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Gli USA di Biden e la Cina
S'infiamma la tensione al largo di Taiwan: gli Usa inviano la portaerei Roosevelt
New York, 24 gen 11:26 - (Agenzia Nova)
https://www.agenzianova.com/a/600d4cb41 ... -roosevelt
Gli Stati Uniti hanno inviato nel la portaerei Uss Theodore Roosevelt nel Mar Cinese Meridionale dopo che ieri una flotta di 13 aerei militari di Pechino è entrata nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan. Lo rende noto in un comunicato il Comando delle forze Usa per l’Indo-Pacifico, spiegando che il gruppo d’attacco della Roosevelt “è in dispiegamento programmato verso la Settima flotta Usa per assicurare la libertà dei mari” e sta conducendo “operazioni di sicurezza marittima, che includono missioni di volo, esercitazioni navali e addestramento coordinato tra unità di superficie e unità aeree”. Le autorità militari statunitensi non precisano se la mossa sia legata alla dimostrazione di forza della Cina, ma l’invio della portaerei nell’area sembra in ogni caso mandare un implicito messaggio alla Cina a pochi gironi dall’inaugurazione del mandato del nuovo presidente Joe Biden. La Roosevelt, come mostrato dalle immagini satellitari, è già transitata ieri attraverso il Canale di Bashi, tra Taiwan e le Filippine, potenzialmente alla portata dei missili anti-nave cinesi Yj-12, di cui alcuni degli aerei che hanno sorvolato ieri lo spazio aereo di Taiwan sono dotati.
“La pressione militare esercitata dalla Repubblica popolare cinese su Taiwan minaccia la pace regionale e la stabilità”, ha scritto nelle scorse ore il dipartimento di Stato Usa in un comunicato diramato dopo che ieri otto bombardieri e quattro caccia cinesi sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan, un'incursione attentamente "monitorata" dall'aviazione di Taipei. Pechino considera Taiwan parte del proprio territorio e, negli ultimi mesi, ha assunto un atteggiamento sempre più assertivo con le proprie forze aeree e navali. Tuttavia, è la prima volta che all'incursione partecipano bombardieri e un numero così ampio di velivoli militari. “Gli Stati Uniti guardano con preoccupazione ai tentativi in corso del Partito comunista cinese di intimidire i suoi vicini, inclusa Taiwan. Invitiamo Pechino a cessare la sua pressione militare, diplomatica ed economica nei confronti di Taiwan, e a impegnarsi invece in un dialogo serio con i rappresentanti democraticamente eletti di Taiwan”, si legge nel comunicato della diplomazia statunitense.
“Sosteniamo tutti i nostri amici e alleati che portano avanti i valori condivisi di prosperità e sicurezza nella regione dell’Indo-Pacifico e continueremo a favorire una risoluzione pacifica alle questioni dello Stretto, coerente con i desideri e i migliori interessi del popolo taiwanese. Gli Stati Uniti tengono fede ai propri impegni di lunga data e continueranno ad aiutare Taiwan a mantenere una sufficiente capacità di autodifesa. Il nostro impegno verso Taiwan è solido e roccioso, e contribuisce al mantenimento della pace e della stabilità nello Stretto di Taiwan e nella regione”, conclude Washington. (Nys)
Navi USA nello Stretto di Taiwan, “l’ultima mossa disperata di Trump
31 dicembre 2020
https://sicurezzainternazionale.luiss.i ... ata-trump/
Due navi dell’Esercito statunitense, i cacciatorpediniere lanciamissili USS John S. McCain e USS Curtis Wilbur, hanno solcato lo Stretto di Taiwan, il 31 dicembre, attirando critiche da parte della Cina che ha protestato contro quello che è stato il 13esimo attraversamento di tali acque da parte di navi statunitensi nel 2020 e che ha inviato le proprie forze aeree e marittime a seguire e controllare la due imbarcazioni lungo tutto il loro tragitto.
Il quotidiano cinese Global Times ha sottolineato che, nonostante si sia trattato del 13 attraversamento dello Stretto di Taiwan dall’inizio del 2020 da parte di imbarcazioni militari statunitensi, è raro che la Marina di Washington invii formazioni composte da due imbarcazioni in questo tipo di operazione nello Stretto di Taiwan. Secondo esperti citati dalla testata, si è trattato “dell’ultima mossa distruttiva e disperata” dell’attuale amministrazione in carica statunitense guidata dal presidente uscente, Donald Trump, prima della sua conclusione, attesa per il prossimo 20 gennaio. Mentre il passaggio di un’imbarcazione ha spesso avuto un valore simbolico, quello di due navi avrebbe incrementato il livello della provocazione e potrebbe essere un segnale rispetto alle intenzioni di Trump prima che finisca il suo mandato.
Il portavoce del Ministero della Difesa cinese, Wu Qian, ha messo in guardia gli Stati Uniti rispetto alla questione di Taiwan, ribadendo che l’isola rappresenta un interesse centrale per la Cina e che non è loro concesso utilizzare scappatoie a riguardo. Wu ha specificato che le azioni delle navi statunitensi abbiano inviato un segnale erroneo alle forze indipendentiste taiwanesi mettendo gravemente in pericolo la pace e la stabilità dello Stretto di Taiwan. Il portavoce ha infine aggiunto che l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) mantiene sempre alta l’allerta delle proprie forze e che è pronto a rispondere a tutte le minacce e le provocazioni, proteggendo risolutamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale della Cina.
La Marina statunitense ha affermato che si è trattato di un’operazione di routine nel rispetto della legge internazionale e che il transito delle sue navi abbia dimostrato l’impegno di Washington per un Indo-Pacifico libero e aperto. Gli USA hanno quindi dichiarato che il proprio Esercito continuerà a volare e navigare ovunque la legge internazionale lo consenta.
L’ultimo episodio in cui un’imbarcazione militare statunitense aveva attraversato lo Stretto di Taiwan risale allo scorso 19 dicembre, quando il cacciatorpediniere lanciamissili statunitense USS Mustin, che appartiene alla settima flotta pacifica degli USA e ha la propria base in Giappone, aveva attraversato lo Stretto di Taiwan. Il giorno dopo, le stesse acque erano state quindi solcate dalla portaerei cinese Shandong, la più nuova della flotta di Pechino, e da altre 4 navi da guerra dell’EPL, destando preoccupazione da parte delle autorità taiwanesi, che avevano, a loro volta, inviato 6 navi e 8 aerei militari a monitorare gli spostamenti del gruppo di imbarcazioni dell’EPL.
Dall’ascesa dell’attuale leader del governo di Taiwan, Tsai Ing-wen, a capo del Partito Progressista Democratico (PDD), nel 2016, Pechino ha tagliato i ponti con le istituzioni dell’isola in quanto Tsai, rieletta con un’ampia maggioranza alle ultime elezioni sull’isola lo scorso 11 gennaio, ha sempre rifiutato di riconoscere il principio “una sola Cina”. In base a quest’ultimo, Taiwan e la Cina continentale formano un solo Paese di cui l’isola sarebbe una provincia sotto il governo della Repubblica Popolare Cinese (RPC) di Pechino. Tuttavia, a Taipei, è presente un esecutivo autonomo e l’isola si definisce la Repubblica di Cina (ROC), sostenendo di essere un’entità statale separata dalla RPC.
Il governo di Pechino, da parte sua, ha più volte affermato di voler risolvere la questione di Taiwan, che rappresenta la sua maggiore problematica dal punto di vista territoriale e diplomatico e non ha escluso la possibilità di farlo utilizzando la forza. Nel caso in cui ciò avvenisse Taipei è pronta ad adottare il cosiddetto “Concetto di Difesa Generale”, elaborato dall’ammiraglio Lee Hsi-min, una strategia difensiva che si baserebbe sullo sfruttamento di vantaggi asimmetrici nell’evenienza di un’invasione cinese su larga scala e che si fonda su tre pilastri: protezione delle forze armate, battaglie decisive nelle zone costiere e distruzione del nemico al suo approdo nelle spiagge.
Al momento, a livello internazionale, il governo di Taipei è impegnato ad intensificare i propri rapporti con gli USA, suo maggior fornitore d’armi da difesa, l’unico tipo di strumentazione che Washington può commerciare con Taiwan. Dall’inizio del proprio incarico, l’amministrazione Trump ha adottato più iniziative volte ad intensificare i legami tra Washington e Taipei, nonostante, dal primo gennaio 1979, gli USA abbiano riconosciuto ufficialmente il governo della Repubblica Popolare Cinese (RPC) di Pechino, rinunciando a riconoscere la legittimità del governo di Taiwan.
Tra le iniziative più significative, il 16 marzo 2018, gli USA hanno approvato il Taiwan Travel Act che consente e incoraggia visite di alto livello tra Stati Uniti e Taiwan e ,nello stesso anno, hanno aperto a Taipei l’American Institute in Taiwan (AIT), che funge da loro ambasciata de facto sull’isola. Nel 2020, Washington ha poi organizzato due visite di alto livello condotte a Taipei dal sottosegretario per gli Affari Economici degli USA, Keith Krach, e dal segretario alla Salute e ai Servizi Umani degli Stati Uniti, Alex Azar. Oltre a questo, Taipei e Washington starebbero preparando la propria versione delle “Nuove Vie della Seta”, il grande progetto infrastrutturale e d’investimenti lanciato dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013. Lo scorso 30 settembre, le parti hanno annunciato il cosiddetto “Framework to Strengthen Infrastructure Finance and Market Building Cooperation”, una piattaforma per promuovere attraverso i rispettivi settori pubblico e privato progetti infrastrutturali ed energetici nella regione dell’Indo-Pacifico e in America.
Vi racconto la guerra marittima fra Usa e Cina
Giuseppe Gagliano
1 gennaio 2021
https://www.startmag.it/mondo/vi-raccon ... sa-e-cina/
Il rafforzamento della partnership militare con il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e le Filippine deve essere letto proprio come un rinnovato interesse da parte degli Stati Uniti del ruolo fondamentale della potenza navale anti Cina. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano
Partiamo da una premessa che dovrebbe essere del tutto ovvia sotto il profilo strategico. Qualsiasi strategia marittima, sia quella inglese – dal Settecento alla seconda guerra mondiale – sia quella americana, è necessariamente una strategia di lungo periodo e quindi richiede investimenti a lungo termine termine cercando là dove è possibile di anticipare le sfide future. Si pensi a tale proposito alle portaerei nucleari della classe Gerald Ford la cui prima serie dovrebbe essere posta in essere il prossimo anno.
Se gli Stati Uniti hanno deciso di investire cospicue risorse nel contesto della proiezione di potenza marittima questo dipende dalla necessità di consolidare la propria potenza navale, consolidamento possibile sia grazie al potere economico e finanziario di cui dispongono almeno fino ad oggi sia grazie all’innovazione tecnologica (pensiamo per esempio sia al fatto che gli Usa sono l’unica nazione che costruisce catapulte per le portaerei flat deck sia al fatto che con la nuova classe di portaerei Ford la Marina si doterà di catapulte elettromagnetiche che saranno in grado di aumentare di circa un terzo le attuali capacità delle catapulte).
Naturalmente investimenti così cospicui sul fronte delle portaerei non sono certamente casuali poiché queste svolgono un ruolo fondamentale di deterrenza tradizionale – sia nel senso di essere in grado di minacciare un intervento armato in caso di crisi – sia di deterrenza nucleare dal momento che gli aerei che partono dalle portaerei – essendo dotati di armi nucleari seppure a basso potenziale – svolgono un ruolo di deterrenza di grande rilevanza. Insomma la portaaerei consente l’uso di una dissuasione graduale o flessibile.
Ma affinché la potenza navale statunitense si possa effettivamente consolidare – soprattutto nel contesto dell’Indo-Pacifico e quindi in funzione di contenimento anticinese – oggi come ieri (alludiamo alla guerra fredda) vanno rafforzate le infrastrutture militari americane presenti negli snodi strategici chiave a livello globale che consentono di esercitare in modo efficace la sua potenza navale.
Il rafforzamento della partnership militare con il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e le Filippine deve essere letto proprio come un rinnovato interesse da parte americana del ruolo fondamentale della potenza navale.
Ebbene proprio l’insieme di tutte queste ragioni non possono che indurre a definire gli Stati Uniti una vera e propria propria talassocrazia moderna.
Non è un caso d’altra parte che l’amministrazione Obama abbia rivolto la propria attenzione verso l’Asia orientale e meridionale partendo dalla constatazione che proprio in questi contesti geopolitici si giochi il futuro del mondo.
Infatti, sul fronte della competizione economica con la Cina, il Trans-Pacific Partnership (TPP) è stato firmato nel 2016, trattato al quale hanno aderito – tra gli altri – Brunei, Giappone, Malesia, Singapore, Vietnam escludendo tuttavia la Cina. Barack Obama ha esplicitato il suo programma sulla politica estera, denominato The Obama Doctrine, rifiutando l’isolazionismo e sostenendo il multilateralismo.
In altri termini Obama ha perseguito esplicitamente la tradizione del realismo incarnato da Bush “senior” e da Scowcroft: gli interventi militari, troppo spesso sostenuti dal Dipartimento di Stato, dal Pentagono e dai think tank, dovrebbero essere usati solo dove l’America è sotto una minaccia imminente e diretta.
In un contesto in cui i pericoli maggiori sono ora climatici, finanziari o nucleari, spetta agli alleati degli Stati Uniti assumersi la loro parte del fardello comune. Pur concordando sul fatto che il rapporto con la Cina sarà il più critico di tutti, il suo programma politico sottolinea che tutto dipenderà dalla capacità di Pechino di assumersi le proprie responsabilità internazionali in un ambiente pacifico. Se non lo facesse e si lasciasse conquistare dal nazionalismo, l’America dovrà essere risoluta e porre in essere tutte le iniziative volte a rafforzare il proprio multilateralismo in funzione di contenimento anticinese.
È molto probabile quindi che l’attuale presidente gli Stati Uniti Biden porterà avanti una strategia di questo natura.
Cina. Il Libro Bianco prevede l’annessione di Taiwan. Ma gli Usa si mettono di mezzo
Giuseppe Gagliano
31 luglio 2019
https://www.notiziegeopolitiche.net/cin ... -di-mezzo/
Nel programma di politica estera del Libro Bianco, aggiornato con cadenza anche se non regolare, Pechino ha nuovamente sottolineato la necessità che la Repubblica di Cina, cioè Taiwan, ritorni alla Repubblica Popolare Cinese anche attraverso l’uso offensivo dello strumento militare. Ebbene, il sostegno militare che gli Stati Uniti hanno offerto a Taiwan e che è andato via via crescendo, soprattutto grazie all’amministrazione Trump, non fa altro che rendere verosimile da parte della Cina l’impiego di un’offensiva militare volta a riannettere l’isola.
Infatti sia la foto pubblicata da parte dell’Esercito popolare sul suo sito ufficiale del caccia Stealth cinese, noto come J-20, sia il fatto che dopo la pubblicazione del documento strategico della difesa cinese la Settimana Flotta Usa abbia inviato l’incrociatore lanciamissili Uss Antietam per svolgere attività di libera navigazione lungo lo Stretto di Taiwan, dimostrano come l’equilibrio politico-militare Usa e Cina continui a essere precario.
Non pochi analisti militari e di politica internazionale statunitensi ritengono l’obiettivo di annettere Taiwan alla Cina potrebbe essere conseguito su lungo periodo. Al di là del divario evidente tra la marina americana e quella cinese, numerose sono le variabili che potrebbero ostacolare o ritardare il conseguimento di questo obiettivo a cominciare dalla guerra economica con gli Stati Uniti o dalla stabilità o coesione interna del Partito Comunista Cinese. La necessità da parte della Cina di annettere Taiwan nasce da un lato da una politica estera di stampo nazionalista, e l’unificazione rientra nel più ampio progetto cinese di unità nazionale, ma dall’altro lato ha origine da esigenze di politica interna, poiché se questo obiettivo fosse conseguito la autorevolezza e la credibilità dell’attuale leader cinese sarebbero indiscutibili. Non è certo un caso che, fra i principali analisti cinesi, una delle ragioni di conflitto principali a medio lungo termine tra Stati Uniti e Cina riguarderà certamente Taiwan. Come indicato da Manlio Graziano, la ragione principale della volontà annessionistica cinese consiste nella possibilità di privare gli Stati Uniti di una fondamentale portaerei collocata difronte alle proprie coste, e quindi l’annessione di Taiwan consentirebbe alla Cina il controllo del Mar Cinese ed altresì un’adeguata proiezione di potenza verso il Pacifico. Da questo punto di vista Taiwan, come sottolineato da uno dei più noti studiosi di geopolitica, Nicholas Spykman, costituisce la chiave del Mediterraneo asiatico.
Tuttavia non c’è dubbio che il principale ostacolo per raggiungere un traguardo così ambizioso è rappresentato dalla presenza militare americana e nipponica. Uno degli scenari possibili ipotizzati dagli analisti internazionali prevede che in caso di aggressione da parte cinese gli Stati Uniti non si tirerebbero certamente indietro, come dimostra d’altra parte il fatto che nel dicembre del 2017 il presidente americano ha siglato un accordo con Taiwan noto come “National Defense Authorization Act”, il quale prevede mutua assistenza nel contesto del Sea power e come si evince dal fatto che Taipei nel 2018 ha firmato con gli Usa il “Taiwan Travel Act”, che promuove la collaborazione con i funzionari americani di alto livello in ambito sia civile che militare. Più recentemente, nel giugno del 2019, il segretario alla Difesa Patrick Shahanan ha sottolineato che gli Stati Uniti intendono rafforzare il loro sostegno militare a Taiwan con una spesa che si aggirerebbe intorno a due miliardi di dollari, sostegno approvato a luglio. D’altronde, sotto il profilo storico, gli Stati Uniti hanno cominciato a fornire armi a Taiwan già dal 1979 attraverso il “Taiwan Relations Act”, durante l’amministrazione di Jimmy Carter, che esplicitamente prevedeva l’intervento militare americano in caso di minaccia alla sicurezza di Taiwan.
Ebbene, una delle condizioni indispensabili affinché la Cina possa affrontare in modo adeguato sul piano militare gli Stati Uniti nell’eventualità di una offensiva militare ai danni di Taiwan è certamente la trasformazione e la modernizzazione della marina militare. Non a caso nel giro di breve tempo la marina cinese ha sviluppato sia una progettualità militare difensiva che offensiva, che dovrebbe consentirle non solo di tutelare la difesa costiera ma anche di attuare un’adeguata proiezione di potenza negli oceani sulla falsariga di quanto già attuato dalla marina sovietica. Proprio per questo gli investimenti che la Cina sta attuando nella costruzione di portaerei sta a dimostrare la consapevolezza dell’importanza sempre più rilevante che sta acquisendo il potere marittimo,o “sea power”, nella strategia militare cinese. Naturalmente il rafforzamento del dispositivo marittimo consente alla Cina di salvaguardare anche le vie di comunicazione marittima sia a livello commerciale che attraversano l’Africa, l’Oceano indiano, lo stretto di Malacca e naturalmente il Mare Cinese Meridionale, in particolare le isole Spratly, ricche di giacimenti petroliferi, sulle quali la Cina nel giugno del 2015 ha costruito una pista d’atterraggio.
In quest’ottica dobbiamo leggere la strategia marittima cinese volta ad avere infrastrutture militari oltremare come quella di Gibuti in Africa, o infrastrutture portuali come quelle di Gwadar in Pakistan, la quale si trova in una posizione strategica a metà strada tra Medio Oriente, l’Asia centrale e l’Asia del sud, e che proprio per questo costituisce lo snodo fondamentale del China-Pakistan Economic Corridor.
Proprio in questi giorni, e si protrarranno fino al 2 agosto, la Cina sta procedendo con esercitazioni navali nelle acque attorno a Taiwan, sia nord e quindi nello stretto che separa i due paesi, sia a sud-ovest. Nell’area è stato alzato il livello d’allerta, ma è certo che l’iniziativa ha un valore espressamente politico, oltre che dimostrativo.
In altri termini,la strategia della Belt and Road Initiative (Nuova Via della seta) implica da parte cinese un incremento del suo impegno sia nell’Oceano Indiano che nel Pacifico e quindi la modernizzazione della marina militare diventa una condizione fondamentale perché questo ambizioso progetto possa compiersi.
Il "Grande Reset" Usa-Cina: Xi Jinping diffida Biden dal proseguire sulla via di Trump
26 gennaio 2021
https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... -di-trump/
Xi Jinping non ha pronunciato un discorso da “guerra fredda”: ha attaccato il corso dell’amministrazione Trump e intimato a Biden di non proseguire su quella via, ma ha proposto un “grande reset” delle relazioni Usa-Cina, fondato su multilateralismo e coesistenza. E, sentendosi forte (avanti nella ripresa dell’economia e accordo con l’Ue), ha tracciato le sue linee rosse (la non ingerenza) e usato argomenti molto consonanti con quelli cari alle élites globaliste. Il leader cinese sostiene il ritorno, dopo la “parentesi” Trump, a quel mix di multilateralismo e globalizzazione economica che ha fatto le fortune della Cina. Multilateralismo che però per l’Occidente può trasformarsi in un abbraccio mortale con il regime di Pechino
Miele per le orecchie delle élites di Davos e un avvertimento all’amministrazione Biden, appena insediatasi. Questa la cifra dell’intervento, in videoconferenza, del presidente cinese Xi Jinping al World Economic Forum. Riecheggiando il suo intervento del 2017, che pochi giorni prima dell’insediamento del presidente Trump mandò in brodo di giuggiole le cancellierie europee e i progressisti nostrani, ha messo in guardia da una nuova Guerra Fredda e si è – di nuovo – presentato come alfiere della globalizzazione economica. Il duplice messaggio recapitato a Washington è che Pechino è pronta alla de-escalation, alla normalizzazione dei rapporti, e vedremo su quali basi, ma che in caso contrario non cambierà certo la sua rotta sotto la pressione delle critiche occidentali.
Nel fissare i suoi paletti per un ritorno alla normalità (in primis la non ingerenza), il presidente cinese ha parlato da una posizione di forza, che gli deriva da una economia più avanti nella ripresa (nel 2020 la Cina è stata il maggiore beneficiario di investimenti diretti); dall’avere in mano un accordo di principio con l’Unione europea sugli investimenti reciproci, siglato poco prima dell’insediamento di Biden; e dalle divisioni interne al suo principale rivale.
Rivolgendosi evidentemente alla Washington oggi Democratica, ma riferendosi ai passati quattro anni di presidenza Trump, Xi ha esortato ad “abbandonare il pregiudizio ideologico” e una pericolosa “mentalità da Guerra Fredda”. Non devono preoccupare le “differenze” (“ogni Paese è unico per storia, cultura, e sistema sociale” e “nessuno è migliore”, “non esistono due foglie identiche”), “ciò che genera allarme è arroganza, pregiudizio e odio”. “Il confronto ci condurrà in un vicolo cieco”, ha insistito Xi, elencando le politiche che gli Stati Uniti devono evitare: “costruire piccoli circoli” (il riferimento è all’alleanza delle democrazie di cui si parla), “respingere, minacciare o intimidire gli altri”, “imporre il decoupling o sanzioni”, “creare isolamento o alienazione”. “Il forte non dovrebbe bullizzare il debole”, “le decisioni non dovrebbero essere prese mostrando i muscoli o agitando un grosso pugno”. Il che, detto dal leader cinese, fa abbastanza sorridere… Comunque, ha avvertito Xi, queste politiche alimenteranno le divisioni e spingeranno verso il “confronto”. A cui, è sottinteso, la Cina non si sottrarrà.
Quindi, ecco le due parole magiche suggerite all’amministrazione Biden per il “grande reset”: la prima è multilateralismo. È l’architrave di tutto il discorso di Xi, tanto da dargli il titolo (“Let the Torch of Multilateralism Light up Humanity’s Way Forward”), e guarda caso è nella bocca di tutti a Washington come principale linea di rottura di Biden rispetto alla presidenza Trump, fondata sull’odiato “unilateralismo”. Un convinto ritorno al multilateralismo è infatti anche nelle intenzioni dell’amministrazione Biden ed è propedeutico, nelle parole del presidente cinese, al secondo principio chiave suggerito: coesistenza.
Ma su quali basi? Ovviamente, quelle più congeniali a Pechino, sia dal punto di vista economico (globalizzazione) che politico (non ingerenza negli affari interni).
Xi ha esortato ad abbattere le barriere commerciali, a rafforzare le organizzazioni e i consessi, G20 in primis, per la governance economica globale, a “rimanere fedeli al diritto internazionale e alle regole internazionali piuttosto che cercare la supremazia”. Un chiaro avvertimento a Biden, con una sfumatura beffarda: non fare il “suprematista”… Ha promesso di “liberare il potenziale dell’enorme mercato cinese e dell’enorme domanda interna”. Dolce e invitante melodia per i poteri economici in ascolto e per i leader europei, che vi trovano conferme agli impegni presi da Xi nel recente accordo.
La rimarcata centralità, nel discorso del leader cinese, di organizzazioni quali WHO e WTO, dell’Accordo di Parigi e di consessi multilaterali come il G20, suggeriscono anche i temi sui quali Pechino vede la possibilità di una cooperazione win-win con gli Usa: Covid, commercio, clima. Mentre dove ci sono differenze politiche, come sui diritti umani, le situazioni dello Xinjiang e di Hong Kong, o lo status di Taiwan, l’invito è di “non intromettersi negli affari interni degli altri Paesi”. “Antagonismo e confronto, sia esso sotto forma di guerra fredda, guerra calda, guerra commerciale o guerra tecnologica, alla fine danneggerebbero gli interessi di tutti i Paesi, il benessere di tutti”.
Il discorso di Xi si chiude con i toni universalistici e lo slogan irenico tanto caro al leader che da qualche anno sembrano annunciare l’avvento del “secolo cinese”:
“C’è solo un’unica Terra e un unico futuro condiviso per l’umanità… Uniamo le nostre mani e lasciamo che il multilateralismo illumini la nostra strada verso una comunità con un futuro condiviso per l’umanità”.
Un multilateralismo, però, che può trasformarsi per l’Occidente in un abbraccio letale con il regime cinese.
L’obiettivo della leadership di Pechino nell’approcciare l’amministrazione Biden è infatti quello di ripristinare quell’inerzia nell’ordine globale, che prima della presidenza Trump stava garantendo alla Cina di ridurre molto velocemente il gap con l’Occidente – a danno delle classi medie, delle capacità manifatturiere e della stabilità politico-sociale di quest’ultimo – e di lanciare la sua sfida alla leadership Usa. “Coesistenza” significa questo per Pechino: avere la garanzia di poter continuare a lucrare sulle falle e sui bug del sistema e che l’Occidente, Stati Uniti in primis, non oppongano resistenza alla sua ascesa, all’ineluttabilità di quello che viene già definito “secolo cinese”, destinato a dare all’umanità un “futuro condiviso” ma all’insegna dell’egemonia del Dragone.
A questo scopo, la stabilità delle catene di approvigionamento e lo status quo nella globalizzazione economica – la prima messa in crisi dalla pandemia, il secondo dall’amministrazione Trump – restano interessi vitali per Pechino, tanto che Xi esorta a “non usare la pandemia come pretesto per la de-globalizzazione e il decoupling“. Per dedicargli un passaggio così esplicito il decoupling dev’essere temuto dalla leadership cinese come una minaccia concreta alle proprie ambizioni. E quindi, si conferma un’arma con cui l’Occidente può ancora far male, infliggere danni.
Quanto più Pechino riuscirà a tornare allo status quo ante Trump, quindi, tanto più sarà funzionale al suo disegno egemonico.
Quale sarà la risposta della nuova amministrazione Usa?
Come ha fatto notare Gordon Chang, le prime parole del presidente Biden nei confronti di Xi Jinping, poche ore dopo il suo giuramento, sono state un “affettuoso ricordo”, un tono ben lontano da quello usato in campagna elettorale, quando ebbe a definirlo “thug”, un delinquente, per non apparire meno duro del suo avversario agli occhi degli elettori.
“When I was with Xi Jinping – and I was on the Tibetan plateau with him – and he asked me in a private dinner, he and I, and we each had an interpreter, he said, ‘Can you define America for me?’, and I said yes and I meant it. I said I can do it in one word: possibilities. We believe anything is possible if we set our mind to it, unlike any other country in the world”.
Tradotto: tutto è possibile, anche una governance globale condivisa Usa-Cina, se solo lo vogliamo…
Che colga o meno nel segno la nostra interpretazione, come ha chiosato il South China Morning Post, “il riferimento di Biden al leader cinese sotto forma di ricordo, e privo di commenti negativi sui conflitti bilaterali, segna un cambio di tono dopo quattro anni di crescenti tensioni tra l’amministrazione dell’ex presidente Trump e Pechino”.
Dalle prime parole sembra che Biden voglia riservare per sé, nel suo rapporto con Xi Jinping, il ruolo di “poliziotto buono”, lasciando ai suoi collaboratori, dal segretario di Stato in giù, recitare la parte dei “poliziotti cattivi”.
Mentre giurava come 46esimo presidente degli Stati Uniti, il regime di Pechino annunciava sanzioni individuali nei confronti di 28 funzionari dell’amministrazione Trump e loro famigliari, tra cui l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton – non un trumpiano. Non si hanno ancora notizie di contromisure allo studio dell’amministrazione Biden, ma una portavoce del consiglio di sicurezza nazionale ha criticato le sanzioni cinesi come “una mossa controproducente e cinica”.
Poche ore prima, il Dipartimento di Stato, ancora guidato da Pompeo, aveva ufficialmente dichiarato di considerare genocidio e crimini contro l’umanità la repressione condotta dalla Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione e il controllo del Partito Comunista cinese, contro gli uiguri e altre minoranze nello Xinjiang. Una dichiarazione carica di conseguenze, probabilmente costata a Pompeo le sanzioni cinesi, rimaste al momento senza riposta.
A Pechino, però, non dovrebbe essere sfuggito che nella sua audizione di conferma al Senato, il nuovo segretario di Stato Antony Blinken ha detto di condividere la dichiarazione del suo predecessore e che lui stesso l’avrebbe adottata (“questo sarebbe anche il mio giudizio”). Dunque, a rigor di logica, anche lui dovrebbe incorrere nelle stesse sanzioni.
Ma non è l’unica linea di continuità con le politiche dell’amministrazione Trump che Blinken ha tracciato nel corso della sua audizione in Senato.
Blinken ha riconosciuto che l’ex presidente Trump “ha visto giusto nell’adottare un approccio più duro con la Cina”. “Non sono molto d’accordo con il modo in cui ha affrontato la questione in diversi aspetti, ma il principio di base era quello giusto e penso che sia molto utile per la nostra politica estera”, ha aggiunto.
Il nuovo segretario di Stato ha inoltre elogiato il ruolo dell’amministrazione Trump negli “Accordi di Abramo”, con i quali sono stati normalizzati i rapporti di Israele con alcuni importanti Paesi arabi, e nell’accordo tra Serbia e Kosovo. “Penso che ci siano un certo numero di cose, da dove mi sono seduto, che l’amministrazione Trump ha fatto oltre i nostri confini che applaudirei”.
Un riconoscimento che potrebbe sorprendere, se pensate al livello di scontro interno raggiunto nella politica Usa e alle accuse vomitate dai Democratici contro l’amministrazione Trump per qualsiasi cosa facesse. Non era proprio tutto da buttare, dunque. E forse, richiederebbe qualche rivalutazione e approfondimento in più dei nostri cosiddetti “esperti”, negli ultimi quattro anni intenti a fare da megafono acritico alle sirene che da oltreoceano si stracciavano le vesti, sostenendo che fosse tutto sbagliato e in preda al caos.
Ancora più rilevante, per un clintoniano come Blinken, aver riconosciuto che le precedenti strategie ottimistiche nei confronti della Cina erano fallaci.
“C’era un ampio consenso sul fatto che la liberalizzazione economica in Cina avrebbe portato alla liberalizzazione politica – questo non è accaduto. Non c’è dubbio che la Cina pone agli Stati Uniti la sfida più significativa di ogni altra nazione al mondo”.
Per uno della scuola clintoniana, che su quel nesso causale ha basato la sua apertura a Pechino, culminata con l’ingresso nel WTO nel 2001, un’ammissione non da poco.
Blinken ha anche dichiarato di sostenere l’appoggio diplomatico e militare a Taiwan, nel mirino di Pechino, ha messo in dubbio il futuro di Hong Kong come centro finanziario globale, e ha riecheggiato il presidente Trump nel criticare la Cina per aver ingannato il mondo circa l’origine del virus, contribuendo a diffondere il contagio. Ma ha detto di vedere anche aspetti di cooperazione nella relazione con la Cina, sui cambiamenti climatici e altri temi di interesse comune.
Dunque, la domanda ora è: nell’approccio dell’amministrazione Biden verso la Cina dobbiamo aspettarci una continuità, e in che dosi, con l’amministrazione Trump?
Sembrerebbe di sì dalle parole di Blinken, ma la risposta è più complicata.
Bisogna innanzitutto considerare che il nuovo segretario di Stato parlava al Senato, in occasione della sua audizione di conferma, quindi si trattava di non offrire ai Repubblicani pretesti per rallentare e ostacolare la sua nomina. Come si sa, al Congresso esiste un consenso bipartisan per un approccio più duro nei confronti di Pechino e Blinken non è uno sprovveduto, si rende conto che in ogni caso le politiche della precedente amministrazione rappresentano anche una opportunità, una leva negoziale per la nuova. Se Pechino vuole una de-escalation, un reset nelle sue relazioni con gli Usa, qualcosa dovrà concedere.
Nell’elaborare la sua strategia verso la Cina, l’amministrazione Biden dovrà tenere conto di due dati politici che al momento non appaiono reversibili. Come detto, al Congresso esiste un consenso bipartisan per la linea dura. E non solo sui diritti umani, ma anche nella politica commerciale e nella difesa.
Un consenso che rispecchia – e questo è il secondo dato – un sentiment anti-cinese molto forte, forse maggioritario nel Paese, a cui il presidente Trump ha dato pieno sfogo e rappresentanza politica. E che quindi non è destinato a rientrare nei prossimi anni.
Dunque, questo fronte non potrà essere lasciato scoperto dall’amministrazione Biden. Un semplice ritorno al passato con Pechino, come se la presidenza Trump non fosse mai esistita, è impensabile.
Non è detto però che ciò si traduca nella formalizzazione di una nuova “Guerra Fredda”, verso cui stava andando la precedente amministrazione. Con i media a favore e il pieno controllo della narrazione, la contrapposizione potrebbe restare delimitata nell’ambito dei diritti umani. Spunterà fuori ogni tanto qualche rapporto sugli uiguri o su Hong Kong e fioccherà qualche sanzione individuale. Solletico, mentre in altri campi il confronto potrebbe lasciare posto alla competizione e alla cooperazione.
Per usare le parole di Blinken: “Ci sono crescenti aspetti antagonistici nel rapporto [con la Cina], alcuni certamente competitivi e altri ancora cooperativi, quando è nel nostro reciproco interesse”.
Ci sono almeno tre motivi per cui, al di là delle intenzioni, la strategia dell’amministrazione Biden con la Cina può fallire, facendo scivolare le relazioni su una inerzia simile a quella pre-Trump, favorevole a Pechino.
Primo, il feticcio del multilateralismo, che già in passato si è spesso rivelato fine a se stesso, non un mezzo, e che la leadership cinese ha dimostrato di saper giocare a suo totale vantaggio, acquisendo un’influenza sempre maggiore nelle organizzazioni internazionali; muovendosi abilmente tra le pieghe e le imperfezioni di regole e accordi; guadagnando tempo con una strategia negoziale simile a una “tela di Penelope”.
Secondo, l’Europa, e in particolare la Germania, anello debole. Uno dei principali obiettivi dichiarati dell’amministrazione Biden è recuperare il rapporto con gli alleati europei, per costituire un fronte compatto che possa negoziare e competere più efficacemente con la Cina. Ottimo proposito. Peccato che il Vecchio Continente sia affamato di investimenti e l’economia tedesca troppo esposta alla Cina.
Biden chiederà all’Ue, e in particolare a Berlino, di superare il suo approccio mercantile alle relazioni con Pechino. Ma con il CAI questo approccio è stato appena ribadito. Mentre l’amministrazione Trump stava ponendo i tedeschi davanti ad un bivio (o noi o loro), il ritorno ad un approccio amichevole e paziente rischia di convincerli di poter continuare a “scroccare” la protezione Usa senza rinunciare alla loro proiezione strategica a oriente.
Insomma, i cinesi possono trascinare i negoziati per vent’anni e nel frattempo dividere il fronte, come hanno già dimostrato di saper fare.
Terzo, l’influenza globale degli Stati Uniti è direttamente proporzionale alla loro potenza economica e militare. Ma purtroppo, le politiche dei Democratici non sono più quelle di Clinton, che arrivava dopo Reagan. Le loro ricette economiche e sociali, influenzate dalla identity politics e dall’ideologia dei cambiamenti climatici, rischiano di deprimere l’economia e appesantire il debito federale, minando dall’interno la loro leadership.
Il tratto “filo-cinese” dell’amministrazione Biden, volente o nolente il ritorno alla politica dell’engagement che aveva contraddistinto soprattutto il primo mandato di Obama, potrebbe quindi restare sotto traccia, nascosto dietro una narrazione – per convenienze interne e complicità dei media – ostile a Pechino.
Ma dietro di essa, alla prova dei fatti l’impostazione dell’amministrazione Trump potrebbe venire capovolta: dal confronto alla coesistenza con la Cina (che è bene ricordarlo, dopo Kennedy i Democratici avevano sposato anche con l’Urss) e, al contrario, dal contenimento al confronto con la Russia.
Biden Secretary of State Pick Caught on Hunter’s Laptop, Linked To Chinese Funding
John B. Wells News
PATRICK HOWLEY
January 26, 2021
https://johnbwellsnews.com/biden-secret ... e-funding/
Tony Blinken, the Biden administration’s nominee for Secretary of State, managed a Joe Biden project that received millions of anonymous Chinese donor dollars. Blinken appeared a handful of times in emails found on Hunter Biden’s laptop agreeing to advise Hunter Biden when Hunter worked at the scandal-plagued firm Rosemont Seneca Partners. The Obama State Department set up a meeting between Hunter and Blinken which was postponed, and the two met two months later in 2015.
Hunter Biden coordinated introductions between Blinken and his associates, and Blinken was named in an email in connection to a shady prospective deal involving the federal government and Amtrak, a company that previously had Hunter Biden on its board. NATIONAL FILE, which obtained most of the contents of Hunter’s laptop, features the most relevant Tony Blinken-Hunter Biden emails below.
Will these issues complicate Blinken’s bid to become Joe Biden’s Secretary of State? Blinken sat for his confirmation hearing, where he counted neocon support including from Lindsey Graham. But Blinken has yet to be confirmed by the Senate. Blinken’s nomination heads to the Senate Foreign Relations Committee Monday with a confirmation vote this week. Blinken’s link to Biden’s China dealings is especially concerning.
Blinken served as managing director of the Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement, founded in 2018 at the University of Pennsylvania by Joe Biden ahead of his presidential run. National Legal and Policy Center (NLPC) submitted a complaint obtained by NATIONAL FILE highlighting the organization’s China funding.
“NLPC filed a major complaint with the Department of Education earlier this year demanding that the University of Pennsylvania and its Penn Biden Center disclose the identity of $22 million in anonymous Chinese donations since 2017, including a single eye-popping donation of $14.5 million given on May 29, 2018, shortly after the opening of the Biden Center in Washington, DC,” NLPC stated.
“If Joe Biden and Tony Blinken don’t explain their cozy relationship with Communist China through the Biden Center, any FBI background investigation and Senate confirmation hearing must get to the bottom of this secret money connection,” NLPC Chairman Peter Flaherty stated.
“Not surprisingly, the Penn Biden Center has yet to criticize Communist China for its pandemic coverup for the coronavirus, co-hosting Penn’s China Research Symposium earlier this year where the keynote speaker was China’s top diplomat in New York. Yet, it has no qualms publicly attacking NATO allies Hungary and Poland for taking strong efforts to control the spread of the virus as being undemocratic even though US governors have exercised similar emergency powers,” NLPC counsel Paul Kamenar stated.
Hunter Biden Received An Email About An Amtrak Deal In 2017 That Named Blinken
Blinken wrote to Hunter agreeing to a meeting with a Hunter associate, October 3, 2012
November 2012, Hunter tried to set up a meeting for his associate with Blinken
Meeting in May 2015: The Obama State Department actually SETS UP the meeting for Hunter with Blinken at the State Department. This meeting reportedly did not occur supposedly due to Beau Biden’s death, even though Beau died three days after the meeting was scheduled, but Hunter met with Blinken in July 2015.
Tradotto con http://www.DeepL.com/Translator (versione gratuita)
La scelta di Biden come Segretario di Stato è stata catturata sul portatile di Hunter, collegato a finanziamenti cinesi
John B. Wells News
PATRICK HOWLEY
26 gennaio 2021
https://johnbwellsnews.com/biden-secret ... e-funding/
Tony Blinken, il candidato a Segretario di Stato dell'amministrazione Biden, ha gestito un progetto di Joe Biden che ha ricevuto milioni di dollari da donatori cinesi anonimi. Blinken è apparso una manciata di volte nelle e-mail trovate sul portatile di Hunter Biden, accettando di consigliare Hunter Biden quando Hunter lavorava presso la società scandalistica Rosemont Seneca Partners. Il Dipartimento di Stato di Obama ha organizzato un incontro tra Hunter e Blinken che è stato rinviato, e i due si sono incontrati due mesi dopo nel 2015.
Hunter Biden ha coordinato le presentazioni tra Blinken e i suoi associati, e Blinken è stato nominato in una e-mail in relazione a un losco accordo prospettico che coinvolge il governo federale e Amtrak, una società che in precedenza aveva Hunter Biden nel suo consiglio. NATIONAL FILE, che ha ottenuto la maggior parte del contenuto del portatile di Hunter, presenta le email più rilevanti di Tony Blinken-Hunter Biden qui sotto.
Questi problemi complicheranno l'offerta di Blinken di diventare Segretario di Stato di Joe Biden? Blinken si è seduto per la sua udienza di conferma, dove ha contato il sostegno dei neocon, compreso quello di Lindsey Graham. Ma Blinken deve ancora essere confermato dal Senato. La nomina di Blinken si dirige verso il Comitato per le Relazioni Estere del Senato lunedì con un voto di conferma questa settimana. Il legame di Blinken con i rapporti con la Cina di Biden è particolarmente preoccupante.
Blinken è stato amministratore delegato del Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement, fondato nel 2018 all'Università della Pennsylvania da Joe Biden prima della sua corsa presidenziale. Il National Legal and Policy Center (NLPC) ha presentato una denuncia ottenuta da NATIONAL FILE evidenziando i finanziamenti alla Cina dell'organizzazione.
"NLPC ha presentato un'importante denuncia al Dipartimento dell'Istruzione all'inizio di quest'anno, chiedendo che l'Università della Pennsylvania e il suo Penn Biden Center rivelino l'identità di 22 milioni di dollari in donazioni cinesi anonime dal 2017, compresa una singola donazione a sorpresa di 14,5 milioni di dollari data il 29 maggio 2018, poco dopo l'apertura del Biden Center a Washington, DC", ha dichiarato NLPC.
"Se Joe Biden e Tony Blinken non spiegano il loro rapporto accogliente con la Cina comunista attraverso il Biden Center, qualsiasi indagine di fondo dell'FBI e l'udienza di conferma del Senato devono andare in fondo a questa connessione segreta di denaro", ha dichiarato il presidente della NLPC Peter Flaherty.
"Non sorprende che il Penn Biden Center non abbia ancora criticato la Cina comunista per la sua copertura della pandemia del coronavirus, ospitando all'inizio di quest'anno il China Research Symposium della Penn, dove l'oratore principale era il più alto diplomatico della Cina a New York. Eppure, non si fa scrupoli ad attaccare pubblicamente gli alleati della NATO, Ungheria e Polonia, per aver preso forti sforzi per controllare la diffusione del virus, come se fosse antidemocratico, anche se i governatori degli Stati Uniti hanno esercitato simili poteri di emergenza", ha dichiarato il consulente NLPC Paul Kamenar.
Hunter Biden ha ricevuto una e-mail su un affare Amtrak nel 2017 che nominava Blinken
Blinken ha scritto a Hunter accettando un incontro con un socio di Hunter, 3 ottobre 2012
Novembre 2012, Hunter ha cercato di organizzare un incontro per il suo socio con Blinken
Incontro nel maggio 2015: Il Dipartimento di Stato di Obama ha effettivamente organizzato l'incontro di Hunter con Blinken al Dipartimento di Stato. Questo incontro non si è verificato presumibilmente a causa della morte di Beau Biden, anche se Beau è morto tre giorni dopo che l'incontro era stato programmato, ma Hunter ha incontrato Blinken nel luglio 2015.
La Cina avverte Biden su Tibet e Hong Kong: "Ci sono linee rosse che non vanno superate"
Gaia Cesare
03/02/2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1612336380
Pechino: ora cooperazione. Washington: ipotesi Emanuel nuovo ambasciatore
«Coesistenza pacifica», «cooperazione vantaggiosa per entrambi», «senza conflitto, senza scontro», ma con il «rispetto reciproco».
Per la prima volta dall'insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca il 20 gennaio, Pechino dice la sua sulle future relazioni con gli Stati Uniti. Lo fa tramite Yang Jiechi, componente dell'Ufficio politico del Partito comunista cinese e direttore dell'Ufficio della Commissione Esteri del Comitato centrale del Pcc, fino a qui l'esponente di maggior spicco a trattare il tema del rapporto con Washington, finito sull'orlo di una nuova Guerra Fredda anche a causa del coronavirus, che l'ex presidente Usa Donald Trump ha sempre definito il «virus cinese». I toni del rappresentante di Pechino suonano all'apparenza concilianti, anche se critici sul passato, come si addice a una nuova ripartenza: «Speriamo che gli Usa superino la vecchia mentalità del gioco a somma zero, della rivalità tra grandi potenze e lavorino con la Cina per mantenere le relazioni sul giusto binario», spiega Yang Yechi.
Ma se Pechino si mostra fiduciosa e sottolinea il «momento cruciale» per ricostruire i rapporti e «cooperare» dopo le «politiche sbagliate» dell'era di Donald Trump, le premesse di un futuro scontro ci sono tutte. Tramite il suo rappresentante, la Cina mette subito in chiaro che ci sono alcune «linee rosse» che non dovranno e non potranno essere superate. Quei «confini» da non oltrepassare hanno un nome, anzi tre: Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Ma hanno soprattutto un significato. La Cina non intende accettare lezioni sui diritti umani nell'ex colonia britannica, dove un'onda democratica spinge per maggiori libertà e meno repressione. Pechino vuole continuare a governare con il pugno di ferro in Tibet come fa da 50 anni e non vuole interferenze nella provincia autonoma dello Xinjiang dove secondo l'ex segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, contro la minoranza musulmana degli uiguri è in corso «un genocidio». «Gli Stati Uniti devono smettere di interferire su Hong Kong, il Tibet, lo Xinjiang e su altre questioni che riguardano la sovranità e l'integrità territoriale della Cina - ha insistito Yang Jiechi - e smettere di contenere il nostro sviluppo intromettendosi negli affari interni». Solo così le relazioni Stati Uniti-Cina potranno muoversi lungo un «prevedibile e costruttivo sentiero di sviluppo». Senza dimenticare lo scontro commerciale e la guerra delle spie: basta «tormentare gli studenti cinesi, limitare i media cinesi, chiudere gli Istituti Confucio e soffocare le aziende cinesi».
Serviranno questi proclami a migliorare il rapporto con gli Stati Uniti? Il neopresidente Joe Biden non sembra voler ammorbidire la linea dura del suo predecessore né in campo commerciale né a livello politico, in nome della difesa dei principi democratici e dei diritti umani. Presto dovrà nominare il nuovo ambasciatore statunitense in Cina. Si fa il nome di Rahm Emanuel, ex sindaco di Chicago ed ex capo di Gabinetto di Barack Obama. Di lui si sa che è un combattente dalla lingua affilata, avvezzo allo scontro con i democratici progressisti. Potrebbe essere il perfetto profilo per Pechino.