e quello dell’istruzione, e mettendo al centro della sua campagna i lavoratori, dalla manifattura alla pesca. Senza mancare di rassicurare la City, promettendo un’agenda economica liberale, a partire dai prossimi rapporti commerciali con l’Europa e il resto del mondo.
Con queste elezioni Johnson potrebbe quindi aver ridisegnato i confini conservatori, rendendoli quelli di un One Nation Party, fondendo componenti compassionevoli e liberali, sociali e imprenditoriali. Elementi non nuovi per chi lo conosce, sorprendenti per chi soprattutto in Italia lo ha superficialmente dipinto come un estremista di destra (e ora non gli resta che attaccarsi alla questione scozzese per provare a ridimensionare il suo successo).
Ha voluto rischiare e andare all-in, portando gli avversarsi allo scoperto e chiedendo le urne anticipate: poteva andare a sbattere e invece ha letteralmente sfondato – come nell’efficace spot elettorale in cui con una ruspa abbatte il muro dell’Hung Parliament.
E la nota positiva è che oltre ai tentativi di fermare la Brexit, votando in massa per i Tories gli elettori britannici hanno rigettato con forza l’islamo-marxismo e l’antisemitismo di cui era portatore il Labour di Corbyn.
Blair: “Labour vergogna, comico sulla Brexit. Rischia di sparire” 18 dicembre 2019
http://blog.ilgiornale.it/cesare/2019/1 ... gQlM9DxDY8 Il risultato elettorale del Partito laburista? “Una vergogna. Abbiamo deluso il nostro Paese”. Le ragioni della peggiore sconfitta della sinistra inglese dal 1935? “Un’indecisione quasi comica sulla Brexit, che ci ha alienato tutte e due le parti del dibattito”, europeisti e antieuropeisti.
E poi ancora, a pesare sul pessimo risultato, è stata l’offerta di un “socialismo quasi rivoluzionario, un mix di politica economica di estrema sinistra, unito a una profonda ostilità verso la politica estera occidentale”. Infine lui, Jeremy Corbyn, visto dagli elettori come un leader “fondamentalmente in contrapposizione con quello che la Gran Bretagna e l’Occidente rappresentano”, sostenuto da un movimento di protesta totalmente incapace di essere votato come “governo credibile”.
Parla così oggi a Londra Tony Blair, il premier di maggior successo della storia del Labour (vincitore di tre elezioni consecutive, al governo dal 1997 al 2007), poi finito nel cono d’ombra del suo stesso partito, i cui vertici si sono spostati più a sinistra. Oggi Blair è in parte rimpianto dagli elettori (poco), in parte ancora odiato (molto) per la decisione di coinvolgere il Regno Unito nella guerra in Iraq, per il suo stile di vita, le amicizie con i ricchi del pianeta e le consulenze milionarie in giro per il mondo, anche a favore di qualche regime non proprio specchiato.
Eppure nessuno meglio di lui, che fu l’uomo della Terza Via europea e seppe trovare un compromesso fra destra e sinistra, fra libero mercato e politiche di solidarietà, può restituirci un’analisi altrettanto lucida e incisiva sulla debacle laburista. Blair arriva al cuore del problema e non è difficile capire perché: conosce bene gli elettori, specie quelli di centro che era riuscito a conquistare riportando il Partito Laburista al governo. Conosce il business e le imprese, con cui aveva rilanciato l’economia negli anni della Cool Britannia. Perciò è certo di quello che ormai sembra chiaro a tutti e che lui aveva largamente anticipato: se non fosse stato per Corbyn, per la sua decisione di accettare l’elezione di Natale, di cadere cioè nella trappola di Boris senza avere una linea chiara sulla Brexit, “avremmo tenuto gran parte dei nostri voti nelle aree laburiste tradizionali”. E se non fosse stato per l’incapacità di Corbyn di affrontare l’antisemitismo nel partito – una circostanza “che ci ha lasciato disgusto” – non ci saremmo “sentiti per la prima volta in conflitto nel votare Labour”.
A proposito del programma laburista alle ultime elezioni – una sfilza di promesse ambiziose e costose, che Corbyn ancora difende – Blair è lapidario: “È stato un urlo contro il sistema ma non è un programma di gioverno” . E ancora: “Qualsiasi pazzo può promettere qualsiasi cosa gratis, ma la gente non si è fatta prendere in giro”.
Cosa accadrà adesso? Corbyn ha detto che si farà da parte con il nuovo anno. Molti gli rimproverano di continuare a logorare il partito senza un’uscita di scena immediata. Il Labour deve scegliere la sua anima. Ma soprattutto – dice Blair – deve rinnovarsi. “O si rinnova, come un concorrente per il potere, serio, progressista e non conservatore. Oppure, se rinuncerà a questa ambizione, sarà sostituito. La scelta è questa: cruda, dura, difficile, ma vera”. “Per conquistare il potere, abbiamo bisogno di autodisciplina, non di autoindulgenza, dobbiamo ascoltare cosa dice davvero la gente, non sentire solo la parte che vogliamo ascoltare noi” . Infine serve creare una nuova agenda politica, al centro della quale deve esserci la “comprensione e mobilitazione dell’industria tecnologica, che è l’equivalente della Rivoluzione industriale del XIX secolo”.
Cosa vuol dire questo? Che “c’è una montagna da scalare” per il Labour, come ha ammesso uno dei candidati alla leadership, Keir Starmer, fin qui ministro ombra per la Brexit e come Blair favorevole a un secondo referendum. Ma il tempo scorre. E Re Boris, con una maggioranza schiacciante e il “governo del popolo”, proverà ora a conquistare per sempre i cuori della working class.