27) vedasi anche capitoli 2 - 6 e 12
La politica di Joe Biden Presidente Le prime scelte di Biden sanno di nostalgia: verso un insostenibile ritorno al passato con Iran e Cina - Atlantico Quotidiano
24 novembre 2020
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... an-e-cina/Nelle stesse ore in cui Joe Biden stava formando la sua squadra di politica estera e sicurezza nazionale, l’amministrazione Trump si sforzava di consolidare i risultati raggiunti in Medio Oriente e di blindare il nuovo corso suggellato con gli Accordi di Abramo.
Secondo i media israeliani, infatti, il primo ministro Netanyahu, insieme al capo del Mossad Yossi Cohen, si sarebbe segretamente recato a Neom, in Arabia Saudita, per incontrare il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman e il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Nessun israeliano presente, hanno negato le autorità saudite, mentre da parte israeliana nessuna conferma ufficiale, ma nemmeno smentite. Il che, visto che media autorevoli confermano lo storico incontro, il primo tra il premier israeliano e il principe saudita, vorrebbe dire che la notizia è stata lasciata circolare – e difficilmente senza l’assenso di Riad.
Scopo dell’incontro? Quasi certamente quello di mettere a punto una strategia sul dossier nucleare iraniano, che preoccupa sia Israele che l’Arabia Saudita. E preoccupa ancor di più alla luce del probabile imminente ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca. Tra i primi passi della sua amministrazione, infatti, quasi certamente ci sarebbe il ritorno degli Stati Uniti nel Jcpoa, l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano fortemente voluto dall’allora presidente Obama, pieno di falle che Teheran ha saputo sfruttare. Il ministro degli esteri iraniano Zarif ha assicurato giorni fa che l’Iran è pronto a tornare a rispettare pienamente l’accordo (che in realtà, come vedremo, non ha mai rispettato), senza bisogno di riaprire i negoziati, se gli Stati Uniti faranno altrettanto, se cioè verranno rimosse le sanzioni ripristinate dall’amministrazione Trump. Un passo che il team Biden sembra propenso a compiere (anche per le pressioni del partito e degli alleati europei) presumibilmente subito dopo le elezioni presidenziali iraniane del giugno 2021.
Non è un caso che in questi giorni, immediatamente successivi alla proclamazione – per ora solo mediatica – di Biden presidente-eletto, sia dagli israeliani che dai sauditi siano giunti messaggi espliciti della loro massima e comune determinazione a impedire che l’Iran entri in possesso dell’arma atomica. L’incontro di Neom sembra l’ostentazione di un fronte unito, di una saldatura di interessi: la nuova amministrazione Usa dovrà tener conto della sicurezza di Israele e Arabia Saudita se non vuole innescare una corsa al nucleare nella regione. In ballo, tanto per essere chiari, c’è l’atomica saudita.
Una seconda questione al centro dell’incontro di Neom, strettamente connessa alla prima, è la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Arabia Saudita, con il tentativo di Pompeo di convincere Riad ad unirsi agli Accordi di Abramo già conclusi tra Israele e altri Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti e Bahrein) e musulmani (Sudan), prima dell’insediamento di Biden, per blindare, o almeno rendere meno reversibile possibile il nuovo corso che l’amministrazione Trump ha impresso alla politica mediorientale Usa, dall’Iran alla questione palestinese. È evidente che quegli accordi non sarebbero mai stati conclusi senza il via libera di Riad, ma è altrettanto chiaro che i sauditi vedono la loro firma a conclusione e coronamento del processo, non “tra gli altri”. Ora, però, il tempo stringe.
Se Biden, quando entrasse alla Casa Bianca, si ritrovasse con una serie di accordi storici, quasi un sistema di alleanze, che vede Israele insieme ai Paesi arabi del Golfo, sarebbe per lui ben più difficile e costoso tornare alla politica filo-iraniana delle amministrazioni Obama.
Ricordiamo, infatti, che Obama aveva puntato sull’islamismo sciita (Iran) e sunnita (Fratellanza Musulmana) come fattore di stabilità del Medio Oriente, contro le monarchie e i regimi autoritari del mondo arabo (dalla Libia alla Siria passando per l’Egitto) e mettendo da parte alleati storici come Israele e Arabia Saudita. Una scelta che si è rivelata fallimentare e noi italiani ne siamo rimasti particolarmente scottati. A Gerusalemme e a Riad temono una riedizione di quella politica e i nomi della squadra di politica estera e di sicurezza nazionale appena ufficializzati da Biden rafforzano i loro timori.
La scelta di Antony Blinken come segretario di stato e di Jake Sullivan come consigliere per la sicurezza nazionale riportano proprio a quella stagione.
Sullivan è succeduto a Blinken, nel 2013, come consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora vicepresidente Biden, dopo essere stato vice capo dello staff dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton, ed è stato tra gli uomini chiave dell’accordo sul programma nucleare iraniano.
Blinken è stato vice segretario di Stato dal 2015 al 2017, vice consigliere per la sicurezza nazionale dal 2013 al 2015 e consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Biden dal 2009 al 2013. Ed è uno dei principali sostenitori del ritorno degli Stati Uniti nel Jcpoa.
Biden non ha nascosto di essere pronto a tornare nell’accordo, se l’Iran tornasse a rispettarlo, cosa che Zarif si è già impegnato a fare. L’intenzione, poi, sarebbe quella di riaprire i negoziati per procedere ad una sorta di Jcpoa II, come ha spiegato Sullivan, per estendere e rafforzare i termini del Jcpoa del 2015. Ma Teheran ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di riaprire i negoziati, tanto che l’impegno assunto da Zarif è di tornare a rispettare l’accordo automaticamente dopo il rientro degli Usa e punto.
Ma in questi quattro anni molte cose sono cambiate. L’accordo ha mostrato falle ormai indiscutibili. Per anni, i fautori del Jcpoa hanno negato che l’Iran stava violando e aggirando limiti e divieti. Ma questa posizione è diventata ormai insostenibile dopo che nel 2018 l’intelligence israeliana ha ottenuto migliaia di documenti ufficiali del regime di Teheran sul suo programma nucleare militare. Documenti che provano come il programma fosse molto più avanzato di quanto l’Iran avesse ammesso, come avesse mentito all’Aiea e alla comunità internazionale sul suo programma, e come il regime avesse intrapreso azioni per ingannare gli ispettori dell’Aiea anche durante l’attuazione dell’accordo. E indicano inoltre che alcune attività legate al programma segreto di armi nucleari erano ancora in corso e alcuni siti nucleari segreti sono stati distrutti prima che potessero essere ispezionati dall’Aiea.
Se l’amministrazione Biden dovesse rientrare nell’accordo, quindi revocare le sanzioni reintrodotte da Trump e la sua strategia di “massima pressione”, ciò sarebbe interpretato come una vittoria a Teheran, e dagli altri Paesi della regione come una ricompensa nonostante le sue attività aggressive e destabilizzanti, che probabilmente gli iraniani si sentirebbero incoraggiati a intensificare ed ampliare.
Anche nei confronti della Cina, i nomi scelti da Biden suggeriscono un ritorno al passato. Un approccio multilaterale, riallacciando i rapporti con i partner europei e asiatici, per indurre Pechino ad abbandonare le politiche commerciali scorrette, ma nessuna guerra dei dazi o nuova “Guerra Fredda”.
Ad un evento della Camera di Commercio, Blinken ha detto di ritenere un “totale decoupling” dall’economia cinese “irrealistico e in definitiva contro-producente”, “sarebbe un errore”.
Nel 2015, disse di apprezzare “gli ambiziosi piani della Cina per promuovere la connettività asiatica attraverso rotte terrestri e marittime. Ha impegnato decine di miliardi di dollari nella costruzione di strade e ferrovie per collegare meglio le sue fabbriche e i suoi mercati in Asia e in Europa. E noi sosteniamo questi sforzi per collegare la regione, ma sollecitiamo anche che promuovano il commercio in tutte le direzioni e rispettino le norme internazionali. Ma non vediamo il coinvolgimento della Cina in Asia centrale come un gioco a somma zero”. Peccato che, oggi è più evidente che mai, Xi Jinping non vuole per la Cina un ruolo complementare, cooperativo, nell’ordine liberale guidato dagli Usa, vuole sfidare quell’ordine e la sua leadership.
Ma cosa dovrebbe far pensare che l’approccio che non ha funzionato durante gli otto anni di Obama, che ha provocato disastri in Medio Oriente e fatto avanzare ovunque i nemici e i rivali dell’America, dalla Russia alla Cina, passando per l’Iran, possa funzionare oggi? A meno che, gli stessi interpreti non siano pronti ad una profonda autocritica di quegli anni, ma non ci scommetteremmo.
Insomma, il mood prevalente nelle prime scelte di Biden è la nostalgia: da Blinken a Sullivan, da John Kerry inviato speciale per il clima a Janet Yellen al Tesoro, si tratta di figure in netta continuità con le presidenze Obama, che indicano la volontà di Biden di riprendere da “dove ci eravamo lasciati”.
I Democratici – l’ala moderata del partito non meno di quella radicale – sembrano ossessionati dal ripristinare interamente la legacy di Obama e cancellare la presidenza Trump come se non fosse mai esistita, come dimenticare un brutto incubo. A cominciare dal ritorno nell’accordo di Parigi sul clima e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per proseguire con Medio Oriente e Cina, la volontà sembra essere quella di un totale reset della politica estera Usa, ribaltando tutte le politiche dell’amministrazione Trump, in tutte le aree e su tutti i dossier.
Rischiano però di sottovalutare il fatto che proprio quel passato e quelle politiche a cui vogliono rapidamente tornare contenevano in sé tutti gli elementi che hanno portato alla vittoria di Trump nel 2016.
Quello che vediamo arrivare con Biden è il tradizionale approccio dei Democratici alla politica internazionale, fatto di fede cieca nel multilateralismo e di interventismo liberal, spesso naïf, inconcludente e irresponsabile, che potrebbe andare a sbattere contro un mondo profondamente trasformato, che non sembra più un ambiente ideale per il multilateralismo e la cooperazione.
Il rischio è che Biden e i Democratici trascorrano tutti i prossimi quattro anni a cercare di riportare indietro le lancette dell’orologio ad un sistema internazionale che non c’è più.
Cosa comporterà il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi
Andrea Barolini
17.11.2020
https://valori.it/rientro-stati-uniti-a ... di-parigi/ «Oggi l’amministrazione Trump ha ufficialmente abbandonato l’Accordo di Parigi sul clima. Tra esattamente 77 giorni, l’amministrazione Biden vi rientrerà». Era il 4 novembre scorso quando il futuro presidente democratico degli Stati Uniti rispondeva alla decisione del miliardario americano che per quattro anni ha fatto del proprio “climatoscetticismo” una bandiera. Ora che l’ex vice-presidente di Barack Obama ha vinto le elezioni e, salvo clamorose sorprese, manterrà la propria parola. Ma cosa comporterà, concretamente, il rientro degli Usa nell’Accordo? E come funzionerà, tecnicamente?
Agli Stati Uniti bastano 30 giorni per rientrare nell’Accordo di Parigi
La prima risposta è strettamente politica. Decidere di rientrare nell’Accordo rappresenta una scelta certamente di grande importanza simbolica. È un segnale al mondo intero. Soprattutto a quelle nazioni che, benché non abbiano abbandonato il testo scritto durante la Cop 21 del 2015, hanno scelto negli anni la strada del disimpegno o dell’ambiguità.
Dal punto di vista tecnico, poi, la questione si dovrebbe risolvere in poche settimane. Mentre, infatti, per completare la procedura di uscita ci sono voluti anni, per il rientro basterà una comunicazione ufficiale da parte di Joe Biden all’UNFCCC (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). Alla quale seguirà un’attesa di soli 30 giorni.
Un anno cruciale in vista della Cop 26 di Glasgow nel 2021
A quel punto le delegazioni americane potranno tornare a partecipare attivamente alle sessioni di negoziati climatici, in vista della Cop 26, la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima che si terrà a Glasgow nel novembre del 2021. Nel corso delle ultime Cop, infatti, gli inviati ufficiali del governo americano non hanno di certo brillato dal punto di vista dello sforzo e dell’ambizione. Il loro scarso impegno, però, è stato almeno in parte compensato “dal basso”.
Centinaia di città, stati federali, università, imprese, associazioni si sono infatti organizzati, sin dall’annuncio della volontà di uscire dall’Accordo di Parigi. Annuncio arrivato nel corso di una conferenza stampa tenuta da Trump nel giugno del 2017. Fu così creato il movimento “We are still in” (Noi siamo ancora dentro), la cui spinta nel corso dei negoziati internazionali si è fatta sentire. Ma che, soprattutto, ha consentito agli Stati Uniti di proseguire la strada della transizione ecologica. In barba alle politiche dell’amministrazione di Washington.
La risposta di We are still in a Donald Trump
Al di là dei formalismi, infatti, a contare è, e sarà, la sostanza. Ovvero, da un lato, in quali “condizioni” arrivano gli Stati Uniti al rientro nell’Accordo. E, dall’altro, se il nuovo presidente manterrà le promesse avanzate in campagna elettorale in materia di lotta ai cambiamenti climatici e di tutela dell’ambiente.
Gli Stati Uniti: meno indietro del previsto dopo gli anni di Donald Trump
Sul primo punto, fortunatamente, è lecito sorprendersi: gli Usa giungono al termine del quadriennio di Donald Trump meno disastrati di quanto si pensi. Certo, il presidente repubblicano ha abrogato leggi, indebolito normative, sostenuto i petrolieri, concesso permessi per nuove trivellazioni, tentato di rilanciare la filiera del carbone. Ma il cambiamento appare ormai ineluttabile.
L’Energy Information Administration (EIA) ha spiegato che il comparto energetico dovrebbe registrare un calo delle emissioni di CO2 del 10 % nel 2020. Una contrazione legata certamente alla crisi del coronavirus. Ma è anche vero che, rispetto al picco del 2007, il calo complessivo è stato del 23% (e del 14% se ci si ferma al 2019). Le fonti rinnovabili, d’altra parte, ormai valgono tanto quanto il carbone in termini di produzione di energia elettrica.
Negli ultimi dieci anni, in particolare, l’eolico ha triplicato la propria produzione (all’8,5% del mix energetico). Mentre il solare l’ha perfino quintuplicata in soli cinque anni (ed è al 2,4%). L’idroelettrico, infine, rappresenta il 7,5% del totale. A livello industriale, inoltre, la società Tesla è ormai dominatrice incontrastata del settore delle auto elettriche. La sua quotazione in Borsa è superiore ai 400 miliardi di dollari. Nove volte di più rispetto al colosso General Motors. Tutto ciò, però, non basterà. A Joe Biden l’onere di dimostrare che gli Usa rientreranno nell’Accordo di Parigi non solo sulla carta.
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Parliamo dei rapporti tra Joe Biden e i palestinesi
Franco Londei·Medio Oriente·
19 Novembre 2020·
https://www.francolondei.it/parliamo-de ... lestinesi/Uno dei mantra più ricorrenti tra i sostenitori dell’ex Presidente americano, Donald Trump, è quello che vorrebbe il Presidente eletto, Joe Biden, essere “amico dei palestinesi” e quindi pronto a cancellare tutti gli innegabili vantaggi che la politica di Trump ha portato a Israele, tra i quali un isolamento di fatto dei palestinesi.
Diciamo subito che Joe Biden non è affatto amico dei palestinesi, al massimo è un sostenitore della formula a due stati così come lo sono io e tanti altri amici di Israele.
Ci sono delle cose che ruotano attorno al mondo palestinese e che stanno accadendo in queste ore alle quali dovremmo prestare attenzione prima di pronunciarci “sull’amore di Biden per i palestinesi”.
Per esempio, a Ramallah hanno deciso di far tornare i loro ambasciatori negli Emirati Arabi Uniti e in Bahrain dopo che a seguito del riconoscimento di Israele e conseguente apertura dei rapporti da parte dei due stati arabi, avevano deciso di ritirarli in tutta fretta definendo il riconoscimento dello Stato Ebraico “una pugnalata alle spalle” nei confronti del “popolo palestinese”.
Cosa è cambiato per far decidere all’Autorità Palestinese che EAU e Bahrain non erano più traditori nei confronti dei palestinesi? È cambiato che a Ramallah non hanno trovato la sponda che cercavano in Iran e Turchia, presi dai loro problemi, isolati dagli arabi e dalla Lega Araba mentre da Washington arrivano diverse notizie tra le quali quella che vorrebbe la nuova Amministrazione essere disposta a riaprire un canale di finanziamento alla UNRWA e alla Autorità Palestinese a condizione che vengano immediatamente interrotti i vitalizi alle famiglie dei terroristi che si sono macchiati di crimini contro Israele e gli israeliani, nonché agli stessi terroristi.
A confermarlo alla radio israeliana non è uno qualsiasi ma Hussein al-Sheikh, cioè uno dei più importanti dirigenti della Autorità Palestinese, il quale ha annunciato anche la ripresa dei rapporti con Israele, da sei mesi ridotti al lumicino.
Sempre Hussein al-Sheikh ha detto che l’Autorità Palestinese ha chiesto alla nuova amministrazione americana di spostare l’ambasciata americana di nuovo a Tel Aviv ma su questo punto c’è un ostacolo non da poco chiamato “Congresso Americano” il quale nel 1995 ha deliberato che Gerusalemme doveva essere la capitale di Israele, delibera mai messa in pratica sino all’arrivo di Trump. Ora, riportare l’ambasciata americana a Tel Aviv, ammesso che lo si voglia fare, andrebbe quindi contro una decisione del Congresso. Tornare indietro è a questo punto impossibile.
La sensazione è che nei pre-colloqui tra nuova Amministrazione americana e palestinesi, tutto questo sia stato spiegato con chiarezza e che quindi se i palestinesi hanno intenzione di tornare ad avere una pur flebile voce devono concedere qualcosa.
Si spiega così il riavvicinamento dei palestinesi ai paesi arabi del Golfo e a Israele, una spiegazione che quindi smentisce le voci che vorrebbero la nuova Amministrazione americana vicina ai palestinesi e decisa a cancellare quanto fatto da Donald Trump.
Sul voto degli ebrei americani
Davide Cavaliere
10 novembre 2020
https://www.corriereisraelitico.it/sul- ... americani/Gli ebrei rappresentano il due percento della popolazione americana, sono poco meno di cinque milioni e mezzo. Stando ai numerosi sondaggi pubblicati, gli ebrei americani tendono a votare democratico. Il Jewish Electorate Institute, prevedeva che Biden avrebbe ottenuto il sessantasette percento del voto ebraico.
L’Associated Press’s VoteCast ha confermato che il sessantanove percento degli ebrei ha espresso la propria preferenza per il duo Biden-Harris. L’elettorato ebraico è storicamente orientato a sinistra, ma questa fedeltà ai democratici sembra impedirgli di cogliere la pericolosa deriva assunta del Partito Democratico.
In America, l’atteggiamento dei progressisti verso Israele e le comunità ebraiche è in linea con quello delle sinistre europee: un’ostilità ideologica radicata. Le nuove eroine del Partito Democratico, le congresswoman Alexandria Ocasio Cortez e Ilhan Omar, entrambe rielette, sono favorevoli al boicottaggio d’Israele e hanno posizioni antisioniste. Addirittura, la Omar sostiene il Council on American Islamic Relations, affiliato all’organizzazione dei Fratelli Musulmani e legato ad Hamas, il gruppo terroristico che domina la Striscia di Gaza.
La vicepresidente scelta da Biden, il senatore Kamala Harris, si è schierata con la Omar contro gli ebrei americani che chiedevano al Partito Democratico di censurare la deputata musulmana dopo un suo ennesimo sbotto antisemita. La Omar scrisse in un tweet che i legislatori americani difendono Israele perché motivati dal denaro.
La Harris, inoltre, ha un forte legame con il National Iranian American Council (NIAC), ovvero la lobby del regime di Teheran negli Stati Uniti. I documenti di finanziamento della campagna di Biden mostrano che il NIAC è uno dei suoi donatori più generosi. Senza pudore, gli iraniani hanno espresso ufficialmente il loro sostegno a Joe Biden. Fatto che non sorprende, visto che sia il vice di Obama che Kamala Harris hanno sostenuto con entusiasmo l’accordo sul nucleare iraniano. Con tutta probabilità torneranno a tendere la mano agli ayatollah. Senza dimenticare, che Biden ha alle spalle una notevole serie di dichiarazioni pro-Iran e anti-israeliane.
Al contrario, il presidente Trump ha sostenuto senza riserve lo Stato Ebraico, con decisioni che hanno scompaginato lo stallo mediorientale. Eppure, nonostante le forti posizioni filoisraeliane dei repubblicani, gli ebrei americani hanno rimarcato la loro adesione al Partito Democratico. In tanti hanno notato la virata antisionista dei democratici, ma hanno ritenuto che Trump, nonostante l’amicizia per Israele, fosse comunque un fascista e un potenziale autocrate. La martellante propaganda che dipingeva il tycoon come un antisemita e un razzista, non ha convinto gli ebrei progressisti della sincerità del loro presidente.
C’è, però, una domanda più radicale che bisogna porsi: alla sinistra ebraica importa qualcosa di Israele? È probabile che molti non si sentano ebrei o che non diano troppo peso alla loro identità ancestrale, dunque non sentano alcuna affinità con le sorti della Casa nazionale del popolo Ebraico. Pertanto, non è nemmeno troppo curioso che gli ebrei americani temano gli sparuti gruppi di suprematisti bianchi – che Trump ha sempre condannato – ma non abbiano paura di un movimento palesemente antisemita e anti-israeliano come Black Lives Matter.
Mentre Trump firmava l’Ordine Esecutivo che estende la protezione dei diritti civili del Titolo VI agli studenti ebrei nei campus universitari, che devono affrontare numerosi attacchi antisemiti da parte di suprematisti neri e membri di Antifa, l’internazionale di estrema sinistra, Joe Biden negava che Antifa fosse un’organizzazione violenta.
Gli ebrei americani manifestano una preoccupante tendenza a votare nell’interesse di tutti e non nel loro. Danno priorità alle questioni concernenti i diritti civili, come aborto libero e controllo delle armi, ma non sono preoccupati del crescente antisemitismo e dalla minaccia nucleare iraniana. La maggioranza degli ebrei americani sarà soddisfatta dell’elezione di Biden, i loro correligionari che vivono all’ombra delle testate atomiche benedette dal Mahdi e dei missili di Hamas, lo sarà molto meno.
Grazie Mr. Trump, ma molto rimane purtroppo incompiuto
Franco Londei·
Novembre 16, 2020·
https://www.rightsreporter.org/grazie-m ... ncompiuto/Come non ringraziare l’ex Presidente americano, Donald Trump, per aver spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme, non fosse altro che per il palese riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato Ebraico.
Come non ringraziarlo per essere uscito da quel disastro che era l’accordo sul nucleare iraniano negoziato da Barak Obama e da Federica Mogherini?
E dell’uccisione del Generale Qassem Soleimani, capo della fantomatica Forza Quds, reparto d’elite del Corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniana, ne vogliamo parlare?
E come faremmo a non ringraziarlo per il taglio dei fondi alla UNRWA, una agenzia ONU dedicata unicamente ai palestinesi che più di una volta ha fomentato odio anti-ebraico e addirittura usato le loro strutture come magazzini per le armi di Hamas.
E come potremmo dimenticare tutto quello che ha fatto per avvicinare Israele ai paesi arabi contribuendo a isolare l’Iran e gli stessi palestinesi? Mai un Presidente americano aveva fatto tanto in tal senso. Lo dico davvero con estrema sincerità.
Tuttavia… beh, tuttavia si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una grande incompiuta.
Non lo dico perché a me Trump non è mai piaciuto, credo di avergli riconosciuto sempre quello che di positivo ha fatto, lo dico perché è la sensazione che mi ha lasciato la fine dell’Amministrazione Trump.
Per esempio, l’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano avrebbe avuto un senso se alle sanzioni si fosse affiancata una seria minaccia militare non appena l’Iran – come è poi avvenuto – avesse ripreso l’arricchimento dell’uranio oltre i limiti consentiti o comunque avesse in qualche modo ripreso il programma nucleare.
Invece non solo questa minaccia non c’è mai stata, ma alla durissima reazione iraniana seguita all’uccisione di Soleimani, il Presidente Trump non ha fatto semplicemente nulla, come se avesse paura dell’Iran o, peggio, come se la reazione iraniana fosse stata “telefonata”.
Il risultato di tutto questo è che oggi ci ritroviamo gli iraniani che hanno ripreso allegramente il loro programma nucleare (nonostante sanzioni e pandemia) e che Trump ha dato la nettissima impressione che sul nucleare iraniano non avesse alcuna strategia, che insomma navigasse a vista.
In Medio Oriente, almeno per quanto mi riguarda, non gli perdonerò mai di aver venduto ai turchi gli eroici combattenti curdo-siriani, di aver detto ad Erdogan “prego si accomodi”. Certo, poi un passetto indietro lo ha fatto, più perché pressato dall’indignazione mondiale che per altro, ma davvero poca cosa.
Ecco, con Erdogan non ho mai capito cosa volesse fare. Ha taciuto praticamente su tutto, su tutte le malefatte del capo della Fratellanza Musulmana. In tutto ha bloccato temporaneamente la consegna dei caccia F-35 alla Turchia dopo che il successore di Abu Bakr al-Baghdadi aveva comprato dalla Russia il sistema missilistico S-400. E sono quasi sicuro che non sia stata una sua decisione.
In Medio Oriente ha polarizzato il suo sostegno su Israele e Paesi Arabi del Golfo, cosa buona e giusta se questa mossa non avesse finito per creare un nuovo pericolosissimo mostro, quello turco-iraniano che tanti problemi darà (e non solo in Medio Oriente).
Magari le sue intenzioni erano di sistemare le cose nel secondo mandato, senza l’assillo della rielezione. Non lo sapremo mai. Per ora non possiamo fare altro che sperare che la nuova Amministrazione prosegua sulla strada tracciata da Trump e che magari, per esempio con la Turchia, sia decisamente più dura. Ormai l’Iran l’abbiamo perso e non rimane che la soluzione più dura. Speriamo che Joe Biden lo capisca.
Gino Quarelo
Con tutti i fronti aperti sia all'interno degli USA:
che all'esterno: Russia, Cina, Corea, Iran, Afganistan, Turchia, Venezuela, Europa, ...
+ il covid e le elezioni con i media contro e i brogli del voto postale,
Trump è stato fin troppo bravo, certo se avesse l'opportunità di un secondo mandato potrebbe portare a termine molte riforme interne e iniziative esterne, ... ma parrebbe che questa opportunità gli sia negata.
La sinistra riparta da Biden-Starmer: un "nuovo inizio", ma con pochi eletti e tanta confusa nostalgia
Atlantico Quotidiano
Franco Carinci
25 novembre 2020
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... nostalgia/ Più che una riedizione della terza via di Tony Blair, che parlava da premier, una qual sorta di riproposizione di una edulcorata internazionale socialista o socialdemocratica, una union sacrée dei partiti della sinistra, in larga crisi, ma tale da poter dare al Pd una sorta di rilevanza mondiale… Ma Biden dialogherà coi Paesi e non con i partiti, quindi sarà Johnson e non Starmer a far da interlocutore, restando il Regno Unito il Paese europeo più congegnale per lingua, storia e fiducia. La Ue sarà considerata, ma con due grossi handicap… Il gioco cambierà, ma meno di quanto si attenda la deperita sinistra europea e la arroccata sinistra italiana, che per l’intanto è costretta a contare più su Berlusconi che su Biden
Auto-condannatomi ad un lockdown assai severo, essendo nel mio ottantaduesimo anno, un target altamente privilegiato dal Covid-19, ho rivisto alla televisione molti vecchi film, tanto da poter recuperare scene capaci di rendere perfettamente situazioni attuali. È andata così anche con la discussione aperta da Maurizio Molinari su La Repubblica di domenica 22 novembre, con un titolo che ben ne evidenziava il contenuto, che mi ha richiamato il finale di Apocalypto, che vede sfumare l’obiettivo dal mare, con le caravelle spagnole alla fonda, alla foresta sovrastante la costa, con il protagonista, la sua donna e due figli, alla ricerca di “un nuovo inizio”. Cosa dice il titolo, “Biden-Starmer la nuova via progressista”? Non Biden e Johnson, cioè il neopresidente degli Stati Uniti e l’attuale premier inglese, eletto a furor di popolo, ma Biden e Starmer, il leader laburista, succeduto a Corbyn dopo il clamoroso insuccesso elettorale. Il che suona più che una riedizione della terza via di Tony Blair, che parlava da premier, una qual sorta di riproposizione di una edulcorata internazionale socialista o socialdemocratica, una union sacrée dei partiti della sinistra, in larga crisi, ma tale da poter dare al Pd una sorta di rilevanza mondiale in un nuovo rilancio delle democrazie progressiste. A conferma viene richiamata una iniziativa di Biden, apparentemente in itinere, di “un summit fra le democrazie”, che dovrebbe restituire all’America il ruolo di partnership globale, come se le democrazie coincidessero con quelle progressiste, cioè governate da forze tali solo per essere di sinistra; e come se la tanto mitizzata Ue dovesse essere condannata a svolgere solo una parte ancillare.
C’è tanta confusa nostalgia, implicita, dell’America di Truman, protettrice del mondo libero, delegata a farsi carico di tutte le crisi regionali dove l’unica mediazione esperibile è esercitabile da chi ha una risorsa militare non solo tecnicamente efficace ma anche politicamente spendibile; ed esplicita, della America di Delano Roosevelt, prima a sperimentare la lezione keynesiana, destinata a divenire la dottrina economica portante della democrazia postbellica, caratterizzata da una larga apertura sociale.
La palla alzata da Molinari, viene rilanciata da Repubblica di lunedì 23 novembre, con due interventi, il primo consistente in una intervista a Lion Barber, ex direttore del Financial Times, con un titolo anche questo di per sé espressivo “Intesa con Starmer per una alleanza che salvi la democrazia dal populismo”. Siamo sempre con l’occhio piazzato sul Labor Party, cui verrebbe assegnato il compito salvifico di una intesa antipopulista, tanto da far sospettare quel che nell’ambiente di sinistra nostrano si teorizza apertamente, che, cioè, lo stesso Johnson sia un populista. Ecco allora la versione tutta europea della vicenda americana: Trump era il leader indiscusso del populismo, tanto è che ha appoggiato la Brexit, confermando il sospetto che l’attuale premier britannico fosse un suo adepto, il populismo è il peggior nemico della democrazia, Biden ha vinto, tagliando la testa anche del populismo europeo, quindi Biden è destinato naturalmente a guidare la grande alleanza, di cui, peraltro lo stesso Starmer apparirebbe fino ad ora l’unico protagonista.
No, perché contestualmente, sullo stesso numero di Repubblica appare una lettera di Zingaretti, che fin dal titolo candida il Pd a co-protagonista, “Verde e sfide sociali, l’Europa aspetta Biden sulla nuova via progressista”. Qui c’è quella continua attesa messianica che ha sempre caratterizzato la nostra sinistra, da “Adda venì Baffone”, modo affettuoso di indicare il paterno compagno Stalin, purtroppo sempre smentita, ma ripetuta qui a modo di gioioso Salmo biblico: “A questa Europa in divenire mancava un credibile interlocutore nel mondo. Biden riapre la stagione del multilateralismo, della scelta verde, del lavoro dell’inclusione come opzione strategica per rafforzare le democrazie in occidente”. Alleluia, molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti, tant’è che un tale messaggio è stato percepito solo dalle forze democratiche progressiste e socialiste, da cui si deve dedurre una differenza fra forze progressiste e socialiste, ma tant’è, melius abundare quam deficere. Il fatto, è, però, che a guardarsi intorno gli eletti sono veramente pochi: escluso Johnson a favore di Starmer, il partito socialista è sparito in Francia, dove Macron non può essere conteggiato fra le forze progressiste e tantomeno socialiste, è ridimensionato in Germania a favore dei Verdi, invece dichiarati abili e arruolati di diritto nell’alleanza, governa in Spagna con un voto di maggioranza, così pure in Italia in un embrassons nous con un movimento populista ante litteram.
Naturalmente non poteva mancare una intervista ad Antony Giddens, il maggior teorico della terza via, che avrebbe influenzato la politica italiana, con la nascita dell’Ulivo, una coalizione fra ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, che per il suo fondatore, Romano Prodi, avrebbe dovuto costituire una specie di modello mondiale. In questa intervista apparsa su Repubblica del 24 novembre non c’è una riproposizione della terza via, che dopo la gestione rivoluzionaria della Thatcher all’insegna del “meno Stato e più mercato” non poteva certo puntare a un nuovo interventismo, sì da valorizzare una sorta di autoorganizzazione e responsabilizzazione della società. C’è tutt’al contrario un placet per un programma di enormi investimenti pubblici, con un richiamo a Keynes, dato che la medicina usata per la grande depressione può ben tornare utile nella crisi economica e sociale prodotta dalla pandemia.
C’è una chiara continuità di analisi, peraltro condotta su una scena di fondo intrinseca alla sinistra, quale costituita da una visione manichea, con una contrapposizione netta di bene e male, una volta individuato il male, il bene consiste nell’opposto, entrambi debitamente individualizzati con personaggi attuali. Trump è il male, come tale non può produrre alcun bene, tanto che non vale neanche la pena di soffermarsi a considerare bagatelle come il boom del Pil e del tasso occupazionale, prima del Covid-19, il pressing esercitato per il vaccino, col risultato positivo reso ufficiale solo a pochi giorni dopo le elezioni, il contenimento della Cina, lo sblocco dello stallo mediorientale … Solo che tutto questo si porta dietro un interrogativo cui la stessa sinistra non è in grado di rispondere: perché è stato votato da quasi metà degli elettori, con un guadagno di sette milioni di voti, confermando l’impressione valida anche per il Pd, che siano le grandi periferie delle città e le disseminate campagne a gonfiare il voto populista, cioè che sia la gente marginalizzata a votarlo… La risposta più semplice, a misura dell’élites intellettuali e sociali, che a far propria una battuta confezionata per i radicali francesi hanno il cuore a sinistra e il portafoglio a destra, è data dall’ignoranza del popolo, in senso dispregiativo del popolino, facile ad essere affascinato dalla retorica tambureggiante di un abile demagogo. Il però non permette loro di individuare quale sia questo popolo da strappare dalle grinfie del demagogo: secondo l’interpretazione che di Starmer offre Molinari, il recupero dovrebbe riguardare il ceto medio operaio del Midlands e Nord dell’Inghilterra, così come fatto da Biden con il Mid-west, all’insegna di “famiglia, comunità, sicurezza”, con una bella tinta di patriottismo; secondo la lettura di Giddens, tale recupero non può avvenire nei confronti della “classe lavoratrice”, di quella manifatturiera ridotta ad una esigua minoranza. E neppure dei left-behind, quelli lasciati indietro dalla globalizzazione, ma solo per via di un ritorno a un “più stato meno mercato”, con un gigantesco intervento pubblico.
Se Trump è il male assoluto, Biden per contrasto è il bene assoluto, a prescindere da suo curriculum di onesto dirigente democratico, abbonato alle primarie presidenziali del suo partito, fino ad arrivare a vincerle proprio perché leggibile come un moderato, come tale messo in risalto dall’esaltato protagonismo di Trump. Sia chiaro non è Biden che ha vinto, ma è Trump che ha perso, trovandosi contro due avversari imprevisti, il Covid-19 e il Black Lives Matter: gli è stata imputata una mortalità da pandemia proporzionalmente inferiore alla nostra, guai se qui si addebitasse a Conte i 50 mila decessi; gli è stata contestata la violenza della polizia locale, a cominciare dalla uccisione di George Lloyd, ma tale polizia dipende dall’amministrazione cittadina, città, Minneapolis, ad amministrazione democratica.
Solo che la partita non è ancora chiusa, certo non per l’elezione di Biden, di cui fra non molto Trump dovrà prendere atto, ma per una importantissima appendice, la votazione il 5 gennaio 2021, per l’attribuzione dei due senatori della Georgia. Ora il conto al Senato è di 50 componenti Repubblicani e 48 Democratici, i Democratici per controllarlo hanno bisogno di conquistare entrambi i posti in lizza in Georgia, una volta 50 pari, conta il voto del presidente che è istituzionalmente il vicepresidente degli Usa, Kamala Harris. Se così non avverrà, Biden sarà quello che gli americani chiamano anatra zoppa, condannato a governare con un continuo compromesso coi Repubblicani, mentre, a prescindere da un eventuale impazzimento, Trump ne esce come il padrone assoluto del partito dell’elefante, il regista delle prossime elezioni di mid-term. Se si vuole si può mettere in conto la netta prevalenza di giudici di nomina repubblicana, che non significa affatto una qual sorta di fedeltà alla nomina, ma certo una posizione conservatrice rispetto alle riforme sociali e alle battaglie per i diritti civili.
Comunque, Biden dovrà tener conto dello slogan trumpiano dell’America First, Again, nel senso di una attenzione del tutto privilegiata alla politica interna, dove la sua affermazione per quanto scontata, di voler essere presidente di tutti gli americani, rivela la profonda preoccupazione per la radicalizzazione che spacca il Paese in due metà, l’una contro l’altra armata. Ci sarà da uscire dalla crisi economica e sociale provocata dalla pandemia, certo con la facilitazione dovuta alla prossima disponibilità di vaccini anti-Covid, ma, comunque, impegnativa, perché dovrà conciliare le varie anime del partito, con una complicata politica compromissoria, costretto a mediare prima cogli stessi Democratici e poi con i Repubblicani.
Non credo proprio che muterà in maniera sostanziale la sua politica estera, a parte la forma più educata, perché resterà prioritaria la sfida con la Cina, come l’unico avversario nella egemonia mondiale, che, come si dice da tempo, ha cambiato oceano, dall’Atlantico al Pacifico. Certo farà gesti significativi, rientrerà nell’Organizzazione mondiale della sanità, non senza chiedere conto della copertura offerta alla Cina all’inizio della pandemia, riconfermerà la sua adesione all’accordo di Parigi sul clima, senza penalizzare la attuale autosufficienza energetica statunitense; ma non credo farà grandi aperture all’Iran, quando proprio Trump è riuscito a isolarlo politicamente con gli Accordi di Abramo e, neppure, che farà marcia indietro nel ritiro delle truppe americane dall’Afganistan e dal Medio Oriente.
Quanto all’Europa, credo proprio che dialogherà coi Paesi e non con i partiti, sì che per l’Inghilterra sarà Johnson e non Starmer a far da interlocutore, restando la Gran Bretagna il Paese europeo più congegnale per lingua, storia e fiducia. La Ue sarà considerata, ma con due grossi handicap, la totale dipendenza dalla forza militare americana, che la priva di qualsiasi efficace deterrenza, sì da risultare del tutto impotente rispetto alle crisi maturate nel suo stesso cortile; la posizione di equilibrio instabile fra l’America e la Cina, fra legami atlantici e sbocchi commerciali.
Il gioco cambierà, ma meno di quanto si attenda la deperita sinistra europea e la arroccata sinistra italiana, che per l’intanto è costretta a contare più su Berlusconi che su Biden.
Il circo Biden
Lo staff della comunicazione di Biden alla Casa Bianca sarà composto di sole donne
La transizione dall'amministrazione Trump a quella di Joe Biden continua, così come le nomine del presidente eletto per il suo nuovo governo da sottoporre al Senato a gennaio: le ultime dimostrano passi avanti in tema di inclusione e diversità
30 novembre 2020
https://www.wired.it/attualita/politica ... efresh_ce= La transizione dal presidente uscente Donald Trump al president-elect Joe Biden nonostante tutto continua, e il team Biden che ha annunciato il suo primo briefing a tema intelligence per questo lunedì. Il presidente eletto ha inoltre reso pubbliche le nomine di uno staff per la comunicazione della Casa Bianca composto esclusivamente da donne: alla sua guida ci sarà Kate Bedingfield, la direttrice della comunicazione della campagna elettorale di Biden, mentre Jen Psaki, portavoce di lunga data del Partito democratico, sarà la sua addetta stampa.
L’ex paladina dei diritti degli immigrati per America’s Voice e direttrice della comunicazione per le coalizioni della campagna di Biden, Pili Tobar, servirà come vicedirettrice della comunicazione. Karine Jean Pierre, già a capo dello staff della vicepresidente eletta Kamala Harris ed ex responsabile degli affari pubblici per MoveOn.org, sarà invece la vicesegretaria stampa. Per quanto riguarda lo staff della comunicazione della vicepresidenza Harris, Symone Sanders, una consigliera senior di Biden per la campagna, ne diventerà senior advisor e portavoce in capo. Ashley Etienne, ex consigliera senior della presidente della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi, servirà come direttrice delle comunicazioni per Harris.
Molte di queste nomine, ancora da sottoporre all’approvazione del Senato il prossimo gennaio, sono veterane dell’ex amministrazione Obama. Bedingfield è stata direttrice della comunicazione per Biden mentre era vicepresidente; Psaki era direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca e una portavoce del Dipartimento di stato; e Tanden era consigliera senior dell’allora segretaria per i Servizi sanitari e umani Kathleen Sebelius. Anche Pierre ha servito come direttrice politico-regionale per l’ufficio degli Affari Politici della Casa Bianca.
“Comunicare direttamente e in modo veritiero con il popolo americano è uno dei doveri più importanti di un presidente, e a questa squadra sarà affidata l’enorme responsabilità di collegare il popolo alla Casa Bianca”, ha detto Biden in una nota. “Queste comunicatrici qualificate ed esperte apportano diverse prospettive al loro lavoro e un impegno condiviso per ricostruire al meglio questo paese”.
Secondo il New York Times, infatti, queste nomine dimostrano l’intenzione del presidente eletto di includere la diversità razziale, di genere e ideologica nei ruoli principali della sua amministrazione, adempiendo all’impegno assunto durante la campagna di garantire che un’ampia fetta della società statunitense sia rappresentata nelle decisioni politiche.
L’ufficio di Biden ha annunciato che prevede di nominare anche il suo team economico questa settimana, seguendo lo stesso principio di inclusione. Neera Tanden, presidente e amministratrice delegata del think thank liberale Center for American Progress, sarebbe la prescelta direttrice dell’Ufficio di gestione e bilancio (la prima nativa americana in questa posizione) che avrà il compito di supervisionare l’attuazione delle politiche di Biden, secondo quanto riferito ai quotidiani da una fonte che ha familiarità con il processo di transizione.
Cecilia Rouse, un’economista del lavoro di Princeton, potrebbe essere messa alla direzione del Council of Economic Advisers (diventando la prima donna afroamericana a ricoprire questo ruolo), e Janet Yellen, l’ex presidente della Federal Reserve, diventerebbe segretaria al Tesoro.
Demenziali sinistri malevoli e calunniatori antritrumpiani
Le polpette avvelenate di Trump per un'America più green
https://valori.it/polpette-avvelenate-trump-ambiente/Joe Biden ha vinto le elezioni presidenziali americane 2020, al netto dei tweet e dei ricorsi del presidente uscente Donald Trump. E al “presidente eletto”, in attesa del passaggio di consegne ufficiale alla Casa bianca, previsto per il prossimo 20 gennaio, già cominciano ad arrivare i messaggi di richiesta da tutto il mondo per un cambio radicale di rotta su diversi capitoli importanti. A cominciare dall’ambiente. Dopo quattro anni di presidenza Trump, in totale discontinuità con la linea del predecessore Obama e in aperto scontro con l’indirizzo green assunto dall’Europa e da buona parte della comunità internazionale.
GRAFICO emanazione dei 'regolamenti di mezzanotte' nella politica USA, 1996-2019 - fonte Columbian College of Arts & Sciences
Trappole e leggi dell’ultimo minuto
Per Biden, tuttavia, e per il suo inviato sul clima John Kerry, non sarà un percorso semplice. Anche perché The Donald ha disseminato di polpette avvelenate il tracciato verso un’America più amica del clima. Lo ha fatto, innanzitutto, con strategie di medio-lungo periodo. Ma di certo non mancherà di adottare i cosiddetti “regolamenti di mezzanotte” (midnight regulations), cioè dell’ultimo minuto, che potranno frenare il cambio di linea già annunciato da Biden. Provvedimenti che la tradizione politica americana ben conosce e monitora, tanto da renderne più agevole l’annullamento tramite una legge apposita, il Congressional Review Act. L’efficacia di questa misura dipende però dai rapporti di forza stabiliti nel Congresso, nel quale il neopresidente potrebbe non avere a favore la maggioranza in Senato.
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Il piano di Trump: stop alle leggi di Obama e pochi controlli
A proposito di ambiente e clima, d’altra parte, Donald Trump non ha mai nascosto da che parte stesse. Il suo biglietto da visita, nel 2016, fu la scelta di un mix di nomi pescati tra negazionisti dei cambiamenti climatici e aperti sostenitori delle fonti fossili messi a capo delle agenzie governative chiave. A cominciare dal contestatissimo Scott Pruitt, piazzato alla guida dell’EPA (Environmental protection agency, cioè l’Agenzia per la protezione dell’ambiente). Al di là dei nomi, cambiati spesso, l’amministrazione Trump ha consolidato nel tempo alcune strategie di depotenziamento e arretramento. Nel mirino, singole norme e istituzioni.
Oltre al clamoroso abbandono dell’Accordo sul clima di Parigi, più sotto traccia gli Usa, nei quattro anni passati, hanno infatti ridotto il numero degli ispettori in forze a tutte le agenzie, incluse quelle di tutela ambientale. E hanno temporaneamente congelato normative non ancora in vigore o ritardato le date entro cui le aziende – quelle inquinatrici, ad esempio – avrebbero dovuto conformarsi alle norme già in corso. Infine hanno operato in maniera sistematica a colpi di revoche di provvedimenti già emanati, perlopiù dalla presidenza Obama.
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Sul cambiamento climatico il mondo è diviso: Trump abbandona il gruppo e ispira il Brasile. Cina ed Europa provano a collaborare. Ma non è facile
Stando a un reportage di «The Washington Post», l’amministrazione Trump avrebbe così “indebolito o cancellato più di 125 regole e politiche volte a proteggere l’aria, l’acqua e la terra della nazione”. In particolare ciò sarebbe avvenuto annullando policies su inquinamento atmosferico e gas serra, perforazione del sottosuolo ed estrazione, sulla fauna selvatica, su grandi progetti come gasdotti e autostrade, sull’inquinamento dell’acqua e la sicurezza chimica, sulla trasparenza del governo. Decine di azioni, sempre contestate, ma non sempre sventate dagli avvocati dei gruppi ambientalisti.
Pesticida contestato: c’è il via libera a fine mandato
Una moltitudine di azioni e procedimenti burocratici e legali, che però avranno un effetto concreto sulla vita di persone e territori. Come per esempio la decisione intrapresa dall’EPA sul Dicamba. Si tratta di un erbicida alla base di diversi prodotti in commercio per l’agricoltura, oggetto di cause legali dovute ad un utilizzo potenzialmente impreciso a causa della sua estrema volatilità.
MAPPA numero di casi di danni alle coltivazioni di soia connessi all’erbicida dicamba – fonte studio Università del Missouri, 2017
Fatto sta che l’EPA, a ottobre 2020, cioè a pochi giorni dal voto per le presidenziali, e nonostante una recente sentenza di condanna da 265 milioni di dollari a carico del fitofarmaco, autorizzava l’impiego del pesticida (considerato da molti l’erede del glifosato) per altri 5 anni. Una decisione contraria alla messa al bando decretata solo pochi mesi prima da una Corte d’appello, e di cui senz’altro Bayer, Syngenta, Basf, Monsanto ringrazieranno l’ex presidente. Anche perché l’amministrazione Trump si è distinta per una vicenda simile anche riguardo un altro fitofarmaco, il cloripirifos, contestato ma autorizzato sia negli USA che in Europa.
Metano e acqua inquinata: mano libera alle imprese
Ma non è tutto. Perché ci sono ben altri bocconi avvelenati che il futuro presidente Usa dovrà digerire. Ad esempio quello cucinato dal Bureau of Land Management – BLM (una agenzia del Dipartimento degli Interni degli Stati Uniti, che si occupa della gestione di terreni pubblici), quando ha affermato che molte imprese del settore Oil & Gas non erano tenute a rispettare i limiti di emissioni di metano stabiliti sotto Obama. Decisione dichiarata illegittima dalla Corte distrettuale nel distretto settentrionale della California, ma che ha avviato una disputa legale condotta dallo stesso BLM fino a una sentenza del tribunale del Wyoming e alla successiva certificazione dell’EPA. Risultato: la regola di Obama è stata abrogata e alle compagnie petrolifere e del gas è stato consentito di rilasciare metano, in gran parte senza limiti.
INFOGRAFICA il risparmio dalla chiusura delle centrali a carbone – fonte rapporto Carbon Tracker 2018
Allo stesso modo i proprietari delle centrali elettriche a carbone avranno apprezzato il lavoro dei burocrati fedeli alla Casa bianca, che hanno evitato loro di dover adottare tecnologie adeguate a rimuovere i metalli pesanti dalle loro acque reflue. Un obbligo inizialmente previsto a partire dal 2018 e da finalizzare entro il 2023, finché l’EPA di Trump non ha spostato questi termini. La scadenza finale per adeguarsi è così passata al 2025, esentando al contempo dozzine di impianti, col pretesto che saranno ritirati da qui al 2028. Ed ecco sfornati altri otto anni di libertà di inquinamento.
Trivelle in aree protette e concessioni difficili da cancellare
Ma i regali ai gruppi di potere che hanno sostenuto la presidenza Trump, e che potrebbero frenare Biden, non finiscono qui. A partire dal tentativo in extremis di confermare i limiti di ozono e particolato nell’aria fino al 2025, che gli ambientalisti vorrebbero inasprire, per passare a dossier ben più pericolosi e vincolanti. Ad esempio quello della vendita di concessioni di perforazione per esplorazioni e sfruttamento di risorse nel sottosuolo dell’Arctic National Wildlife Refuge, in Alaska. Un’area incontaminata – finora – che offre l’habitat a orsi polari, grizzly, caribù e una quantità sterminata di uccelli migratori e salmoni.
TABELLA impatti ambientali dell’attività estrattiva nell’Arctic Nastional Wildlife Refuge – fonte studio BLM, settembre 2019
Un’operazione industriale mirata a individuare possibili riserve di petrolio che, secondo lo studio di impatto ambientale del BLM, avrebbe un impatto climatico importante. Nei 70 anni previsti dalle concessioni di sfruttamento si genererebbero più di 26 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra per la produzione di petrolio e gas nella pianura costiera. Senza contare le emissioni a valle provocate dalla combustione dei 10 miliardi di barili di petrolio e gas estratti, stando alle stime delle riserve. Ciò si tradurrebbe in altri 4,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente rilasciata, ovvero circa due terzi delle emissioni annuali degli Usa nel 2017.
L’amministrazione Trump vorrebbe vendere i diritti di perforazione prima del 20 gennaio, mentre Biden si è impegnato ad impedire l’operazione.
La buona notizia, per ora, è che diversi grandi gruppi bancari (JPMorgan Chase, Morgan Stanley, Citigroup e Goldman Sachs) non intendono finanziare il progetto. I rischi reputazionali sarebbero eccessivi anche per loro.
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Elezioni Usa, Trump: "Biden non può essere presidente"
03/12/2020
https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/ ... Yj7XI.html "Joe Biden non può essere presidente se noi abbiamo ragione sui brogli. Parliamo di centinaia di migliaia di voti parliamo di numeri che nessuno ha mai visto prima. Abbiamo le prove, è tutto chiaro". Donald Trump carica a testa bassa. Il presidente, "nel discorso più importante mai fatto", in 45 minuti abbondanti ribadisce le accuse: "Le elezioni sono state un disastro, una truffa, una frode colossale", dice Trump nel discorso pubblicato integralmente sulla propria pagina Facebook.
"Questo potrebbe essere il più importante discorso che io abbia mai fatto. Voglio fornire un aggiornamento sui nostri sforzi per portare alla luce gli enormi brogli e le irregolarità che si sono verificate durante le elezioni del 3 novembre, che hanno avuto in modo ridicolo una durata interminabile. Una volta si diceva 'election day', ora abbiamo giorni, settimane e mesi di elezioni. Molte cose negative sono accadute durante questo surreale periodo, specialmente nel caso in cui non si deve fornire nessuna prova per accedere al nostro più grande privilegio, il diritto di voto", dice Trump.
"Come presidente, non ho dovere più grande rispetto a quello di difendere le leggi e la Costituzione degli Stati Uniti. Ecco perché sono determinato a difendere il nostro sistema elettorale, finito sotto attacco. Mesi prima delle elezioni presidenziali ci è stato detto che non avremmo dovuto dichiarare una vittoria in modo prematuro. Ci è stato più volte detto che sarebbero serviti settimane e mesi per determinare il vincitore, per contare i voti espressi per posta e per verificare i risultati. Al mio avversario è stato detto di tenersi alla larga dalle elezioni, di non fare campagna, 'non ci servi, siamo a posto, queste elezioni sono sistemate'. Si stavano comportando come se sapessero già come sarebbero andate le cose. Difenderemo la correttezza del voto", aggiunge.
Quindi, il presidente esibisce grafici e dati che dovrebbero dimostrare anomalie nello sviluppo del voto. Nel mirino, soprattutto il voto per posta: "Confronteremo le firme sulle buste con le firme in passate elezioni. E vedremo che migliaia di persone hanno firmato queste schede in maniera illegale", dice. "E' una frode che tutto il mondo sta guardando, nessuno ora è più felice della Cina. Molte persone hanno ricevuto 2, 3, 4 schede. Persone morte sono state coinvolte nel processo, alcune decedute da 25 anni. Una catastrofe totale, lo dimostreremo, speriamo nei tribunali. In particolare, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. E, col massimo rispetto, speriamo che" i giudici "facciano ciò che è giusto per gli Stati Uniti. Il nostro paese non può convivere con una simile elezione. Non mi importa se perde le elezioni, ma voglio un voto corretto. Non voglio che questo venga sottratto al popolo americano. Ecco perché lottiamo: abbiamo già le prove, è tutto chiaro. Sono pronto ad accettare ogni risultati di un'elezione regolare, spero lo sia anche Joe Biden".
Fine dei giochi: l’Iran marcia veloce verso l’atomica. Cosa farà Biden?
Franco Londei
5 dicembre 2020
https://www.francolondei.it/fine-dei-gi ... ara-biden/ Un rapporto confidenziale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) riguardante i programmi nel brevissimo periodo dell’Iran in merito al nucleare che arriva in mano alla Reuters, non solo scatena la stizzita reazione iraniana e della Russia ma denuncia con chiarezza che ormai gli Ayatollah puntano dritti all’atomica.
Nel rapporto si legge che l’Iran prevede di installare altre tre cascate, o cluster, di centrifughe IR-2m avanzate nell’impianto sotterraneo di Natanz.
È l’uscita definitiva dell’Iran dal JCPOA il quale autorizza l’uso delle sole IR-1di prima generazione mentre vieta tassativamente la costruzione di linee di arricchimento con le IR-2.
Non solo, è la prova provata che Teheran punta decisamente all’atomica senza quasi più nemmeno farne mistero mettendo in linea centrifughe in grado di arricchire l’uranio molto più velocemente di qualsiasi altra centrifuga.
La palla a Biden
Ora la palla passa decisamente nelle mani del Presidente eletto Joe Biden il quale aveva fatto sapere di voler riaprire i contatti con l’Iran dopo che l’Amministrazione Trump aveva lavorato (e sta ancora lavorando) per isolare l’Iran.
Come già detto in altra occasione, Biden non avrebbe potuto riattivare il JCPOA nemmeno se avesse voluto, ma questo nuovo atteggiamento iraniano taglia fuori anche qualsiasi altro tipo di trattativa o dialogo.
Forse (quasi certamente) il capo del programma nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh, è stato ucciso proprio per questo, per togliere a Biden qualsiasi possibilità di riallacciare rapporti con Teheran.
Il nodo di Natanz
C’è un’altra cosa che emerge con chiarezza e cioè che l’Iran sta concentrando molto del suo programma nella centrale atomica di Natanz, costruita per resistere agli attacchi aerei.
Ora, se sono vere le voci che vogliono l’arrivo delle bombe anti-bunker in Israele, è molto probabile che lo Stato Ebraico si muova piuttosto velocemente sul versante di un attacco diretto.
C’è il problema del trasporto delle bombe perché Israele non dispone di aerei in grado di portare ordigni così pesanti, ma potrebbe essere tutto risolto da un “prestito” americano.
Una azione del genere dovrebbe però avvenire con il consenso di Biden ma prima del suo insediamento in modo che non gli si possa dare alcuna responsabilità e che si possa virtualmente tenere aperte le porte dei colloqui con l’Iran così come vuole la sinistra Dem.
Sarà disposto Biden ad autorizzare una azione diretta israeliana contro l’Iran prima ancora del suo insediamento?
Politicamente non schierato. Voto chi mi convince di più e questo mi permette di essere critico con chiunque senza alcun condizionamento ideologico. Sionista, amo Israele almeno quanto amo l'Italia
Alberto Pento
Non è ancora detto che sarà Biden il prossimo Presidente.